martedì 10 ottobre 2017

FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIV. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio del Trecento, l’attuale fortezza, forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono ad ogni modo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese.
Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da costei sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIV. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato in un libro secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni “burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei Del Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che solo negli anni ’novanta del trascorso millennio chi scrive ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di Palermo per un’ostica ma illuminante lettura.
Ma in quell’investitura, scopo, intento, occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze altisonanti: difficile credere a quanto vi si afferma nei confronti di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto; traluce invece una realtà ove si scorge la rapacità di codesti esattori delle imposte dei Martino, quei Martino che risultano più che altro gli avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIV secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Noi abbiamo speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - venne riprodotta in un CD-ROM interattivo cui si rinvia. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxororicidi a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio, consueto per l’epoca, dei baroni del Carretto: costoro verso la fine del Cinquecento - dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) - hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto; mancano però l’obiettivo cui particolarmente tenevano: quello di riconoscere il titolo di marchese che in esordio della loro signoria su Racalmuto avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che abbiamo pubblicato ne spazza via ogni briciola di attendibilità. E quel che si scrive su data e struttura del castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera sulle origini storiche del Castelluccio.
Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III d’Aragona - veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello Giacomo, succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potentati dell’Isola fino alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.
Federico III poté detenere il regno di Sicilia per un quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un lungo periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso Denis Mack Smith smitizza: «in realtà, - scrive lo storico inglese [71]- interessi egoistici prevalsero in questa guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica, inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattuali e puntuali. Non crediamo, ad esempio, che se ne ebbero solo distruzioni: anzi, sviluppo demografico, lavori pubblici per fortificazioni, profitti da commercializzazioni del grano, necessario al vettovagliamento delle parti in guerra, sembrano i connotati affioranti da questo travaglio della storia locale.
Federico III conclude nel 1302 una “pace di compromesso”: gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di Sicilia: un cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò. La guerra ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.
Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo intervallo di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di innalzare nell’attuale piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di torri difensive, apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non convince molto: le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di là a venire.
Il dotto Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo; si limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto, centro fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico Chiaramonte, a cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a otto miglia il villaggio di Canicattini.» [72]
Dal passo si evince che lo storico di Sciacca comunque non aveva dubbi sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico Claramontano”. Ma chi fosse codesto Federico non è poi del tutto chiaro, potendo anche essere Federico Chiaramonte I, il capostipite della famiglia, nel qual caso la datazione della fondazione del Castello retrocederebbe e di molto.
Da dove abbia tratto la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio per abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili infeudamenti da parte dei Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso (capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di irrefrenabile visionarietà.
Se poi diamo credito al San Martino de Spucches, proprio in coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe fatto erigere il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un abbaglio: c’è confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. [73] Per il San Martino, dunque, «IL FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara, territorio di Naro, da non confondersi con l'altro sito in territorio di Girgenti, sul quale sorse poi la terra di Gibellina, eretta a Marchesato. Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo vi costruì la fortezza; in ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte; questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a giugno 1392 sotto il suo palazzo, detto lo STERI, ebbe tagliata la testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione in cui si dibatte il peraltro avveduto araldista. Con franchezza, dobbiamo ammettere che nulla di certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a partire dalla fine del secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.
Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono facondi nell’enfiare le rare ed incerte notizie degli storici secentisti che hanno scritto sulle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli, quello che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del Monte. [74]
«Decaduta la famiglia Barrese - scrive il frate di Lucca Sicula - e devoluto Racalmuto al Regio Fisco fu concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso. Federico secondo di questo nome terzogenito di Federico primo Chiaramonte fabricò il magnifico Castello tutt'ora in gran parte esistente. Onde si rifiuta l'opinione d'alcuni che pretendono il Castello costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia.»
Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è ben poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del ‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero. Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente al presnto dominio dei Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto Giovanni Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del lucchese sono accettabili, purché meglio chiariti.
Quando, come, in che misura i Chiaramonte si impossessano di Racalmuto?
Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona, si è detto che Racalmuto venne alla corte di Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto e siamo nel 1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva poche probabilità di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a giungere in loco. La famiglia agrigentina dei Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre alquanto periferiche: Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio (ma non è certo) e poté benissimo munirlo di una fortezza; il fratello cadetto Federico II si dichiarò padrone del casale e dell’agro circostante, non mancando di ergervi l’attuale Castello, sia pure nella sua embrionalità costituita dalle due torri cilindriche. Costruire torri cilindriche in quel tempo era divenuta ardua impresa per il diradamento delle maestranze fredericiane. Ed allora? Un interrogativo che può dissolvere la fondatezza della congettura che siamo stati per raffigurare. Solo i futuri scavi archeologici potranno chiarire il mistero: un mistero che si aggrava se i ritrovamenti di ossame e di ceramiche sotto gli interstizi tra le due torri dovessero significare presenze abitative o necropoli medievoli antecedenti al XIV secolo. Le ossa non sembrano invero umane; i cocci sono angusti per configurazioni significative.
La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da Illuminato Peri [75] e noi ci accodiamo in tutta umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi, mancò un controllo inibente da parte della monarchia, e le concessioni si moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si allargarono; e fu proprio allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei Chiaramonte. Prima, per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento, e particolarmente nelle vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la grossa proprietà.»
Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni di valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi. Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali che la avrebbero contraddistinta; sul suo valore atto a «infrenare l’orgoglio dei re e costringerli ad umiliazioni.»
Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che nei primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges [76] che testualmente così la raffigura:
« Da questo nobile matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque Costanza unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del Carretto; Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il contratto matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à 11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno, come riferisce Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre 10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae Constantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate substituo, ita tamen, quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque liberis statim anno impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem Mohac, et Ioannem de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et integre revertatur.
2. Venne Costanza per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte d'Antonino suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore della sua gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente detto, Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3. Isabella; moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di Raimondo Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel quinto luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la 7. & ultima si fù Genebra.
3. Costanza, restando la seconda volta Vedova, finalmente si morì in Giorgenti, havendo prima fatto il suo testamento, e publicato il 28 marzo 1350 nominando suoi esecutori testamentari il suo primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano Delabro ed il priore del convento di S. Domenico.»
Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte ebbe la disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per la testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro si specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro il riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza Chiaramonte. [77] Si tratta dell’atto transattivo in cui Gerardo cede al fratello Matteo del Carretto, a titolo oneroso:
«omnia iura omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas perentorias, tacita, civiles et expressas, que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris, quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et eciam quocumque alio iure competente domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia Racalmuti ut primogenito magnificorum quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et Ruviceto Siguliana terminis, cum onere iuris canonicorum civitatis Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium magnifici Aloysii de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris vacuis vineis, et toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum spectantiis in omnibus et singulis bonis stabilibus, castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus.»
Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado vende e avendone il potere di vendita concede e per tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al magnifico ed egregio don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello, presente e compratore, che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori, in perpetuo, tutti i diritti e tutte le azioni reali e personali, universali, dirette, miste, perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto don Gerardo, come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di successione o ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché per diritto ereditario riveniente dal quondam magnifico signore don Giacomino [Jacobinus] del Carretto, suo fratello, così pure per diritto di successione ed eredità riveniente da quondam magnifico Matteo Doria ed anche per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo per qualsiasi ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come primogenito dei defunti suoi magnifici genitori ed erede di suo fratello Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale, nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli, Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con i gravami verso i canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un tale palazzo esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico Luigi di Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S. Matteo ed ai casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte orientale, e prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini. Del pari, viene venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto nella contrada di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero distretto ove scorre il fiume della detta città nella parte orientale e confinante con la via pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso gravano gli oneri che ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il predetto atto si estende a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi esistenti nella città di Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su tutti e singoli beni stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e burgensatici ovunque esistenti nell’intero Regno di Sicilia.»
E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio del Carretto - che Costanza ebbe dal primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì che a Matteo del Carretto giungono anche i beni dello zio paterno Matteo Doria, figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.
Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda feudale di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano estranei alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve periodo in cui la baronia sembra in mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così? Purtroppo, un documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di meglio esplicare - revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre racalmutesi furono di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici, mentre l’egemonia feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del XIV secolo. Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina procurò con la sua strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura? anche qui un mistero.
E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattutto la figura femminile di Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli - Manfredi, Giovanni il Vecchio, Federico II - ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il signore di Racalmuto al tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra sua dimora che si chiamò Steri (l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo. Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.
Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca Palizzi. Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che assediava Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella difesa di Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di Calabria. Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di Palermo. Il Picone [78] ci assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio case palagi castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il suo casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi, colla chiesa nostra, e ne riceveva in corrispettivo il casale Mussaro, col suo fortilizio coi casamenti, e i terreni che lo cingevano, perché la chiesa non bastava a mantenerlo e custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni nelle vicinanze della città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca (Ruolo n.° 23) che i nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una serie di falsi, propinati ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni Chiaramonte su Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.
Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca direttamente: signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311, lasciando erede la figlia Costanza.
Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita la contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321; sposa Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta: aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al nemico, partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane. Muore frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337 dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara. Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo. Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza eredi maschi.
L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte travolge l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro politico di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone - hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.
Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi receve l’investitura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo (1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi di sorta per articolare una qualsiasi risposta. Nel 1351 Manfredi II diviene vicario generale del Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353, lasciando erede il figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di Aragona).
Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la contea di Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339 partecipa con il fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re Pietro II.
Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e diviene governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla conquista di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa con il nipote Simone alla sollevazione di Messina contro Matteo Polizzi. Concorre alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni a danno dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei Chiaramonte, conti di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV. Possiamo solo congetturare che Racalmuto - stante anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta titolari della baronia - sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei Chiaramonte. Federico III sale ancora nella scala degli onori pubblici divenendo nel 1361 Pretore di Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano Giustiziere di Palermo. Muore nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.
Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia Aragona, costituisce una parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di potere di quella schiatta trecentesca siciliana. Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la sollevazione di Messina del 1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e della sua famiglia, voluta da Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati. Nel 1353 eredita i titoli ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa. Trovatosi a capo della fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento sulla fazione dei Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il re di Napoli, in nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa Palermo. Chiede a Luigi d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re Federico IV che lo stesso Luigi teneva prigioniera a Reggio. Non venendo accolta la sua richiesta, pare che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato propinato il veleno. Muore senza lasciare successori legittimi nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte sembra non avere neppure lambito Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta di questo turbolento personaggio.
Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani. Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo. Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S. Giovanni e Misilmeri. Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.
E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di Federico III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di Modica, la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro Giustiziere del regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città ed il castello di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli succede nel contado di Modica Manfredi III.
E’ costui un personaggio centrale, di grande spicco a mezzo del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che compravano che il vero padrone di Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte appunto, avendo in subordine i Del Carretto o avendoli estromessi, non sappiamo. Figlio naturale di Giovanni II (secondo La Lumia, Villabianca e Pipitone Federico), sposa in prime nozze Margherita Passaneto e poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e Siracura. Partecipa alla congiura contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358 chiede aiuti al re di Napoli contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente, nel 1364 si riconcilia con il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli Angioini , all’obbedienza di Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene onorato della carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di Mistretta, la signoria di Malta, della città di Terranova, di Cefalà. Fu padrone delle terre di Vicari, Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella, Carini e Comiso, Naro e Delia, oltre ad altri feudi intorno a Messima. Manfredi III si trasferisce nel 1365 da Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino Giovanni III il contado di Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e Misilmeri. Ma in quell’anno è divenuto tanto potente da impedire al re Federico IV di sbarcare in Palermo per l’incoronazione ufficiale. Nel 1375 può conciliarsi con il Re e gli viene concessa la signoria di Castronuovo con Mussomeli, che da lui prende il nome di Manfreda. Nel 1377, alla morte di Matteo, viene investito dal Sovrano della contea di Modica, comprendente vari feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari che governarono la Sicilia durante la minore età della regina Maria. Conquista nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene investito dal papa Urbano VI del titolo di Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la figlia Costanza in sposa al re Ladislao di Napoli, che però la ripudia dopo la rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391 lasciando eredi delle sue sostanze le figlie. Per un bastardo, il destino ebbe in serbo una sequela di ascese da capogiro. Con chi non fu concepito in legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca l’acme: ma subito dopo fu il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle cose di Sicilia della casa regnante ispana, per il gioco della politica a dimensioni divenute sovranazionali. E Racalmuto tornerà nell’alveo di una dimessa baronia delcarrettiana.
Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino e, dopo la morte di Andrea, si rifugia con aderenti e amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i Del Carretto ad avere peso sull’umano vivere locale; forse una intermittente incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.
Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura dei Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha l’attenzione del Chronicon Siculum (CVIII) e del Villani (XI, 108). [79] Nel novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débâcle. Il cronista coevo ci racconta che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno di essi sfuggì, se non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta vollero rilasciare e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni Chiaramonte (di cui abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando d’Aragona fratello naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del defunto re Pietro d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo, Vincenzo Manuele da Trapani. E, per quello che a noi più preme, Matteo Doria. Questi per adempiere all’impegno contratto per il riacquisto della libertà dovette vendere la tenuta di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500 onze. [80] Matteo Doria era figlio di Brancaleone Doria e di Costanza Chiaramone, proprio quella che aveva avuto per marito di primo letto Antonio del Carretto con cui aveva generato il nostro Antonio II del Carretto. Questi e Matteo Doria erano dunque fratelli sia pure soltanto uterini. Matteo Doria aveva per fratello germano Manfredo (ribelle a Federico III, ma reintegrato nei beni; esule e poi stabilitosi ad Agrigento) e le tante sorelle: Isabella, Marchisia, Leonora, Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte fu dunque donna molto feconda: tre figli maschi da due diversi mariti e ben cinque figlie femmine (per quello che se ne sa). Nelle tante doti che dovette fare rientrò mai Racalmuto? Davvero venne assegnato in esclusiva ad Antonio II del Carretto? Ed il riafflusso dei beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti di cognome Del Carretto annetteva anche la nostra baronia? Misteri del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado di dipanare. L’Inveges va invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo, faccia pure.
Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare che Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il De Gregorio [81] ci pare in definitiva piuttosto perplesso. Ai fini della nostra storia, i Doria non ci paiono, comunque, di particolare rilievo, ragion per cui non abbiamo dedicato molte ricerche su tale ceppo di mercanti e navigatori genovesi, approdati ad Agrigento che fu provvida pedana per una fortuna feudale che li fa assurgere a cospicui rappresentanti della nobiltà sicula trecentesca.
Dalle brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei Del Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere, sulla base degli agiografici loro storici alla Inveges o alla Giordano, ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo pervenne ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio Antonio II Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla circostanza di un Antonio II Del Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi quel marchesato in tre parti. A Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel 1263. [82]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il primo cui si accredita la baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto ad un certo punto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato a Genova, come detto. Là si sarebbe arriccchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del Carretto. «Infine il predetto don Gerardo promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia tutti i privilegi, le scritture e i rogiti relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto, che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli, mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente quelle tenute date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione della detta vendita.»
GIBILLINI
Feudo, Racalmuto, lo fu parzialmente: dalla diplomatistica emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di quella terra feudale, almeno integralmente.
Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ;[83] il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:
«Il Re concede al milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu [feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore, insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come sopra.»
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte. Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in potestatem et iurisdictionem incidere catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge sull’apporto dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani - [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.[84] Prosegue Giunta [85] «queste premesse spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100 cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò “con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da ottenere festose accoglienze da parte dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre terre e castella”». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV, detto il Semplice riuscì a riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto nell’opera del San Martino de Spucches .[86] Secondo l’araldista il feudo di Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso” alla famiglia Chiaramonte. Srabbe stato Manfredi Chiaramonte [87] a costruirvi la fortezza, quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario, iure francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 221) [88]; col secondo diploma, dato ad Alcamo, il 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica, il Moncada fu deferito come reo di alto tradimento, avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397 fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni. Morì di dolore nel 1398.
Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.[89]
Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile 1493 more francorum, [90] per passare quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la morte del padre e come suo primogenito. [91] Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa dalle figlie Giovanna e Maria il 22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f. 271).

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