Sia fatta la volontà di Dio: affrontiamo codesto nodo
gordiano. Il rag. Giorgio Diodona era nativo di Barcellona Pozzo di Gotto, tra
Palermo e Messina ossia nell’entroterra della provincia della città del faro. E
non finiscono qui le somiglianze con l’altro celeberrimo banchiere, l’avvocato
Sindona. Anche Giorgio Diodona si trasferì piuttosto giovane a Milano e riuscì
a far fortuna nel mondo delle banche. V’era pur sempre quel Virgillitto che tra
un diadema per la Madonna e qualche brillante per le madonne dei suoi amici
politici determinò il salto di qualità degli affari di Cosa Nostra
d’oltreoceano o dimorante di qua dello stretto. Navigò con gli inglesi. Amò gli
svizzeri. Seppe delle isole Cayman. Non capì gli americani ma facendo grossi
affari con loro credette di coglionarli. Ne fu coglianato. Con i russi, affari
d’oro con la pesca le armi ed il grano americano. Col Vaticano, preghiere
indulgenze opere pie denaro … e sesso per i vogliosi arcivescovi e si disse
anche per qualche cardinale. Con il papa … Dio ne scansi e liberi … si
sghignazzò di un giovanetto molto bello ed aggraziato … tanto femmineo, fu
celebre latin lover del cinema
italiano. Non mi va di proseguire: svilirei i fatti del mio giallo.
Col caso Sindona vi fu un’impressionante sinergia. Furono
due crack alla carta carbone, una sorta di clonazione anzitempo ed extra moenia. Nel mondo dell’alta
finanza può succedere, ogni umana fantasia è impari. Lo disse anche De Martino
a S. Marcuto e lui fu sommo maestro, anche di storia del diritto romano.
Presiedette indagini parlamentari bancarie, pur ignaro di partite doppie,
accrediti, spot, swap, foward, outright, borsa, mercato parallelo, redditività,
patrimonializzazione dei conti d’ordine, conti bilanciati, gergo dei
ragionieri, quello degli agenti di cambio, quello borsistico.
Va ribadito qui con robusto tono che il dottor Aurelio La
Matina Calello nulla ebbe a che fare con il caso Sindona: le sue incombenze, i
suoi accertamenti, le sue allucinazioni, i suoi successi, il suo valore e la
sua morte riguardano l’analogo e quasi coevo caso Diodona. Se qualcuno
continuerà a confondere, io non ne rispondo. Non mi si potrà querelare.
Distinzione .. distinzione, sia chiaro!
Il pasticcio della confusione s’origina forse dal fatto
che, beffardo ed ironico, il dottore Aurelio La Matina Calello, sicuramente per
invidia, si intromise negli sviluppi del crack Sindona prima aizzando Lotta
Continua nel semestre finale del 1979 e poi cooperando – una cooperazione quasi
integrale, tota ed ampla – nella
stesura del pamphlet anonimo “Goodwill”
a firma di un improbabile Colbert.
Detto fra noi, è scritta quasi tutta di suo pugno, di
Aurelio cioè, la parte da pag. 37 a pag. 187. Le pagine di ‘premessa’, e quelle
dell’«antefatto», e poi quelle sugli artefici del sacco immobiliare di Roma
sono rimasticature della truculenta letteratura giornalistica di quei giorni,
un giornalismo ruffiano, pronto a traghettare sulla palude dell’incombente compromesso
storico di Berlinguer. Scritte benissimo quelle pagine spurie – e non originali
– risentono della bravura di un editorialista sommo come Dellacipolla, di un
mistico come ci appare l’eterno ed immacolato parlamentare Beato Minutolo e di
un ignoto – ai più – “alto esponente del mondo bancario”, abile e pungente,
rimasto indisturbato dentro quel mondo, sino ai nostri dì.
Tutti pensano che il caso Sindona narrato in quel libro
abbia travolto come ispettore il nostro Aurelio. Errore. Ma che vi abbia messo
la mano sua beffarda ed ingannatrice è evidente sin dalle (sue) prime pagine.
Leggiamole insieme.
«Racalmuto è il paese
di Sciascia, ma – diversamente da come lo scrittore ama presentarlo – non è
avvolto da nessun velo di onirica malinconia; umidiccio, con case disfatte
intonacate di bianco, esso è disseminato lungo un declivio che si sperde tra
calanchi e fiancate di colli minerari.
«A Michele Sindona
questo squallido scenario apparve, improvvisamente, all’uscita di un’ennesima
curva davanti al muso del suo traballante “dodge”.
«Proveniva da
Patti. Affari arditi spingevano il giovane nell’entroterra agrigentino:
approvvigionarsi di frumento in tempi di proibizionismo granario, compiacente
il governo militare alleato, l’Amgot, per poi rivenderlo, a prezzi lucrosi,
alla stessa Amgot. Era il 1944.
«Se nella vita dei
santi, i segni precorritori si colgono in tenera età, i segni precoci della
valentia affaristica del futuro finanziere si hanno evidenti ed avvincenti fino
dalla prima giovinezza. Giunto a Racalmuto, Sindona aveva un personaggio
preciso da incontrare: Baldassare Tinebra. Costui era sindaco imposto nel 1943
dalle truppe americane, su segnalazione di don Calogero Vizzini.
«Don Calogero
Vizzini, di Villalba, accreditato – fino dal fascismo – come capo carismatico
della mafia, ebbe a ritirarsi a Racalmuto, dopo il 1926. Si associò al Tinebra
nella gestione della miniera di zolfo, la “Gibillini”, al confine con
Montedoro, il luogo natale dell’onorevole Calogero Volpe, altro rispettato
“notabile”. Labbro enfiato e pendulo, sempre seduto al sole con neghittosità e
trascuratezza, don Calogero Vizzini s’industriava ad apparire insignificante –
almeno agli occhi dei racalmutesi.
«In realtà, don
Calò godeva di molta considerazione negli ambienti italo-americani tanto da
essere prescelto come interlocutore privilegiato, i primi giorni del luglio
’43, quando le truppe alleate iniziarono la loro conquista rapida ed indolore
della Sicilia.,
«Dimostrazione
affettuosa fu quella elargita al vecchio socio d’affari, il Tinebra. Il quale,
grassoccio, piccolo e volgaruccio di parola, fu il primo sindaco di Racalmuto,
scacciato il predecessore dell’epoca fascista che medievalmente s’indicava come
“podestà”.
«Baldassare
Tinebra – insediatosi al Comune – un compito lo svolse bene: quello di dare
protezione agli affaristi locali e no, che commerciavano al mercato “nero”
della principale risorsa del paese, il grano. Protezione non del tutto
disinteressata, a dire dei malevoli. Vi fu atto di corruzione da parte del
Sindona nei confronti del neo-sindaco degli “alleati”? Non può più chiedersi ad
alcuno. Sindona è oggi esule negli Stati Uniti [eravamo nel gennaio del 1980, ndr.]. Il Tinebra è finito morto ammazzato, un anno dopo la vicenda
che si narra [o forse pochi mesi,
ndr], in pieno centro, fra la gente. Ne fu incolpato un tipo del paese,
conosciuto con la”’ngiuria” (nomignolo) di “Centeddeci”. Indiziariamente, fu
condannato. Il figlio lavorava presso la miniera “Gibillini” [pare però che
solo vi cercasse lavoro, ndr,] che sappiamo
essere stata di Tinebra e Vizzini. Cercò di far luce sul delitto, convinto
dell’innocenza del padre. Finì in un forno “Gill”, liquefatto tra lo zolfo.
“Disgrazia grande fu” – si disse in paese.»
Non possono negarsi efficacia e sintesi. Aurelio non fu scrittore
ma cercò di esserlo. Or non è molto, è uscito un libretto di un giovane
narratore che riesuma quella vicenda, senza, però, la suggestiva venuta di
Sindona. S’intitola: «Il silenzio dei congiurati». Ho dovuto prefazionarlo. Non
so se mi è piaciuto o no. Ho scritto: «queste sono le cose che ho notato e che
mi sono molto piaciute in quella che è la progettazione del romanzo.» Poiché voler narrare non significa saper
narrare, retoricamente mi sono domandato se il giovane fosse riuscito
nell’intento. Non sapendo che rispondere, me la son cavata da gesuita
smaliziato: «”amicu miu ora tu cuntu un
fatto”». Il fatto è stato narrato. Come? Ho parlato del mio leggere ad alta
voce i “cunti mia e chiddi di l’antri”.
Sfogliando, tra sbadigli reiterati, in crescendo, giungo
a pagina 67: i caratteri si rimpiccioliscono; c’è da faticare ancor di più. Ora
Aurelio ha voglia di cuntari lu cuntu:
ci mette della fantasia, vediamo un po’. Non comincia con il classico e
racalmutese «s’arraccunta e
s’arrapprisenta». No, vuol fare persino lo sceneggiatore: «Interno di un
palazzo umbertino in Roma» Oh! La presunzione dei dilettanti. Smette però
subito: comincia ad essere accattivante.
«vi si aggira una signora di vetusta avvenenza, amante
ormai dismessa del banchiere. Egli è lì, tra fascicoli e bilanci, ieratico e
dai toni ironici ma nel fondo dello sguardo mediterraneamente malinconico.
Trilla il telefono: è Londra. Dagli Hambro viene l’assenso al prestito per
l’acquisto della grande Immobiliare romana, messa in vendita dall’IOR per
timore della cedolare.
V’è, dopo, un moto liberatorio ed il banchiere si concede
un attimo di umana effusione.
Spaccato della vita economica e politica romana.
La corsa in via Nazionale per l’incontro nella sala del
San Sebastianino con il governatore della banca centrale. Penombra
schizofrenica attorno al grand-commis
della finanza nazionale che ascolta la versione del banchiere sull’operazione
dell’Immobiliare con barbagli di raggelante distacco.
Poi d’imperio: “L’estero acquisti dal Vaticano ma con
holding controllate dall’Italia: non voglio stranieri in Roma … in mezzo
all’edilizia della capitale.”
“Ho due banche agenti in Milano che son pure abilitate
alle operazioni con l’estero; potranno svolgere il ruolo da lei indicato nel
flusso dei capitali valutari.”
Ciò è demandato alla fantasia dell’imprenditore privato …
Il nostro indirizzo verte su obiettivi globali e nazionali.”
Sillaba a mo’ di maestoso imporre, il governatore;
annuisce senza umiliazione il banchiere.
L’incontro con il primo ministro – che, gobbo,
sarcastico, è partecipe palese della soddisfazione del banchiere – ha toni
distesi, amichevoli come un socio d’affari, sia pure occulto. Dallo studio del
ministro, la chiamata telefonica oltre Tevere. All’IOR quel grosso prete
americano ascolta, rintuzza … quasi tentenna. Ci si vede alla villa dei
Castelli. Il banchiere si rivolge alla bionda amica per agganciare la valletta
televisiva, la minorenne quasi impubere all’acqua e sapone. Del resto è una
stipendiata delle sue banche proprio per curare le relazioni sociali. Tutti
alla villa per accogliere il grosso prete americano.
All’aeroporto arriva, giovanile ma composto, il delfino
dell’ebraica famiglia di banchieri inglesi.
Nell’occiduo chiarore collinare, tra ulivi e merli dal
mellifluo richiamo, il concitato dialogare tra il prete gigante, il gelido
inglese ed il banchiere del sud. Medie delle quotazioni del titolo, “goodwill”
dell’azienda, redditualità, prezzi, pacchetti azionari di controllo, la holding
Idera, Trinico, Liechtenstein o Nassau: il folklore dell’alta finanza, insomma
e la difficoltà a concludere. Si arriva a tarda sera, infruttuosamente. Il rito
della sontuosa cena a lume di candela. Accanto al prete, tanto scorbutico nelle
trattative, è la valletta in audacissimo décolleté. Ora il prete si ammansisce
e diviene persino galante. La valletta sorride con delizia e adesca l’orco
americano. Nelle grandi terrazze della villa, nella camera riservata di lui,
lei abbozza discorsi sull’esistenza di Dio, sulle sue crisi, sulle sue angosce.
E’ notte!
All’indomani l’orco americano – dopo avere celebrato
messa nella cappella gentilizia – è arrendevole negli affari. Viene ceduto il
quaranta per cento dell’Immobiliare al banchiere del sud o meglio alle sue
finanziarie estere a loro volta sovvenzionate dagli Hambro.
Il nostro banchiere chiede ed ottiene dal monsignore
dell’IOR l’amministrazione dei capitali in dollari conseguiti dalla vendita
dell’immobiliare romana. Unica condizione al perfezionamento dell’investimento
ideato è il consenso all’acquisto di una banca americana che il banchiere sta
trattando da tempo. L’amor patrio del monsignore è quasi solleticato e
l’accordo immediatamente siglato.
Le trattative a New York con padrini di riguardo: alcuni
consulenti del presidente degli Stati Uniti alla cui campagna elettorale l’uomo
del sud aveva contribuito con consistenti elargizioni.
E l’iniziativa ha felice esito.
A Milano, nell’attico a ridotto della Scala, il banchiere
è al culmine del suo successo. Giù, telescriventi intrecciano messaggi in inglese
con banche di mezzo mondo: da New York a Tokio, da Londra a Parigi e a
Francoforte. Pacchetti azionari passano di mano, la borsa impazzisce, gli gnomi
della finanza abbondano. Pavidi speculatori soccombono e le loro piccole
immobiliari vengono fagocitate dal finanziere siculo con strascichi giudiziari
che compiacenti giudici riescono ad archiviare. Lui: quasi triste, ormai
brizzolato, persino mistico.
Fabbriche e palazzi si vendono o si addossano
scompostamente con vorticoso giro di cambiali portate allo sconto nelle sue
banche. Idee anche bizzarre quali l’acquisto di brevetti per la costruzione di
macchine capaci di trasformare miscugli alimentari in gelati! Finanziamenti ai
colonnelli greci e poi a quelli (meglio generali di casa nostra). Fondi alla
Nova Scotia, camuffati da intrecci perdenti di outright, per finanziare il
Mossad. Intanto dalla banca americana prestiti in dollari vengono convogliati
in Italia e da qui all’estero per consentire la fuga dei capitali dei nostri
industrialotti. Abile il banchiere nello sfruttare la loro insipienza. Si fa
pagare da loro dollari del mercato nero a lire 750 e poi glieli acquista sotto
forma di finanziamenti di holding estere a lire 650. Il banchiere si espande:
compra banche in Svizzera, in Germania, in Francia e ne inventa a Nassau o a
Cayman Islands o a Panama City. E’ un impero finanziario con stuoli di brokers
e tecnici dal gergo per iniziati (outighy; spot; swap; forward rate; time
deposits, stand-by …)
All’EUR, nel solito palazzo a vetri, si susseguono i
consigli di amministrazione dell’Immobiliare il cui capitale sociale passa da
30 a 40 a 60 a 100 a 120 a 160 miliardi. Le azioni inondano la borsa, il “parco
buoi” abbocca. V’è sempre il banchiere con le sue finanziarie a partecipazione
estera a far quotare oltre le lire 1000 le azioni inflazionate da lire 240 di
valore nominale.
Dalle sue banche il sostegno finanziario, sempre più
intenso, sempre più ambiguo, sempre più illecito. Dagli istituti previdenziali
depositi alle banche. Di conseguenza, interessi neri o provvigioni ai dirigenti
“politici” degli enti previdenziali. Il banchiere è munifico; l’onda della
corruzione monta, senza argini, ammaliante, impetuosa.
Nel consiglio di amministrazione dell’Immobiliare siedono
i probi presidenti delle banche pubbliche del sud. Vi siedono perché
favoriscono l’aggiotaggio del banchiere. Dalle sue banche partono depositi
fittizi presso le banche pubbliche che li destinano, sotto forma di riporto,
alle finanziarie del banchiere detentrici del capitale azionario di controllo
dell’Immobiliare. Una baraonda simboleggiata dall’atmosfera orgiastica delle
serate distensive nella villa dei Castelli, dopo le riunioni del consiglio di
amministrazione. I pingui e frustrati burocrati – assurti a strateghi della
finanza per voto democristiano – si divertono chiassosamente, scompostamente
con le ragazze approntate dal banchiere. In controluce, lui, dignitoso, parco,
come in religiosa estasi.»
- Oddio! … Oddio!
…. Oddio, ma ecco qui tutto l’arcano, la vita e la morte, gli affari e gli
intrighi, le connivenze ed i rinvii …. Eccetera, eccetera.. si sussurrava
Meluccio Cavalieri di Giorgenti.
Strano, nessun accenno a fatti di mafia. Compiacente il
siciliano e racalmutese Aurelio La Matina Calello. Si sussurrò una volta ma era
panzana. Aurelio odiava la mafia. Nessuno della sua famiglia aveva avuto mai a
che fare con l’onorata società. Ne provava disgusto. La considerava un’accolta
di imbecilli … ed anche sanguinari. Un mafioso artefice di volpini intrecci
affaristici, era idiozia, per Aurelio da sghignazzarci solo sopra. Le vicende
delle banche siciliane di Milano degli anni sessanta, settanta ed ottanta era
un baluginare di accecante intelligenza: altro che un ragliare di mafia.
“Lu sciccareddu” della dirimpettaia “Vecchia Maniera”, ragliando
con la solita simpatica sconcezza, gli rammentò la succulenta e conviviale
“mangiata a la racarmutisa” cui era invitato. Ebbe voglia di chiudere per quel
giorno. Rimise ordine nelle carte del villino di Aurelio a Bovo. Ma ancora una
sorpresa: sulla foderina color senape del carteggio con Melissa Cohen stava
scritto, a matita,:
la donna
del Mossad
in un miscuglio di rosso e di blu che il suo grave
daltonismo non consentiva di miscelare passabilmente.
- E qui un’altra fottuta! Altro che vendetta della mafia
per come si ostinò a pensare sino alla morte la dottoressa Evelina Adelaide
Mangoni Mistretta. Se ci stanno di mezzo i servizi segreti (oddio! quelli
israeliani, no. Sono sanguinari) sono proprio fottuto. Allora? … scendiamo giù
alla Vecchia Maniera. Vediamo se sono riusciti a capirmi, nelle mie ricette
culinarie. In quelle eccello … sono imbattibile.
Capitolo III
Cavatieddi cu sucu di
cuniggliu sirbaggiu, ficatieddi e sanzizza agliannariata ed antri cosi bboni
Scinniennu scinniennu Meluzzo Cavalieri
di Giorgenti – consentiteci qui di pigliar noi la penna in mano, ma per poco:
promesso – passò in rassegna i suoi prossimi commensali: era il gotha
dell’intelligenza paesana. Racalmuto, patria di Sciascia, era da tempo che
mancava di cultura elitaria. I suoi prossimi commensali, colti di certo non lo
erano. Arguti, birbanti, scoppiavano d’intelligenza, ma sterile, caustica,
neghittosa, stracolma d’accidia.
Avrebbe
troneggiato il sindaco Pitruottu, ma l’onorevole Lasagne, ripiccatissimo, avrebbe
tentato di disarcionarlo. Non vi sarebbe riuscito: il Pitruotto, beccato alle
ultime elezioni, era più abile: qualche libro almeno in gioventù l’aveva letto.
L’onorevole Lasagne, no. Aveva inventato i caffè letterari, finanziati
dall’industriale Illy che pur doveva essergli avversario politico, ma ignavo
nel leggere si faceva sunteggiare il fatterello del letterario parto dal
proprio figliolo. Introduceva quella variante nel suo dire ormai stereotipato; una qualche bella figura,
invero, riusciva a farla. La voce
sensuale ed il petto latteo in generosa mostra della subrettina avevano già
ammansito il rado pubblico maschile, ancora assatanato di sguardi coitali.
Poi Popò,
evanescente in tutto, e l’aragonese tutto preso di sé e decisamente diafano.
Anche l’arciprete, materialone e loquace. Immancabile il “riddilio di la
chiazza”, un ex minatore mai stato in miniera ma con pensione di invalidità
cospicua e irridentemente ostensa. Ed anche “lu cammaratisi” sempre pronto a
vantare l’inesauribilità del suo attributo, a suo dire debordante ogni umano
confine. Era il cuciniere e qui davvero ci sapeva fare. Poi i suoi amici
cacciatori: tutti, da Giacumino Bedduocchiu a Gnaziu Aviluortu a Chardonnay , a
Miserere ed altri. Un bel po’ di gente insomma. Lu Parrinieddu, no: era ‘arrusu ed a Meluzzo, bando a tutta la
sua intelletualitudine, gli invertiti
maschi (per le lesbiche faceva eccezione) risultavano indigesti … specie a
tavola.
A tavola,
invero, “li ‘arrusii” si potevano dire, era però preferibile “la futtuta cu li
fimmini”. Meluzzo – che le parrocchie di Regalpetra le sapeva a memoria –
rimuginava:
«Le mani si muovono a plasmare nell’aria
grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere. Non è più
uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le confidenze del
giudice di corte d’appello in pensione, il vecchio dottor Presti racconta a un
amico di suo figlio di quando nudo scappò sui tetti, e un marito gli scaricava
dietro due colpi. …»
I suoi
commensali si professano grandi amatori …. Meluzzo sa che non è vero … solo
qualche attricetta dopo il variété. (Ora, però, si sussurra di un prete
tenutario e di un napoletano prosseneta e sedicente regista che spingerebbero
giovanissime al sesso compiacente per un miraggio artistico …. malelingue! …
male lingue!). Fa eccezione, di sicuro, l’onorevole Lasagne. Bell’uomo, suadente,
non ha difficoltà a portarsi a letto giovani donne, moglie ribelli e pare
qualche amica delle figlie. A Montecitorio, a palazzo Marini per la verità, ha
trangugiato le grazie di tante procasissime commesse. Chi le pagava è rimasto
però subito deluso per l’inconsistenza delle rivelazioni che l’onorevole era
subdolamente spinto a confidare e le conquiste romane subito scemarono per il
Lasagne.
Con la sua
vecchia 131 Fiat giunse sulla radura della Vecchia Maniera. L’asinello, di
taglia piccola ma non sardignola, riprese a ragliare. Meluzzo vi voltò a
guardarlo. Sotto sciabolava sull’addome. Era spettacolo sconcio eppure non
seppe girare lo sguardo. Un lungo fiotto bianchiccio fu al culmine della foia
solitaria. «Che anche lui soffra di complesso di castrazione?» si disse con
celia Meluzzo, in fondo per reprimere il senso di vergogna di cui si
vergognava.
Erano tempi in
cui leggeva di psicanalisi specie per approfondire la sessualità femminile,
della cui conoscenza si sentiva a
digiuno e che voleva sondare per non essere superficiale nel parlare di donne
nei suoi romanzi.
Si era
sciroppati i testi di Janine Chasseguet-Smirgel, di Janine Lamp-de-Groot, di
Helene Deutsch, di Ruth McBrunswich, di Marie Bonaparte, di Melanie Klein, di
Ernest Jones etc. Nomi prestigiosi, letture noiose. “Complesso di edipo” nelle
donne, “monismo sessuale”, “invidia del pene”, “pene castrato”, “preedipico”,
“fase fallica”, “femminilità assimilata alla passività, mascolinità
all’attività”, “bambino anale”, “anfimixi delle componenti anali e uretrali”,
“mater dolorosa”, e via di questo passo. Per Meluzzo aveva senso solo
l’aforisma: «l’orgasmo è maschile. La donna femminile non ha un acme orgiastico.
La vagina è l’organo della riproduzione, il clitoride l’organo del piacere. »
Fin lì, la sua
esperienza – ed era stata tanta – non confliggeva. Per il resto? O non aveva
capito niente delle donne o era mistificazione. Forse la donna sino a metà del
secolo scorso aveva tutte quelle turbe sessuali. Ma ora, era il contrario.
Erano i maschietti a ritrarsi nel loro sesso, castrati di vagina. Bah! Meglio
le prossime sortite oscene con i suoi simpatici commensali …- senza problemi
erotici … almeno a tavola, alla “vecchia maniera”.
Il genio
mittel-europeo aveva lanciato una sfida al mondo della cultura: Marx e Freud,
in contesa, pensarono a strutture di base con sovraccarico di complicazioni
esistenziali. Il momento economico per Marx, primigenio rispetto a tutte le
sovrastrutture pensabili, l’eros per Freud e da lì il travagliato vivere
moderno (dell’uomo e della donna, afflitti in diverso modo a seconda della
diversa età): chi dei due ha ragione? Meglio, più ragione. Meluzzo, un tempo,
avrebbe detto Marx: ora è in bilico. Ma Freud – certo non terapeuta, ma
filosofo sì - la spunta sempre più su Marx se si investiga in tante latebre del cuore umano o se si ha
voglia di capire il moderno riconformarsi degli assetti sociali. La spenta
voglia procreativa – ed in contrasto, le irrefrenabili pulsioni (sadico anali,
vaginali, castranti tanto per esemplificare) – devia e deforma
irriconoscibilmente l’umano genere del 2000, tanto più alto, tanto più erculeo,
tanto più mirabile: si rende così flebile il “dacci oggi il nostro pane
quotidiano”, motivo di preghiera per Cristo e demoniaca forza conflittuale fra
le classi per Marx.
Marx morto e
sepolto, dunque? Manco per niente. Va riletto, riconsiderato, aggiornato.
Occorre “Marx oltre Marx”. E fino a quando la sinistra – cessata l’onda idiota,
riassunti i valori della critica – non s’induce in Italia a sdoganare Tony
Negri, a rispolverare i suoi appunti, a vivificarli e ad aggredire gli
idiomatismi telematici di una rincitrullita cultura avversa, blaterata da
nicodemi, notturni amici di un rinnegato cristo socialista, il destino
di partiti non più di massa e neppure di idee è miseramente segnato.
Si diceva di
Meluzzo che quando passava agli argomenti politici diveniva dannunziano, vago,
passionale, enunciatore astratto di incomprensibili principi, vacuo di fatti,
contumelioso. Si rifaceva con i suoi “gialli”, fattuali e leggeri, spesso
gassose ghiacciate, gradevolissime nelle arsure delle estati siciliane.
Sesso e
consorzio umano, economia e società quali interconnessioni? C’era circolazione
sanguigna, magari extra-corporea? Marx e Freud andavano rifusi, interconnessi,
sussunti in amalgama. Dov’era però il genio? Dove il partito? La novella chiesa
del 2000? Non c’era, non c’erano, diamine!
* * *
Al simposio
andava come convitato d’eccellenza e, soprattutto, quale sommo sacerdote di un
rito pagano; andava a dare sacralità laica ad una crapula di cibi fatti
risorgere dagli smarriti usi del vivere contadino di Racalmuto.
Idea maiuscola,
partorita dal genio liso ma non consunto dei racalmutesi, quelli che si stavano
ora adunando per l’intellettualissima abbuffata alla “Vecchia maniera”. Il
primo germe l’aveva avuto Aurelio, purtroppo assente per misteriosa ammazzatina. Ricercatore di antiche cose locali, s’imbattè
in un rollo della Matrice. L’arciprete dell’epoca era con lui benevolo e
compiacente: quello attuale faceva il mistico in chiesa, il materialone con
qualche beghina ancora elastica in basso, ed il ciarlatano sui pulpiti e nei
banchetti, specie se prodighi di libagioni. Quanto a cultura e quanto a
sensibilità per la storia religiosa degli antichi padri, il nulla. “Rolli”,
registri, pergamene, sediole, “altaretti”, baldacchini, “sedie gestatorie”, ed
anche piviali e cingoli, amitti e patene, calici ed ostensori, mozzette e
balaustre lignee, come gli smantellati stalli del coro settecentesco per i
mansionari voluti dall’arciprete Lo Brutto, resero molto in euro e figurano mal
registrate nelle denunce di furto presso la caserma dei carabinieri a S.
Grigoli.
Aurelio era
riuscito a decifrare il primo volume della «FRABRICA DELLA MATRICE CHIESA DI
RACALMUTO», ovverosia: «LIBRO
D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della frabrica della Matrice Chiesa di
Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra» per mano di
D. Lucio Sferrazza» e nel dettaglio Introito di denari per conto della frabrica
della Matrice Chiesa di Racalmuto pervenuti in potere del dr. D. Salvatore
Petrozzella Depositario di detta frabrica conforme alle constituzioni di Mons.
Ill.mo R.mo frà Ferdinando Sancèz de Cuellar vescovo di Giorgenti - Date in
Racalmuto in
discorso di visita a 28 novembre 8a Ind. 1654».
Il bel volume,
rogato con grafia davvero bella, finì nel sottoscala della Galleria Colonna,
fra i libri vecchi poco richiesti.
Un’inchiesta vi fu; per pronta giustificazione si concluse che il
manoscritto si era smarrito quando l’intera raccolta della matrice era stata
traslata ad Agrigento per il restauro dei BB.CC.AA.
L’Aurelio aveva
però trascritto con il vecchio excel l’intero volume (altri). Il passo che qui ci
incuriosisce recita: «per havere fatto venire dui burduna da Garamoli
tt. 20. e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna
dentro la fiumana» Era il mese
di dicembre 1658.
Com’era la salsiccia racalmutese del 1658? Ancora
migliore di quella che si gustava dopo la guerra del 1940. Poi erano venuti i
porci del nord, e poi quelli esteri dalla Jugoslavia e poi quelli con il
venefico mangime e poi quelli clonati … il gusto disperso, smarrito. Ne parlò
Aurelio con Giovanni Salvo: dentista per vivere, animalista e botanico sommo
(come dilettante, s’intende). Bisognava riprodurre gli antichi maiali nel
sottobosco degli Agliannari al
Castelluccio. Ignari gli Avareddi
vendettero a giusto prezzo. Anni per il ripopolamento dei lecci e dei verri. Il
tentativo riuscì. Aurelio non gustò quella salsiccia: il veleno fu più
sollecito. La degustazione sarebbe avvenuta adesso, al simposio.
Vini antichi – si sperava simili a quelli che
nelle olle venivano da Racalmuto inviate a Roma per le decumane delle verrine
memorie – si produssero con vitigni che l’accorto padre di Cicciu Marchisi
seppe ricordare: biancugiovanni, ‘nzolia, lacrima di madonna, ed anche zibbibbo
e malvasia. Nucciu Principi - occhialuto latinista e giudice in pensione –
citava Marziale:
- mescesi
… il Massico vino al miele ibleo.
Il miele decantato era invero attico. Ma Nucciu
Principi seguiva la versione di Alberto Gabrieli. Altrove del resto non si
parlava di favi siciliani? «Quando regalerai miel di Sicilia/ stillato sugli
Iblèi, di’ pur che viene/ dalla cecropia Atene». Ne era nata vasta ed
inestinguibile disputa. Tre mirabili parti: un vino che Chandonnay seppe vacare
(ed un po’ manipolare) dalle prime acerbe uve dei vitigni messi su da Cicciu
Marchisi sul pendio dei Romano a Piedi di Zichi dopo l’esproprio per il
pericolo di valanghe da nubifragi.
Non si volle mischiare il vino col miele: era
come profanarlo, violentarlo. Stavolta il mondo romano era da considerare
balzano, non raffinato nel trattare il liquore di Bacco. Miele speciale però si
ottenne con arnie a “li balati” stracolmi di “satareddi” (“thimus capitatus”,
non senza sussiego precisava il dentista-botanico). E con mandorle “muddisi” –
qualità locale – si era fatta una “cubaita” (come quella insegnata a Federico
II dagli arabi) che bene si coniugava con un vinello che Chandonnay aveva
ricavato dal biancogiovanni, ‘nzolia, zibibbo e taluni altri vitigni che si
teneva per sé, «pi nun farisi arrubbari la rizetta».
Tardi si accodò Benny Alaimo Alosa: appena
laureato alla facoltà di agraria di Palermo, ove era pupillo dell’entomologo di
fama mondiale, il racalmutese Giuggiu Liotta. Venne con una sua idea: coniugare
“saperi e sapori” del paese. Peccato che s’intignò nel dare fattualità al
titolo di un epigramma di Marziale sugli “oli odorosi”. Fingendo di confondere
i profumi oleosi dell’epoca con oli odorosi di rosmarino, menta e citrosella,
cercò di sperimentarli ed anche produrli: fu disastro economico: l’olio sapeva
di afrore erbaceo, il selvatico delle piante si caramellava e dava
appiccicaticcio sapore. Ancora un’insistenza e l’avrebbero espulso dalla
combriccola. Si preferiva ed si usava l’olio tratto con macine antiche dalle
olive portate da Di Marco, eccellente produttore e convinto assertore che i
suoi uliveti sulle pendici settentrionali di Villa Petrone andavano
salvaguardati solo con la carta moschicida, appesa agli alberi a tempo debito.
Solo lui conosceva modalità e sistemi: un altro fanatico con la mania
dell’omertà bucolica.
Pitruottu, ricco di esperienze ereditarie, seppe
risuscitare tipi di verdure introdotte dagli arabi. Pregevolissima, la
“bastunaca” di cui si era perso persino il ricordo. Giacuminu Beddocchiu e
compagni venatori rintracciarono – almeno così dicevano – il coniglio autoctono
a li “Pantaneddi”: nella voragine
prodotta dall’insipiente sfruttamento del salgemma poté annidarsi una coppia di
leporidi nostrani, farla franca dagli accoppiamenti dei blenorrogici animaletti
che incauti cacciatori avevano senza difese sanitarie introdotto dalla
Jugoslavia ed avevano figliato a iosa, sani e gustosissimi. Questo dicevano
Giacuminu e compagni e stavolta non erano contraddetti dal solito Miserere. Il
cronista riferisce e non commenta.
E qui mi fermo, altrimenti continuerei per tomi
interi.
Giunsi con qualche ritardo, per quel dannato caso
della morte del dottore Aurelio La Matina Calello: non ne feci cenno,
altrimenti il pranzo andava a male, ché il morbo della curiosità, intrisa di
malignità e sospetto e dispetto, chissà dove ci avrebbe portato. Trovai
l’arciprete sorridente, ma nell’intimo contrariato. Non pensava più alla gola
come uno dei peccati capitali: i ghiotti spettacoli erano tentazione
irresistibile. Non tanto però da non costringere la frotta dei commensali,
farli tutti segnare, recitare il pater,
invocare la benedizione celeste sul cibo che poco parco certo non era, e quindi
«gloria patri et filio et spiritu sancto»
(il latino approssimativo era il massimo che l’arciprete potesse concedersi
dopo l’imbarbarimento della riforma ecclesiastica di Paolo VI». «Et in secula
seculorum» non potei fare a meno di celiare.
Esordimmo con antipasti ‘poveri’. Tutte le
verdurelle commestibili delle contrade racalmutesi trovarono sapiente
miscuglio, saltate in padella con aglio di Castrofilippo ed olio di Alaimo
Alosa (abbiamo dovuto fare qui uno strappo ed accettare gli intrugli di Benny …
e per quell’uso condimentale il rosmarino frammisto a succo di olive smunte
dalle presse in basalto di Cefalù non era poi spregevole). Le focaccette (memoria
di li cudduruna di gnura Annidda) erano fatte con la “tumminia”. Cipolle
e lattughe degli orti di Pitruotto e spizzichi di tumazzu che Sintini ci aveva dispensato, una volta tanto
senz’astio. Sintini, a vederlo, metteva paura: barba incolta da sempre, incedere
caprigno, capelli irsuti, tarchiato ma non corto, bacino ardimentoso … ed occhi
spaventosamente belli e neri… lupigni. Giacuminu Beddocchio lo chiamava «l’uomo
selvatico», ed era l’unica volta che si concedeva letterari toscanismi. Aurelio
aveva scritto che quelli (i Sintini e gli altri crapara del paese) erano i racalmutesi prischi, d’intatto DNA.
Erano i residui dei sicani, spintisi fra le montagne con gli armenti, per non
subire sudditanze e sfruttamento che il nuovo barbaro popolo dei geloi stava imponendo nelle lande sotto
il Castelluccio già verso la fine del VI secolo a. C.
Il primo piatto impregnò la tavola dell’odore del
sugo del coniglio selvatico. Spettò a Nucciu Principi preparare “li cavatieddi”
come usava una volta, per devozione all’antico mestiere di pastaro della sua
famiglia. E dopo, lo stesso coniglio a sugo e – prelibatezza delle prelibatezze
– i fegatelli di porco indigeno e le salsicce del maiale allevato tra gli agliannari del Castelluccio ed altre
specialità del luogo (non essendo però questo l’Artusi, le ometto tutte quante.
Il mio apporto è consistito nel dosare sapori, odori, tempi di cottura, scelta
della legna per ogni tipo di pietanza; insomma il tocco dell’intellettuale con
vocazioni culinarie).
Sublime la granita di Parisi a mezzo del pranzo,
per spezzare l’aggravio intestinale. L’abbuffata finale di dolci, amaretti,
alle mandorle, alla ricotta, con liquori, con miele di sataredda, eccellenti i
taralli che non erano di Piuzzu ma ormai la Taibbi li sapeva fare meglio, e deliziosi
gli amaretti di Capitano. Compiacenti robuste libagioni, ora rideva a squarciagola Bisteccone: pur
sempre meno rosso, a tavola era eccellente commensale. Provammo l’antico
rosolio: ma non riuscì. Si imitarono i “marsala” e si superò il porto ed anche le celsitudini
dei Whitaker . Finì ubriaco persino l’arciprete e così ci risparmiò il Deo gratias.
* * *
Appisolato ma con inframmittenze lunghe,
sostenuto, diciamo che ero immerso in una bolsina per affaticamento delle
frattaglie che si annidavano nel mio ventre: sbracato in una poltrona-letto,
quelle da spiaggia per intendersi, venivo piano piano acciuffato da mal di
testa (non dico emicrania per odio alle donne). L’esofago, il fegato e quegli
altri arnesi della digestione chiedevano vendetta per il sovraccarico di
lavoro, ed in cuor mio maledicevo Chandonnay cui davo debito di insolenze
chimiche nel maneggiare i valenti ma scabri vini racalmutesi: non era enologo,
era dilettante ed esagerava.
Mi apostrofò nel peggiore momento di quel giorno
Cicciu Vitacchia, figlio del nostro cuoco
«lu cammaratisi». Lo conosceva, ma in confidenza ero solo con il padre. Il
figlio ebbe certezze di eredità necessitata.
- Sapissi, chiddu chi sacciu io sull’ammazzatina
del dottore Agrelio Matina e la commissaria, nun lu sapi nuddu.
- Beato te, mi venne di rintuzzare, indispettito e
scocciato.
- Fu la giudea, fu la giudea.
- Ma quale
giudea?
- Chidda ca vinni di Sraeli.
- Perché è venuta una da Israele?
- Sissì e ddu voti.
- Andiamo con ordine, fui pedante ad arte.
- Chidda vinni orallannu. Cu nn’amicu. Ma li
masculi nun ci piacivano. Fici fotografie na jurnata di ‘nviernu. Duoppu si nni
partì. E mi mannà chisti fotografie.
Mi porse un plico con foto veramente abili.
Scattate da un professionista di grande valore. Vitacchia era confusionario, io
era avvinazzato. Optai per un rinvio.
- Senti, vieni domani su nella “roba” del dottor La
Matina a Bovo. Sai dov’è.
- E dda ssusu, dda ‘mpacci.
- Bravo. A domani dunque.
Non v’era ombra di dubbio, la sicula e
racalmutese fantasia, la voglia di darsi importanza, la lusinga di venire
considerato da me (chi si contenta, gode) spingevano il Vitacchia a quegli
sproloqui là. Quella che indicava come esecutrice di un duplice omicidio (ma la
commissaria era morta per un incidente stradale) era una brava e caruccia
giornalista d’Irsraele. Sì, la conoscete già:
Melissa Cohen (sopra descritta, direbbero i burocrati). Sospettare di
lei era peccato sommo. Giudizio temerario da buscarsi sette inferni in una sola
volta. Vitacchia, paura dell’inferno non ne aveva, però. Sua nonna era stata la
celebre Carmena l’acqualora. Donna bellissima, maliarda nella vita, soave nel
canto. Tutta la mascolinità racalmutese – se capace di andare a puttane –
l’aveva posseduta. A pagamento. Il marito sussiegoso chiedeva «Picciuò, v’addivirtistivu?».
Il prezzo del meretricio doveva essere “scuttatu”. Carmena appagava, valeva, le
cinque lire erano “scuttati”. Poi, mai in disuso ma rarefatte le richieste,
ebbe mistici trasporti, religiosità quasi bigotta. Come cantava lei “Maria
passa” il venerdì santo, nessuno, neppure Mulè. Ora erano le picciutteddi che
sfacciatissime amoreggiavano nelle macchine, quasi alla vista degli occhi.
Carmena guatava, scuoteva la testa, aspettava il passante e segnando a dito
catoneggiava: «E po’ dicunu ca la buttana sugnu iu!»
* * *
Mi alzai davvero
infastidito: Viatazza mi dava ai nervi. La sua saccenteria mi irritava; con
presunzione somma (vizio racalmutese, si sa) mi veniva a spiattellare una
soluzione semplice, semplice di un mistero tenebroso, intricato ed intrigante.
Una valente poliziotta vi aveva speso tante energie e non è che non fosse
arrivata ad una soluzione; vi era arrivata ma portava lontanissimo dalla
bislacca supponenza di Vitacchia. Era un filone mafioso che vi si snodava. E
prove, ed indizi, e riscontri là in effetti conducevano, indefettibilmente. La
morte della poliziotta dava esca a qualche sospetto, ma il buon senso portava a
concludere che si era trattato di un momento di panico di un frettoloso
camionista, che catapultando nel vuoto una fragile peugeot 305 con la sua
motrice si era precipitosamente eclissato. Cose d’ordinaria amministrazione.
Non si era trovata la motrice; qualcuno diceva che non era targata; Giuggiu
Marino sproloquiava. Note di colore paesano. Il mio notorio buon senso mi dice
di smetterla con questo tornare e ritornare sul recaltritrante dialetto
siciliano del Vitacchia: cacciamolo via, cacciamolo via.
Frattanto guardo
le fotografie di Melissa Cohen (o del suo fotografo di Tel Aviv). La tetraggine
a Racalmuto in un mattino d’inverno stagna in desolazioni immote. Legni secchi,
in filari scheletrici e giù il bianchiccio di nebbia rada solcata da una
stradetta serpentina che si diparte da fiancheggianti eucalipti: il simbolismo
della prima foto isrealitica mi coglie cupo nel mio dispetto. Il casello
ferroviario lo riconosco: la “T” resistente tra lo sbriciolarsi dell’intonaco,
il casotto memore dell’antico mettersi al riparo delle intemperie per scorgere
meglio il treno in arrivo, inceneriti dal gelo gli arbusti ai fianchi della
strada ferrata, file di finestre senza imposte sopra e sotto e due una
sull’altra nella fiancata breve. Il casello ha storia, storia fascista, non
credo che i superflui dell’Olocausto la sapessero nel fotografare quel triste
casello. Vi abitava negli anni trenta una famiglia di casellanti non indigeni,
solitari, prolifici, in eccesso di promiscuità. Una giovane figlia, appena
ventenne, passò al servizio del podestà. Il padre gridò allo scandalo. Il
podestà ne avrebbe senza indugio approfittato. Processo. Manovrava il capo
della milizia volontaria, avvocato e fratello del primo fascista locale e
fondatore unitamente con don Calogero Vizzini del partito di Mussolini. Il
podestà aveva fama di incorruttibile: l’avvocato e la sua famiglia vantavano un
padre medico e benefattore ma non eccelsero in spirito filantropico. Tra il
podestà e l’avvocato la ruggine era palese; l’avvocato colse il destro per
disarcionare l’avversario con un infamante processo. Ebbe a protestare
l’imputato la sua idoneità a sverginare la figlia del casellante, peraltro di
quasi ventun’anni; portò certificati medici di impotenza congenita, ma il
montante moralismo fascista impedì l’assoluzione. Quando vecchio ed ormai sotto
il regime democristiano l’ex podestà degnò delle sue confidenze un giovane
procuratore legale, continuava a ripetergli che la giovane non era vergine, era
stato il padre casellante a consumare la violenza. A sua volta il confidente
ebbe vecchiaia isterica: forniva la piccante versione ma la negava rissosamente
se dopo giorni gli chiedevi conferma. Il fascismo non era stato solo violenza
all’esterno, anche nel suo intimo fu violento. Un podestà onesto soccombette ad
un avvocaticchio immorale, usuraio e maldicente. Il casello come simbolo mi
affascina: «poiché il paese è pieno di
adulteri, / a causa della maledizione tutto il paese è in lutto, / si sono
inariditi i pascoli della steppa. Il loro fine è il male / e la loro forza è
l’ingiusizia.» La geremiade mi va di ripetermela in latino, altro suono,
altra atmosfera: «quia adulteris repleta
est terra. Arefacta sunt arva deserti: factus est cursus
eorum malus , et fortitudo eorum dissimilis.» (Ieremias 23, 10).
Altra foto:
tetti diruti; miserie velate. Altra foto: imprigionato il vecchio carcere con
il geometrico campanile del convento francescano che il de Carretto volle nel
1540 e che padre Cipolla non poté finire nel 1930, imperante il fascismo. La
scalinata del Monte sa ora acquisire satanica minaccia per l’addossarsi del
trasandato palazzetto: tetri a commento i lampioncini di vecchia memoria. Ora è
la volta di Vitacchia (assieme al comico Serpia, inanellato basco cappotto e
occhio ceruleo e vivo); in fondo, la matrice tra nebbiolina come nell’esordio
del Giorno della Civetta di
Sciascia. Ed ora il comico a solo, mentre
si appoggia all’ombrello, come se fosse un nobilotto inglese, lui il cui DNA si
sperde tra accoppiamenti spurii ed illegali. Infine, la matrice transennata, le
violentate case di Piazza Castello appena visibili nel grigiore della nebbia e
Vitacchia che vuole l’immagine a solo: manca però di fotogenia.
Ed eccolo che
arriva, chiassoso ed indisponente. Dimenticavo: mi sono trasferito nella
villetta del dottore La Matina messami gentilmente a disposizione dalla
famiglia del defunto. Tutto si può dire dei racalmutesi, ma ospitali lo sono e
se ospitano, statene certi, sono disinteressati. Non esagerate nel
ringraziarli; però non fategli capire che pensiate ad una qualche loro capziosa
gentilezza: diventerebbero subito bruschi ed ostili.
* * *
-
Allura, aieri cci diciva ca orallannu …
-
Sì.sì, me lo ricordo: l’anno scorso è giunta qui una
israeliana … che ha fatto fare le
fotografie da un suo connazionale, ecco, queste fotografie … ed era una brutta
giornata invernale …
-
Ma sapi comu si chiamava?…
-
Lo so - in effetti
avevo consultato le carte della poliziotta.
-
Melissa, chi bieddu nnomi…
Ma qui debbo
dare un taglio allo stretto racalmutese del parlare di Vitacchia. Mi prendo la
libertà di tradurlo, possibilmente alla lettera, con qualche concessione al
“volgare eloquio”.
-
Melissa era …
bedda bedda no … ma a mia mi piaciva assà. Nivuredda, i capelli ricci e neri …
senza minni, insomma picciliddi … ma aviva un culu … un culu pisellante?
-
Pise… che?
-
Inzumma, duttu, faciva arrizzari. Addunca, chidda
arriva col suo giovanotto. Piccolo, occhialuto, a me sembrò tanticchedda
‘rricchiuni’ – (oh l’influenza del cinema romanesco, mi venne di pensare).
-
Perché, ti adocchiò?
-
Veramente no, si vede che capì subito ca a mia mi piaci
sulu la cucchia!
-
Tu sei sboccato, Vitacchia. Con me parla .. latino – e
pensavo al termine come Sciascia lo cerebralizza.
-
Arriva la sera, li porto nel «trilocale con tre camere
da letto e bagno a L. 20.000 a persona per notte» come dice Inforacalmuto, il sito del paese albergo
insomma. Mi aveva istruito Rosalia Sinibalda con cui questi di Tel Aviv erano
in contatto. Non conosce il sito dottò?
Insomma li portai nella vecchia casetta di Mariano Zuccalà a S.
Francesco. Che si presenta bene e per essere casa d’affitto, è comoda. Non
c’era riscaldamento, ma le stufe c’erano, elettriche, una per ogni stanza. Si
stava bene. Io Rosalia Sinibalda non l’amavo tanto prima, s’immaginassi duoppu
chiddu ca vitti. Ma ogni cosa a suo tempo.
-
Già, ogni cosa a suo tempo: non divagare Vità.
-
Sissi, duttù. Li
lasciai a dormire. L’indomani andai a prenderli e fecero quelle fotografie che
le ho fatto vedere. Al casello ci andammo con la mia macchina: Scaccia è
luntanu, sapi. E poi era una brutta giornata, friddusa, cu la neglia ca nun si
nni vuliva jiri. Serpia subito si ungì cu nantri. Sapi, chiddu unni vidi ‘scuru
e fudda’ … e non faceva parlare a nessuno .. nun ci faciva arrivari a nuddu,
‘nsumma. Ripeteva sempre la solita storia: che aveva recitato, che era un
grande comico, che i battimani erano tutti per lui. Melissa rideva, il compagno
non comprendeva. Io mi annoiavo.
In preda a noia
galoppante veramente ero io. Non lo seguivo più. Solo a questo punto ebbi un
sussulto.
-
A mmia mi piaciva. Accussì cercai di forzare i tempi.
Ritornai la sera, era a dire la verità notte. Si era dimenticata di mettere il
lucchetto del portoncino. Era aperto, entrai, salii, e restai di stucco. Era
nuda, abbracciata con Rosalia pure essa nuda .. e si amavano … come un
maschiaccio con una femmina di strada … che schifo!. Non si erano accorte di me
… continuarono. All’improvviso un urlo di Rosalia: mi aveva visto. Scappò nuda
e si nascose nel bagno. Melissa rimase impassibile, anzi mi sorrise, ma più che
un sorriso era un ghigno beffardo. «Non te lo avevo detto che non c’è trippa
per gatti» «Nenti rugnuna pi li gatti masculazzi». Non disse propriu accussì,
ma chiddu era il senso.»
Mi indignai e lo
bloccai. Gli offrivo, liberatorio, uno scifu di caffè e latte, più caffè che
latte, però. Gli detti savoiardi, un sacchetto cellofanato di quelli che vende
Campanella. Io il mio soavissimo caffè, fatto con la napoletana, come mi aveva
insegnato Gennariello al Caffè della Galleria di Napoli, me l’ero già
dispensato con il solito rito mattutino. L’istinto pettegolo regredì, quello
famelico imperversò. Vitacchia si precitò sulla tazza, ingoiava savoiardi
interi, a metà intingendoli nella brodaglia bianconera, a metà divorandoli in
un solo boccone. Spruzzava saliva e briciole intrise di caffellatte, in
bestiale ingordigia. E questi si permetteva di censurare amori sublimi di mirabili donne. Puah!
Mi ritirai
nell’altra stanza, quella che fungeva da studio. Anche per Aurelio. Vitacchia
mi aveva ridestato un ricordo soavissimo. Nella mia vita di sceneggiatore ne
avevo viste di cotte e di crude in materia di sesso. Amanti indomabili, bagasce
oscene, pederasti, invertiti, trans,
e naturalmente lesbiche, quelle attive e quelle passive, omoerotiche e
bisex. Una deliziosa fanciulla,
candida, cerbiatto immacolato, armonica nel corpo, dall’occhio terso,
incantevole mi aveva amato ed io l’avevo amata, ma nel più puro dei modi, senza
sensi, con trepido moto dell’animo, dell’anima sua, del cuore mio: ed
intelletto e sentimento e gioia nel rivedersi ed incanto nel sentirsi ed arcano
mirarsi negli occhi e silente trasporto si fusero o tessero l’ordito di una
relazione ineffabile, durata pochi mesi purtroppo. Ella era lesbica, aveva una
carissima amica (né bella né tenera come lei). Mi amò castamente, l’amai
teneramente. Ed ora veniva quel laido di Vitacchia ad imbrattarmi tutto. L’avrei
scaraventato da una finestra, ma da una finestra altissima, sita all’ultimo
piano di un grattacielo newyorchese.
In bell’evidenza
stava nella libreria di Aurelio un testo
commentato delle poesie di Saffo (sì, Aurelio era colto, sapeva anche di greco
antico e se lo centellinava anche a tarda età. Non per nulla era stato in
seminario. Ditegli tutto quello che volete ai preti, ma gli studi classici te
li sanno imporre).
-
… passi leggiadri
ti guidavano veloci al di sopra della nera terra con fitto battito d’ali giù
dal cielo per gli spazi dell’etere …
-
mi piace questa traduzione di
Franco Ferrari. E la donna amata dalla donna? «Infatti anche se fugge, presto verrà dietro, / e se non accetta doni,
anzi ne offrirà, / e se non ama, ella presto amerà / anche contro il suo volere».
Ma io sono greco, sono agrigentino da immemorabili generazioni. Come li avrei
letto quei versi? Sentiamo – e ad alta voce declamai:
-
kai gar feughei takheos dioksei, / ai de dora de me deket’alla dosei /
ai de me filei, takheos filesi / koiik etheloisa.
-
Decisamente improbabile. Oh grande
lingua antica dei nostri primi padri, come ti abbiamo smarrita! Come? Quando?
Ancora ai tempi di Verre le donnette pie e fanatiche in greco malmenarono gli
scherani del vorace esattore, quando di notte si tentò il furto dell’Ercole
bronzeo (ex aere simulacrum .. Herculis». In greco – è certo – gli agragantini
cercarono di scherzarci su «in hac re aiebant in lobores Herculis non minus
hunc immanissimum Verrem quam illum aprum Erymanthium referri opertere»
(dicevano - e la loro lingua veicolare era il greco - che nel novero delle
fatiche d’Ercole occorreva includere questo spietato porco d’un Verre non meno
del famoso cinghiale d’Erimanno.» Greco ancora si parlò per tutto l’impero
romano e greco, dopo, sotto i bizantini. Greco il vescovo Gregorio del III
secolo (non certo l’innografo che quella è baggianata di eruditi ma non colti
canonici agrigentini). In lettere greche la dedica ad Hermes e ad Eracle nel
chiostro di S. Nicola. Gli arabi furono
di passaggio. I berberi erano bravi ma incolti contadini per sopprimere una
grande lingua. Poi Gerlando un bretone pio ma predace. Iniziò il seppellimento
del greco. Ma i testi dell’archivio capitolare di Agrigento dimostrano che non
fu facile. Sopravvive il greco per due o tre secoli ancora. Il buon Aurelio così scriveva: «Per esser
normanno, venne descritto dalla pur
tardiva storiografia secondo il consunto stereotipo di uomo di
nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro. Il
personaggio non è inventato e questo è
già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come può arguirsi
dal Libellus custodito
nell’Archivio Capitolare ove si parla
dell'anima benedetta del beato Gerlando
che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel
Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino». Quello che,
invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di ebrei
e musulmani. Nell'agrigentino si parlava un dialetto locale, veicolare che
aveva poco di arabo. Forse residuava un uso del greco nei ceppi più tenaci. Questo vescovo borgognone, che chissà quale
lingua parlasse, dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi e
questi, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui,
incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi
furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
-
Occorre tornare al greco, recitare
in recinti sacri a Dioniso (a Racalmuto, lassù al Castelluccio), fornire una
scolarità greca, tornare grecofoni, bilingui, sentire tragedie greche in
originale e capirle (i diplay moderni saprebbero supplire alle lacune). Se
religiosi dobbiamo essere che ciò avvenga almeno nell'irriducibile
conflittualità tra l’umano ed il divino dei nostri antenati greci. Odio questa
Roma papalina, cattolica che prima uccise il greco in Sicilia ed ora anche il
latino. Che c’importa a noi dell’incolto Bossi? Parli lombardo lui? Se ciò gli
dà senso?
Imbattutomi
nelle Storie di Erodoto tornai a
declamare il VI, 21 quasi furente (storpiando il testo greco):
-
….
kai poiesanti Frinikho drama Miletu alosin kai didaksanti es dakruà te epese to theetron kai ….
-
Ma dottò, che fa?
Mi interruppe
sbalordito Vitacchia.
-
Che faccio? Che faccio? Leggo
Erodoto. Lo conosci?
-
Nonzi!
-
E figurati non lo conoscono neppure
quelli che dovrebbero conoscerlo. Stai certo, nessuno a Racalmuto. Un tempo
Macaluso, quello che fu gesuita. Ora Michelangelo. E si dice qualche
professoressa di greco ... due o tre ... non di più
-
Ma cu è ssu chissu?
-
E’ uno storico greco ed io vorrei
scrivere come scriveva lui.
-
Ma vossia è chhiu bravu.
-
Che Dio ti benedica, ma non è così.
-
Veramente mi pariva che vossia
legesse pi babbaria.
-
Era greco Vita’ era la lingua che
parlavano i nostri antichi padri, qui a Racalmuto, là a casa mia a Giurgenti.
-
Però nun si capiva nenti.
-
Purtroppo. Vorrei però anch’io
scrivere una dramma – meglio una tragedia più bella di quella scritta da
Frinico (ignota, persa). Una tragedia sulla Sicilia del 2000 presa da orde
azzurre, incolte. Arraffata da un medico sottratto alla guida di corriere. Con
una Eckklesia composta da bambine dell’azione cattolica, da chierici d’incerto
sesso trasmigrati dalle parrocchie alla politica, da giovincelli blesi senza cultura,
da divoratori di lasagne, da protofascisti, da nazionalisti della Favara: che
coro beota, che peana, che musica suonata da sfiatati! Lasciamo andare, va!
-
A vossia cu lu capisci?
-
Neppure io, neppure io mi capisco,
se ti fa piacere Vita’
-
… cci l’a’ cuntari chiddu chi
sacciu?
-
E che cosa vuoi sapere, tu uomo
venuto da lontano.
-
Iu a Racarmuto nascivu.
-
E’ vero, è vero – ma il nonno di
tuo nonno da dove veniva?
-
Boh!
-
Perché non scrivi che anche per te
«tutto finisce, nel risalire del tempo, a un Leonardo Sciascia, nonno di mio
nonno, che nei primi dell’Ottocento venne a Racalmuto dal vicino paese di
Bompensiere per esercitarvi il mestiere di conciatore di pelli.» Anche tu
mentiresti, ma pensa a quale transustanziazione affideresti la tua ancestrale
salvezza? Meglio che ad un figlio di Dio.
-
Iu, però, nun sugnu nadurisi, né cci vuogliu essiri; né nadurisi era ma
nannu né ma catanannu.
-
E neppure Sciascia, né suo padre né
il padre di suo padre e neppure il suo bisnonno. La verità però è prosaica, è
banale, annoia, meglio la menzogna, il falso ben condito, quello letterario poi
non è giammai eguagliabile dal vero cupo e meschino.
-
Nun la capisciu … mi facissi diri
chiddu ca aiu a diri.
-
Nulla hai da dirmi Vita’ … perché
quello che mi vuoi dire già lo so. Vedi quei cosi lì … si chiamano “faldoni”,
sono dieci e me li sono dovuti sorbire tutti. Lì c’è la verità. La verità
secondo la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni
Mistretta, … vergine e martire.
-
No, vergine non era.
Questo lo so per esperienza personale.
-
Non sottilizzare,
Vita’; vergine di cuore e di mente … castissima poliziotta dello stato.
-
Ma anche la commissaria
le è antipatica, dotto’? ….
-
Manco per niente; non
era però quello il suo mestiere, non lo doveva fare, l’ha voluto fare e ci ha
rimesso le penne.
-
La ‘Sraeliana
l’ammazzà, duttu’.
-
Ti sbagli Vita’. La
‘Sraeliana tu l’accusi ingiustamente perché ti ha fatto cornuto con una donna,
il massimo per uno stallone siciliano come te.
-
Nun voli, allura ca cci cuntu
chiddu che sacciu?
-
Tu mi vuoi dire: venne da lontano,
da Israele una graziosa fanciulla nigrigna (nigra sum sed formosa) e venne in
una sera d’inverno, tra lampi tuoni e diluvi. L’accompagnava un macilento
sionista, d’origine russa. Si spacciava per fotografo: diciamo che lo era.
Stettero insieme fino a quando la ‘Sreaeliana non incontrò Rosalia, scialba
accompagnatrice turistica racalmutese. Fu grande amore. Tu non capivi, hai semi
lascivi, hai pulsioni ereditate da coiti violenti nei tuoi precordi, per
capire, per rispettare almeno. Ti sfruttarono le due donne: li hai introdotte
da Aurelio. Castissimo, lui; ancor di più ora risucchiato dalla casta agonia
dei sensi senili. Hai pensato a chissà cosa, Melissa voleva scrivere un libro
sugli ebrei di Sicilia prima della cacciata voluta da Isabella di Castiglia.
Aurelio era dotto: sapeva e fu utile al libro. Il libro in ebraico sta lì, nei
faldoni, con la bella traduzione inglese. Diversamente chi lo leggerebbe? Anche
la sera prima Melissa fu da Aurelio; infernale pure quella notte. Ci andò con
te … ma se ne tornò con Rosalia, in macchina con Rosalia, come da testimonianze
raccolte dalla poliziotta.
-
Veru è, anch’io fui interrogato da
Adelaide, buon’anima.
-
Ecco, vedi. Alibi di ferro.
L’indomani Aurelio fu trovato morto, avvelenato. Evidentemente dopo che Melissa
se ne era andata. Chi fu allora? Adelaide, come la chiami tu, sospettò, ma
sospettò della mafia … e fondatamente. Qualcuno spiava … Dalla Cava di Fulvio
ciò è un gioco da bambini … poi s’introdusse … Certo che Aurelio lo conosceva
.. Ma potevi anche essere tu …
-
Chi ddici duttu’ – lassammu
perdiri, va’
Vitacchia cambiò
di pelle. Irascibile, ora e diffidente. Soprattutto impaurito, terrorizzato.
Finire in sospetto della Legge, in Sicilia, con la mafia e l’antimafia. Meglio
a Santa Maria, al cimitero … Meluzzo l’aveva proprio folgorato. E con malizia.
Si alzò, quasi senza salutare, prese le sue cose. Meluzzo sentì lo sgommare
della macchina. In gran fretta si tolse di mezzo com’era nei desideri
dell’ospitante.
Capitolo IV
I QUAQUARAQUA’
Il ritorno alla
terza persona, al racconto anodino, a questo punto è d’obbligo. I fatti che ora
si succedono investono Meluccio Cavalieri con tale veemente cointeressamento da
costringerlo a toni distaccati, a collocarsi al di fuori delle parti. E già
prima si era citato per un paio di volte
come se si trattasse di un estraneo.
Or dunque, verso
le ore quindici del giorno dopo, una violenta telefonata a Bovo investì il
nostro scrittore:
-
hanno arrestato mio figlio … l’hanno portato alla
Petrusa … la guardia di finanza si lu portà … sì, sì, a ma figliu.
Era il padre di
Vitaccchia, esagitato, comprensibilmente stravolto.
Meluccio restò
basito.
-
ora vengo .. ora vengo.
Tutta la
famiglia di lu Cammaratisi, in cerchio come se in mezzo vi stesse un catafalco,
abbassate le serrande, nella penombra, stava a commiserare la propria sventura.
Qualche singhiozzo, un lamento, sospiri, pianti a dirotto del padre o del
fratello: l’eco immediato delle donne, a squarciagola, imprecazioni, allusioni,
nonne e vecchie con bianchi fazzoletti in testa di antica memoria si
concedevano cantilene ataviche, erano prefiche risorte, l’antica Grecia
piangeva nei loro cuori nella prisca maniera.
Meluccio chiamò
da parte lu Cammaratisi e cercò di farsi spiegare. Notò astio che non
comprendeva.
All’alba diversi
militi in giallo, elegante nella sua accurata divisa ed impettito il
comandante, in assetto di guerra, impudichi erano entrati come di forza,
avevano scaraventato dal letto uomini e donne senza delicatezza alcuna,
indifferenti all’impacciato ricoprirsi di vecchie e giovanette. Avevano
setacciato, sfondato porte, divelti lucchetti, sparpagliato biancheria.
Mutissimi ma efficienti, febbrili. A Vitacchia, verso il quale un paio di
graduati s’indirizzò all’istante, strinsero subito ai polsi le manette e lo
portarono via su un cellulare già pronto, a sirene spiegate.
-
Mezz’ura fa mi purtaruni sti carti.
Meluzzo guatò
quei fogli: erano verbali, prolissi, indicate ore e circostanze, firme della
sostituto procuratore La Mezzana.
-
ma qui si parla di esibizioni di mandati, di ordini di
sequestro del magistrato, di mandato di cattura?
-
Tuttu chissu ant’ura mi fu datu!
-
No, le ore segnate sono di questa mattina.
-
Un gnè bberu .. un gnè bberu.
-
Non sarà vero ma qui così è verbalizzato e c’è la tua
firma di accettazione.
-
Pur di togliermeli dagli occhi, pure la mia condanna a
morte avrei firmato – bestemmiò in stretto racalmutese lu Cammaratisi.
-
Capisco! Ma hanno trovato qualcosa … già è tutto
verbalizzato qui.
-
Cosa? … cosa?
-
… bustine di sospetto contenuto da analizzare … scatola
in caratteri mediorientali …. carteggi vari … rubriche telefoniche … tronconi
di assegni … ed altro. Sono tre fogli
fitti fitti.
-
Ma, se non hanno trovato niente?
-
La tua parola contro la loro … vincono loro … non c’è
scampo.
Strazianti grida
delle donne … si fingevano assenti .. tutto avevano sentito e capito.
-
Curpa so … curpa so, è
-
Come colpa mia?
-
Dicivano ca vussia l’aviva accusato
-
Io? Accusato di che?
-
Vussia diciva ca aviva li provi ca era stato ma figliu
ad ammazzari lu dutturi Matina ed anche la poliziotta.
-
E chi dice queste minchiate? … tuo figlio sarà un
burdunazzu ma omicida mai né amico di assassini. Lo conosce bene.
-
Mi lu dissi lu marasciallo.
-
Questo qui dei carabinieri?
-
Nonzi, chiddu di la finanza.
-
E secondo te, se ero il colpevole di una tale infamità,
venivo qui da te come un incallito Giuda Iscariota?
L’uscita di
Meluzzo, non protocollare, sorprese e convinse lu Cammaratisi: i suoi occhi,
prima cupi e sospetti, si schiarirono di colpo e subito si velarono di lagrime.
-
Lassami nni iri. Lasciami andare, vediamo se riesco a
fare qualcosa. Mi dispiace davvero… siamo caduti nella barbarie. Povera
Sicilia, in preda alla barbarie giuridica. Non c’è più diritto in questa terra
antica, nobile e poetica: c’è solo l’antimafia dei continentali. Maledetti!
* * *
Trafelato giunse
allo spiazzo laterale della caserma dei carabinieri vicino al vecchio campo
sportivo: brutta palazzina, arrogante piantone, spioncini che guatavano e
portone che non si apriva; già ad essere sereni c’era da incazzarsi;
figuriamoci con tutti quei nervi a fior di pelle. Per poco Meluzzo Cavalieri
non si faceva denunciare per oltraggio alla forza pubblica nell’esercizio delle
proprie funzioni. Il piantone, aitante marcantonio del nord, allocco almeno
all’apparenza, di certo là in Sicilia quale semplice ausiliario, per sfuggire
alla leva militare, - vai a sconfiggere la mafia, va’ .. va’ – era fin troppo
cerimonioso eppure irritava nel volere indagare senza sapere su che cosa.
-
il suo riverito nome?
-
Sono Meluccio Cavalieri di Giorgenti.
-
Di professione?
-
Scrittore … o meglio mangia pani a tradimientu?
-
Prego?
-
Mi faccia parlare con il suo comandante, perdio!
-
Stia calmo e si moderi … il comandante…
Per fortuna di
Meluccio stava passando il vice brigadiere Pizzillo … suo vecchio conoscente;
andava di fretta, colmo di nervosismo.
-
dotto’ lei qua?
-
Voglio parlare con il comandante.
-
Venga con me.
Il comandante lo
ricevette nel corridoio: uscì dalla sua stanza.
-
Sa, c’è il colonnello di là.
-
Che è sta cazzata dell’arresto di Vitacchia?
-
Lo vorremmo sapere pure noi. Il colonnello è di là
appunto per questo. Ma lei dotto’ che cosa gli ha detto a Vitacchia?
-
Io? … e siete due … io, niente.
-
Ma non è stato lei che ha intimidito il Vitacchia
parlando di sue responsabilità negli omicidi del dottore Aurelio La Matina e della
dottoressa Evelina Mangoni?
-
Manco per niente? Baggianate del genere semmai le dico
per ridere!
-
Lei le avrà dette per ridere, Vitacchia però ci ha
creduto e si è messo a telefonare come un matto a destra ed a manca … andandosi
ad incastrare … lo vedo brutto, brutto,
brutto… Ma entri, il colonnello la riceverà di buon grado … anche lui è un suo
ammiratore, come me, come tutti qui ..
-
Meno il piantone!
-
Ah! Quello è un minchione del nord … veste la divisa
della benemerita .. ma carabiniere non lo è. Ci si nasce carabiniere .. non ci
si diventa … cosa vuole che capisca il ragioniere di Abano Terme … figlio bello
e ricco di un albergatore veneto. Frutto dell’unità d’Italia … entri … entri.
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