mercoledì 28 dicembre 2011
Calogero Enrico Di Puma sommo
pittore dell'indotto sognare e soffrire racalmutese ... (Calogero Taverna)
L’umano pellegrinaggio, spesso scorata stasi, ispira ad
Enrico di Puma ineffabili moti dell’anima che vanno a camuffarsi in superficie
cromatiche, pudiche quanto accattivanti.
Non è menzogna quella di un olio o di un acquarello di
Enrico ma non è neppure decifrabile confessione: Enrico nel suo vivere ha
interne, desolate censure; può solo permettersi un riposo, una stasi appunto,
per un gioco di colori, per un guardare ilare un fiore, un cespuglio, un
arbusto, un segno, insomma un vago simbolo di quello che tutti dicono gioia
creativa di un dio abitatore di nuvole, lontanissimo, non umano, in sintesi
fattore della bella ed impalpabile natura, secondo il pretenzioso topos dei
saccenti di ogni tempo.
Nacque furente la pittura di Enrico: le frustrate rabbie del
vivere, quelle umiliate nella giovanile competizione, nelle inani intraprese
del primo eros, esplosero davvero irruenti nel brandire spatole pittoriche; si
frantumarono misterici equini, gallinacei pennuti e sbuffanti, immagini
mostruose, ittiche allusioni, ferinità improbabili. Fu pittura somma. Peccato
che si sia esaurita.
Fu esordio di falsi
preannunci; Van Gogh avresti detto; Ligabue, avresti contraddetto. Ma di Puma
non era né l’uno né l’altro: solo arcane coincidenze come capita agli artisti
indotti; e se v’è un pennello, un cavalletto, una tela, una tavolozza ed il
genio pittorico erompe, eccoti il miracolo dei colori ora in arditi
accostamenti, ora in contrasti loquaci, oppure in armonie suadenti, o in
improperi esistenziali, ed eccoti l’arte, il bello, senza regole, ingenuo; naif
diresti e sbagli.
Enrico patì sconquassi dell’animo, del cuore, dell’eros ma subito
li seppellì e la sua pittura cambiò: divenne lirica, soave, serafica; non è
però leziosa, gli sarebbe impraticabile, gli è negata da un dolore sommerso, da
un deludersi senza speme.
Pateticamente, con ingenuità sconcertanti, oggi il Nostro
ama il melodramma, ma il melodramma più italico, il più lirico, il meno
tedesco: suoi idoli, adorati con giulivo candore, sono un Caruso pregno della
raucedine della primordiale arte discografica, un Gigli rutilante di note a
commento di un incomprensibile gergo librettistico, il compaesano tenore
Infantino, giammai sommo, pingue quanto sdolcinato. Non ama l’altro paesano,
quel Puma tenore di robusta ascendenza contadina, maschio, aggressivo che pure
eccelle in talune opere di Mascagni o di Giordano.
Orripilanti «tu il mertasti» o simili ripugnanti invettive
del più decadente melodramma italico, quelle profanazioni linguistiche
causticamente infilzate da un Savinio passano inosservate all’incantato Enrico
e forse per questo il Pavarotti dalla limpida dizione non rientra nell’empireo
dei suoi dei canori.
Il contraltare, un dipingere ormai dissennatamente floreale,
con cromatismi tenui, occidui, non più confliggenti, davvero iridati. Se vuoi,
puoi anche dilettare l’occhio, acquietare l’anima, sognare o almeno contemplare,
seraficamente, senza gli eccitamenti dei sensi, senza eros. Ma stai attento:
ciò è soltanto superficie, forse anche maniera: devi però addentrarti e
scorgerai il sottosulo dello spirito, esulcerato, avvilito, persino stanco, ora
irrimediabilmente disperato. C’è tutto l’inganno dell’arte.
L’uomo piccolo, schiacciato, annichilito che pur si veste
elegante, ricercato e, se fotografato con vescovi o con i sommi del momento
letterario, si rimpicciolisce ancor più, timidamente, in estasi contemplativa,
in sottomissione allusiva, si è ormai rassegnato e dipinge per il tuo diletto e
per il suo dissolvente rinnegare la vita, bozzetti del topos del bello degli
umani, nature né vive né morte, floreali perché così piacciono ai “grandi” o in
veste talare rossa o con l’immancabile sigaretta della letteraria blasfema
ironia.
Non lasciarti ingannare: Enrico di Puma non è manieristico,
non è floreale, non è idilliaco, non è neppure melodrammatico. Guardalo in
faccia, guarda soprattutto dentro la sua pittura: è un grande dell’arte; è un
poeta d’intensa intima sofferenza dannato al sorriso giulivo, serafico,
francescano. «L’uomo son io che ride; ei quel che spegne», ci va di citare a
memoria, irriguardosamente per ogni melodrammatico rigoletto verdiano.
Una pausa eppure Enrico se l’è permessa: ha riguardato il
suo paese; Racalmuto viene visto da una prospettiva innaturale ed ecco il
casale, agglomerato informe di casupole pur ravvivate dalla mediterranea
tavolozza a rombi, a triangoli, a geometriche inframmettenze, rovinare dal
Castelluccio in giù, allusivamente in equivoca diversità, contro natura
appunto. Ora la roccia della salvezza sciasciana non è più quella del Monte
della Vergine Maria; è là ad oriente, collima con il cocuzzolo coronato da un castello
diruto, negletto, corroborato dai nostri atavici negrieri chiaramontani, posto
in terra detta dagli arabi-normanni Al Minsciar, dai berberi Gibillini e
lasciata senza nome dai bizantini che se ne servirono come «frourion».
La vicenda storica è insensa per di Puma: l’emblema
topografico invece è pregnante ed ispira accenti di lirica contemplazione del
“dolore” di un Racalmuto senza tempo “abbarbicato alla vita … come erba alla
roccia”, direbbe Sciascia. E questa fortuita coincidenza tra il dire ed il
pensare dell’unico scrittore che il paese vanta e questo indotto eppure soave
pittore dei fiori sorprende e sgomenta.
Finito con il tramontato millennio il maestro racalmutese
della penna, approdato ancor operoso e creativo a questo nuovo millennio il nostro
ingenuo pittore, le due identiche testimonianze del vero conformarsi della più
schietta dimora racalmutese dispiegano intera la immutabilità che pur muta di
pelle, ma giammai d’animo, un animo da odiare perché spesso infido, supponente,
ingeneroso, mediocre.
Noi che quell’animo tutto ce l’abbiamo dentro, restiamo
legittimati ad esecrarlo, a bestemmiarlo, a rimuoverlo almeno: un poeta ed un
pittore di questa terra a luci spente tutto redimono, tutti ci redimono.
Calogero Taverna
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