...per mestiere spiego bene agli altri quello che per me non
comprendo.
mercoledì 6 marzo 2013
BREVE SINOSSI ARCHIVISTICA ARCHEOLOGICA E BIBLIOGRAFICA
Il nostro interesse per la storia di Racalmuto ebbe inizio
allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune ricerche presso
l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad Limina” dei vescovi
agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della tassazione
ecclesiastica di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco Covarruvias
nell’agosto del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato racalmutese con
proventi di ben 250 once annue ([1][1]). Le ricerche
d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e da qui
ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a quelli
della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato ad
abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col
passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta,
riformulata. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una
versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra
narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale
lettore.
La primordiale presenza umana potrebbe venire attestata dalla grotta di Fra Diego che ci
riporta sino ai tempi dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([2][2]). Ma sono i Sicani
quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe del nostro
altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla grotta di
Fra Diego sono la palpabile testimonianza di quella civiltà preistorica risalente
a quattro mila anni fa.
Nel 1880, nel corso dei lavori per la costruzione della
ferrovia Licata-Porto Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a
10 km. da Canicattì, altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo
millennio a. C., sufficientemente investigati dagli archeologi dell’Ottocento.
Purtroppo, successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della
ricca e peculiare archeologia racalmutese.
Casuali rinvenimenti di monete greche (con il granchio
agrigentino o col cavallo alato siracusano) comprovano presenze siciliote nella
zona di Casalvecchio-Grotticelle.
L’iscrizione latina in una “diota” della Roma repubblicana
rievoca un intenso commercio vinario di quel tempo ad opera di un mercante
della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite)
rinvenute in varie località di Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza
di miniere di zolfo nei pressi di Santa Maria durante l’impero di Comodo
(180-190 d.C.), come si avventò a dire
il Salinas.
Per Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo
cristiano e l’importante ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del
VI-VII secolo d. C. nella contrada della Montagna contrassegna un’operosa
presenza cristiana sin dagli albori della diffusione del verbo di Cristo in
Sicilia.
Ultimamente sono affiorate “strutture murarie abitative”
molto latamente riferite ad “epoca ellenistica-romano-imperiale” nella zona di
Grotticelle il cui studio è rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di
Agrigento” potranno snodarsi “con maggiore continuità”.
La pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del
dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in
mano dei Musulmani, quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa
per il territorio racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso
l’840 i nuovi e più stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia
camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro
religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri
progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di imposte
a carico dei ‘rum’ (romani o cristiani che dir si voglia), alieni da
commistioni ed in un certo senso razzisti, non avevano alcun interesse a
consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il loro modo di essere
maomettani a quelli cui quella ‘grazia’ non era stata concessa, perché
militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i
vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine
sociale, per il supporto schiavistico su cui, in modo mascherato e variegato,
si radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due
popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono
neppure di segno contrario. Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di
Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi
continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I
vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle
fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in
zone appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i
rum (i cristiani) ignoravano. Dai rum, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa
capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà
alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i
Berberi, insediatisi da noi,
introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di
quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall'Amari descrivono la
coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto
l'attuale Fontana. ([3][3]). I secoli dal Nono
all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba sull’intero
altipiano di Racalmuto.
Un documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi
al nostro paese, diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi,
riporta un toponimo che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal
Chammoùt. Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile alla storia (quella
veridica) del paese agrigentino.
Per quanto buia sia
la pagina araba racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI
secolo il colto Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello
saraceno - lo definiva - dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte».
Più in là non andava. Tra il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria
Amico, nel suo “Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la
funerea etimologia di paese “diruto, morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone
accenna ad una derivazione da due termini arabi: Rahal (‘villaggio’ e sin qui
correttamente) e Maut (‘della morte’ e qua invece arbitrariamente). Il nostro
Tinebra Martorana, con fervore giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia,
ovviamente poco incline alle pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed
autorevolissimo avallo.
Diviene difficile per
chicchessia procedere ora alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il
compaesano gesuita padre Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la
certezza - scrive il dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...] a dare il nome all’abitato. Rahal,
pronunziato Rakal [ ...]; Hamud, pronunziato Kamud o Kamut [...] dava
Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si soppresse il secondo “ka” e rimase
“Rakal-mut” = Ralmanuto!».
Con la sua indiscussa autorità, il Garufi debella la
fantasiosa etimologia di Racalmuto quale lugubre “Paese dei Morti”, come si è
potuto vedere in precedenza. Va detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non
è stata recepita dai moderni storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista
contemporaneo si è data la briga di riesaminare il toponimo. Non accetta la
versione tradizionale. E ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto quale ‘paese
del moggio’. ([4][4]) Per il grande
arabista, infatti, il paese: «deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis
Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale’ del Mudd <latino modium 'Moggio’».
"Paisi di lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e
mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il
vicino monte “Formaggio” di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio
fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Comunque sia,
almeno niente più accenni mortuari che ci tornano infausti. E’, dunque, un
passo avanti.
Dipanata in qualche modo la questione del significato, nasce
quella del periodo in cui si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il
periodo della dominazione berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va
spostato nei tempi immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di
Girgenti, Hamùd (25 luglio del 1087),
oppure si collega alla signoria di uno degli emiri di Naro, come noi
siamo inclini a credere? Mancano dati ed elementi per aggrapparsi ad una di
queste ipotesi.
La conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio
agrigentino, nella primavera del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto
popoloso e prospero.
Un piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache
del Malaterra. Facendo anche noi ricorso alle congetture, una volta
propendevamo ad identificare Racalmuto in un toponimo, evidentemente corrotto
nelle tante trascrizioni del testo malaterrano, che si rifà ad un impreciso
“Racel....”. Goffredo Malaterra fu un cronista normanno dell’XI secolo.
Il manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo
Zurrita, fu pubblicato a Saragozza nel
1578. Del manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari
ovviamente se ne serve e riduce in Rahl il Racel che si trova nel punto in cui
si parla della conquista dell’agrigentino e che potrebbe riguardare proprio il
nostro paese: Racalmuto.
In effetti il Malaterra parla di undici castelli nei
dintorni di Agrigento conquistati dal conte Ruggero «.. Platonum, Missar,
Guastaliella, Sutera, Racel .., Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella
nostra lingua significa “Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce». Tra
Sutera. Bifara, Milocca, Naro e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....”
potrebbe essere proprio Racalmuto. Ma il
limite di mera congettura, resta.
Incrostano le origini di Racalmuto due falsi storici,
peraltro in contrasto fra loro. Da un lato, si indica Racalmuto insediato a
Casalvecchio con questo improbabile nome in lingua volgare sin dai tempi
post-arabi; dall’altro, si vuole il centro sito nei pressi di Santa Maria per
volontà di Roberto Malconvenant, sin dal 1108.
L’Assessorato Turismo Comunicazioni e Trasporti della
Regione Sicilia nel n.° 39 del 22
dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo” si reputa in grado di affermare:
«Distrutto Casalvecchio, come riferisce Michele Amari, il nuovo centro abitato
venne spostato di alcuni chilometri e dagli Arabi venne denominato Rahal
Maut...». Il passo dell’Amari non è citato ed è quindi impossibile accertarne
la correttezza del richiamo letterario. Noi crediamo che ci si riferisca alla
Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Là si parla, invero, di Castel Vecchio
ma è località a quattro miglia da Agrigento, in arabo chiamata Raqqâdah
(Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri
proprio. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani
in quelle parti. Nulla di arabo finora è emerso. Men che meno reperti
attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medio-Evo.
L’arcidiacono Bertrando Du Mazel, che
ebbe a fare censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella
documentazione rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato
(appena 136 “fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia) che appaiono sparse nei dintorni della
fortezza, denominata “lu Cannuni”.
L’altro falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove
oggi stanno i ruderi di Santa Maria di Gesù, su cui già abbiamo fornito
accenni.
Del tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi
località chiamata Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di
Agrigento per il periodo che va dal 1092
al 1282. Si suol dire che il silenzio nella storia equivale al nulla. In
questo caso, però, si deve ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu
tributario in modo esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare
censi, canoni e livelli agli ingordi canonici del capitolo della cattedrale di
San Gerlando. Basta scorrerle, quelle carte, per rendersi conto di quanto
fiscali fossero il prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui
Ruggero il Normanno istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi
affidandola al santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo
di bell’aspetto e di copiosa dottrina, secondo quel che vogliono le cronache.
Se nessuna terra delle pertinenze agrigentine, che si richiami ad un toponimo
che magari vagamente rassomigli a Racalmuto, figura trubutaria in quel periodo,
ciò lascia intendere che non esisteva, almeno come centro organizzato suscettibile di imposizione.
Entriamo, ora, nella storia documentata di Racalmuto.
Nei primi decenni del XIII secolo, riusciva ad impossessarsi
di Racalmuto tal Federico Musca. Questi
tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e costui lo priva del dominio di Racalmuto
nel 1271 per conferirlo a Pietro Nigrello di Bellomonte (vedi quanto segnalato
prima.)
La signoria di tal uomo della corte napoletana durò però
poco e, nel corso del Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo, retto da
sindaci e chiamato ad un contributo di uomini in armi.
I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto
risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310. Nell'abitato vi erano almeno
due chiese: quella parrocchiale retta dal
p. Angelo di Montecaveoso, e
quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari
ricadevano su un tal Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella
rinvenibile negli archivi avignonesi dell'Archivio Segreto Vaticano sulla
presenza a Racalmuto dell'arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi,
stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l'imposta per togliere
l'interdetto che si originava dalla rivolta del Vespro. Era l'anno 1375.
Allora Racalmuto
doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 800 abitanti.
Nell'archivio vaticano è reperibile il resoconto delle collette redatto
dall'arcidiacono du Mazel. Trattavasi di un sussidio che andava ripartito in
ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le
famiglie più povere, 2 per le 'mediocri', 3 per le agiate e cioè 'qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti
in facoltà' ([5][5]). Il 29 marzo del
1375, il pio collettore (o suoi
emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il 'sussidio'
e scioglieva l'interdetto ([6][6]). Dato che per ogni
fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una
popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori
o a soggetti resisi irreperibili. In un
secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le
nostre congetture e i dati del Tinebra Martorana vengono accettati - si sarebbe
accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale lasso di tempo, la crescita si è invece
limitata solo al 48,32%, che in ogni
caso è tasso di sviluppo normale.
Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una
modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è
chiaro. Il salto nell'intensità abitativa testimonia comunque un massiccio
afflusso di forestieri.
Abbiamo motivo di ritenere che tanti sono giunti dalle terre
marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L'improvviso sviluppo della coltura
granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La
Licata sembrano convalidare la prima
ipotesi. I molti cognomi di paesi e
terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori
accorsi nei feudi racalmutesi.
Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in
quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la
peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l'antica
carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d'Angiò i
sopraintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti
del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d'Aragona.
Non è racalmutese il 'segreto' addetto alle gabelle, il
magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l'incarico - lo denunciano
straniero. Il 'segreto' era l'esattore dei dazi e delle gabelle ed era
denominazione che risaliva al 1296.
Per avere un nome saraceno, Racalmuto dichiara nel XVI
secolo pochi abitanti con nome di derivazione araba. Se ci limitiamo ai
Macaluso, Taibi, Alaimo e simili, possiamo
calcolare in meno di 150 gli abitanti di origine forse musulmana (su
2215 desunti dai registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%).
Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si sono
mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso dovette verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la
cacciata da parte della regina Isabella nel 1492 ([7][7])
o sparirono del tutto a Racalmuto o
seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni,
cfr. atto di matrimonio dell'8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che
per giunta proviene da Grotte.
Tra la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di
quelle grandi famiglie che hanno dominato nell'ottocento. Né baroni come i Tulumello,
né gentiluomini come i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I
maggiorenti di allora quali i D'Amella, i La Lomia, gli Ugo, i Piamontisi ed
altri si sono dopo volatizzati: alcuni loro eredi prosperano oggi, ad esempio, a
Canicattì.
Verso la fine del 500, giungono a Racalmuto 'mastri' che vi
attecchiranno ed oggi i loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati
e di larga diffusione. Savatteri, Buscemi, Schillaci, Rizzo, Bongiorno,
Chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi.
Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi,
prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia
genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di tale casale con castello,
facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non
dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all'inizio del
secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte
fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una
Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di
Racalmuto in capo a quella famiglia
proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13
aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale.
Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla
questione, che inquinata com'è nelle sue più antiche fonti, difficilmente potrà essere ora del tutto
chiarita.
Quel che ci preme è sottolineare come proprio sotto Matteo
del Carretto fu scritta e tramandata un'importante pagina di storia sacra
locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del
beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di
Paternò, fedele alla causa degli aragonesi. Si era conclusa la triste vicenda
della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di
sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di
Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l'altro, cominciò a metter mano alla
riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano
istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione
dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di
Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il
delegato del Pontefice anche in materia
religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e
donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S.
Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce
bene la vicenda il documento che qui riportiamo in una nostra traduzione dal
latino: «Martino etc. Al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra
di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare
nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare
la vostra persona agli onori ed ai grati
riconoscimenti. ... e pertanto per l'autorità apostolica in ciò a noi
sufficientemente accordata, [vi conferiamo] il canonicato di Santa Margherita
di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e
consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando
tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della
secessione contro le nostre benignità [
... ]
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo
del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali
nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti
quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere
integralmente e pienamente la prebenda,
i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso
canonicato, se desiderano e vogliono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l'anno del Signore, VII^ Ind. 1398..... Re
Martino - »
Tanti collegano -
come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una
interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere
sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte,
più verosimilmente Manfredi Chiaramonte,
oppure per benevola concessione di quest'ultimo a peste cessata ed a suggello
del concordato col Papa.
La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la
locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo
(Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello
che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo
di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della
cacciata da parte di Isabella nel 1492.
Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi
palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi
e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l'anno 1474 ed a Racalmuto veniva
commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente
all'usura.
«Il Vicere' Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio
Raffa di recarsi a
Racalmuto per punire coloro che
uccisero il giudeo Sadia
di Palermo, e di pubblicare un
bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.»
Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto
non vi erano assetti significativamente organizzativi. Dobbiamo escludere che
ci fossero sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità
ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana
Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei
furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti
ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo,
dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi
tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto
l'Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi,
ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo
Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà
del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben
chiare e comunque non collimanti con quelle della blasfema canonizzazione
celebrata da Leonardo Sciascia.
La tradizione colloca nell'anno 1503 la venuta a Racalmuto
della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei
racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che suonerebbe falsa ed
irriguardosa. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione
dell'Officio sulla nostra miracolosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si
recita in latino - da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel
magnifico tempio dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una
costante tradizione, la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte,
ove era giunta per una sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal
litorale agrigentino per essere condotta nella antica città di Castronuovo. E
questo fu un mero portento.»
Francesco Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò
Salvo, il padre Bonaventura Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel
1913, Eugenio Napoleone Messana nel 1968,
Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno
scritto sull'evento, quasi sempre con filiale devozione e con trepido
attaccamento alla nativa terra di Racalmuto. Una mia personale ricerca tra
vecchie carte che si custodivano in una stanza della casa che fu del canonico
Mantione mi ha fatto imbattere in una pubblicazione del ‘700 cui assegnare la
palma della più antica narrazione in versi della Vinuta di la Bedda Matri di lu
Munti.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia
notizia documentata - la gloriosa statua viene repertoriata con stile invero
molto burocratico. Nell'Archivio vescovile di Agrigento si rinviene la
relazione sulla visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del
Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge
però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso. In seconda
battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l'irriguardoso
ecclesiastico si limita ad inventariare il venerabile simulacro come «una
figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però meravigliare: il culto
della Madonna del Monte esplode solo a partire dai primi decenni del '700, dopo
l'opera del p. Signorino.
Poco più che trisecolare risulta la vera signoria feudale
che i Del Carretto ebbero a dispiegare
su Racalmuto: dalla prima investitura baronale di Matteo del Carretto da parte
di Martino d’Aragona, il giovane - che
il Villabianca colloca nel 1392, il giorno 4 di giugno - sino alla malinconica
scomparsa della grande famiglia dei conti di Racalmuto, databile 10 Luglio 1716, corrono infatti 324 anni.
Bisogna, invero, aggiungere un preludio quasi secolare di
presenza dei Del Carretto (dal 1307,
data del matrimonio tra Costanza Chiaramonte ed il marchese di Savona e Finale,
Antonio del Carretto, sino all’investitura baronale di Matteo del Carretto), ma
trattasi di ambigua signoria, malcerta e di sicuro intermittente, emergendo una
egemonia sovraordinata della potente famiglia agrigentina dei Chiaramonte.
Il primo e vero storico della famiglia dei Del Carretto,
baroni prima e conti dopo di Racalmuto, riteniamo essere l’arcigno Marchese di
Villabianca con la sua diligente opera del 1759: prima di lui il Fazello, il
Pirri, l’Inveges, il Mugnos, il Di Giovanni, il c.d. Muscia, il Barberi, il
Ciacconio, il Crescenzi, il Barone, il Savasta ed il Sansovini, tutti
costoro avevano mostrato interesse alle
vicende dei Del Carretto, ma erano stati accenni qualche volta infelici, non
sempre attendibili, in ogni caso incompleti. Quel signore settecentesco,
reazionario e fieramente aristocratico e feudale, ci fornisce un quadro lucido,
documentato ed appassionante - anche se lo stile è ovviamente arcaico - di
quella che è stata la vicenda feudale della baronia e contea del nostro paese.
Dopo il Villabianca, tanti si sono cimentati nella ricostruzione storica della
pagina araldica dei Del Carretto, ma ci appaiono tutti tributari del nostro
marchese e, sostanzialmente nulla aggiungono a quanto saputo, ove si eccettui
una qualche nota critica. Così è sicuramente per la ponderosa opera del San
Martino-Spucches.
Ebbe di certo tra le mani l’opera del Villabianca il
racalmutese Tinebra-Martorana e vi razziò ingordamente: era, però, appena
ventenne e non aveva né voglia né tendenza ad analisi critiche: qualche
documento locale, come quello del sarcofago di Girolamo del Carretto o come
quelli fornitigli maliziosamente dai Tulumello sul terraggio e terraggiolo da
corrispondere a quei conti di Racalmuto, gli fu sufficiente per imbastire una
storia non sempre precisa sulla signoria dei Del Carretto, la quale storia
ebbe, a distanza di quasi un secolo, il non corrodibile avallo del grande
Leonardo Sciascia.
Chi, da ultimo, si è industriato per recuperare alla memoria
eventi certi del casato dei Del Carretto è stato il prof. Giuseppe Nalbone.
Dall’8 aprile 1993 egli ha scandagliato
gli archivi di stato di Palermo e la sua fatica è stata premiata con il
rinvenimento di molteplici diplomi, privilegi e documenti che irradiano una
vivida luce sulla storia dei Del
Carretto e finalmente ce la restituiscono nel suo intenso ed obiettivo
defluire. Poco o punto è il risultato rettificativo dell’opera del marchese di
Villabianca, ma tanta è la portata esplicativa di istituti, interventi, ruoli,
imposizioni, condizionamenti ed altro di una vicenda feudale trisecolare che
investe l’essere ed il forgiarsi della vita civile e sociale dei nostri
antenati racalmutesi. Riaffiorano nomi e cognomi di segreti, castellani,
giurati, maestri notari, fiscali, capitani etc. Tanti di loro non hanno più
eredi a Racalmuto, ma taluni sono invece
ricollegabili a figure tipiche del grande teatro che tuttora persiste tra la
gente del nostro altipiano.
Il diciottesimo secolo vede Racalmuto alla prese con gli
eredi dei Del Carretto. Si ebbero varie controversie. Quella più celebre fu
mossa prima dal Sac. Nicolò Figliola (luglio 1787) e successivamente
dall’arciprete d. Stefano Campanella contro il “terraggio” ed il “terraggiolo”.
La vertenza si chiuse il 28 settembre 1787 con sentenza liberatoria per i
racalmutesi. Cadeva al contempo il “diritto del mero e misto impero” che
l’erede dei del Carretto, il Requisenz, pretendeva ancora a danno degli
abitanti della decaduta contea di Racalmuto.
Nell’Ottocento, ebbe l’abbrivo lo sfruttamento delle miniere
di zolfo e del salgemma ed esplose un risvolto borghese che ancor oggi suscita
consensi entusiastici o stroncature impietose.
Il Novecento - prima giolittiano, poi fascista e quindi, nel
dopoguerra, contraddistinto dal vorticoso gioco delle alternanze democratiche -
contrassegna eventi troppo prossimi per trattarli con il dovuto distacco
storico.
GLI EVENTI
RACALMUTESI PRIMA DEL 1271
(c.a. 25 milioni di anni fa)
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Una sconfinata invasione di un particolare vibrione (il desulfovibrio
desulsuricans) si spande sull’intero altipiano di Racalmuto; per un singolare
processo chimico (nutrendosi il vibrione di petrolio grezzo e rubando
ossigeno al solfato di calcio dà luogo ad idrogeno solforato ed attraverso
una normale ossidazione si trasforma in zolfo) si hanno le sedimentazioni
solfifere racalmutesi.
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(c.a. 7 milioni di anno fa)
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Si concludono le regressioni di acqua marina e si
definisce l’attuale facies del
territorio di Racalmuto.
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XXX millenio a. C.
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Se qualche homo sapiens sapiens (del tipo di Cro-Magnon)
ebbe a stanziarsi a Racalmuto, non poté trovare migliore dimora della grotta
di Fra Diego.
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II millenio a. C.
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I sicani si stabiliscono e prosperano in varie plaghe
dell’Altipiano. come attestano le tombe a forno attorno alla cennata grotta o
quelle disseminate dal Castelluccio sin ad Est, nei pressi della Stazione
ferroviaria di Castrofilippo.
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XIII a. C.
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Decade la civiltà sicana nelle nostre terre, mentre
prospera quella d’influsso miceneo di Milena e S. Angelo Muxaro e zone
limitrofe.
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581 a. C.
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I Geloi vanno a fondare Agrigento, ma percorrendo un
itinerario del lungo costa con centro Licata ed evitando le impervie zone
dell’interno. L’Altipiano racalmutese, desertico ed impraticabile, non viene
per vario tempo acquisito alla colonizzazione ellena.
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Secc. V, IV e III a. C.
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La presenza greca è variamente avvertita, ma non è tale da
far pensare a qualche rilevante centro. Abbiamo solo sporadiche testimonianze
numismatiche.
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210 a.c.
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Sotto il console Levino, Agrigento cade definitivamente
sotto il dominio di Roma: Racalmuto ne segue le sorti.
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70 a.c.
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Cicerone fa un viaggio in Sicilia per preparare la sua
celeberrima accusa contro Verre: il territorio di Racalmuto non figura
visitato. Qui, però, è da tempo che vengono
riscosse le decime sul grano, sul vino e su quant’altro. Una diota ,
rinvenuta nel XVIII secolo, dimostra come un tal Fusco praticasse l’incetta
del vino destinato a Roma.
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180 d.C.
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Un contadino rinviene a S. Maria una “gavita” che secondo
il Salinas si riferisce al 180 d.C., al tempo di Commodo: è un’importante
testimonianza dello sfruttamento delle miniere solfifere di Racalmuto da
parte di Roma imperiale.
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Sino al IV sec. d.C
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Ferve un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più
verso l’area del Castello che verso Casalvecchio.
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Dopo il IV sec. d.C.
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Uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli,
è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la
desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365
d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
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V e VI sec. d. C.
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Scarse sono le conoscenze che si hanno per questo periodo
in tema della più generale storia della Sicilia. Se l’Isola fu occupata dai Vandali, a
Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Di certo, quando Genserico fu
sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a
ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. I Vandali dopo il 463 riescono,
in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui,
caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad
Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e
modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di
un buon governo da parte di Teodorico. Per i coloni di Racalmuto che cosa
potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose,
in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al
535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente:
inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti
di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i
due e mezzo dell’insediamento berbero).
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Fine del VI sec.
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A Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà
bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal
Guillou.
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829
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Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno
fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro
dominio berbero. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità
storiche solo deludenti barlumi.
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1087
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Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del
territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal
conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se
non due, vuoi al Castelluccio, vuoi
'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire in arabo fortezza, castello,
stazione. Quella fortezza - se esistette -
era sotto il dominio di Chamuth.
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Secolo XI
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Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero
d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna.
Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per
divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio
dell’islamica sudditanza, durata quasi
due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica
religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al
cristanesimo.
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Sino al 1271
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I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni
venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto
diventa deserta. Tocca a Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel
1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano
cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è
Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può
esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito
esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con
il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante
litteram. La cattolicissima Spagna esordiva
con spirito predatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni
maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a
pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona
per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di
paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo
il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala
epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
|
[1][1] ) Archivio Segreto
Vaticano. Relationes ad limina - Agrigentum - 18/A f.18
[2][2]) Cro-Magnon (Francia), località del Périgord, nel
dipartimento della Dordogne. Uomo di Cro-Magnon. Razza di Homo sapiens sapiens,
cui appartengono i resti scheletrici rinvenuti nella località omonima e
risalenti al Paleolitico superiore.
[3][3]) Michele Amari: Biblioteca
Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag. 305-306, dal Kitab 'al Falah, Libro
dell'Agricoltura di Ibn 'al Awwam
[4][4]) Giovan Battista Pellegrini,
in Dizionario di Toponomastica - i nomi geografici italiani - UTET 1990.
[5][5]) Peri I., La
Sicilia dopo il Vespro, Laterza 1982, pag. 235
[6][6]) AVS - Reg. Av. 162 f.419v.
[7][7]) cfr. G. Picone - Memorie
storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.
[8][8]) John A. Garraty e
Peter Gay - Storia del Mondo - Mondadori 1973 - Vol. I - pag. 15
[9][9]) Ibidem. pag. 15.
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