Lettera (seconda) a Patrizia
Torno a Balla, critico serio, uomo di raffinatissima cultura pittorica.
Per vivere, venne di straforo in Banca d’Italia. Lì lo conobbi, addirittura
nell’agone sindacale. Ovviamente eravamo in CGIL: duri, malefici, irriducibili:
ce la dovevano vedere con il figlio adottivo di Acerbo … e Persiani Acerbo era
– buon’anima, si dice – un fascistone inflessibile. Mentre qualcuno si
costruiva una piscina sul tetto di uno storico palazzo di Fontanella Borghese,
sfondandolo, l’Acerbo fascista moralizzava per qualche notturno colloquio in
Bankitalia con artisti d’Oltre Oceano. Una bazzecola che cercai di cassare da
rappresentante sindacale di sinistra, in una commissione interna d’inchiesta.
Vinsi allora, ma Alessandro tagliò la corda. Con il cipiglio di chi viene da
una inattingibile schiatta di eccelsa pittura, tornò a riguardarsi i quadri
delle sue due bisbetiche zie, come questo:
Se fossi pittore, da tutti mi farei ponderare meno che da Alessandro
Balla, salvo a chiamarmi Guttuso, perché siciliano, o Cagli, come preferiva un
mio grande sodale comunista di La Spezia. Apparentemente, da non temerlo molto;
ed è poi soavemente galante specie con belle donne in fiore. Mi consta,
monogamo, quasi quanto me: ma poi vatti a fidare di un bell’uomo come lui.
Di Poce dipinge, o almeno allora dipingeva, con geniale allegrezza,
forse esuberantemente come avviene quando prorompono ancor giovanili ardori.
Coloristicamente (con i colori di Roma?... Bah! Un mio amico di Bankitalia –
anche lui pittore, ma soprattutto scultore che senza essere Bernini seppe, una
volta, cogliere quello spasimo femminile del momento terminale dell’amore,
ciarlava con me della inesistenza a Roma di cieli e colori vividi). Poverino, fu
schiacciato dalla P2 osteggiata da Pertini. Non aveva neppure firmato
l’adesione a Gelli. Ma questi – su segnalazione di un compaesano del Nostro –
lo aveva allibrato; così apparve nei famosi elenchi trovati inopinatamente dal
padre di Massimo d’Alema e dal giudice Colombo in una – per loro – estraneissima
villa toscana. Il Ciampi, prima misericordioso, poi astioso, (d’un tratto era
diventato antimassonico e persino bizochero; e dire che noi in B.I. lo
credevamo laico con cazzola e triangolo) umiliò il meschinello piduista,
destituendolo nel prestigioso incarico ispettivo di vigilanza bancaria. Era il
dottor Aronadio: supplichevole una volta ebbe a telefonarmi perché intercedesse
con il terribile on. Giuseppe D’Alema, credendomi ancora suo collaborazionista.
Purtroppo avevo avuto il mio bravo disguido con il sullodato onorevole rosso,
non alieno dal credere ad una congiura ai miei danni; si tentò
giornalisticamente di accreditarmi come quinta colonna di qualche pingue mio
paesano d’America: uno scagnozzo molto remunerato da Sindona per millantato
credito presso la cupola nuiorchese di Cosa Nostra. Favola ridicola davvero, ma
ebbe facile credito presso le autorità nostrane e straniere, necessitate di
trovare diversivi credibili a loro non commendevoli orchestrazioni valutarie.
Povero Aronadio: non ne ho saputo più nulla. Credo che sia morto. Dopo una
vecchiaia comunque triste e vizza. Ecco una tragedia che non mi risulta vivificata
da pittori ed artisti. Senza futura memoria, quindi, e non dobbiamo scomodare
Sciascia per qualche introverso diniego di ciò che in avvenire sarà storia
“narrabile” alla Castro.
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