* * *
Si attaccò al telefono con la furia di un
demone imbufalito. Chiamò Palermo, la redazione del Corriere. Sì, voleva
Roberto Caballero.
-
Robe’ lascia stare i convenevoli … vieni subito qui a
Racalmuto … sì a Bovo, in casa di Aurelio La Matina … buon’anima…. Ti passo uno
scoop che ti farà rimbalzare nelle prime pagine di tutta la carta stampata ed
in quella imminchionita dei mezzi-busti televisivi … Sì, si tratta dell’omicidio
dell’ispettore bankitalia La Matina Calello … notizie in esclusiva ..
svelate da Meluccio Cavalieri di
Giorgenti … l’ineguagliabile scrittore dei gialli … straingurgitati dagli imbecilli del
momento … e sono la quasi totalità della
razza italica … sì specie se dipinta di azzurro … Si sta mandando all’ergastolo
un innocente e Meluccio Cavalieri non vuole … posso consentirmi il divieto
della giustizia cieca … ingiustissima? … Sì. sono incazzato, incazzato
nero … vieni e ne parliamo.
Roberto Caballero,
giornalista cinquantenne, racalmutese, ancora alla cronaca regionale, si era
attirata la simpatia di Cavalieri senza merito alcuno, per un empito umano
dell’affermato scrittore, segno di una pietas
che non sai mai perché finisce per far capolino nei cuori più induriti .. e
quello di Meluccio era molto arido … non duro ma impermeabile ... o così pensava lui..
Giunse a notte
fonda, strombazzando, come a svegliarlo. “Sono sveglio … sta’ calmo che
arrivo”. In vestaglia aprì il portoncino metallico, accese la luce esterna.
Roberto si precipitò dentro, sciatto come sempre, barba lunga jeans vecchi e
malandati, niente concessione all’andazzo di portare falsi jeans
provocatoriamente laceri: quelli di Roberto erano semplicemente indecenti. Apparteneva ad una cospicua famiglia
racalmutese, notai sin dal Settecento, quando erano piombati predoni e saccenti
da chissà dove; Aurelio, ricercatore imbattibile della locale microstoria,
diceva da Assoro. Al Circolo Unione si spettegolava che i Caballero stessero
sempre sopra uno scalino … qualche volta
scendevano, quando avevano bisogno … diventavano umili, sussiegosi, supplici …
poi finito lo stato di necessità, eccoli subito salire su due scalini, più in
alto, più ingrati, altezzosi in odiosa supponenza. Roberto, però si distingueva
… intelligentissimo, stravagante, caustico di parola e di penna, aveva preso
dalla mamma, non racalmutese, finissima donna che suo padre aveva fatto morire
di crepacuore e di stenti, intento a ficcarsi nei talami altrui. Pare che vi
riuscisse. La Sicilia cambiava: essere cornuti cominciava a divenire un fregio
nobiliare, come i nobili di un tempo, solo che ora anche la plebe si
nobilitava.
Ebbe tempo di
mirare lo spettacolo del cielo stellato, Meluccio Cavalieri. Gli sovvenne una
pagine di Aurelio, letta nell’attesa di Roberto. Non gli era sembrata
spregevole, la memoria ora agghindava ancor di più il pezzo letterario.
Risorgeva l’antica Grecia. Anche a Racalmuto, anche a Bovo. «….. Pindaro esaltava, a pagamento,
Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e
tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime
corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori
greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: “certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/
né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/
flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini” eran poi versi da avvincere anche l'animo
del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li
recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. »
“Bisognava tornare all’antica Grecia, alle mirabili origini di una
Sicilia colta e libera, della Sicania civilissima e soave, stellare, senza
diritto romano, senza terrori cristiani, senza cupi preti, senza Bossi, senza
Berlusconi, senza magistrati stranieri, senza capitani in giallo venuti da
Arcore …”
-
Ma che cazzo sussurri? ghignò Roberto.
-
Va ‘ffa ‘nculo. Ti do un caffè di quelli fatti da me,
ricetta di Gennarino … così mi stai sveglio.
Sorbitosi il caffè, Roberto andò a stravaccarsi sul rustico divano color
senape. Si concesse una sigaretta, infastidendo Meluccio che da accanito
fumatore pentito inforcava ora le cuspidi di tutte le campagne contro il fumo,
anche se passivo, e si offrì in olocausto ai furenti sfoghi del suo amico
scrittore.
-
Dunque, che è successo?
-
Hanno arrestato Vitacchia.
-
Tutto qua?
-
… è innocente ..
-
non è il primo né sarà l’ultimo.
-
Qualche responsabilità c’è l’ho pure io
-
L’hai denunciato?
-
Ci mancherebbe altro
… se lo reputo innocente?
-
Pur di scriverci un libro, non saresti capace?
-
Strunzu!
Con varie
interiezioni, digressioni, sberleffi, contumelie, Meluccio ricostruì gli eventi
dei due giorni passati. Roberto alla fine s’impazientì:
-
questo Vitacchia, non so se è innocente o colpevole. E
come faccio a scrivere un pezzo innocentista?
-
Perché è innocente!
-
Sei sicuro? Sputa fuori allora la verità … secca, senza
fronzoli, giornalistica …
-
Dimmi pure evangelica?
-
In che senso?
-
Non dice Gesù di Nazareth: “il vostro parlare sia: sì,
sì … no, no”
-
Vorrà dire che domani scriverò: “Vitacchia da Racalmuto
è innocente? Rispondiamo: sì”, sai che successo giornalistico.
-
Non mi imbrogliare ora tu le carte.
-
E tu dammi le carte giuste ed essenziali.
-
Aurelio La Matina Calello viene dunque trovato morto
avvelenato il giorno dopo; i medici stabiliscono che il decesso era da
retrocedere di dodici quindici ore. La morte sarebbe avvenuta dunque nelle
prime ore della sera del giorno precedente, quando a Racalmuto diluviava. Fu
sera da tregenda, tutti se lo ricordano qui in paese. Continuava per altre
quattro cinque ore, avremmo avuto il diluvio universale; sarebbe stato il
momento della verità con tutte quelle manomissioni del sottosuolo del paese, a
cominciare dalla Matrice. Vi erano le carnarie, ora non vi è più nulla: le
colate di cemento sospinte dalla pressione a 10/15 atmosfere sono state
sbattute contro le occlusioni di piazza Castello. Quando torneranno le grandi
piogge, dell’intensità di quella sera ma più continue, avremo un grande sifone
a «lu chianu castieddu»; con quanti morti?
-
Stringi
-
Nel primo pomeriggio si era recata da Aurelio la
giornalista israeliana, accompagnata da Vitacchia, che subito però tornò in
paese. La giornalista si accomiatava da Aurelio per il suo ritorno in patria.
Aurelio era stato prezioso nel fornire dettagli e letture inusuali sugli ebrei
di Sicilia e su quelli di Racalmuto.
-
Fino a che ora vi è stata da Aurelio?
-
Non più di un’ora.
Il tempo era ancora buono. La giornalista telefonò allora alla sua amica,
l’accompagnatrice turistica racalmutese. Questa si precipitò subito a Bovo. Non
entrò neppure in casa. L’israeliana l’attendeva all’imbocco della stradetta. Si
fece accompagnare in gran fretta a Canicattì a prendere l’autobus per
l’aeroporto di Catania delle ore 17. Non
riuscirà a prendere l’aereo per Roma da Catania: le grandi piogge impedirono il
decollo. La giornalista si fece accompagnare in taxi in un albergo delle
vicinanze. Tutti questi movimenti sono stati ricostruiti con diligenza da
romanzo giallo dalla dottoressa Mangoni. Aurelio sino a sera era vivo: lo
dicono i medici. La giornalista ha un alibi di ferro. Vitacchia, dopo avere
portato la giornalista da Aurelio, s’incontra con Bastiano Saldì, quello
latitante. Sono amici da vecchia data. Il Vitacchia viene invitato dal Saldì a
fargli compagnia ed in macchina se lo porta allo Zaccanello. Si godono lo
spettacolo della tempesta a mare. Non succede nulla. A tarda ora, i due se ne
tornano a Racalmuto, quando Aurelio era morto da almeno due tre ore.
-
Non è che l’ispettore bankitalia sia morto ad opera di
spiriti maligni, scesi sulla terra di Bovo in quella notte da tregenda? Se
fossi inglese, ci scriverei un libro di magia nera.
-
Non scherzare. Non spiriti vennero a Bovo quella sera,
ma uno strano cingolato creò un casino forsennato rompendo il muretto
dell’ingresso, lasciando orme che neppure le grandi piogge riuscirono a levare.
A guidare quel cingolato doveva essere un solo individuo, non colto e tuttavia
amico di Aurelio, che ebbe ad aprirgli in quell’ora insolita senza sospetto.
Gli offrì persino un caffè.
-
E questo è certo?
-
No, questo si suppone … ragionevolmente.
-
Il cingolato è stato rinvenuto?
-
Non se ne sa niente. Nessun mezzo che possa
giustificare il tipo delle orme è stato rinvenuto. Si pensa ad un mezzo
straniero. Dopo la morte della Mangoni, la polizia sta tentando connessioni con
il mezzo che uccise la poliziotta. Ma senza risultato alcuno … almeno per
quello che mi si dice. Io del colonnello Micciché mi fido ciecamente. Perché mi
dovrebbe imbrogliare?
-
Siamo quindi di fronte ad un assassinio senza omicida?
-
Sino a quando il capitano della finanza non ha creduto
di essere l’inviato del Signore che in quattro e quattr’otto ti svela l’arcano.
-
E questo non ti sfagiola, non foss’altro per questione
di prestigio professionale.
-
Me ne sbatto le palle del prestigio … è l’innocenza di Vitacchia che mi sta a
cuore.
-
Non è che mi hai convinto proprio tanto su questa
conclamata innocenza …
-
Non sono solo io ad esserne convinto … anche il colonnello
Micciché ne è sicuro .. nell’incontro di oggi mi ha svelato piccoli segreti che
hanno fatto chiarezza anche a me … tanti lati oscuri mi si sono chiariti.
Pensavo cose inesatte, facevo confusione … Micciché ha fatto luce … il verdetto
è indubitabile: non colpevole.
-
Andiamo, dunque, dal giudice e con l’autorevolezza che
tutti ti riconoscono, con la testimonianza di Micciché e con i flash dei miei
fotografi tiriamo fuori quest’angelo dalle patrie carceri.
-
Fosse facile!
-
Cosa lo impedisce?
-
Il capitano della finanza Bonadies.
-
E’ così potente?
-
È impotente e per questo è imbattibile: l’imbecillità,
la testardaggine, la ruggine fra i corpi militari dello stato, la voglia di
carriera, il sentirsi infallibile è un intruglio che a noi semplici mortali
suona idiozia, per i militari si chiama senso dell’onore.
-
Protervi!
-
Domani, anzi stanotte, tu scrivi un bell’articolo, lo
pubblichi e vedrai che le acque si smuovono.
-
E che scrivo?
-
Scrivi che ti sei incontrato con Meluccio etc., che ti
ha confidato i segreti più ghiotti sulla morte dell’ispettore della bankitalia,
che li ha desunti dalle carte dell’ispettore e da quelli della polizia. Un
granchio prende la Finanza: non sa leggere i bilanci delle società sotto verifica
e vuole leggere nei misteri dei servizi segreti …
-
Come? Come?
-
Servizi segreti, sì: l’omicidio di Aurelio La Matina
Calello è un omicidio commissionato all’estero, da uno stato estero ed eseguito
dal servizio segreto di quello stato.
-
Tu vuoi scherzare?
-
No, no … scrivilo … scrivi che te l’ho detto io. Scrivi
che sono pronto a riferire al ministro degli interni italiano … quello è un
grassone ma è un cervellone … mi è amico … ha stima .. ed io di lui .. anche se è di destra, anzi è passato a
destra; mi stava meglio quando scriveva a Lotta Continua … allora non aveva
capito niente ma stava dalla parte giusta … ora capisce tutto, ma gli piace
stare dalla parte sbagliata .. controcorrente: è nel suo stile (e forse anche
nel mio).
-
Tu mi mandi dritto, dritto in galera.
-
Ti farebbe bene: così rinsavisci un po’
-
Anche a te farebbe bene; pure tu hai bisogno di un po’
di saggezza.
-
Spiacente, per limiti di età non sono più carcerabile.
-
Eseguirò a puntino. Resto, però, sicuro del fatto che Vitacchia,
stinco di santo non è. Amico e .. compare di Bastiano Saldì: mafia, droga,
stiddara, stragi
-
Contiguo? E chi non è contiguo di questi tempi? Io, tu,
i reprobi ed i santi, i preti ed i malandrini, lo stato ed i magistrati, i
militari ed i politici …
-
Quante denunce per calunnia, oltraggio alle
istituzioni, vilipendi ..debbo prenotarmi?
-
Nessuna .. perché sai scrivere e queste cose le sai
dire senza farti cogliere in fallo. Complimenti.
-
… violazioni del segreto istruttorio, d’ufficio …
-
quelle non le escludo … e ci metto anche violazione dei
segreti di stato .. anzi di stati esteri … suona meglio.
-
A la faccia?
-
Non per nulla sei giornalista … devi rischiare ..
-
E’ una vita che rischio. Il risultato? Capo cronaca di
una periferica regione, di un giornale milanese che della Sicilia gliene frega
un cazzo.
-
Ma è il primo giornale d’Italia.
-
Appunto.
-
Là c’è un computer, c’è il modem .. datti da fare e
subito. Dai la stura alla tua fantasia … usa il paravento: il noto scrittore
Meluccio Cavalieri da Giorgenti … scrivi sempre “da Giorgenti” … ci tengo …
ognuno ha le sue fissazioni … la mia tutto sommato è veniale. Sì: il noto
scrittore ci confida; sostiene; ci ha svelato; contesta; è sicuro … e via di questo passo. Puoi anche sostenere
che il papa è stato sodomizzato da un asino in erezione … fa ancora effetto,
sai.
-
Vitacchia esce ed io entro, ho capito.
-
Finalmente giustizia è fatta.
Roberto, sigaretta in bocca, si chinò sulla tastiera del computer e di
getto scrisse i tre o quattro fogli dell’articolo. Inviò l’e-mail; si alzò, un
gugno di saluto a Meluccio ed andò a buttarsi sul primo lettino che gli sembrò
di potere usare. Quasi di colpo cominciò a russare. Meluccio non volle
disturbarlo, spense le luci e cercò di addormentarsi anche lui. Non fu facile.
* * *
In prima battuta, la corrispondenza finì nel foglio regionale. In tarda
mattinata, però, vi fu un’edizione straordinaria. L’articolo apparve in prima
pagina con un titolo mirabolante, inusuale per un giornale tanto compassato
come il Corriere della Sera: «Omicidio ex ispettore bankitalia – La GdiF di
Agrigento depista – Certo lo zampino di un servizio segreto estero».
-
Titoli così sono sospetti, disse Roberto.
-
Articoli così sono pugni nello stomaco; bisogna saperli
sferrare, ed il Corriere il mestieraccio suo lo sa fare, rimbeccò Meluccio.
Trillò il telefono. Segreterie particolari. Interrogatori. “Sì, lo
scrittore Meluccio Cavalieri da Giorgenti, in carne ed ossa”. “Attenda, Le
passo il signor ministro degli interni”.
-
Ah Melu’, che mi combini – e giù una risata chiassosa,
veramente divertita.
-
Se il ministro della polizia si disturba, l’avrò fatta
veramente grossa.
-
Guarda che sono stato io ad imporre l’edizione
straordinaria al Corrierone; anche il titolo ho dettato. Come ex giornalista,
sono licenze che mi posso permettere.
-
Come ministro degli interni .. che come giornalista il
Corrierone ti mandava a fare in culo.
-
Come sei volgare?
-
Mai quanto un ministro di mia conoscenza. Ma a che
gioco stai giocando?
-
Al tuo Melu’ … al tuo …
-
Dannato di un uomo … il mio è solo voglia di rimettere
in libertà un mio amico di Racalmuto, un tale di nome Vitacchia. Ti dice
qualcosa questo nome?
-
Nulla di nulla ..
-
Allora dimmi quale è il tuo gioco …
-
Quello che tu hai fatto sbandierare a quel povero
ragazzo …
-
Chi?
-
Il giornalista ..
-
Ma quello ha cinquant’anni.
-
Sempre ragazzo per noi Melu’ .. Non so se la storia dei servizi segreti tu la
conosca davvero o è stata una tua stronzata. Credo che hai inventato .. non dal
nulla, però .. avrai letto qualcosa nelle carte che ho detto di consegnarti. Tu
non sai e parli .. io so e non posso parlare. Ci completiamo. Bella trinità,
visto che entrambi ci serviamo del cinquantenne giornalista. Polizia,
letteratura e giornalismo: giustizia sarà fatta. Speriamo, almeno.
Approfondisci Melu’, approfondisci .. spero davvero in te.
Ed era la seconda volta che nel volgere di 24 ore due diversi esponenti
della polizia di stato gli affidavano il sovrumano incarico di fare giustizia,
con la forza della penna, con la magia della fantasia. Non c’era più religione.
Nella tarda mattinata del giorno dopo, quando Roberto si decise ad
alzarsi, Meluccio si accinse a fare una scappatina a casa sua, ad Agrigento.
Teneva abitazione avanti la curia vescovile. Occupava la magione che era stata
dei Del Carretto. Le carte di Aurelio parlavano di un palazzetto del 1300. Era
detto in un atto notarile esibito ai Martino nel 1400, in un processo
d’investitura. La contea della sciasciana Racalmuto nasce da un baratto fra due
fratelli, Gerardo e Matteo del Carretto: a Matteo finisce “lu cannuni” ma non solo quello: questo sedicente
nobile genovese in effetti si insedia a Giorgenti, vicino al vescovo
naturalmente, «in quoddam
hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium magnifici Aloysio de
Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti
Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de
Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines.»
I grandi predoni di Agrigento stavano tutti lì. “Ed ora vi sto io” si sussurrò tra il compiaciuto e lo stomacato
Meluccio. Veramente, stava al solo secondo piano: stanzoni enormi, oscenità
pittoriche del Sozzi consunte, gelo d’inverno … ma d’estate c’era
gradevolissima frescura, meglio qui che a San Leone. Solo che da qualche mese
si era fissato per Bovo di Racalmuto: tutto l’opposto. Sperava di farsi vendere
quell’anodina casetta dell’avvelenato Aurelio. Gli eredi, prima o poi,
gliel’avrebbero ceduta. Non era questione di soldi. Meluccio pensò al suo
antenato vescovo e botanico: forse per questo propendeva per gli orti di Bovo:
Veramente, lì orti non ce n’erano: ma un progetto bolliva in pentola. Per un
intuito di Aurelio si era costituita a Racalmuto una strana associazione che si
denominava “IDESAM” come dire “istituto dissalatori acqua del mare”. Dal vicino
Mar Mediterraneo si doveva portare l’acqua dissalata. Scavalcando politici e faccendieri, la cosa
stava andando avanti. Prodi in persona se ne era interessato. I fondi
comunitari stavano per arrivare. Un invaso agli sprofondi di Sacchitello era più
che un progetto. Da lì acqua dappertutto, anche a Bovo, per orti, agricoltura
intensiva, primaticci. Meluccio vi stava dando l’anima perché il sogno di un
mare d’acqua sulla terra di Sicilia si avverasse. Ostacolavano, e di brutto,
gli acquaroli di Canicattì, non mafiosi si diceva eppure molto somiglianti, con
il Lasagne come loro occulto protettore sotto sembianze di verde irriducibile.
“Il dissalatore inquina l’aria. Le condutture distruggono l’ambiente.” il suo
slogan ad effetto. Un mare di voti lo subissava ad ogni elezione. Frotte di
autobotti pompavano acqua dallo Zaccanello di Racalmuto e la portavano nei
vigneti di Canicattì; si deprimeva sempre più il livello di quella falda
acquifera; c’erano voluti diversi milioni d’anni per formarsi, dal pleistocene;
in dieci anni, dicevano pozzaroli incolti ma esperti, il livello era sceso di
sei metri. Prossimo il prosciugamento totale; incombente il fenomeno dello
zubbio: volte in gesso che si erodono per reazioni chimiche e sprofondano;
addio scorrimento veloce, addio terre ubertose della Menta e dintorni; povera
incolumità pubblica.
A Meluccio venne fatto di pensare all’improvviso: va a finire che
cerchiamo chissà dove l’omicida di Aurelio ed invece eccolo là a Canicattì, in
seno agli autobottisti.
A Meluccio la strana mania delle cose della terra veniva – o così amava
pensare – da un antenato vescovo e botanico. Si chiamava Antonino Cavalieri. E’
rimasto celebre per una sua originale richiesta al re borbone: «S.R.M. – Sire – Antonino Cavalieri – scrisse
il 14 gennaio 1789 – vescovo e cittadino di Girgenti, umilissimo vassallo di
vostra reale maestà, umiliato al regio trono le rappresenta, come per doppio
titolo della nascita da lui sortita in quella città, e del supremo grado
ecclesiastico, al quale per vostra real clemenza è stato inalzato, sentendosi
in obbligo di promuovere con tutte le sue forze i vantaggi spirituali, e
temporali di quella popolazione, à considerato, che tra le altre cose manca ivi
il comodo dell’erbe medicinali, perché non essendovi colà mai stato orto
botanico, né persone esperte nella cognizione de’ semplici manca agli ammalati
il soccorso di taj rimedj …» Dove impiantare quell’orto botonaco? «Esiste in distanza di un miglio in circa
dalle mura di quella città un conventino già de’ PP. Riformati .. a cui è
annessa una piccola selva ...» Il conventino era stato soppresso tre anni
prima. Espropriamolo - chiede il vescovo -
«sarebbe questo un sito opportuno
alla formazione dell’orto botanico, dopo che ivi si ridurrà un'altra volta la
piccola vena dell’acqua sorgente ….. » Le idee di Aurelio avevano avuto un
precursore, nientemeno un vescovo ed un vescovo della famiglia di Meluccio.
Certo, allora era il Settecento, secolo dei lumi anche in Sicilia, anche per i
vescovi giurgintani – ma della prosapia
dei Cavalieri – mentre, ora nel duemila i vescovi giorgintani si
preoccupano solo degli espropri, di salvaguardare gli estirpatori del verde,
gli uomini del cemento … in cambio di chiesuole antistanti a templi greci.
Meluccio se ne adontava e s’imponeva il compito di saldare l’antenato vescovo
illuminista con il tetro Aurelio.
Decise di far visita al suo presule del Settecento: si recò in cattedrale
e portò il solito garofano rosso che depose sul sacello: dall’alto, dal
medaglione marmoreo lo mirava con sorriso spento; rubizzo, testa incassata nel
tronco, privo quasi di collo, ma ondulata l’ampia gorgia, dovette somigliare
tanto a quei canonici descritti dal Brydone; per tanti versi dovette essere
simile al vescovo di quel viaggio dell’impertinente inglese. “molto
rispettato”, “nel fare a botta e risposta … è maestro”, “uomo affabilissimo e
gentile”, “appartiene ad una delle prime famiglie dell’isola”, “è un omettino
onesto e una persona piacevole”, “è fuori del comune che abbia raggiunto una simile
carica così giovane, essendo questo il vescovado più ricco del regno. E’ un
buon letterato, profondamente erudito sia di cose antiche che di cose moderne,
ed è altrettanto intelligente che colto”. Ma c’è da giurare che l’antenato
fosse proprio quel canonico che dopo il pranzo fu preso da «una violenta crisi
di stomaco, e mentre vomitava si volse a me con una faccia tutta pentita, e
scuotendo il capo gemette: “Ah! Signor capitano, sapevo che Ponzio era un
grande traditore” … mi ha detto che
basterebbe che stessimo un po’ con loro per convincerci che sono gli uomini più
felici della terra. “Abbiamo escluso dal nostro sistema”, mi disse, “tutto
quello che è triste o malinconico, e siamo persuasi che di tutte le vie
dell’universo quella che mena al cielo deve essere la più bella e la meno
tetra. Se non è così”, aggiunse, “Dio abbia misericordia di noi, perché temo
che in cielo non ci arriveremo mai”.»
-
Ah! zzi parrì nni diciva di minchiati chissu, picchì
ingrisi cridiva di fari lu spertu ed era babbu … minchiati, zzi parrì,
minchiati … Ah! ccà nun si po’ diri? … semmu in chiesa! Ma chista è la
catridali di San Giurlannu, è nurmannu puru iddu .. a nnantri nun nni po’
capiri.
Meluccio scese in via Atenea, si recò dall’avvocato Pujades, amico suo
d’infanzia.
-
Carme’ quel
mandato di Vitacchia te lo sei fatto dare?
-
Sicuro; appena mi hai telefonato sono corso alla
Petrusa e subito il ragazzo si è affidato a me.
-
Quando esce?
-
Non lo so. Ho parlato con il procuratore capo e niente;
la veneta non l’ho vista. Come al solito è scappata per casa sua, dal suo
amoroso. Bonadies è schifiltoso … ma ha trovato una scusa per non ricevermi. Ho
pronta l’istanza al giudice per la libertà provvisoria. Ci mancava però che tu
ti mettessi a fare lo stronzo con quella intervista dei miei coglioni … e temo
che dopo averlo fatto rinchiudere gli stia serrando le porte per non farlo più
uscire ..
-
Minchia!
-
Proprio così, stiamo tutti finendo a minchia. Già,
perché ti stanno preparando un bel papiello con dentro una sequela di reati da
accumularci sopra una ventina d’anni: violazioni dei segreti di stato, di
quelli d’ufficio, di quelli istruttori, oltraggio alle forze pubbliche,
calunnia etc. etc.
-
E come lo sai?
-
Vengo dal tribunale; sentivo strillare Bonadies nella
stanza della veneta. Mi ha visto il procuratore, mi ha chiamato ed in gran
segreto mi ha detto che non può impedire alla veneta di inviare una
comunicazione giudiziaria a te ed a quella povera vittima del tuo giornalista a
comando.
-
Mi porterai le arance.
-
Sei troppo importante per farti il piacere delle
manette, diventeresti un martire; troppa pubblicità per te e troppi guai per il
procuratore … che di guai ad Agrigento ce ne ha da vendere. Gli mancava pure
quel Bonadies.
-
Che ha Bonadies?
-
Bonadies è un ufficiale della finanza onesto; fanatico,
sì … ma integerrimo. Si era messo in testa che tutti sono uguali dinanzi alla
legge, anche quella fiscale che sappiamo essere un colabrodo. Manette agli
evasori? A tutti sostiene Bonadies. Anche ad un vescovo che si era dato
all’usura. Voleva addirittura metterlo dentro. Questo no, non c’è riuscito … un
rinvio a giudizio, però, glielo procurò … ed un invio ad Agrigento se lo
procurò, alla città delle tre p:
punizione, promozione, pensionamento. Guarda che per tanti versi quel capitano
che tu tanto odii, mi è simpatico, per me è una vittima del dovere ..
-
che fa tante vittime della giustizia. Il fanatismo dei
militari … te lo raccomando: buio
mentale e crudeltà di cuore.
-
Ricordatene nel prossimo romanzo.
Il telefonino di Meluccio trilla; Roberto Caballero di là si agita,
inveisce, protesta.
-
ho capito, so, il mio avvocato mi sta già informando …
lo consiglio pure a te … è gratis, cioè a mie spese.
-
Guarda che non posso difendere due coimputati …
interruppe Pujades.
-
Non ne hai bisogno. Meglio. Scattava già
un’incompatibilità. L’Italia è la terra delle incompatibilità … e tutti stanno
insieme … il diritto naviga a destra, la vita a sinistra. … mi dici che il tuo
giornale sta inviando i pezzi da novanta dell’avvocatura milanese … sai che ci
fanno ad Agrigento? Un piffero … ad ogni modo contento tu, contenti tutti. …..
Pujades mi dice che i fastidi non saranno per noi … è il povero Vitacchia che
patirà l’anima dei guai suoi … al solito, giustizia all’italiana maniera che
inventa le colpe dei deboli ed affossa i misfatti dei potenti … pare che
stavolta i potenti siamo noi … io perché scrivo gialli di successo e tu perché
c’hai il corrierone dalla tua parte. Sì, ci vediamo presto … arrivederci.
L’avvocato Pujades accentuò i suoi tic nervosi. Si fece rilasciare un
mandato ampio e pieno. Si accomiatò di mala grazia dallo scrittore amico e si
precipitò in tribunale. Meluccio tornò a dimensioni normali, si sentì uomo
ormai vecchio come capita a tutti i settantenni. Non era paura la sua, solo angoscia,
avvilimento, avversione per tutto quanto sa di stato, di potere, di procure, di
capitani e di avvocati, anche. Li avvertì come nemici ed ebbe in uggia anche la
vita. A passi lenti, bolso e vecchio si incamminò per le scalette che
conducevano su, al seminario. La sera agrigentina sapeva di morte, quasi un
preludio funebre. L’uomo, questa misera cosa con empiti di onnipotenza subito
in cenere. A Meluccio cessò la voglia di lotta … rintanarsi nell’ospizio dei del Carretto ora era l’unico
suo desiderio, emergeva l’infanzia, quando si sentiva protetto dal corpo della
madre, sotto al rifugio, per ripararsi dalle bombe che dal cielo piovevano
nella guerra del Quaranta. “Memento homo,
quia pulvis es et in pulverem reverteris”, la polvere del mercoledì delle
ceneri quale saggissimo simbolo! - in questo era profondamente cattolico, cupo,
senza speranza, dannato all’inferno. Non per nulla amava proclamarsi: cattolico
non credente.
CAPITOLO QUINTO
Incupito,
Meluccio si decise di far visita a Vitacchia. Aveva rinviato troppo ed un po’
gli sembrava di essere vile. Trovò il giovane spoglio della sua abitale
iattanza. Due o tre convenevoli e lagrimoni solcarono il viso espanso di Vitacchia.
-
Ti trattano male? -
interloquì Meluccio.
-
Nonzi duttu’. Stavanu cominciando .. ma subito arrivò
la raccumannazioni di Bastianu e tutti addivintarunu umili e mansueti, persino
ruffiani ed amici. Anche gli ‘nfami, i secondini. Certo debbo chiamarli
«comanda’», ma così per educazione. Bastianu Saldì è proprio potente.
-
Tu gli amici potenti te li sai scegliere.
-
Vossia e Bastianu siti amici mia.
-
E tutti e due ti abbiamo fregato.
-
Nun ci criu.
-
E non crederci, non crederci. Io ti voglio bene. Mi
sento in colpa con te. Però tu sei uno scervellato. Che ti metti a parlare con
Saldì al telefonino, usando il suo numero segretissimo?
-
L’avevo fatto tante volte e nessuno niente mi aveva mai
detto.
-
Fino a quando a controllarti non è intervenuto il
capitano Bonadies.
-
Io da ccà quando esco?
-
Prima possibile, Vita’ … hai visto che ho dato incarico
a Pujades … il principe del foro di Agrigento …
-
Una volta era Cavallaro … il mio grande paesano ..
-
A Racalmuto ne avete avute tante di teste fini … ma di
cose buone ne avete fatte sempre poche.
-
Iu mali a nuddu nn’haiu fattu.
-
Tu non hai fatto male a nessuno … io neppure, e tutti e
due siamo qui alla Petrusa.
-
Ma iu dintra e vossia fora.
-
E la differenza non è poca … Io il carcere comincio ad
avercelo dentro, ed è peggio. Una persona intelligente quando comincia a non
capire finisce in un carcere dell’anima da cui nessun giudice della libertà è
in grado di farti uscire.
-
Capisco.
-
Su col morale. Dai nostri due diversi carceri dobbiamo
uscire al più presto, Vita’.
-
Sissi.
Torno a Bovo
Meluccio e subito si ingolfò nello studio delle carte. Noiosissime quelle della
Mangoni. Impenetrabili quelle di Aurelio. A dire il vero, l’interesse per gli
appunti di Aurelio veniva anche dal gioco di rintracciare nel computer i file
cancellati. Il “temp” non veniva pulito da Aurelio, che per di più usava
trascrivere mille volte le poche briciole di un velleitario memoriale
autobiografico che non finì mai: il ritrovamento di appunti scritti e
cancellati consentiva sorprese che una qualche intima soddisfazione la
destavano. Come in un giallo: vari indizi che potevano portare alla scoperta
dell’assassino. Del resto, per Aurelio un assassino c’era stato davvero. Ora
Bonadies diceva di averlo scovato. Meluccio era convintissimo del contrario.
Scoppiava un contrasto fra due intelligenze: quella poliziesca e caina e quella
libresca. Quale avrebbe vinto? Meluccio tornava ad avere fiducia in se stesso.
Non v’era ombra
di dubbio: bisognava indagare tra le ispezioni di Aurelio per trovare le orme
del futuro assassino. E due erano le piste: quella ovvia della mafia che
Mangoni prima ed ora, con sicumera, Bonadies ritenevano foriera della morte
dell’ispettore e quella tenebrosa ed inafferrabile che Meluccio e, a ben
vedere, il ministro dall’epa incommensurabile, pensavano doversi scandagliare.
Di ispezioni
pericolose, Aurelio ne aveva fatte non molte ma sufficienti a procurargli
l’esecuzione o da un versante o dall’altro. Le prime erano incolori, ma qualche
sintomo e qualche preoccupazione vi si annidava. Guardiamo, ad esempio, la
prima di una triade di verifiche fatte a strane banche ebree di Milano. Aurelio
vi aveva notato strani giri di assegni. Aveva contestato: «l’azienda consente
il pagamento, per contanti, di assegni circolari di altrui emissione». Assegni
di cui al momento dell’ispezione non si sapeva o non si voleva svelare il
beneficiario. Aurelio citava il caso «dei valori cambiati a certo sig. Sandro
Vercelli le cui firme sulle diverse distinte di presentazione risultano
palesemente difformi.»
Meluccio aveva
cercato, e trovato dopo non poca fatica tra carte impolverate, quel vecchio
“rapporto ispettivo”. In moduli ristampati nell’aprile del 1971. Con foderine
color cenere, rilegatura con nastro marrone, incuriosì molto Meluccio l’antico
elaborato ispettivo della “Banca d’Italia – Ispettorato Vigilanza sulle Aziende
di Credito”. Si parlava della “visita effettuata dal 5.10.1971 al 28.1.1972”
all’azienda di credito Pincherle-Levi & CC. – Spa – Milano”. Quella banca
non esiste più: assorbita da una popolare lodigiana, che da piccola banchetta,
per sostegno della banca centrale, oggi domina il mercato italiano e si è
espansa anche tra le latebre misteriose della finanza siciliana – quanto
pulita, non si sa. Forse nei 35 fogli A4 il mistero della morte di Aurelio.
La lettura
deluse molto il settantenne scrittore. Ingenuo il dire, inelegante l’accusa,
insignificante il contenuto. Si vedeva lontano un miglio che Aurelio non sapeva
fare altro ancora che sciommiottare il burocratese della vigilanza bancaria. Il
“pro-memoria per il signor governatore” era particolarmente striminzito e
disadorno. L’aristocratico Carli l’avrà accantonato con un gesto di annoiato
sprezzo.
Eppure la
banchetta era peculiare: posseduta da una famiglia ebraico-egiziana, aveva
potuto combinare circuiti finanziari i più conflittuali dell’epoca. La pingue
finanza araba, quella degli emirati, la finanza che si denominava dal dollaro e
dal petrolio messi assieme, i petro-dollari, e l’acume bancario ebreo, senza
patria, schivo persino, tutt’altro che sionista, si coniugavano quasi in un
sottoscala di via Verdi a Milano. Le armi acquistate dall’Egitto, prima durante
e dopo la guerra dei sei giorni, si pagavano tramite lo sportello giudaico di
Milano. Quei micro banchieri di padre ebreo e di madre egiziana consentivano
una saldatura finanziaria, diversamente impossibile. Il gioco degli assegni
circolari - una concessione tutta eccezionale che la Banca d’Italia aveva dato
a ristoro dei danni della persecuzione razziale del fascismo – permetteva
traslazioni in dollari tra aree addirittura in guerra. Aurelio confessa nelle
sue manie autobiografiche di non averci allora capito nulla. Il gioco degli
assegni manco lui l’aveva scoperto. Era stato un suo collaboratore napoletano,
e lui, da siciliano, l’aveva in gran sospetto e in gran dispitto.
Il rilievo passò
del tutto inosservato, l’ispezione fu archiviata senza lasciare traccia alcuna.
C’era dunque da perdere tempo se si avevano uzzoli polizieschi e si voleva là
rinvenire chissà quale arcano che portasse all’avvelenamento del povero
ispettore.
Grande
importanza, invece, annetteva Aurelio a questa esperienza milanese. Il suo
primo incontro col mondo ebraico fu per lui un grosso flop. Non ne aveva capito
molto, di quell’intrecciarsi di conti correnti passivi, di afflussi di mezzi
illiquidi, di assegni circolari trattivi sopra e di ritorno degli assegni a
chiudere un circuito apparentemente inutile. Molto proficuo, però per la banca.
Gli ebrei-eziziani sapevano ricavarne un conto economico pingue che il povero
Aurelio aveva descritto al suo governatore come “soddisfacente” per
l’equilibrio che si riusciva a conseguire tra costi anche elevati nella
raccolta e ricavi più che compensativi rivenienti dai servizi e soprattutto
dalle provvigioni e commissioni. Anzitempo, quel malconcio sportello del
sottoscala prefigurava la banca ideale per la Vigilanza di Roma: scarsa raccolta,
impieghi accorti e tantissima intermediazione finanziaria di natura non
creditizia.
Restava, però,
una lezione illuminante per Aurelio. Dopo si ricorderà del tipo particolare del
servizio che gli ebrei denominavano “cambio assegni”. Non era il solito gioco
di assegni circolari emessi dopo accrediti di assegni bancari post-datati. Non
era ciò che in gergo si definiva pudicamente “autofinanziamento delle imprese”.
Era compiacenza, cointeressenza, compartecipazione agli utili dell’istituto
bancario. Erano tempi di separatezza tra banca ed impresa, ed i banchieri
aggiravano l’ostacolo con i giochi del giro di assegni circolari che
permettevano aumenti di capitale sociale delle industrie, anticipazioni per
acquisto delle armi da parte di intermediari collusi con entrambi gli stati in
armi - egiziani o ebrei che fossero - primi esperimenti del riciclaggio in
grande e con circolazione extra nazionale (extra corporea, la chiamava un
grande giornalista) del denaro sporco.
Fu Sarcinelli – bisogna dirlo – che per primo
comprese il forte elemento inquinante del “cambio assegni”. Decise di
stroncarlo ma a modo suo. Sarcinelli fu il tecnocrate della Banca d’Italia
sicuro che godesse di una extraterritorialità giuridica. Considerava giuristi,
diritto e giudici l’orgia del formalismo sterile. Vi lasciò le penne come tutti
sanno. Pochi, però, sono quelli che si sono resi conto che l’incidente penale
del tecnico di Via Nazionale è più legato alla stroncatura del giro di assegni
(a vuoto, per traslazione di denaro sporco, e via di questo passo) che alla
vicenda Sindona (come pretendeva il giudice Viola) o alle storie del caso
Rovelli (su cui però accentrò la sua devastante attenzione il giudice
Alibrandi). Con circolari e numeri unici, Sarcinelli tentò di impedire alle banche
la copertura ai falsi movimenti monetari. Non è che il gioco fosse ancora di
precipua importanza. Marpioni milanesi avevano raffinato il gioco; si erano
dati ai time-deposit, a rimbalzi con l’estero, specie con la Svizzera, per
impedire riscontri impertinenti. Tuttavia, il disposto di Mario Sarcinelli
andava a colpire le minuscole banche, le cooperative e quelle importanti –
quasi tutte – erano democristiane, si legavano alla Federconsorzi, godevano
della protezione dei potenti dell’epoca, dei cavalli di razza D.C. come allora
si diceva. La supponenza di Sarcinelli ebbe il tonfo che ebbe. Aurelio si
scontrò e duramente con Sarcinelli. Veniva dall’ispezione di una cassa di
risparmio romagnola. Il piccolo ispettore siciliano si era imbattuto con il
potente ICCRI, quello degli assegni speciali con i quali si erano profusi i
fondi neri delle casse di risparmio milanesi e nazionali. Non aveva avuto
remora a stigmatizzare compensazioni di partite tra la periferica cassa ed il
proprio istituto centrale. Si era messo in testa di soppiantare il fisco. Aveva
censurato comportamenti fiscali non ortodossi. Aveva avuta a ridire sulla
politica dei tassi passivi ed anche su quelli attivi. Aveva ficcato il naso nei
rapporti di lavoro. Non gli erano piaciuti incarichi remunerativi a figli di
amministratori. Criticò la politica di bilancio. Tutto questo indignò
Sarcinelli. Definì ogni cosa “bolle di sapone”. Che importanza ciò poteva avere
se «l’azienda veniva definita patrimonialmente robusta», se «ottima era la
situazione di redditività». Il tecnico gongolava, l’ispettore – ormai
ideologicamente inquinato – contestò. Fu arrogante. «Se lei considera bolle di
sapone, il peculato, il peculato semplice, il peculato mediante distrazione …
vuol dire che abbiamo visioni diverse. E siccome faccio parte della chiesa che
invoca il centralismo democratico, le consento come mio capo di avere
un’opinione diversa dalla mia.» Si adirò davvero Sarcinelli. Apostrofò in malo
modo Aurelio, lo definì sarcasticamente: Pangloss. E soggiunse: «Sa quanti sono
i magistrati? Due mila? Tre mila? Ebbene io non consentirò a costoro di
disintegrare le banche. Se le banche vanno bene è mio dovere difenderle, se
vanno male, è mio dovere correggerle.» Qualche mese dopo l’uomo che si credeva
al di sopra dei giudici finì malinconicamente a Regina Caeli … per pochi giorni
s’intende.
Qui Meluccio
cominciò a distrarsi per noia. Erano faccende tecniche in cui non riusciva a
districarsi. Aurelio vi annetteva molta importanza nei suoi spezzoni
autobiografici. Emergeva solo che un
giovanissimo ispettore, preso dalle zolfare o dalla terra di Racalmuto, veniva
catapultato nei gangli dell’alta finanza senza che gli si fornissero competenze
professionali. La Banca d’Italia, eccelsa negli studi economici, risultava
molto fragile nei campi della ragioneria e soprattutto della più avveduta
tecnica bancaria. Era il colmo. Aurelio dovette farsi le ossa da sé, da
autodidatta, in un contesto competitivo dovendo fronteggiare colleghi incolti
quanto lui ma decisi a far carriera. Si bleffava, si strombazzavano risultati
ispettivi eclatanti. I capi ci credevano o facevano finta. A loro importava
solo la statistica: il 10, il 20 per cento in più dell’anno precedente, in
relazione al numero assoluto, in relazione alla massa fiduciaria ed altre
corbellerie del genere che acquietavano lo stato maggiore, intento ad altre
preoccupazioni, di sicuro più nobili. Il nuovo ispettore capo lanciava i
giovani: costoro s’industriavano a far fare bella figura alla Vigilanza, sia
come sia. I vecchi erano in difficoltà: erano disposti anche loro a barare, ma
mancavano di elasticità mentale, oltre naturalmente ad essere privi di ogni
idoneità professionale. Il mondo della finanza correva a mille all’ora in
Italia – a Milano a velocità supersonica; la vigilanza arrancava con frustri
rilievari in cui emergeva la drammaticità di “conti d’ordine” in disordine,
come Aurelio andava celiando.
Furono approcci
al mondo delle banche di un ingenuo dipendente venuto dalla Sicilia, da
famiglia non adusa alle tecniche dei movimenti dei capitali, appartenente ad un
mondo contadino e zolfataro ove il denaro ha senso quale rado elemento di
scambio, non certo di ricchezza finanziaria e speculativa. Comprensibilissimo
lo smarrimento di Aurelio. Tentò una mimesi professionale. Impacciato nel
parlare, evitava per quanto possibile il
dialogo. Diceva che nella banca v’era un dio ascoso – anzi, riferendosi a
Mammona, un demone ascoso. Bisognava far silenzio per scoprirne gli intimi
afflati, sicuramente pestiferi. Del resto, il mondo che indagava era quello dei
numeri. Occorreva saperli leggere.
Fu in un’altra
banca d’ebrei milanesi che acuì il suo intelletto numerico. Vi era una doppia
contabilità. Capì davvero cosa significasse. Vi indagò dentro con acume. Fece
un solo rilievo: amplissimo e consendatamente tecnico. Fece sensazione. Divenne
un mito tra i suoi colleghi giovani che annaspavano anche loro in un mondo che
non gli apparteneva. Assurse a maestro e costrinse quelli della Vigilanza a
leggere Onida, ad infarinarsi di scienze aliene quali l’economia aziendale,
quale la ragioneria. I superiori furono costretti ad apprezzarlo. E lo
sfruttarono in ispezioni cattive ed astiose. Forse lì lo condannarono a morte.
Aurelio, contadino mancato, ispettore di
vigilanza bancaria inventato, subì la sua metamorfosi politica durante
quell’ispezione milanese che lo portò ad indagare sulla contabilità nera delle
banche. A quell’epoca tutte le banche avevano i loro conti neri; si chiamavano
sussidiari del conto economico. Lì facevano affluire proventi occulti e da lì
prelevavano emolumenti riservatissimi. Non è che non ci fosse contabilità: le
banche non possono permettersi di omettere minuziose evidenze di ogni loro
fatto di gestione. Se danno una regalia, la devono contabilizzare.
L’occultamento consiste nel tenere conti che apparentemente significano una
cosa, in realtà seguono minuziosamente ma cripticamente gestioni cosiddette
parallele. Fu quella l’epoca in cui si dava ai depositanti più cospicui il
“sottobanco”. Enti statali, enti pubblici, grandi imprese dirottavano cospicue
giacenze liquide presso gli istituti di credito a tassi irrisori. “Sottobanco”
l’azienda bancaria erogava ai politici, agli alti dirigenti, agli intermediari
integrazioni dei tassi prelevandole dai conti sussidiari del conto economico.
La Banca d'Italia non solo sapeva ma voleva sapere con informative riservate: I
giovani ispettori del momento – ed Aurelio in testa – si ribellarono. Dissero
che non era conforme alla legge bancaria che invocava per le aziende di credito
una “funzione di pubblico interesse”. Quella volta vinsero scavalcando persino
gli umori del governatore dell’epoca. Ma era effimero moralismo.
Alla Banca
d’Italia cambiava la filosofia del credito: non si intendeva intervenire nella
gestione del credito. Carli era perentorio: niente controllo qualitativo del
credito. Si andava verso una visione aziendalistica: bastava che una banca
fosse patrimonialmente sana, redditivamente valida, con equilibri finanziari
per doverla non solo rispettare, persino difenderla dal fisco e dalla
magistratura. Non si può dire che Sarcinelli fosse in disaccordo. Le “funzioni
di pubblico interesse” – locuzione derisa – andassero pure al diavolo: la
vigilanza non ne doveva tenere conto. Gli ispettori si astenessero da giudizi
di valore che sapevano di politica o peggio di moralismo. Aurelio dissentiva.
La sua
folgorazione avvenne appunto in occasione della seconda ispezione alla
banchetta ebraica milanese. Scoprendo il sussidiario del conto economico,
Aurelio s’imbattè in una strana operazione. Un esito di poche migliaia di lire
per l’acquisto dei diritti di opzione di una immobiliare entrava ed usciva dal
conto economico in modo davvero strano. Occorse del tempo per capire che in un
primo momento l’esigua cifra veniva iscritta in bilancio quale spesa a
copertura dell’esito di cassa; subito dopo si iscriveva all’attivo una
partecipazione di qualche milione che trovava riscontro a rendite come
sopravvenienza attiva.
Meluccio mandò
al diavolo Aurelio: che cosa volesse dire con quelle annotazioni nel suo
memoriale non si riusciva davvero a comprendere. Lo scrittore, d’altra parte,
era tutto all’infuori di un ragioniere.
Per fortuna Aurelio si mise a raccontare. Un muratore negli anni
Sessanta, scarpe grosse e cervello fino, capì che le isole cessavano di essere
luoghi di pena e si proiettavano come luoghi turistici d’alto bordo. Il nostro
imprenditore si accaparrò mezza isola d’Elba.
Ebbe naturalmente bisogno di assistenza finanziaria: la piccola banca
milanese gliel’accordò di buon grado. Gli fece costituire un’azionaria a base
familiare: marito e moglie, cioè. Accordò un’anticipazione su titoli. Vennero
pignorate, in altri termini, le azioni in cambio di una decina di milioni. Vai
a vedere che vi si annidava l’insidia dell’art. 2352 del codice civile.
Occorreva stilare una “convenzione contraria” per mantenere il diritto di voto
in capo ai proprietari. Ma ill muri-fabbro milanese chi poteva salvaguardarlo
in un campo giuridico così sofisticato? Alla prima chiusura d’esercizio, il
bilancio fu tutto fatto dalla banca: perdita totale del capitale, azzeramento e
ricostituzione entro i minimi legali. Si chiese apporto di denaro fresco
all’imprenditore-speculatore dell’isola d’Elba. Questi, ovvio, era in difetto
di liquidità. (Meluccio si incantò alquanto di fronte al linguaggio tecnico di
Aurelio). La banca fornì altri fondi, questa volta con un prestito
chirografario. Forse scattava la fattispecie penale di cui all’art. 2358 codice
civile in combinato disposto con l’art. 2630 codice civile. Era, però, epoca in
cui in Italia il diritto penale bancario era tabù per i magistrati: segreti
d’ufficio, segreti bancari e soprattutto incompetenza avevano creato una zona
franca nello specifico settore penale. Libertà di reato, dunque. Alla Banca
d’Italia si ritenevano quelle infrazioni estranee al rispetto della legge cui
doveva presiedere: non si trattava di “legge bancaria”. Guai all’incauto
ispettore che avesse osato addentrarcisi. Neppure Aurelio osò, ma dopo ne ebbe
rimorso. In effetti mancava di cultura giuridica specifica e la Banca d’Italia
si guardava bene dall’addestrare in tal senso i suoi ispettori di vigilanza.
Altre le incombenze, altre le culture.
Il giochetto
dell’azzeramento del capitale per effetto delle spese eccedenti i ricavi, cosa
fisiologica in un’impresa in fase di avviamento, si ripeté per due o tre
esercizi consecutivi. Il debito bancario aumentava a dismisura. Alla fine venne
detto che non si poteva più aumentare il rischio stante il divieto della Banca
d’Italia in ordine ai fidi eccedenti. L’imprenditore buttò la spugna. La banca
fece valutare al borsino di Milano i diritti di opzione. Se li comprò. Mezza
isola d’Elba entrò nel patrimonio della banca, o meglio dei proprietari della
banca. A carico del conto economico ufficiale andò a finire il credito sotto
veste di “sofferenza” ammortizzata. Si iscrisse una posta evanescente
all’attivo come partecipazione immobiliare. Il costo dei diritti di opzione
sconfinò nel “sussidiario” del conto economico. La ripulitura finale passò
attraverso gli storni di cui si è detto. Un capolavoro di ingegneria contabile,
insomma.
Comprensibili le
reazioni del povero muratore milanese: istanze al giudice civile, denunce alla
procura. Niente di niente. Lettere e proteste ai giornali, alle autorità, alla Vigilanza:
niente di niente.
Esasperato,
maniaco, grafomane, il malcapitato dirottò per il Quirinale e l’inondò di
ricorsi impropri, di rimostranze e poi di gravi sospetti, di insinuazioni
irriverenti, di vilipendi, di improperi, di calunnie, di inammissibili accuse.
La bonomia partenopea dell’inquilino dell’epoca è cosa notoria. Educate
risposte all’inizio, inviti alla moderazione in seguito, quindi richieste
ufficiali di chiarimenti, intese telefoniche, comprensione verso i ricchi e
ossequiosi ebrei meneghini. Interessamento del CSM. L’inghippo finì al giudice
più giovane e più brillante. Era bello, facondo, ricevuto dai salotti bene di
Milano. Anche la grande scrittrice lo teneva in considerazione. Subirà quel
giudice dalla scrittrice la più sferzante invettiva della storia giudiziaria
italiana: «giustizia all’italiana maniera, che inventa le colpe dei deboli ed
affossa i misfatti dei potenti». Ma tutto con bonomia, quasi con ammiccamenti.
Il giudice finirà, poveraccio, crivellato dalle lupare della ‘ndrangheta.
Questo, però,
molto dopo. In quel tempo, rasserenò il Quirinale: si trattava di uno
speculatore edilizio andato a male. Lo si poteva considerare alienato di mente.
Emise il provvedimento cautelare gradito alle alte sfere: il defraudato
dell’isola d’Elba finì internato in un manicomio.
Aurelio ne fu
scosso: non fu capace però di ristabilire un briciolo di giustizia. Scrisse:
«appare opportuno adottare d’urgenza provvedimenti cautelativi». Furono parole
buttate al vento.
Meluccio si
chiese come mai faccende del genere siano sempre finite sotto totale silenzio:
a motivo della complessità ed inestricabilità tecnica si rispose. Non ne era
del tutto convinto. Il potere sa essere potente, i miseri sono troppo soli per
avere giustizia. Finiscono persino alla gogna. Il muratore di Milano tentò la
speculazione dell’isola d’Elba. Quasi vi riusciva. Altri più astuti, più
integrati con coloro che comandano ebbero la meglio. Così vanno le cose di
questo mondo. Il piccolo racalmutese poté solo capire. Gli venne consentito.
Era già molto.
In
quell’ispezione, Aurelio si scontrò con un’altra realtà, lontana oltre mille e
cinquecento chilometri, altrettanto traumatica, egualmente significativa. Atta
a turbare, sconvolgere e ribaltare l’ideologia di Aurelio. Era stato molto
cattolico, poco praticante, però. Si portava dietro l’impalcatura di valori
etici, politici e sociali di un’infanzia vissuta in paese, plasmata da pii
genitori, preti tradizionalisti, monache e bizzoche addette alla dottrina
cristiana dei bambini. Eretico chi non credeva a Dio ed ai santi; soprattutto
chi si atteggiava a comunista.
Tra Stalin ed il
demonio nessuna differenza; Hitler un illustre sconosciuto, Mussolini un
grand’uomo amico della chiesa. Migliori di tutti De Gasperi e l’on. Ambrosini.
Reminiscenze infantili sbiadite, eppure oltremodo condizionanti.
Ora avvenne che durante quell’ispezione un
grave fatto di sangue si consumasse nel lontano paese natale. In piena
domenica, in un pomeriggio primaverile, quando frotte di paesani col vestito
della festa passeggiavano lungo il corso …..
[
………………………………………………………………………………..]
Post scriptum: Il prosieguo dopo, a suo tempo e luogo …. Se
dio ed i troppi miei anni me lo consentiranno.
Grazie comunque!
“Fa alta letteratura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di
Capra:
«Isola
nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un
lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola:
l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia,
l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro
l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo
dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi si può leggere
persino nelle banali riviste patinate del
tipo “Meridiani”. Se il passo ha un
valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso
addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare
proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella del Cinquecento, quella di prima
e quella di dopo - è solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si
riverbera. Se leggo il magistrale libro di Fernando Braudel su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo
nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili,
‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza
sorprendente: le linee e le scansioni
della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un
completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate
note delle sue vicende.”
[Da “QUESTIONI E PROBLEMI DELLO SVILUPPO
DEMOGRAFICO DI RACALMUTO NEL XVI SECOLO” di Calogero Taverna : conferenza del 18 giugno 1995alla Fondazione Sciascia, l’unica consentiagli
dai maggiorenti sciasciani, racalmutesi e non].
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