Racalmuto e le sue vicende storiche
di Calogero Taverna
Una nota a mo’ di premessa
Questa vuol essere una storia veridica su Racalmuto, una storia che presuppone ma non esplicita l’enorme quantità di documenti consultati presso i vari archivi di Roma, Palermo Agrigento e Racalmuto, per non parlare della marea di letture più o meno storiche che attengono a questo paese dell’agrigentino. Il risultato è stravolgente di ciò che agli occhi di scrive sa ormai di stucchevole mistificazione, di aporie letterarie, di voglie che traducono il desiderio di eventi memorabili in indubitabili realtà storiche. Abbiamo così miti di monaci dal “tenace concetto”, di preti in decrepita età presi da “alumbramiento” erotico, di frati omicidi, di fantasiosi eroi saraceni, di allocazione delle misere casupole racalmutesi in presunte località amene, di frati omicidi, di contesse in foia erotica, di pittori sublimi e di medici d’alta scienza e via discorrendo.
A proposito dei Del Carretto, abbiamo già scritto e qui ripetiamo:
Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da costei sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIII. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita del rampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato in un libro secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono assegnati in dote come beni “burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei Del Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che solo negli anni novanta del secolo scorso chi scrive ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di Palermo per un’ostica ma illuminante lettura.
Ma in quell’investitura, scopo, intento, occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze altisonanti: difficile credere a quanto vi si afferma nei confronti di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto; traluce invece una realtà ove si scorge la rapacità di codesti esattori delle imposte dei Martino, quei Martino che risultano più che altro gli avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Noi abbiamo speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - venne riprodotta in un CD-ROM interattivo cui si rinvia. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxororicidi a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo di bassa lega.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio, consueto per l’epoca, dei baroni del Carretto: costoro verso la fine del Cinquecento - dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) - hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto; mancano però l’obiettivo e non riescono a farsi riconoscere il titolo di marchese che fasullamente in esordio della loro signoria su Racalmuto avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che abbiamo pubblicato ne spazza via ogni briciola di attendibilità. E quel che si scrive su data e struttura del castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera sulle origini storiche del Castelluccio.
Ma ora uno sguardo ai tempi remoti.
Gli stravolgimenti geologici
Sette milioni di anni fa – qualche secolo in più, qualche secolo in meno – terminava il lungo processo di prosciugamento marino del territorio racalmutese: abbattuto l’ultimo ostacolo nei pressi di Cozzo Tondo, le acque defluirono anche da quel versante verso Passo Fonduto, e di là, lungo il Platani, verso il mare. Dal Castelluccio erano scivolati scisti di pietra dura, che scivolando verso il fiumiciattolo della Ciarla, appariranno agli autoctoni dell’epoca sicana provvidenziali macigni per le loro tombe, a mezzo tra la tecnica del “forno” e quella del “Tholos”. Alla luce dell’attuale scienza geologica – destinata a venire travolta dalle tecnologie dell’incombente futuro – siamo in tempi pliocenici.
Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunse, dunque, l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”. Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan, Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese:
1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo». Secondo tale affascinante teoria, le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di beffarda premonizione e di malefica iella.
Preistoria racalmutese
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
L’insediamento di Fra Diego è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei. Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Quello che si diparte da Licata sino ai pressi della galleria ferroviaria prossima al bivio Canicattì-Castrofilippo, viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. I reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le relative tombe a forno sono andate del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie. Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari. [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un conno”. Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche sembrano comprovare.
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno».
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici, anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino non attestano solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo molto di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in malcerte congetture.
In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine dell’Ottocento-.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, non fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.
Sempre il Tinebra Martorana ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denoma: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’interpellato risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei.
Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio del secolo scorso, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute presumibilmente nei dintorni di Santa Maria, nella costruzione di un sepolcro.
Quell'insigne archeologo procedeva ad una lettura piuttosto arruffata che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei. Altre «tegulae» sono state rinvenute nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo, si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.»
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina. Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi non resta del tutto valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a Racalmuto - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi di materiale ceramico databile ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI. Di recente Giovanni Salmeri ha iniziato l’opera di revisione nei confronti del Salinas, anche se non ha avuto il coraggio di andare sino in fondo e lasciar perdere con la datazione commodiana delle miniere solfifere racalmutesi: «le lastre della Sicilia […] sono state rinvenute a Racalmuto – scrive lo studioso catanese di storia romana – in forma intera adoperate come materiali da costruzione per sepolcro; su di esse si legge la formula ex praedis/ M.Aureli/Commodiani». E’ piuttosto circospetto il Salmeri quando annota: «Salinas in luogo di Commodiani preferiva leggere Commodi Ant(onini) pensando all’imperatore.» In effetti si trattava o di un abbaglio o peggio. Ma scoperto l’inganno, la tentazione a datare comunque le lastre è invincibile e, divenuto l’imperatore Commodo, “il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano”, non si rinuncia pur tuttavia a “collocare nei decenni finali del II secolo d. C. ”il praedium in questione”.
I dati archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro - pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes. [...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.»
In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.
I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che casualmente affiora.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.
Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare , Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il risvolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).
IL TEMPO DEI BIZANTINI
Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro abitativo più intenso era piuttosto lontano, ad un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al cristanesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo un patrimonio archeologico che avrebbe avuto un’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre ricca di reperti e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo retrocede la datazione delle monete al V secolo: cosa inverosimile se le effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo posteriori)
A seguito di una scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto insediamento in quella zona a partire da un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero romano.
L “ipogeo cristiano” di Biagio Pace si troverebbe in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto». Nostre personali ricerche ci fanno pensare che l’abbaglio del grande archeologo poggerebbe su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.
L'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou, secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas». Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione.
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove.
E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di eclissamento della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna, se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Siamo, in ogni caso, affascinati dai versi di Ibn HAMDIS e tifiamo per un grande rigoglio della civiltà araba qui da noi.
Pianse, invero, Ibn con accenti che toccano ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:.
«Ho riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in chiese,
«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.
Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.
«In entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo VII, quando l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore agricolo.
«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya».
Non è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per oltre un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania s’indussero ad appoggiare i contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorere” – poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale nome.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni normanni.
«Il cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027) indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm; portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl, Bifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.»
E’agevole intravedere nel racconto dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una mera traduzione dal latino. Credo che Chamuth abbia avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi su questo personaggio. Costui, caduto in un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma, gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella, secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanze, arroganza del potere. Sono la lingua degli uomini del potere che parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61 e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo stato servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del secolo scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un governatore di Rahal-Almut a nome Aabd-Aluhar, servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto nell'anno 998; di una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcivescovo Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui 'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino Picone.
I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome antico. Solo il Racel del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.
Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè, quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al seguito di Ruggero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i cento lancieri di Ruggero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto predoni.
L'Amari è aspro, come si è detto, nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna pur capire avendo “famiglia”: moglie e figli erano, infatti, in mano ai torbidi normanni. Il Malaterra, monaco benedettino, impantana ancor più la sua non chiara prosa per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori suoi compaesani. Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua eccellente prigioniera. E noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già macchiato di molte ignominie, specie in gioventù. Il suo biografo ufficiale che pure è chiamato all'osanna del suo committente, ne sente tante a corte da inorridire, fors'anche per la sua mentalità claustrale. Ed allora nella sua cronaca si lascia andare a pesanti giudizi morali contro i suoi.
Quando, però, si tratta di cose militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.
Eppure il Malaterra resta sempre cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri. I tanti episodi cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne, tra i quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta, il monaco, le fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali, dell’avventuriera giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze che gli ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari irridere a Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della cronaca del benedettino.
Per fare terra bruciata attorno al nostro Chamuth, tocca ad 11 castelli l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggero. Alla nostra Racalmuto è dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani, Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuth si arrese, non ci sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le città di Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di Girgenti e Castrogiovanni ci convince molto di più delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano poi tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
* * *
Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni, fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte «li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.
I Normanni a Racalmuto
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.
Ma chi erano questi normanni?
Il giudizio storico moderno resta ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura confessionale. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza, patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche spregiudicato religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa ortodossa.»
L'Amari, si è visto, parteggia per gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per la poderosa personalità di Ruggero II. Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith nella sua Storia della Sicilia Medievale e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti, rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i cristiani greci dell'Italia meridionale; e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici». Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata edificata una famosa dinastia».
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Che cosa ne è stato della Sicilia musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti arabo-siculi.»
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Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo, sembrò sottrarsi sia al fenomeno normanno del feudalesimo sia a quello accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò qualche tempo dopo. Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli ortaggi. Per quello che diremo dopo, il nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati.»
Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità.
Del resto in Sicilia, mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad operare. La religione cristiana di rito latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni. Si rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture ecclesiastiche. Le sole in grado di coordinare le manifestazioni di pratiche religiose e quindi di vita quotidiana della gente e di riconfermare e rendere operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che affidava un ruolo di protagonista agli Altavilla e rappresentava un dato strutturale della società normanna.»
Ruggero non ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa latino. Le preoccupazioni politiche erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di fiducia, allogeni, chiamati dalla natia Normandia, fu - ripetiamo - il taglio adottato da Ruggero nella instaurazione della Chiesa di Roma nelle terre della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovati di Troina, Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe notizia di essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata al vescovo francese Gerlando. Nell'anno 1092, dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna, giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando. I confini della diocesi sono stati definiti da Ruggero in persona. Il documento, in latino, può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene chiamato GERLANDO. Assegno alla sua giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi sino ai confini di Iatina [Iato] e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine, e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui, da dove sorge, si estende verso Pira, sotto Petralia; quindi sino al monte alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso, nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade (Licata). Questa località divide Agrigento da Butera. Lungo la costa i confini della diocesi corrono dal Licata sino al fiume Belice, che costituisce i confini con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia la delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»
Se il lettore è stato paziente nel seguire lo zig zag dei confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al di qua del Salso, venne in quella bolla assegnato a GERLANDO, un vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo il consunto stereotipo di uomo di nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il Picone la riecheggia con questi tratti descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato in Besansone, città della Borgogna, di copiosa dottrina fornito, eruditissimo nelle chiesastiche discipline ed eloquentissimo, trasse alla fede gran numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti ci appaiono più circospetti. In base alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano del conte Ruggero, carica che fu di GEROLDO, e quanto al resto si rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo l'ultima critica paleografica del COLLURA risalgono per lo meno alla seconda metà del sec. XII. Quattro tra i primi sei più antichi documenti della Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra lecito nutrire dubbi.
Il personaggio non è dunque inventato e questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come può arguirsi dal Libellus custodito nello stesso Archivio Capitolare ove si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di Ebrei e Musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da secoli arabo e solo arabo. Forse residuava un uso del greco nei ceppi più tenaci. Questo vescovo borgognone che chissà quale lingua parlava (pensiamo a quella natìa di Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo normanno in mezzo ai saraceni dell'agrigentino un nucleo di verità deve pur esservi: forse GERLANDO ebbe qualche successo nello stabilire un certo colloquio con i potentati locali di lingua araba. In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24 dicembre 1092) - una falsificazione in forma originale, secondo il Collura - accenna a nobilati francesi già presenti in Agrigento, a concanonici che officiano in una chiesa dedicata a S. Maria, a parenti francesi da beneficiare con diciassette villani, due paia di buoi ed un cavallo. Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato da un ROGERIUS che ci avrebbe redento da 'demonicis ... ritibus' da riti demoniaci (che pure era la grande religione di Allah). Emerge il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale, invero, Petrus Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con una gamma greca nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente, a colpirci, è il richiamo allo strumento giuridico del PRIVILEGIUM che viene firmato in presenza di testi e davanti ad un vero e proprio notaio 'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il suo consiglio viene giudicato 'justus'. Francesi, notai, prebende ecclesiastiche, canonici, vescovi probi ed assennati, ma anche interessati alle cose terrene, tutto il mondo della burocrazia ecclesiastica romana vi traspare, ed era passato appena un quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si è visto, villani, schiavi ed oggetto di pii legati.
AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi, due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Naro; il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di Bompensiere, a meno che non si tratti di Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far pensare. Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta dedita a Santa Maria fatta costruire da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica storica appena avvertita.
Quando le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi elementi per una chiarificazione e per il dilaceramento del fitto buio che oggi ci angustia.
Non andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono denominati saraceni. Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia sapere di più, gli studi di I. Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram.
La cattolicissima Spagna esordiva con spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
di Calogero Taverna
Una nota a mo’ di premessa
Questa vuol essere una storia veridica su Racalmuto, una storia che presuppone ma non esplicita l’enorme quantità di documenti consultati presso i vari archivi di Roma, Palermo Agrigento e Racalmuto, per non parlare della marea di letture più o meno storiche che attengono a questo paese dell’agrigentino. Il risultato è stravolgente di ciò che agli occhi di scrive sa ormai di stucchevole mistificazione, di aporie letterarie, di voglie che traducono il desiderio di eventi memorabili in indubitabili realtà storiche. Abbiamo così miti di monaci dal “tenace concetto”, di preti in decrepita età presi da “alumbramiento” erotico, di frati omicidi, di fantasiosi eroi saraceni, di allocazione delle misere casupole racalmutesi in presunte località amene, di frati omicidi, di contesse in foia erotica, di pittori sublimi e di medici d’alta scienza e via discorrendo.
A proposito dei Del Carretto, abbiamo già scritto e qui ripetiamo:
Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da costei sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIII. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita del rampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato in un libro secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono assegnati in dote come beni “burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei Del Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che solo negli anni novanta del secolo scorso chi scrive ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di Palermo per un’ostica ma illuminante lettura.
Ma in quell’investitura, scopo, intento, occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze altisonanti: difficile credere a quanto vi si afferma nei confronti di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto; traluce invece una realtà ove si scorge la rapacità di codesti esattori delle imposte dei Martino, quei Martino che risultano più che altro gli avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Noi abbiamo speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - venne riprodotta in un CD-ROM interattivo cui si rinvia. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxororicidi a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo di bassa lega.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio, consueto per l’epoca, dei baroni del Carretto: costoro verso la fine del Cinquecento - dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) - hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto; mancano però l’obiettivo e non riescono a farsi riconoscere il titolo di marchese che fasullamente in esordio della loro signoria su Racalmuto avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che abbiamo pubblicato ne spazza via ogni briciola di attendibilità. E quel che si scrive su data e struttura del castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera sulle origini storiche del Castelluccio.
Ma ora uno sguardo ai tempi remoti.
Gli stravolgimenti geologici
Sette milioni di anni fa – qualche secolo in più, qualche secolo in meno – terminava il lungo processo di prosciugamento marino del territorio racalmutese: abbattuto l’ultimo ostacolo nei pressi di Cozzo Tondo, le acque defluirono anche da quel versante verso Passo Fonduto, e di là, lungo il Platani, verso il mare. Dal Castelluccio erano scivolati scisti di pietra dura, che scivolando verso il fiumiciattolo della Ciarla, appariranno agli autoctoni dell’epoca sicana provvidenziali macigni per le loro tombe, a mezzo tra la tecnica del “forno” e quella del “Tholos”. Alla luce dell’attuale scienza geologica – destinata a venire travolta dalle tecnologie dell’incombente futuro – siamo in tempi pliocenici.
Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunse, dunque, l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”. Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan, Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese:
1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo». Secondo tale affascinante teoria, le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di beffarda premonizione e di malefica iella.
Preistoria racalmutese
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
L’insediamento di Fra Diego è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei. Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Quello che si diparte da Licata sino ai pressi della galleria ferroviaria prossima al bivio Canicattì-Castrofilippo, viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. I reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le relative tombe a forno sono andate del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie. Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari. [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un conno”. Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche sembrano comprovare.
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno».
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici, anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino non attestano solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo molto di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in malcerte congetture.
In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine dell’Ottocento-.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia. Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, non fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.
Sempre il Tinebra Martorana ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denoma: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’interpellato risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei.
Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio del secolo scorso, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute presumibilmente nei dintorni di Santa Maria, nella costruzione di un sepolcro.
Quell'insigne archeologo procedeva ad una lettura piuttosto arruffata che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei. Altre «tegulae» sono state rinvenute nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo, si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.»
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina. Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi non resta del tutto valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a Racalmuto - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi di materiale ceramico databile ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI. Di recente Giovanni Salmeri ha iniziato l’opera di revisione nei confronti del Salinas, anche se non ha avuto il coraggio di andare sino in fondo e lasciar perdere con la datazione commodiana delle miniere solfifere racalmutesi: «le lastre della Sicilia […] sono state rinvenute a Racalmuto – scrive lo studioso catanese di storia romana – in forma intera adoperate come materiali da costruzione per sepolcro; su di esse si legge la formula ex praedis/ M.Aureli/Commodiani». E’ piuttosto circospetto il Salmeri quando annota: «Salinas in luogo di Commodiani preferiva leggere Commodi Ant(onini) pensando all’imperatore.» In effetti si trattava o di un abbaglio o peggio. Ma scoperto l’inganno, la tentazione a datare comunque le lastre è invincibile e, divenuto l’imperatore Commodo, “il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano”, non si rinuncia pur tuttavia a “collocare nei decenni finali del II secolo d. C. ”il praedium in questione”.
I dati archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro - pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes. [...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.»
In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.
I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che casualmente affiora.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.
Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare , Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il risvolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).
IL TEMPO DEI BIZANTINI
Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro abitativo più intenso era piuttosto lontano, ad un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al cristanesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo un patrimonio archeologico che avrebbe avuto un’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre ricca di reperti e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo retrocede la datazione delle monete al V secolo: cosa inverosimile se le effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo posteriori)
A seguito di una scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto insediamento in quella zona a partire da un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero romano.
L “ipogeo cristiano” di Biagio Pace si troverebbe in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto». Nostre personali ricerche ci fanno pensare che l’abbaglio del grande archeologo poggerebbe su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.
L'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou, secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas». Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione.
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo flebili barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove.
E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di eclissamento della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna, se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Siamo, in ogni caso, affascinati dai versi di Ibn HAMDIS e tifiamo per un grande rigoglio della civiltà araba qui da noi.
Pianse, invero, Ibn con accenti che toccano ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:.
«Ho riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in chiese,
«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.
Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano per tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.
«In entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo VII, quando l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore agricolo.
«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya».
Non è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per oltre un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania s’indussero ad appoggiare i contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorere” – poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale nome.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli eventi nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni normanni.
«Il cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027) indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm; portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl, Bifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.»
E’agevole intravedere nel racconto dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una mera traduzione dal latino. Credo che Chamuth abbia avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi su questo personaggio. Costui, caduto in un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma, gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella, secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanze, arroganza del potere. Sono la lingua degli uomini del potere che parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61 e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo stato servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del secolo scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un governatore di Rahal-Almut a nome Aabd-Aluhar, servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto nell'anno 998; di una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcivescovo Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui 'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino Picone.
I gravami, le violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome antico. Solo il Racel del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.
Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè, quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al seguito di Ruggero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i cento lancieri di Ruggero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto predoni.
L'Amari è aspro, come si è detto, nei giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna pur capire avendo “famiglia”: moglie e figli erano, infatti, in mano ai torbidi normanni. Il Malaterra, monaco benedettino, impantana ancor più la sua non chiara prosa per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori suoi compaesani. Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua eccellente prigioniera. E noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già macchiato di molte ignominie, specie in gioventù. Il suo biografo ufficiale che pure è chiamato all'osanna del suo committente, ne sente tante a corte da inorridire, fors'anche per la sua mentalità claustrale. Ed allora nella sua cronaca si lascia andare a pesanti giudizi morali contro i suoi.
Quando, però, si tratta di cose militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano le forze normanne, quando vincono.
Eppure il Malaterra resta sempre cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri. I tanti episodi cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne, tra i quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta, il monaco, le fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali, dell’avventuriera giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze che gli ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari irridere a Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della cronaca del benedettino.
Per fare terra bruciata attorno al nostro Chamuth, tocca ad 11 castelli l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggero. Alla nostra Racalmuto è dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani, Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuth si arrese, non ci sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le città di Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di Girgenti e Castrogiovanni ci convince molto di più delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano poi tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
* * *
Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni, fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte «li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.
I Normanni a Racalmuto
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.
Ma chi erano questi normanni?
Il giudizio storico moderno resta ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura confessionale. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza, patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche spregiudicato religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa ortodossa.»
L'Amari, si è visto, parteggia per gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per la poderosa personalità di Ruggero II. Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith nella sua Storia della Sicilia Medievale e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti, rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i cristiani greci dell'Italia meridionale; e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici». Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata edificata una famosa dinastia».
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Che cosa ne è stato della Sicilia musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche. Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti arabo-siculi.»
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Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo, sembrò sottrarsi sia al fenomeno normanno del feudalesimo sia a quello accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò qualche tempo dopo. Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli ortaggi. Per quello che diremo dopo, il nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni da seminare ben coltivati.»
Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità.
Del resto in Sicilia, mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad operare. La religione cristiana di rito latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni. Si rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture ecclesiastiche. Le sole in grado di coordinare le manifestazioni di pratiche religiose e quindi di vita quotidiana della gente e di riconfermare e rendere operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che affidava un ruolo di protagonista agli Altavilla e rappresentava un dato strutturale della società normanna.»
Ruggero non ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace. Una religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi col papa latino. Le preoccupazioni politiche erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di fiducia, allogeni, chiamati dalla natia Normandia, fu - ripetiamo - il taglio adottato da Ruggero nella instaurazione della Chiesa di Roma nelle terre della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovati di Troina, Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe notizia di essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata al vescovo francese Gerlando. Nell'anno 1092, dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna, giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando. I confini della diocesi sono stati definiti da Ruggero in persona. Il documento, in latino, può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene chiamato GERLANDO. Assegno alla sua giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi sino ai confini di Iatina [Iato] e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine, e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui, da dove sorge, si estende verso Pira, sotto Petralia; quindi sino al monte alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso, nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade (Licata). Questa località divide Agrigento da Butera. Lungo la costa i confini della diocesi corrono dal Licata sino al fiume Belice, che costituisce i confini con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia la delimitazione, che ad ogni modo esclude Vicari, Corleone e Termini.»
Se il lettore è stato paziente nel seguire lo zig zag dei confini avrà subito colto che Racalmuto, quale centro al di qua del Salso, venne in quella bolla assegnato a GERLANDO, un vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo il consunto stereotipo di uomo di nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il Picone la riecheggia con questi tratti descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato in Besansone, città della Borgogna, di copiosa dottrina fornito, eruditissimo nelle chiesastiche discipline ed eloquentissimo, trasse alla fede gran numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti ci appaiono più circospetti. In base alle loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano del conte Ruggero, carica che fu di GEROLDO, e quanto al resto si rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo l'ultima critica paleografica del COLLURA risalgono per lo meno alla seconda metà del sec. XII. Quattro tra i primi sei più antichi documenti della Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra lecito nutrire dubbi.
Il personaggio non è dunque inventato e questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come può arguirsi dal Libellus custodito nello stesso Archivio Capitolare ove si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di Ebrei e Musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da secoli arabo e solo arabo. Forse residuava un uso del greco nei ceppi più tenaci. Questo vescovo borgognone che chissà quale lingua parlava (pensiamo a quella natìa di Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo normanno in mezzo ai saraceni dell'agrigentino un nucleo di verità deve pur esservi: forse GERLANDO ebbe qualche successo nello stabilire un certo colloquio con i potentati locali di lingua araba. In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre - 24 dicembre 1092) - una falsificazione in forma originale, secondo il Collura - accenna a nobilati francesi già presenti in Agrigento, a concanonici che officiano in una chiesa dedicata a S. Maria, a parenti francesi da beneficiare con diciassette villani, due paia di buoi ed un cavallo. Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato da un ROGERIUS che ci avrebbe redento da 'demonicis ... ritibus' da riti demoniaci (che pure era la grande religione di Allah). Emerge il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale, invero, Petrus Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con una gamma greca nel bel mezzo della grafia latina. Principalmente, a colpirci, è il richiamo allo strumento giuridico del PRIVILEGIUM che viene firmato in presenza di testi e davanti ad un vero e proprio notaio 'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas', probità, ed il suo consiglio viene giudicato 'justus'. Francesi, notai, prebende ecclesiastiche, canonici, vescovi probi ed assennati, ma anche interessati alle cose terrene, tutto il mondo della burocrazia ecclesiastica romana vi traspare, ed era passato appena un quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si è visto, villani, schiavi ed oggetto di pii legati.
AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di Agrigento sino alla sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora: solo, nei pressi, due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di Naro; il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di Bompensiere, a meno che non si tratti di Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano a far pensare. Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta dedita a Santa Maria fatta costruire da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica storica appena avvertita.
Quando le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro territorio metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali, potranno aversi elementi per una chiarificazione e per il dilaceramento del fitto buio che oggi ci angustia.
Non andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista normanna s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi a dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono denominati saraceni. Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia sapere di più, gli studi di I. Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram.
La cattolicissima Spagna esordiva con spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
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