http://wwwhttp://www.youtube.com/watch?v=FklRREwOYtQ.youtube.com/watch?v=gcnBGbhtthttp://www.youtube.com/watch?v=H5aj9H8aY-Ep://www.youtube.com/watch?v=ucxzdfohttp://www.youtubhttp://www.youtube.com/watch?v=XGiPet6q4rAe.com/watch?v=3LOp_AkQmJhttp:/http://www.youtube.com/watch?v=m4MjPJFp1vs/www.youtube.com/watch?v=4-FD8htm2_Ika-lMnZaKhttp://www.youtube.com/watch?v=-h4d9jpKShochttp://www.youtube.com/watch?v=-h4d9jpKSho
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In tempo di guerra, in seminario
I militi fascisti a rovistare nelle cantine del seminario di Agrigento
Le opzioni umane dell’arciprete
Una rapina di Stato.
I "galantuomini" arraffano i beni della chiesa.
Il restauro di Santa Maria di Gesù
w.youtube.com/watch?v=-h4d9jpKSho
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Conobbi il tenore Puma
per via del fratello, l’arciprete don Alfonso Puma. Fui amico del fratello dal
10 ottobre del1945, il giorno in cui entrai in seminario dove il sem. Puma vi stava
da anni, era alla fine del liceo. In seminario Alfonso si distingueva per le
sue doti artistiche, ma non nel canto ove era di una stonatura impressionante.
Dipingeva. Per natale i fondali del presepe nella bella cappella del seminario
erano la sua grande occasione pittorica.
Alla fine degli anni
quaranta, viene a far visita al fratello ormai prossimo a divenire sacerdote il
giovanissimo tenore Puma. Alfonso presenta orgooglioso il fratello che ha già
raggiunto il successo come apprezzato tenore lirico al vescovo, musicologo
raffinato, e all’arcigno rettore il futuro vescovo favarese mons. Jacolino.
E la domeica, nella
messa solenne della cappella tutta illuminata
padre Cucchiara sedutosi a suonare il grande organo in dotazione, il
tenore Salvatore Puma dispiega la sua possente voce, cristallina, educatissima,
trepida e impetuosa e ci delizia con un PANIS ANGELICUS che mi risuona ancora
soave nelle mie ormai vetuste orecchie.
Nella trepidissima intervista rilasciatami
molti anni dopo, l’arciprete Puma è ancora tremulo nel parlare di questo
fratello che dalla terra passa sui palcoscenici del melodramma italiano e ha
gloria e grandi riconoscimenti. Io, il tenore Puma. l’ho trovato in una
prestigiosa enciclopedia della lirica. E non ho trovato altri. Trionfante ebbi
a inviare lo stralcio al mio amico padre Puma che me ne fu particolarmente
grato. Salve don Alfonso PUMA, ultimo e meritevole arciprete di Racalmuto
* * *
L’Arciprete a domanda
risponde
* * *
(Intervista di Calogero Taverna)
Racalmuto, 5 luglio 1995
_________________
INTERVISTA
ALL’ARCIPRETE ALFONSO PUMA
Intervistatore:
Calogero Taverna.
Cenni autobiografici
Domanda: Per rompere
il ghiaccio, iniziamo con alcuni cenni autobiografici. Arciprete Puma, che mi
racconta della sua vita?
Risposta: Sono nato il
21 novembre 1926. Sono stato ordinato sacerdote nel 1950, anno santo. Sono
stato eletto parroco del Carmelo nel 1961 e vi sono rimasto sino al 1966. Come
parroco-arciprete della Matrice, sono stato chiamato il 1° dicembre 1966:
rimanendovi sino al presente.
D.: Oggi ne abbiamo?
R.: 5 luglio 1995.
D.: A che data risale
la sua vocazione? Ricorda l’origine?
R.: Fin dalla tenera
età avevo il desiderio di farmi sacerdote. Fatte le scuole elementari, sono
entrato in seminario, nell’ottobre del 1939. La casa mia era quella, ove mi
trovai subito a mio agio. Ho intrapreso gli studi con grande gioia; ho così
affrontato il periodo della guerra senza paure, nella speranza di farcela.
D.: I suoi genitori -
che io ricordo: sua madre soavissima; suo padre molto benevolo - come se li
ricorda?
R..: Li ricordo non
solo come genitori, ma come amici. Mia madre è stata addirittura la mia prima
direttrice spirituale. Mio padre, un uomo sodo, un uomo temprato, molto parco
nel parlare ma saggio, diceva: «voi non vi preoccupate: se faccio sacrifici o
non ne faccio, a voi non interessa. Ricordate che starò sempre vicino a voi.» E del resto, sia io come mio fratello, il
tenore, abbiamo studiato con questa fiducia che qualcuno ci sosteneva e ci
stava sempre a fianco.
In tempo di guerra, in seminario
D.: In seminario ha
avuto dei padri spirituali o dei rettori che ricorda in modo particolare?
R.: Ho avuto la
fortuna di essere guidato da santi sacerdoti. Tra i primi ricordo il servo di
Dio, padre Isidoro Fiorini, per il quale ho fatto una dichiarazione giurata
come testimone della vita di santità che ha condotto e nello stesso ho
rievocato le virtù eroiche di questo sacerdote. Il padre Isidoro Fiorini morì,
ultra nonagenario, in un incidente, finendo sotto le ruote di un pullman.
Ricordo pure mons. Stefano Conte, anima bella, che ci ha sostenuto durante la
guerra. Ci faceva da mamma. Mons. Jacolino, morto anch’egli in fama di santità:
è stato un uomo di stile tedesco, sia perché abituato ad un regime austero - è
stato prigioniero di guerra - sia perché era un uomo molto temprato al
sacrificio. Egli - durante il periodo di guerra - fece in modo che il seminario
giammai si chiudesse, fidando sempre nella Divina Provvidenza e in S. Giuseppe
- cui era molto devoto. L’unico seminario che non chiuse fu quello di
Agrigento: per merito suo. Noi ricordavamo questa figura di uomo, osservante
della regola, uomo con grande spirito di sacrificio. E’ morto dopo due anni di
episcopato, lasciando alla diocesi nulla, perché era povero.
D.: Io ricordo che nel
1945, quando sono entrato anch’io in seminario - e lì l’ho incontrato - mio
padre come suo padre erano costretti a portare in seminario il frumento
comprato al mercato nero, per la nostra alimentazione.
I militi fascisti a rovistare nelle cantine del seminario di Agrigento
R.: Rammento che una
sera sono venuti due militi inviati dal regime fascista per ispezionare se in
seminario si detenessero illegalmente farina, frumento ed altre vettovaglie.
Invero tenevamo qualcosa nascosta, ma era roba nostra. I nostri genitori facevano
dei sacrifici, si toglievano il pane di bocca per dare da mangiare ai figli che
stavano in seminario. In quel controllo, anch’io fui chiamato perché ero il
prefettino più grande. I nostri genitori rischiavano, invero, la galera per
portarci la farina. E quando il vescovo chiese a Mons. Jacolino: come fate a
dare da mangiare ai seminaristi? Costui rispose: siamo sempre pronti ad andare
a San Vito! (S. Vito era un vecchio convento, adattato a carcere
mandamentale di Agrigento).
Quella volta pure gli
stessi inquisitori furono benevoli e furono invitati alla cena e fecero una
relazione più positiva che negativa nei confronti del rettore del seminario.
Sciascia, i seminaristi e gli aspiranti
gesuiti
D.: Sciascia - a dire
il vero, irritandomi - scrive che a Racalmuto si era furbi nel senso che si
andava gratis in seminario o dai gesuiti per fare un certo iter di studi e poi
gabbare il rettore del seminario o i gesuiti ed andarsene via. Trascura il
fatto che molti siamo andati, cambiando magari dopo intenti, perché convinti.
Comunque non era gratis andare a studiare in seminario: costava e costava forse
più che restare a studiare in paese ove tutto sommato le scuole c’erano.
R.: Tutti sanno quali
erano i rapporti tra me e Leonardo Sciascia. Sciascia un tempo avversò
visceralmente la Chiesa e quindi anche i sacerdoti. Amava criticare preti,
religiosi e pie istituzioni. Ma poi, conoscendo meglio la realtà della Chiesa
attenuò i suoi toni. Del resto amava dire di sé: contraddisse e si
contraddisse.
Non è vero che si
andava in seminario o dai gesuiti solo per sfruttare ed essere agevolati negli
studi. I genitori facevano grandi sacrifici. Anche quelli che andavano dai
gesuiti, pur se poveri, erano chiamati a pagare una certa retta. Certo, da
ragazzi, non si può essere sicuri della propria vocazione al cento per cento:
c’è chi la perde e c’è anche chi non l’aveva e c’è anche chi la cercava.
Quindi, quello di Sciascia non è un argomento valido. E’ vero invece che tanti
sono andati in seminario o dai gesuiti e ci sono restati. E quelli che sono
rimasti sono una vera gloria per il paese. Quello che Sciascia ha scritto non
può, quindi, essere preso per oro colato.
Le grandi figure dei sacerdoti
racalmutesi
D. : Ricorda alcuni
dei suoi coetanei che sono divenuti sacerdoti e si sono contraddistinti?
R.: Il padre
Facciponte, padre gesuita. Ecco uno che c’è rimasto. Padre Jacono, direttore
spirituale dei gesuiti ... e c’è rimasto. Il padre Fusco, un altro ragazzo
molto serio e molto bravo, padre gesuita anche lui ... e c’è rimasto. Ne
abbiamo avuti tanti. Evidentemente allora era un po’ di moda andare dai gesuiti
perché il padre Francesco Nalbone, una gloria della Chiesa ed anche dei padri
gesuiti, consigliere di papa Pio X e di Benedetto XV, era diventato una
istituzione. Quindi tanti giovani vedevano in lui l’uomo carismatico che
attirava: un padre Salvatore Scimè, professore di filosofia, distintosi per
tanti meriti: ha tra l’altro formato la scuola di Modica, una scuola sociale.
Possiamo annoverare tra i padri gesuiti che si sono particolarmente distinti il
padre Sferrazza, un apprezzato studioso della religiosità in Sicilia, che pur
avendo tanto rispetto per Sciascia, pure talora dissente da quello che scrive
lo scrittore racalmutese. Padre Sferrazza è diventato, anche consigliere di
vescovi. E’ direttore della scuola teologica a Messina. Merita quindi tanto
rispetto ed è degno di tanta fiducia. Evidentemente le scuole dei gesuiti hanno
fatto tanto bene tra i nostri giovani. In seminario, certamente, si pagava
molto di più, con grande sacrificio, specie da parte delle famiglie povere.
Certo, vi era qualche piccolo aiuto da parte del seminario con borse di studio
accordate a giovani volenterosi di famiglia povera. Il seminario ha formato
grandi sacerdoti racalmutesi, gloria della Chiesa agrigentina; i gesuiti hanno
forgiato racalmutesi illustri della Chiesa racalmutese.
D.: Ai miei tempi vi
erano tre seminaristi oggi sacerdoti: padre Curto, padre Salvo e ... padre
Puma. Ricordo il padre Salvo per la sua scienza, ma padre Puma lo ricordo per
la sua grande bontà, per la sua grande affabilità, per la sua capacità di
intessere dei dialoghi con i giovani. Che mi risponde?
R. : Ogni sacerdote
cerca di fare del suo meglio. Io son vissuto sempre fra i giovani. Sono stato
nell’Azione Cattolica sin da bambino; in seminario, il vice rettore di allora,
Mons. Di Marco - attualmente Vicario Generale del Vescovo - ed io abbiamo
portato avanti l’Azione Cattolica, per preparare i futuri sacerdoti alla vita
associativa. Tutta la mia vita è stata spesa per i giovani. Poi sono sorte
anche ACLI e vi ho aderito perché la mia aspirazione è stata anche quella di
venire incontro al bisogno sociale della gente. Racalmuto è (o meglio era) un
paese prettamente minerario. La miniera costituiva che so .. il petrolio, .. la
ricchezza .. l’oro. Nell’Ottocento, Racalmuto raggiunse la quota di 18.000
abitanti per l’occupazione nelle miniere di zolfo. Poi il minerale si è svilito
e Racalmuto ha contratto la sua intensità abitativa. La mia missione è stata
svolta al servizio degli zolfatari, dei salinai, dei lavoratori di Racalmuto.
Il cognato dell’arciprete, primo
sequestrato dell’Italia del dopoguerra.
D.: Non è detto che
debba rispondere a questa domanda. Può anche non rispondere. Ricordo che alla
fine degli anni quaranta la sua famiglia fu contraddistinta da un evento molto
increscioso: il sequestro di suo cognato. Questo fatto ha creato in lei dei
traumi? Ha visto i racalmutesi nello stesso modo? O si è insinuato in lei il
dubbio che non tutti i racalmutesi fossero delle brave persone?
D.: E’ vero! Era
l’anno 1946: venendo dal seminario per le vacanze ho avuto l’amara sorpresa di
sapere che un mio cognato era stato sequestrato. Era il primo sequestrato in
Italia. Certo è stato traumatizzante pensare che quest’uomo poteva non tornare
più. Erano tempi di grande miseria; mancava persino il pane. Erano tempi di
grande bisogno. I sequestratori erano andati per altre persone. Ma poi,
fallendo, si erano accontentati di qualcuno che poteva disporre di qualche
migliaio di lire, perché lavorava. Comunque, fu restituito ai familiari:
evidentemente c’era stato qualcuno che si era mosso in soccorso di chi in fondo
era un pover’uomo sfornito di grandi mezzi. L’hanno rilasciato con una piccola
cauzione. Tutto questo ha destato in me un’avversione verso la malavita, locale
o nazionale che sia. Ecco perché in questi fatti luttuosi che si sono di
recente verificati a Racalmuto ho assunto una posizione rigida, in quanto
motivata. Sono stato dalla parte dei più deboli, evangelicamente.
I tanti, diversissimi vescovi
agrigentini di questo cinquantennio
D.: In questo
cinquantennio, ad Agrigento vi sono stati diversissimi vescovi; lei li ha
conosciuti tutti. Vogliamo farne una rapida, come dire?, rievocazione?
R..: Ho
conosciuto mons. Giovanni Battista Peruzzo - un vescovo definito da Leonardo
Sciascia, rinascimentale. E’ stato un vescovo intelligente, un vescovo
che affascinava per la sua oratoria, per il suo stile. [...]
* * *
Le confraternite cinquecentesche
D.: In effetti a
Racalmuto sorgono nel 1500 sei o sette associazioni o congregazioni o
confraternite. Si chiamano confraternite per la buona morte come dappertutto,
perché curano la sepoltura dei morti. Ma, a ben guardare, sono organismi
economici, anzi, finanziari. Dispongono di un patrimonio immobiliare immenso.
Sono proprietari quasi monopolistici delle case di abitazione; fanno prestiti
ad interessi, sia pure conformi ai dettami della Chiesa: talora assurgono a
vere e proprie banche moderne. Queste confraternite racalmutesi hanno di
particolare due caratteristiche: 1) una loro laicità. C’è il cappellano, ma il
cappellano serve solo per dire la messa. Per il resto, c’è una lotta per
evitare che vi siano infiltrazioni ecclesiastiche nella gestione sociale ed
economica della confraternita, che è retta da un governatore e da rettori
laici; 2) vi sono associati indifferenziatamente confratelli di tutte le classi
sociali, dai cosiddetti "magnifici" (i moderni "galantuomini")
ai "mastri", ai "borgesi" e persino ai
"jurnatara".
Da ciò oso desumere
una duplice conseguenza:
a) una fede religiosa
del popolo di Racalmuto molto profonda, che si accompagna, però, ad un
anticlericalismo piuttosto viscerale. C’è la battuta a Racalmuto che dice:
«monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini».
b) un’abitudine
all’interclassismo, quasi l’interclassismo alla De Gasperi. Forse nasce da qui
se a Racalmuto mai vi sono stati contrasti sociali atti a suscitare moti
rivoluzionari, diversamente, ad esempio, da Grotte.
Dall’alto della sua
quarantacinquennale esperienza pastorale, lei che ne pensa?
R.: Prima di
tutto debbo precisare che la frase «monaci e parrini, vidici la missa e
stoccaci li rini», è diffusa dappertutto in Sicilia. Nasce nei tempi in cui la
stampa era espressione della massoneria e del suo anticlericalismo. Erano i
tempi delle leggi eversive: quando furono soppressi i monasteri e la manomorta
dei conventi. A Racalmuto, in definitiva, non vi sono state tensioni sociali
acute anche perché il popolo poté appropriarsi agevolmente dei beni della
Chiesa. Peraltro, il clero locale ha sempre parteggiato per la classe meno
abbiente. Vedasi la bella figura di padre Elia Lauricella. Abbiamo avuto anche,
a dire il vero sacerdoti alla Savatteri - nati magari in famiglie di massoni -
ma furono eccezioni, e comunque ininfluenti. I racalmutesi sono stati
anticlericali subendo l’astiosa propaganda massone, ma nel profondo sono stati
vicini ai loro sacerdoti, almeno quelli migliori come il padre Elia Lauricella,
morto in fama di santità.
Figure singolari di
sacerdoti racalmutesi si ebbero, ad esempio, a fine dell’Ottocento. Guardiamo
all’arciprete Tirone, uomo inflessibile, di profonda cultura anche giuridica,
sagace difensore dei diritti della Chiesa. Tanti beni si sono salvati
dall’espoliazione governativa per suo merito. E nello stesso tempo, così legato
alle autorità ecclesiali da venire prescelto nella salvaguardia della fede fra
i fedeli di Grotte, messi in subbuglio da taluni preti finiti nello scisma, non
tanto per ragioni di fede, quanto per interessi materiali, legati al
gius-patronato della locale arcipretura. Alla fine quei sacerdoti scismatici
tornarono nel grembo di madre chiesa e ad accoglierli è stato proprio il padre Tirone.
Il vescovo spagnolo Horozco e Racalmuto
D.: Passiamo ad altro.
Leggo nelle carte dell’Archivio Segreto Vaticano un furibondo contrasto sorto
tra il vescovo spagnolo di Agrigento, Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ed
il conte del Carretto. Entrambi si accapigliano per impossessarsi dello
"spoglio" dell’arciprete Romano. Siamo alla fine del 1500. Non è
detto che lei risponda alla domanda che sto per farle, che potrebbe considerare
impertinente. Ho avuto l’impressione che i vescovi di Agrigento guardano a
Racalmuto più dalla parte dei ricchi che dalla parte dei poveri. Lungo i secoli
sembra che si sia snodato, senza interruzione, un filo conduttore - da Horozco
al vescovo Peruzzo - benevole con i ricchi racalmutesi; ostile verso i poveracci.
Per converso il clero locale è stato in opposizione a questa condotta
ambivalente dei vescovi agrigentini. Quali le sue considerazioni? Quali le sue
controdeduzioni?
R.: Da precisare che a
Racalmuto il clero ha raggiunto la quota di n.° 52 componenti. Quindi fu un
clero molto forte. Vi sono anche i monaci. Se diamo uno sguardo ai testimoni
che hanno firmato il documento sulla fama di santità del padre Lauricella,
notiamo ben n.° 32 sacerdoti firmatari di quell’atto. Ciò dimostra la
solidarietà, coesione e serietà di quel folto clero del Settecento Racalmutese.
Che in siffatta compagine sacerdotale serpeggiasse ostilità verso i vescovi
agrigentini, non risulta. Risulta, invece, una estrema prudenza, una grande
cautela dei vescovi agrigentini nelle cose di Racalmuto, che hanno guardato con
circospezione ma anche con tanta carità. Si pensi all’autorizzazione accordata
dalla curia vescovile di Agrigento ad ipotecare i "giogali" preziosi
delle chiese racalmutesi, pur di sfamare il popolo nella tragica congiuntura
alimentare di fine Settecento. Più in generale, può affermarsi che in curia
vigesse una valutazione positiva del clero racalmutese, cui si lasciavano ampi
spazi di autonomia amministrativa; per contro, il clero racalmutese è stato
sempre ligio agli indirizzi episcopali in materia di fede e di morale.
Che vuol dire essere arciprete a
Racalmuto?
D.: Essere arciprete a
Racalmuto è identico che esserlo in qualunque altra parrocchia
dell’agrigentino?
R.: Bisogna
intendersi. Una volta l’arciprete era quasi un mezzo vescovo. Al suo
presentarsi ci si doveva togliere la "scazzetta" o la
"birritta". Era il grande datore di lavoro del luogo. Era il
distributore di messe ai tanti sacerdoti che non disponevano neppure di una
piccola chiesa (ed a Racalmuto di chiese ce ne erano tante). Oggi, l’arciprete
è alla stregua di tutti gli altri parroci. Un primus inter pares,
magari, ma niente di più. E questo a Racalmuto, come altrove.
Il belato delle pecorelle
D.: Nei confronti
della Chiesa, le "pecorelle" racalmutesi belano più o meno rispetto a
quelle delle altre parti?.
R.: Beh! se le
pecorelle "belano" perché bramano pascoli più ubertosi, allora è ben
giusto che belino. Se poi è vezzo critico - molto diffuso in questo nostro
paese - allora bisogna rintuzzare quelle critiche. Oggi si parla molto di
dialogo. Quindi, con spirito di carità, la dialettica con il popolo di Dio deve
essere fervida, reciprocamente rispettosa, missionaria. Diceva papa Giovanni
«chi è dentro deve sforzarsi di guardare a quelli che stanno fuori; chi è fuori
deve sforzarsi di guardare meglio dentro. » Forse, se Sciascia si fosse
sforzato di guardare meglio dentro, non sarebbe incorso in quelle critiche... diciamo,
esagerate. Sciascia guardava alla Chiesa dal lato esterno. Anche la Chiesa è
un’istituzione, che nella sua componente terrena può venire migliorata.
Comunque, quelli che dall’interno ci produciamo, talora, in critiche, tentiamo
di migliorarla. A Sciascia, forse, di migliorare la Chiesa con le sue critiche
non importò granché. Diceva madre Teresa di Calcutta, a chi parlava male della
Chiesa: «Lei che cosa ha fatto per la Chiesa? Niente! Ed allora?».
Sciascia e gli eretici di Racalmuto: fra Diego La
Matina, il notaio Jacopo Damiano e la strega Isabella Lo Voscu.
D.: Detto, tra
parentesi, che Leonardo Sciascia, immenso scrittore, è stato secondo me, un
pessimo politico ed un massacratore della storia locale di Racalmuto, ho da
precisare che nei miei studi storici su Racalmuto, che modestia a parte, credo
che abbiano una qualche valenza, non ho mai riscontrato moti locali che
sapessero di eresia. La vicenda di fra Diego La Matina è tutta da studiare e va
totalmente revisionata rispetto all’abbozzo forzato di un testo come Morte
dell’Inquisitore. Il notaio Jacopo Damiano - notaio di fiducia del barone
Giovanni del Carretto negli anni sessanta del 1500 - ridonda, nei suoi rogiti,
di fervore religioso ed irreprensibile ortodossia. Ora si parla di una certa
Isabella Lo Vosco (o Bosco) come eretica. Costei, murata viva per dieci anni
dall’Inquisizione, appare più che un’eretica, una mondana che ai suoi tempi
destava scandalo, specie fra i famigli del Sant’Uffizio. Una questione dunque
di morale sessuale e l’ortodossia c’entrava ben poco. Quindi Racalmuto può
definirsi un popolo fedele alla Chiesa. Concorda?
R.: Racalmuto è stato
sempre fedele alla Chiesa e quando vi è stato il famoso scisma di Grotte,
nessun racalmutese è stato coinvolto. Né vi fu, da parte di un qualche
sacerdote o di un qualche laico, moto alcuno di simpatia o di fiancheggiamento
a quella ribellione di ecclesiastici grottesi. Quanto al protestantesimo - che
qua e là nell’agrigentino un qualche proselitismo è riuscito ad avere - qui a
Racalmuto esso è stato sempre rigorosamente bandito. Qualche elemento viene ora
da Agrigento, ma è fatto trascurabile. Il motivo? Diceva il grande padre
Parisi, eccelso predicatore - anche il Circolo Unione si sentì in dovere di
accoglierlo come socio onorario -, diceva dunque il padre Parisi: è grazia
della Madonna del Monte. La devozione alla Madonna a Racalmuto è stata sempre
profonda e radicata. Ciò l’ha preservato dall’apostasia. La bontà, l’attaccamento
alla chiesa ed altre doti del popolo di Racalmuto restano comprovati dai tanti
documenti d’archivio, che anche tu ed il prof. Giuseppe Nalbone state
studiando, con risultati conformi a questa valutazione.
D.: Ma questo è un
atto di fede, o di speranza o di carità verso i racalmutesi?
R.: Credo solo che sia
un atto di giustizia e di sincerità. Alla carità gratuita, non bisogna
indulgere. Cerco solo di essere obiettivo e sincero. Ma i momenti di
smarrimento che per avventura vi siano stati a Racalmuto vanno presentati con
altrettanta sincerità ed obiettività. Non sono comunque uno storico per avere
di siffatti problemi. Tocca a chi cerca la verità storica, essere veridici, a
qualunque costo. Amicus Plato, sed magis veritas, mi pare che un tempo
si dicesse, quando era di moda il latino. Ed oggi Sciascia appare tanto Plato!
* * *
Le opzioni umane dell’arciprete
D.: Il 25 dicembre
1991 lei diceva: «fare cose utili, dire cose coraggiose, contemplare cose
belle: ecco quanto basta per la vita di un uomo». E per quella di un prete?
R.: Per la vita
di un prete è immergersi nella preghiera. E’ entrare nel vivo della vita dei
propri parrocchiani. Sapere portare gli altri, con la forza dello spirito di
Dio, al Padre. Se questo si riesce a fare, si può dire che il prete è riuscito.
Se questo non riesce a fare, il prete, pur avendo avuto l’ordine sacro, è
sempre un fallito.
e quelle dello spirito
D.: L’altro giorno,
quando è stato celebrato il suo quarantacinquesimo anno di sacerdozio, lei
pronunciò un’omelia memorabile. Ci sono stati tre passaggi che mi hanno
particolarmente colpito:
1) un oscuro
riferimento ad un deserto da attraversare;
2) un ribadire, quasi
con rabbia, «io sono comu l’ovu, ca cchiù si coci, cchiù duru addiventa»;
3) un suo non volere
scegliere tra l’atteggiamento pratico e conservatore di S. Pietro e
l’atteggiamento speculativo ed innovatore di San Paolo.
Vuol commentare?
R.: Io non oso
mettermi, sia pure lontanamente, a confronto con tali giganti della Chiesa.
Cerco di imitarli quanto più posso, essendo noi i continuatori della loro
missione. Quando faccio qualche battuta del tipo «cchiù mi cuociu, cchiù duru
mi fazzu» intendo sottolineare la mia ostinazione, il mio attaccamento, il mio
volere essere sempre più fedele al sì, a quell’eccomi pronunciato
al tempo della mia consacrazione sacerdotale. Voglio perseverare nella grazia
che Dio concede giorno per giorno, perché nell’amore di Dio si cresce giorno
per giorno. Nessuno può presumere di essere arrivato. Nessuno deve adagiarsi.
Ed allora ecco il cammino, che può essere un cammino nel deserto, che può
portare incontro al proprio Calvario. Sono tappe, anche dolorose, che vanno
ostinatamente raggiunte e superate, ad imitazione di Cristo. Con l’andare degli
anni, si riflette maggiormente. Ci si accorge di avere avuto dei difetti. C’è
bisogno di maggiore ostinazione, ma non basta la buona volontà: occorre la
grazia di Dio.
Come è cambiato Racalmuto in
quest’ultimo cinquantennio.
D.: In questi
quarantacinque anni, Racalmuto, sotto il profilo della fede, di quello morale e
di quello sociale, è migliorato o peggiorato?
R.: Anche Racalmuto,
come tutto il resto del mondo, ha subito l’influenza generale. Se Berlino
piange, Roma non ride e viceversa. Siamo in epoca di cosiddetta planetarietà.
Il mondo è diventato, davvero un paese. Il nostro paese è diventato, in certa
misura, il mondo, nel bene e nel male. A Racalmuto - possiamo dirlo - un
miglioramento c’è: lo Spirito Santo soffia dove vuole e sta soffiando un po’
dovunque, anche a Racalmuto. Quindi i movimenti che nascono, gli oratori che
rinascono. Il bisogno di pace, il bisogno di associarsi, il bisogno anche di
rinnovarsi. Si avverte, e questo è già molto. Ma Racalmuto subisce anche
l’ondata deleteria del rilassamento dei costumi, del consumismo, del
materialismo.
D.: A Racalmuto vi
sono molto meno vocazioni di una volta. E’ un segno negativo, è un momento
transitorio, è un indice di un certo affievolimento della fede religiosa?
R.: La scarsità delle
vocazioni è un segno di crisi, più che del sentimento religioso, della
famiglia. Oggi la famiglia è in crisi. I mass-media hanno operato
negativamente. C’è stata anche una crisi di fede: non si può negare. Un paese
antico come Racalmuto, ha risentito con un certo ritardo degli effetti
negativi. Noi preti dobbiamo puntare di più sulla catechesi, sull’istruzione
religiosa e sulla vita liturgica.
D.: Racalmuto, il
popolo di Dio di Racalmuto, è sincero con i sacerdoti, o no?
R.: Beh! Se
vedono un sacerdote che si muove, che agisce con serietà, con purezza
d’intenti, sì. Non si guarda più tanto al grado di cultura del prete, perché la
gente vuole ed esige un servizio all’insegna della charitas, dell’amore.
Dove non c’è amore, scatta la critica. Del resto il Vangelo lo dice: se il sale
è insipido, lo si calpesta; se il sale è buono, lo si apprezza.
D.: A Racalmuto la
fede è diversa a seconda del sesso, dell’età, delle classi sociali?
R.: Sì. La gioventù,
ad esempio, è stata un poco più lontana. Ma qualcosa si muove in senso
positivo. Si è costituito un oratorio, si è costituita una consulta giovanile.
Cresce il richiamo associativo tra i giovani. Le donne sono più vicine: ciò è stato
sempre scontato. Una qualche indifferenza religiosa è atavica fra gli uomini
anziani. E qui l’asino zoppica. Dovremmo trovare la maniera come mobilitare
anche gli uomini. Abbiamo trovato delle difficoltà anche con questi Centri
d’ascolto familiari. Non solo qui a Racalmuto, ma anche in tutta la diocesi. Mi
ero permesso di suggerire qualcosa per interessare gli uomini, specialmente la
sera.
La morale sessuale di Racalmuto
D.: Ho l’impressione
che la morale sessuale a Racalmuto sia stata una cosa molto relativa e talora
inquinata. Si levano dai documenti d’archivio sussurri e grida che fanno
intuire scelleratezze consumate qualche volta persino nel chiuso delle
famiglie. E’ un mio pessimismo o lei non intende accedere ad una provocazione
del genere?
R.: I misfatti
di sesso sono capitati ovunque. La verità è un’altra: siamo portati a
scandalizzarci oltre misura quando i fatti di sesso investono la vita
religiosa. Siamo portati a credere che tutto un edificio crolli. Ma non è
soltanto questo il succo della morale cristiana. E’ tutto l’insieme di atti, di
comportamenti. Ed allora è erroneo pensare che se si verificano peccati di
sesso, non c’è più religione. Assolutamente, no! Ci possono essere grandi
convinzioni e ci possono essere grandi cadute.
D.: Ma io non mi
riferisco alla sessualità dei preti. E’ un problema troppo grosso e troppo
grande per affrontarlo io. Mi riferisco, però, alla morale sessuale corrente
del cosiddetto popolo di Dio, che in questo mi sembra troppo poco popolo di
Dio, per quanto riguarda Racalmuto. E non tanto per un certo tipo di
sessualità, diciamo così sfrenata che può rientrare nell’ordine umano delle
cose, quanto per quell’andare al di là, oltre il pentagramma e pigliare certe
stecche. E non sono, secondo me, fatti isolati, ma palesano un certo costume di
vita che non va criticato - perché nulla che è umano è criticabile - ma
sicuramente non va ammirato.
R.: La prevenzione è
sempre il problema più difficile. Là dove la prevenzione è stata praticata, si
è evitata la frana. Laddove si è fatto di meno, certamente la frana si avverte.
Ora qui a Racalmuto occorre praticare un metodo preventivo - ed io come
sacerdote credo di averlo fatto nella scuole. Per quanto riguarda il passato
gli antichi nostri non ci davano un contributo, per premunirci dai mali che
oggi sovrastano. E’ certo, però, che la gioventù di oggi è più preparata e più
attenta rispetto al passato. Le coppie degli sposi sono più preparate. Vi sono
i corsi di formazione. Certo si suol dire che male comune, mezzo gaudio. E
l’opera nefasta dei mass-media, del materialismo dilagante, si fa sentire. E’
in atto una scristianizzazione subdola. La famiglia è stata minata nelle sua
fondamenta: vedi divorzio, aborto, etc. che per noi cristiani sono piaghe e
piaghe anche sociali.
D.: Racalmuto ebbe
certamente una cultura contadina, quindi chiusa e sessualmente repressa e
tendente agli eccessi. Questo, però, vale per la Racalmuto antecedente agli
anni ’50-’60. Dopo, in coincidenza con la sua arcipretura, Racalmuto - se debbo
giudicare dall’esterno - ebbe un salto di qualità. Certe repressioni della
società contadina non ci stanno più. Oggi, ci saranno ... peccati, ma normali;
prima, i peccati potevano invece apparire ... anormali.
R.: Io, nei
primi anni di sacerdozio, ebbi infatti a notare un periodo, definiamolo,
preconciliare. Vigeva allora quella moralità antica. Sembrava che stesse bene
per tutti. Ma apparvero subito le prime avvisaglie dell’incombente grande
corruzione. Abbiamo dovuto provvedere. In Azione Cattolica ed in altre
associazioni cattoliche abbiamo intrapreso ad affrontare problemi di morale che
prima era azzardato toccare. La questione sessuale, nelle scuole, io l’ho
affrontata, naturalmente con le dovute cautele e ... con le pinzette. Allora
c’erano le denunzie che si facevano con estrema facilità. Nelle scuole medie -
ricordo - c’è stata una preside che mi diceva: meno male che c’è lei a trattare
questi argomenti, perché gli insegnanti sono ostili a trattarli, per paura
delle denunzie. Il paese nostro era, comunque, un paese chiuso, un paese di
montagna. Appena si è affacciato, con i ragazzi che andavano a scuola, non
appena cominciarono a muoversi, vi furono le prime vittime che finirono subito
... segnalate. Due periodi a confronto si ebbero, in ogni caso: quello
preconciliare e quello successivo in cui le cose cominciarono a vedersi con
altra ottica.
La politica della Curia Vescovile di
Agrigento.
D.: Continuo sul piano
della provocazione. Nel Settecento, mi è sembrato che ci fosse un atteggiamento
differenziato della curia vescovile nei confronti dei matrimoni tra parenti.
Quando si trattava di poveri, scattava tutto un processo con l’adozione di
provvedimenti che imponevano atti di mortificazione pubblica. I fidanzati
dovevano cingersi il capo con una corona di spine e in ginocchio dovevano
chiedere perdono sul sagrato delle chiese: dovevano così recitarsi in ginocchio
tanti rosari davanti a tante chiese. Veniva dato incarico al Vicario Foraneo
affinché vigilasse sul completo adempimento delle penitenze inflitte. Quando,
invece, si trattava dei cosiddetti galantuomini, i matrimoni tra parenti, anche
tra primi cugini, non solo non venivano osteggiati ma persino favoriti. Ci si
guardava bene dal comminare pubbliche penitenze come per i poveri. E questo si
trascina fino a certi conclamati gesuiti dell’epoca contemporanea. Questa
faccenda, al laico suona molto strana. Si domanda: ma che ci stanno, secondo la
curia vescovile, due morali matrimoniali: quella dei ricchi e quella dei
poveri? Per converso, il sacerdozio locale mi è apparso piuttosto lungimirante
ed equo.
R.: Che in passato ci
sia stato qualche inconveniente, è fuori discussione. La Chiesa,
si sa, dall’interno ha modificato certi atteggiamenti giuridici. Molti canoni
sono stati aboliti, molti canoni attenuati, molti canoni cambiati. Abbiamo un
codice nuovo, ben diverso da quello antico. La Chiesa ha dovuto modificare il
suo atteggiamento per stare al passo con i tempi. C’è stata una maturità
popolare e questa è stata registrata dalla Chiesa. Ricordo che nei primi anni
di sacerdozio, per i fuggitivi c’era il matrimonio in sagrestia. Era
umiliante, ma serviva anche da deterrente, per evitare gli abusi. Oggi la gente
ha più maturità, più coscienza. Una mea culpa ricade sui sacerdoti, che
non erano riusciti a far maturare religiosamente i propri fedeli. Ma c’era il
peccato per ignoranza della povera gente e bisognava correggerla per evitare il
peggio. Le ingiustizie? E dove non sono?
Vi è stata una doppia morale
matrimoniale?
D.: Durante
l’arcipretura Puma, ho avuto l’impressione - naturalmente sono un osservatore
non qualificato ed esterno - che le due morali matrimoniali, quella dei ricchi
e quella dei poveri, si siano finalmente unificate. Non posso dire altrettanto
per l’arcipretura del suo predecessore.
R.: Beh! .. il mio
predecessore ha avuto grandi virtù: sono stato con lui una vita. Carattere
forte, duro, qualche volta, ma a volte era necessario prendere atteggiamenti e
decisioni dure. Bisognava creare una certa coscienza. Andare ai Sacramenti
senza una preparazione, accostarvisi con leggerezza, erano malvezzi da
correggere, anche con durezza. Quell’arciprete andava giustificato. Avrei
preferito, invece, meno severità e più disponibilità verso la gente. A ciò ci
stiamo uniformando io ed i miei confratelli. Bisognava più convincere che
reprimere. Con l’amore si ottiene di più, come diceva don Bosco, della
rigidità.
Ricchi e poveri, tutti uguali?
D.: Perché negli alti
prelati c’è una sorta di diffidenza nei confronti dei poveri ed una sorta di
intelligenza con i ricchi? Ci si scorda che nel Vangelo sta scritto «è più
facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel regno dei
cieli»? Perché invece i parroci, l’arciprete, il basso clero che sono più a
contatto con il popolo, sovvertono quell’atteggiamento?
R.: Diceva il servo di
Dio padre Elia Lauricella: «bisogna avvicinare i ricchi e tenerseli vicini
perché facciano del bene ai poveri.». Credo che questa sia una strategia
intelligente, pastorale. Nel Vangelo non c’è scritto che si devono disprezzare
i ricchi. Certo non bisogna affiancarsi ai potenti sol perché sono potenti.
Occorre comunque stare in mezzo ai poveri, perché la Chiesa è dei poveri. Lo
diceva anche papa Giovanni: Ecclesia pauperum. Essere poveri non va
considerata una gran bella cosa. La maggior parte del mondo vive in povertà non
per sua scelta. Sorge il problema dell’aiuto che occorre approntare. Un aiuto
verso i fratelli poveri.
I vescovi "rinascimentali"
agrigentini.
D.: Premesso che a me
i vescovi rinascimentali non piacciono, mi pare che gli ultimi tre o quattro
vescovi agrigentini siano di tutt’altra paste. Non sono, di certo,
rinascimentali.
R.: Sì, I vescovi di
oggi sono diversi, perché è cambiato anche lo stile della Chiesa. I
trionfalismi di una volta sono sorpassati. Il tipo di cultura ecclesiale è
cambiato. Il vescovo ora è fratello fra i fratelli, per quanto riguarda i
sacerdoti. Il vescovo è ora un pastore: gira, si muore, entra a stretto
contatto con i fedeli della sua diocesi. Prima, invero, non era così. Ai tempi,
il vescovo aveva il potere, aveva autorità e quindi era il vertice. Oggi, con
il Concilio Vaticano II, il Pastore sta al centro: la Chiesa non è più
verticale, come si pensava una volta; la Chiesa è circolare. Al centro il
parroco con le varie entità come il Consiglio pastorale, presbiterale,
Consiglio economico. Prima il parroco era il deus ex machina e
accentrava tutto, mentre i laici erano scollati. Oggi il laicato ha ripreso il
suo ruolo. Rammentiamoci che il laicato ha i doni che abbiamo avuto noi
sacerdoti: il laico battezzato è sacerdote, fa parte del regno di Dio, ed ha
anche l’ufficio profetico. Quindi i laici predicano, annunciano la parola di
Dio e mutano nel tempo.
Il laicato racalmutese
D.: A tal proposito,
c’è a Racalmuto un laicato fervido?
R.: Grazie a Dio, sì.
Anzi, addirittura qualche vescovo mi diceva: «fortunato, perché lei ha
collaboratori numerosi». Non possiamo cantare vittoria .. ma, tutto sommato, ci
è lecito un moto di soddisfazione. Sotto questo profilo, siamo a posto.
D.: Quando nel 1960 ho
dovuto emigrare da Racalmuto, per motivi di lavoro, ho lasciato un paese
povero, con grande miseria, con strade sporche, con case invivibili, oggi - a
parte il vezzo di piangere miseria, che è vecchia abitudine contadina - il
paese mi pare di gran lunga cresciuto, economicamente parlando. A questa
crescita economica - se vi è stata - si è accompagnata una crescita religiosa?
R.: Sì, possiamo
affermare con certezza che c’è anche una crescita religiosa. Ad esempio, le
varie parrocchie - che prima stentavano ed avevano vita grama - ora sono
fervide, con varie associazioni, con tante belle iniziative, vi si celebrano
incontri parrocchiali ed interparrocchiali. La consulta che già è nata fra i
giovani è efficiente. Abbiamo organizzato gli incontri anche col Vescovo.
Stanno sorgendo, anche, dei movimenti artistici, lirici. Tutte le occasioni
servono per essere anche noi presenti e dire una buona parola, anche di
incoraggiamento. Ciò dimostra che cosa? Una maggiore apertura ed una maggiore
coscienza da parte delle famiglie che incoraggiano questi ragazzi a vivere la
vita della parrocchia. Sarebbe auspicabile che le Amministrazioni comunali
concertino con le parrocchie attività a respiro annuale. Su questa lunghezza
d’onda ancora non ci siamo.
Fede e preti a Racalmuto
D.: Trenta
quarant’anni fa, a Racalmuto - mi consenta una battuta - c’erano tanti preti ..
e poca fede; ho l’impressione che ora ci stia tanta fede ma pochi preti.
R.: Ih! ...ih! ... ih!
[piccolo accenno al riso]. Vuoi forse dire che è scattato un processo
inversamente proporzionale? Beh! Io non vorrei giudicare il passato; comunque
mi consta che nel passato vi erano uomini di fede granitica. Se la fede si deve
misurare dalle opere, allora dobbiamo dire che in passato attività se ne
fecero. Le varie chiese che sono state costruite dalle varie maestranze sono
l’attestato più bello. Le varie opere caritative come la casa della
fanciulla, la Misericordia (quella della mastranza), il
maritaggio dell’orfana, furono edificanti iniziative dei nostri padri
racalmutesi, atti bellissimi di fede. Ecco, perché mi sembra un po’ azzardato
avanzare riserve sulla fede degli antichi di Racalmuto. Col cambiare dei tempi,
certo cambiano le manifestazione di fede. Anche oggi abbiamo tante belle manifestazioni
di fede .. specie per l’apporto dei laici che suppliscono alle deficienze
numeriche di sacerdoti.
D.: Altra domanda
scottante... Come giudica le vicende politiche di Racalmuto?
R.: Beh! .. Racalmuto
ha avuto la mala sorte di avere subito amministrazioni poco accorte. Forse
elementi non preparati sufficientemente hanno potuto scalare i vertici del
potere locale. Ma contro le tristi vicende che abbiamo subito c’è stata una
reazione che dobbiamo definire sana. Si è cercato di ovviare alle varie piaghe
che si sono aperte. Ma dal punto di vista amministrativo, c’è stata una specie
di corsa .... ai beni, più che al bene comune. Ai beni, di vario genere. Quindi
il paese si è sviluppato piuttosto caoticamente. Ognuno ha cercato di fare a
modo proprio. Tanti hanno cercato di affermarsi con il potere. In case, sono
finiti i sudati risparmi dell’onesto lavoro dei racalmutesi, del lavoro degli
emigranti. In politica, qualcosa, molto deve cambiare: così il paese non può
migliorare.
[Questo passo
dell’intervista appare decisamente datato: si riferisce al tempo - trascorso
ormai da vari anni - in cui si è svolta la stessa intervista. Non vi si può
attribuire valore attuale o riferimento alla presente congiuntura
politico-amministrativa del paese, n.d.r.]
Quarantacinque anni di eventi
D.: In quarantacinque
anni di sacerdozio, ne saranno successi di tutti i colori. Ricorda eventi
belli, eventi brutti?
R.: Eventi brutti? ...
possiamo dire anno per anno. Eventi belli, dopo la guerra? ... quelli a livello
nazionale della ricostruzione. Riflessi sul posto, tanti. Poi abbiamo avuto il
nefasto blocco dell’attività edilizia. Dei tempi buoni, a respiro nazionale,
noi racalmutesi ne abbiamo usufruito, però, tutto sommato, poco. La povera
gente è rimasta delusa. Molti dovettero uscire fuori dal paese, per trovare
lavoro. Sono dovuti andare a cercare pane altrove. In Germania, ad esempio. E’
stata un’emigrazione dolorosissima. La migliore gioventù è dovuta emigrare.
Andare negli Stati Uniti, in Canada. Qualcuno poté emigrare con qualche
documento parrocchiale ... vorrei dire un po’ ... truccato. Allora c’era lo
spauracchio del comunismo. Qualcuno doveva, per emigrare, rinnegare la propria
ideologia, che poteva risultare sgradita e fingere di professare quella ... gradita.
Tutto questo non è stato bello. Abbiamo avuto le sciagure minerarie del Belgio
che hanno coinvolto anche nostri emigranti. Sono uscito diverse volte: sono
stato in Belgio, in Germania, due volte negli Stati Uniti. Ho avuto modo di
vedere i nostri emigranti nella loro nuova patria; ho potuto scorgere il buono
ed il cattivo, il positivo ed il negativo, della loro nuova vita.
In definitiva, il
paese, dal punto di vista socio-economico, non possiamo dire che sia migliorato
di molto. Si è soltanto difeso.
D.: .... sono convinto
che se si sapesse la verità sui depositi bancari, sulla sottoscrizione dei
titoli pubblici, sulle disponibilità, addirittura, in valuta estera, sui
depositi postali, di Racalmuto, forse, il giudizio cambierebbe.
R.: Sì, perché si
tratta di un paese parsimonioso. Noi in definitiva discendiamo dai giudei:
risparmiatori, avvezzi alle banche, ai depositi. La gente nostra non è abituata
ad investire. Anche perché ha avuto diffidenza verso le istituzioni finanziarie
(e talora grosse fregature). Una diffidenza che ha investito anche le
istituzioni finanziarie d’ispirazione ecclesiastica.
D.: Padre Puma, lei
accennava alla grande emigrazione degli anni quaranta, cinquanta... sessanta.
Ne derivò un forte flusso di rimesse degli emigranti... mal convertite in lire
dalle banche. L’Italia ha potuto sfruttarle per costruire le sue fortune, per
cui oggi, nel bene o nel male, viene considerata la sesta, settima ottava
potenza economica del mondo. Queste rimesse degli emigranti, già mal convertite
in lire e finite in depositi bancari, sono state quindi polverizzate
dall’inflazione galoppante degli anni settanta. Lo Stato quindi è doppiamente
debitore nei confronti di Racalmuto. Non riesco a capire perché a livello
nazionale si vuole recitare il de profundis allo Stato assistenziale
e rompere con ogni forma di sovvenzione al Sud (e quindi a Racalmuto),
dimenticando che si debbono atti di risarcimento, di riparazione. Lei è
sacerdote e quindi le cose dell’economia le lascia agli economisti. Il suo
parere resta però sempre interessante: si tratta pur sempre delle condizioni di
vita dei suoi parrocchiani.
R.: Io - per quello
che ho potuto constatare, sentire, avvertire - debbo sottolineare che qui la
mano del minatore, del bracciante, dell’operaio, del commerciante, è stata
sempre defraudata. Il mare di rimesse dall’estero non ha lambito, vivificato le
nostre aride terre. Sono d’accordo, dunque, sul fatto che lo Stato è fortemente
debitore. Addirittura, se ci rivolgiamo alle banche per prestiti, loro fanno
gli indiani verso i racalmutesi. Le banche locali, già assorbite da quelle
colossali del continente, sono molto aperte a prendere (i depositi
racalmutesi), ma del tutto restie a dare (accordare prestiti, finanziare,
etc.). Noi non abbiamo avuto agevolazioni da parte delle banche. Sono scesi
come i predatori - mi dispiace dire questa frase - perché sanno dove pescare. E
qui hanno sempre pescato un po’ tutti. Nel vicino paese di Grotte, invero, è
stato diverso. I grottesi si sono serviti delle banche per i loro investimenti,
ma lì vige un’altra mentalità, diversa da quella racalmutese. Non va sottaciuto
il ruolo della Regione Siciliana. Essa ha comprato a poco prezzo le miniere: ha
fatto sorgere delle società alquanto speculative. Beh! Sappiamo tutti come sono
andate a finire le miniere racalmutesi. Quando si è finalmente levata una voce
di protesta, questa voce - voce nel deserto - è stata soffocata.
Una rapina di Stato.
D.: Di fronte a questa
- che io azzardatamente chiamerei - rapina di Stato, secondo lei il sacerdote
deve mantenere un atteggiamento di dignitosa distanza o è chiamato ad elevare,
se non altro, un grido di protesta?
R.: Ma credo
che il grido di protesta sia stato spesso elevato. Io non accetto la supina
rassegnazione che alcuni, impropriamente, dicono cristiana. La rassegnazione
cristiana è valore ben diverso rispetto a ciò che suona omertà, silenzio,
acquiescenza che per secoli hanno danneggiato questa povera gente siciliana.
Tanto ha dato adito al rifiorire della mafia, all’ingrossamento delle fila
della mafia, ai 43.000 killer che spadroneggiano e fanno tutto quello che
credono. Tutto questo è l’effetto. Ma le cause non sono forse quelle a cui
abbiamo accennato? Chi doveva provvedere non ha provveduto. Chi doveva agire
non ha agito. Chi doveva gridare non ha gridato. Noi sacerdoti abbiamo questo
compito di gridare perché si dice: il cane che non abbaia, non è un buon cane. Noi
siamo come i cani da guardia che dobbiamo abbaiare, se non altro per
scongiurare i pericoli. Ma non basta denunciare i pericoli, occorre provvedere.
Mettersi a fianco della povera gente, a fianco dei sindacati, in un’azione a
pro’ dei meno abbienti.
D.: Ci stanno le virtù
teologali ed i peccati capitali ... Quanti sono .... sette i peccati capitali,
mi pare. Quali sono le virtù teologali dei racalmutesi e quali i peccati
capitali?
R.: Le virtù teologali
- lo sappiamo - sono fede, speranza, carità. Vivere solo di speranza significa
... morire disperati. La fede non è soltanto fede che ci sia Dio, ma mettere in
pratica i comandamenti e la legge di Dio, costi quello che costi. Qualcuno
magari ci rimette la pelle. Amare non è vacuo parlare. Amore significa condivisione:
soffrire con quelli che soffrono e magari qualche volta venire emarginati.
Qualche volta ti sbattono la porta in faccia e tu devi essere inopportuno come
dice S. Paolo.
I vizi capitali sono
sette, ma sono ancora di più, i vizi. Quelli sono capitali, ma ce ne sono tanti
altri, che magari possono sembrare virtù. ( ih!..ih!... sorrisetto beffardo).
D.: Mi rendo conto che
non possiamo continuare su questo tasto perché la prudenza del sacerdote è
ostativa. Scatta da parte mia il sacro rispetto verso la riservatezza totale
del sacerdote che non può certo svelare i segreti più intimi dei suoi
parrocchiani. Passiamo ad altro. Nel 1860 Garibaldi conquista anche Racalmuto.
Distrugge tutti i pii lasciti che sono costati lagrime di sangue alle nostre pie
trisavole del cinquecento o del seicento. Sussistevano vincoli: dovevano
recitarsi sante messe in perpetuo per la loro anima. Pro Deo et anima
testatricis è la formula ricorrente nei Rolli delle confraternite che si
conservano in Matrice. Tali sacri vincoli, oggi come vengono onorati?
Garibaldi a Racalmuto. Parliamone male!
R.: Garibaldi da buon
cattolico finisce col depredare chiese, conventi e pii lasciti. Pio IX, da
papa, finisce recluso in Vaticano. E’ la storia. Oggi, quanto alle sante messe,
supplet ecclesia. Noi sacerdoti continuiamo a dire le messe e sappiamo
che una sola messa ha un valore infinito. E’ un atto riparatorio verso i pii
benefattori dei secoli scorsi. Da condannare tutti i gesti che si risolvono in
ingiustizia verso i poveri. Ed i provvedimenti eversivi garibaldini furono
soprusi verso gli indifesi di Racalmuto.
D.: Presso la Matrice
stanno questi Rolli delle confraternite. In gran parte sono i rolli dei lasciti
per la buona morte. Tutto ciò deve ridursi, secondo lei, ad una memoria
storica, più o meno sbiadita, o si può fare qualche cosa per una riesumazione
di questi vincoli testamentari.
R.: Per quanto
riguarda il valore monetario di quei lasciti, sappiamo bene come la moneta si
sia svilita nel corso dei secoli. La Santa Sede in tali casi dispensa, i
vescovi hanno facoltà speciali derogative. Noi sacerdoti, comunque, recitiamo
sempre le messe dei legati. Le volontà testamentarie possono dirsi rispettate.
Per il resto, anche i sacerdoti subiscono le leggi economiche. Il valore di quei
lasciti si è dissolto per effetto dell’inflazione plurisecolare.
I "galantuomini" arraffano i beni della chiesa.
D.: Lo Stato, il
comune di Racalmuto si è impossessato di beni immobiliari di grandissimo valore
economico. Si è impossessato di stabili che non appartenevano alla Chiesa, ma a
queste confraternite, che erano laiche, come prima accennato, e gestite con
spirito laico. Certi "galantuomini" di Racalmuto si sono
impossessati, a seguito delle leggi eversive, di terre, di feudi, di palazzi delle
confraternite. Hanno arraffato a poco prezzo. I sacerdoti riuscivano ad
intimorire la povera gente che abbandonava la terra che era pure riuscita a
vincere nelle pubbliche gare di concessione ed i maggiorenti locali ne
approfittavano. Gli atti della Matrice testimoniano impietosamente le piraterie
dei notai, dei signorotti dell’ottocento racalmutese. Non pensa lei che prima o
poi occorrerà chiamare in causa lo Stato, il Comune - per i privati, le leggi
sono invalicabilmente ostative - per quella immonda rapina? Non va preteso un redde rationem?
R.: Per quanto
riguarda il passato, credo che purtroppo non vi sia più nulla da fare.
Meritoria fu a quel tempo l’opera dell’arciprete Tirone - intelligentissimo -
che salvò il salvabile. Il Collegio di Maria, qualche chiesa, qualche convento.
Oggi non è più possibile recriminare, non è neppure opportuno rivangare il
passato. Con il Concordato, si è transatto su tanto contenzioso. Quello che si
è salvato oggi è stato destinato al sostentamento del clero. Alcuni beni sono
rimasti alla chiesa locale e servono per le attività pastorali e sociali.
Attualmente c’è l’otto per mille dell’Irpef per consentire ai sacerdoti di
vivere per l’altare. Auspichiamo che siano i fedeli con le loro offerte
spontanee a fornire gli occorrenti mezzi finanziari all’intera struttura
parrocchiale. Un’azione rivendicatrice dell’antica manomorta rifomenterebbe
atteggiamenti anticlericali, decisamente da scongiurare. I fedeli apprezzano i
loro sacerdoti, se operano con spirito evangelico e abnegazione. I fedeli di
oggi son ben diversi da quelli dell’ottocento, anche a Racalmuto.
Il restauro di Santa Maria di Gesù
D.: Nel 1550 circa la
Confraternita di Santa Maria di Gesù, ha costruito l’omonima chiesa, prima
chiamata di "jusu", alla latina "deorsum", quindi
"inferioris" e poi "maioris". Questa Chiesa finita poi ai
francescani, per un arbitrio del solito vescovo spagnolo Horozco, è stata poi
requisita negli anni sessanta dell’ottocento dallo Stato. Ultimamente hanno
fatto dei lavori cosiddetti di restauro, distruggendo tutte le cripte che ci
stavano. Sono sparite tombe antiche per le quali abbiamo dovizia di fonti
documentali. C’era ad esempio la cappella del sac. Monserrato d’Agrò, un
sacerdote degno. Non pensa che sia il caso di formulare una qualche protesta,
anche di carattere culturale?
R.: Io ho seguito un
po’ questi lavori del Cimitero. La chiesa era stata assegnata al Comune, ma
lasciata alla disponibilità del clero locale per le funzioni religiose. Le
cripte sono aste restaurate: quelle di sotto il pavimento si sono salvate. I
documenti esistenti sono stati fotografati. Peccato che si sia provveduto molto
tardivamente. Da tempo sin dagli anni cinquanta, io ed il mio predecessore ci
eravamo adoperati per il restauro della chiesa. In altri tempi, purtroppo, non
è stato possibile. Ritardi, remore anche da parte della Soprintendenza che
rimandava sine die i sopralluoghi di rito, hanno impedito una tempestiva
opera di restauro. Finalmente si è potuto fare un restauro. Critiche o non
critiche, la chiesa di S. Maria di Gesù è salva. E’ dunque opera meritoria,
questo restauro. Qualche figura, alcuni affreschi sono scomparsi. Il Crocifisso
è stato salvato. Il quadro di Pietro d’Asaro, purtroppo, è anduto tutto a
pezzi. Non è rimasto più niente, tranne la cornice. Quindi gli altari saranno
restaurati, e così qualche statua lignea. Ringraziamo comunque il Cielo: la
struttura portante è stata messa a posto. Il tetto è stato messo a posto. La
facciata normanna pare che sia stata rifatta soddisfacentemente, anche se con
risultati non condivisibili al cento per cento.
D.: Sto trascrivendo
tutti gli atti notarili della confraternita di Santa Maria di Gesù. Lì emerge
che alla fine del ‘500, quando Pietro d’Asaro credo che ancora dovesse mettere
mano ai pennelli, si trovavano in quella chiesa un paio di quadri, La Madonna
dell’Itria e la figura del Crocifisso (non il Crocifisso ligneo), che
dovrebbero risalire al 1550. Secondo me, questi quadri furono poi regalati dai
Del Carretto o venduti dalla Confraternita alla chiesa dell’Itria ed al
Carmelo. Secondo me, quindi, si attribuiscono ancora infondatamente questi
quadri a Pietro d’Asaro. Lo studio di questi Rolli rivoluzionerà, a mio
sommesso avviso, certe versioni che si danno sull’attività pittorica di Pietro
d’Asaro. Secondo lei, che tutti sappiamo essere tanto sensibile ai problemi dell’arte,
reputa questa prospettiva, una prospettiva percorribile oppure no?
R.: Io sono convinto
che non tutti i quadri che stanno a Racalmuto e che si attribuiscono a Pietro
d’Asaro, siano effettivamente di Pietro d’Asaro. Tanti quadri gli sono stati attribuiti
anche perché si pensava che un altro pittore più bravo di lui non ci fosse
stato a Racalmuto. Sappiamo che i quadri erano fatti dietro commissione, sia
dei Del Carretto sia parte dei privati. Quando la maestranza dell’Itria
mise piede dentro la chiesa del cimitero, per accedere alla propria cappella
attraverso una porta che ora risulta chiusa, niente di straordinario che quel
quadro della Madonna dell’Itria sia stato portato nella chiesetta omonima, al
centro del paese. L’altro quadro, quello più grande con il Crocifisso
attorniato dai Santi ausiliatori, sembra appartenere al Carmine ove c’erano
altri monaci. Può, comunque, darsi che non siano di Pietro d’Asaro, questi due
quadri. Il quadro che si è rovinato pare invece indubbio che sia di Pietro d’Asaro.
Il Crocifisso ligneo, molto bello, che ancora resiste mercé il mio
interessamento, è del Seicento, (o almeno così si ritiene). Per l’attribuzione
di quei due quadri prima menzionati, aspettiamo i risultati degli studi.
D.: Questi due quadri
si trovavano in due cappelle della chiesa di Santa Maria di Gesù. Queste
cappelle sono state soggiogate con atto notarile a due famiglie racalmutesi,
per la sepoltura dei loro defunti. Fu stabilito che i quadri dovevano essere
rimossi e ceduti a disposizione della confraternita. Al loro posto, i
soggiogatari dovevano mettere un altro quadro. Uno di questi soggiogatari era
il sac. Monserrato d’Agrò. Ho il sospetto che nel fare il restauro della chiesa
non si sia tenuto conto di tutto questo patrimonio artistico e storico della
vecchia chiesa.
R.: Anche gli
ingegneri e gli architetti che mi avevano interpellato si erano travati in
grande difficoltà perché dalle ricerche che loro avevano fatto non emergeva
granché. Le notizie che avevamo allora erano rade e scarne. Ignoravamo anche
tutti questi dettagli delle fonti che si custodiscono in Matrice. Sapevamo
qualcosa del lascito per il maritaggio dell’orfana. Ma nessuno si era
addentrato nei labirinti della contabilità della confraternita. Il restauro ha
inteso ad ogni modo salvaguardare almeno la struttura portante della chiesa.
Non si poteva ancora aspettare, magari per meglio salvaguardare le varie
iscrizioni rinvenibili nell’antica chiesa. Ad esempio, all’ingresso della
chiesa, sul portone principale vi sono delle iscrizione che non è stato facile
decifrare. Pensavo ad una specie di monizione. Ho detto: vedete quello che si
può salvare. Alcune fotografie sono state fatte. E sono testimonianze che
potranno servire agli studiosi, un domani.
D.: Mi sembra che lei
- e più fondatamente di me - guardi con un certo ottimismo a questi lavori di
restauro della chiesa di Santa Maria di Gesù.
R.: Io - lo
dico francamente - non mi aspettavo che sarebbero stati capaci di salvare
tanto, quasi tutto. Non solo, ottimismo mio, ma anche obiettività. Meritano
davvero un plauso perché sono riusciti a portare la chiesa all’antico
splendore. Ricordo che nel ’50 ho celebrato una messa proprio in quella chiesa,
e già c’era lo squallore. Sono passati quarantacinque anni e vedere la chiesa ritornata
quasi come prima, pare quasi un miracolo.
Racalmuto, domani.
D.: Questa la storia.
E le prospettive di Racalmuto? Quelle morali, quelle religiose, quelle della
fede, quelle politiche, quelle economiche, secondo lei quali sono?
R.: Io credo
che se il Signore ci assiste - ho molta fiducia nella Provvidenza, nei
collaboratori - Racalmuto avrà un futuro migliore. Le chiese stanno per essere
tutte restaurate e sono un patrimonio artistico e culturale, con grande
vocazione turistica, anche. Dal punto di vista morale c’è da sperare in bene.
Guardiamo ai tanti ragazzi, ai tanti giovani che si dedicano ad un meritevole
volontariato. Gli oratori - ben quattro - sono segni tangibili di questa buona
volontà, della saldezza dell’istituto familiare. Abbiamo, anche, alcune
organizzazioni culturali, artistiche. Vedo che diverse mostre sono state
organizzate in questi ultimi tempi, segni di una crescita culturale, di una
maturità diffusa. Per quanto riguarda il fattore politico, credo che se non
cambia qualcosa a livello nazionale, regionale, non riuscirà a cambiare nemmeno
un piccolo paese. A Racalmuto, al popolo di Dio di Racalmuto, vada tutto il mio
affetto, il sincero augurio del loro parroco, di questo sacerdote prossimo alle
nozze d’oro con la Chiesa, alle nozze d’oro di un sacerdozio tutto speso qui,
in questa terra del sale e dello zolfo, dei campi e delle vigne, del pavido
commercio, della minuscola borghesia; in questo paese talora inverecondamente
bagnato di sangue, in questo paese che ad ogni buon conto ha una insopprimibile
voglia di redimersi, di migliorare, di essere civile, di avere fede in Dio,
nella sua materna Madonna del Monte. Racalmuto, ove la gente nei tempi si è
abbarbicata "come erba alla roccia". Pervicacemente. Ove la gente
vuole costruire una città del sole, la città di Dio.
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