Arc.
Alfonso PUMA
* * *
L’Arciprete a domanda
risponde
* * *
(Intervista di Calogero Taverna)
Racalmuto, 5 luglio 1995
_________________
INTERVISTA ALL’ARCIPRETE ALFONSO PUMA
Intervistatore: Calogero Taverna.
Cenni autobiografici
Domanda:
Per rompere il ghiaccio, iniziamo con alcuni cenni autobiografici. Arciprete
Puma, che mi racconta della sua vita?
Risposta: Sono nato il 21 novembre 1926. Sono stato ordinato
sacerdote nel 1950, anno santo. Sono stato eletto parroco del Carmelo nel 1961
e vi sono rimasto sino al 1966. Come parroco-arciprete della Matrice, sono
stato chiamato il 1° dicembre 1966: rimanendovi sino al presente.
D.: Oggi ne
abbiamo?
R.: 5 luglio 1995.
D.: A che
data risale la sua vocazione? Ricorda l’origine?
R.: Fin dalla tenera età avevo il desiderio di farmi
sacerdote. Fatte le scuole elementari, sono entrato in seminario, nell’ottobre
del 1939. La casa mia era quella, ove mi trovai subito a mio agio. Ho
intrapreso gli studi con grande gioia; ho così affrontato il periodo della
guerra senza paure, nella speranza di farcela.
D.: I suoi
genitori - che io ricordo: sua madre soavissima; suo padre molto benevolo -
come se li ricorda?
R..: Li ricordo non solo come genitori, ma come amici. Mia madre è stata addirittura la mia
prima direttrice spirituale. Mio padre, un uomo sodo, un uomo temprato, molto
parco nel parlare ma saggio, diceva: «voi non vi preoccupate: se faccio
sacrifici o non ne faccio, a voi non interessa. Ricordate che starò sempre
vicino a voi.» E del resto, sia io come mio fratello, il tenore, abbiamo
studiato con questa fiducia che qualcuno ci sosteneva e ci stava sempre a
fianco.
In
tempo di guerra, in seminario
D.: In
seminario ha avuto dei padri spirituali o dei rettori che ricorda in modo
particolare?
R.: Ho avuto la
fortuna di essere guidato da santi sacerdoti. Tra i primi ricordo il servo di
Dio, padre Isidoro Fiorini, per il quale ho fatto una dichiarazione giurata
come testimone della vita di santità che ha condotto e nello stesso ho
rievocato le virtù eroiche di questo sacerdote. Il padre Isidoro Fiorini morì,
ultra nonagenario, in un incidente, finendo sotto le ruote di un pullman.
Ricordo pure mons. Stefano Conte, anima bella, che ci ha sostenuto durante la
guerra. Ci faceva da mamma. Mons. Jacolino, morto anch’egli in fama di santità:
è stato un uomo di stile tedesco, sia perché abituato ad un regime austero - è
stato prigioniero di guerra - sia perché era un uomo molto temprato al
sacrificio. Egli - durante il periodo di guerra - fece in modo che il seminario
giammai si chiudesse, fidando sempre nella Divina Provvidenza e in S. Giuseppe
- cui era molto devoto. L’unico seminario che non chiuse fu quello di
Agrigento: per merito suo. Noi ricordavamo questa figura di uomo, osservante
della regola, uomo con grande spirito di sacrificio. E’ morto dopo due anni di
episcopato, lasciando alla diocesi nulla, perché era povero.
D.: Io
ricordo che nel 1945, quando sono entrato anch’io in seminario - e lì l’ho
incontrato - mio padre come suo padre erano costretti a portare in seminario il
frumento comprato al mercato nero, per la nostra alimentazione.
I
militi fascisti a rovistare nelle cantine del seminario di Agrigento
R.: Rammento che una sera sono venuti due militi inviati dal
regime fascista per ispezionare se in seminario si detenessero illegalmente
farina, frumento ed altre vettovaglie. Invero tenevamo qualcosa nascosta, ma
era roba nostra. I nostri genitori facevano dei sacrifici, si toglievano il
pane di bocca per dare da mangiare ai figli che stavano in seminario. In quel controllo, anch’io fui chiamato
perché ero il prefettino più grande. I nostri genitori rischiavano, invero, la
galera per portarci la farina. E quando il vescovo chiese a Mons. Jacolino:
come fate a dare da mangiare ai seminaristi? Costui rispose: siamo sempre
pronti ad andare a San Vito! (S. Vito
era un vecchio convento, adattato a carcere mandamentale di Agrigento).
Quella volta pure gli
stessi inquisitori furono benevoli e furono invitati alla cena e fecero una relazione più positiva che
negativa nei confronti del rettore del seminario.
Sciascia,
i seminaristi e gli aspiranti gesuiti
D.:
Sciascia - a dire il vero, irritandomi - scrive che a Racalmuto si era furbi
nel senso che si andava gratis in seminario o dai gesuiti per fare un certo
iter di studi e poi gabbare il rettore del seminario o i gesuiti ed andarsene
via. Trascura il fatto che molti siamo andati, cambiando magari dopo intenti,
perché convinti. Comunque non era gratis andare a studiare in seminario:
costava e costava forse più che restare a studiare in paese ove tutto sommato
le scuole c’erano.
R.: Tutti sanno quali
erano i rapporti tra me e Leonardo Sciascia. Sciascia un tempo avversò
visceralmente la Chiesa e quindi anche i sacerdoti. Amava criticare preti,
religiosi e pie istituzioni. Ma poi, conoscendo meglio la realtà della Chiesa
attenuò i suoi toni. Del resto amava dire di sé: contraddisse e si
contraddisse.
Non è vero che si andava in seminario o dai gesuiti solo per
sfruttare ed essere agevolati negli studi. I genitori facevano grandi
sacrifici. Anche quelli che andavano dai gesuiti, pur se poveri, erano chiamati
a pagare una certa retta. Certo, da ragazzi, non si può essere sicuri della
propria vocazione al cento per cento: c’è chi la perde e c’è anche chi non
l’aveva e c’è anche chi la cercava. Quindi, quello di Sciascia non è un
argomento valido. E’ vero invece che tanti sono andati in seminario o dai
gesuiti e ci sono restati. E quelli che sono rimasti sono una vera gloria per
il paese. Quello che Sciascia ha scritto non può, quindi, essere preso per oro
colato.
Le
grandi figure dei sacerdoti racalmutesi
D. :
Ricorda alcuni dei suoi coetanei che sono divenuti sacerdoti e si sono
contraddistinti?
R.: Il padre Facciponte, padre gesuita. Ecco uno che c’è
rimasto. Padre Jacono, direttore spirituale dei gesuiti ... e c’è rimasto. Il
padre Fusco, un altro ragazzo molto serio e molto bravo, padre gesuita anche
lui ... e c’è rimasto. Ne abbiamo avuti tanti. Evidentemente allora era un po’
di moda andare dai gesuiti perché il padre Francesco Nalbone, una gloria della
Chiesa ed anche dei padri gesuiti, consigliere di papa Pio X e di Benedetto XV,
era diventato una istituzione. Quindi tanti giovani vedevano in lui l’uomo
carismatico che attirava: un padre
Salvatore Scimè, professore di filosofia, distintosi per tanti meriti: ha tra
l’altro formato la scuola di Modica, una scuola sociale. Possiamo annoverare
tra i padri gesuiti che si sono particolarmente distinti il padre Sferrazza, un
apprezzato studioso della religiosità in Sicilia, che pur avendo tanto rispetto
per Sciascia, pure talora dissente da quello che scrive lo scrittore
racalmutese. Padre Sferrazza è diventato, anche consigliere di vescovi. E’
direttore della scuola teologica a Messina. Merita quindi tanto rispetto ed è
degno di tanta fiducia. Evidentemente le scuole dei gesuiti hanno fatto tanto
bene tra i nostri giovani. In seminario, certamente, si pagava molto di più,
con grande sacrificio, specie da parte delle famiglie povere. Certo, vi era
qualche piccolo aiuto da parte del seminario con borse di studio accordate a
giovani volenterosi di famiglia povera. Il seminario ha formato grandi
sacerdoti racalmutesi, gloria della Chiesa agrigentina; i gesuiti hanno
forgiato racalmutesi illustri della Chiesa racalmutese.
D.: Ai miei
tempi vi erano tre seminaristi oggi sacerdoti: padre Curto, padre Salvo e ...
padre Puma. Ricordo il padre Salvo per la sua scienza, ma padre Puma lo ricordo
per la sua grande bontà, per la sua grande affabilità, per la sua capacità di
intessere dei dialoghi con i giovani. Che mi risponde?
R. : Ogni sacerdote cerca di fare del suo meglio. Io son
vissuto sempre fra i giovani. Sono stato nell’Azione Cattolica sin da bambino;
in seminario, il vice rettore di allora, Mons. Di Marco - attualmente Vicario
Generale del Vescovo - ed io abbiamo portato avanti l’Azione Cattolica, per
preparare i futuri sacerdoti alla vita associativa. Tutta la mia vita è stata
spesa per i giovani. Poi sono sorte anche ACLI e vi ho aderito perché la mia
aspirazione è stata anche quella di venire incontro al bisogno sociale della
gente. Racalmuto è (o meglio era) un paese prettamente minerario. La miniera
costituiva che so .. il petrolio, .. la ricchezza .. l’oro. Nell’Ottocento,
Racalmuto raggiunse la quota di 18.000 abitanti per l’occupazione nelle miniere
di zolfo. Poi il minerale si è svilito e Racalmuto ha contratto la sua
intensità abitativa. La mia missione è stata svolta al servizio degli
zolfatari, dei salinai, dei lavoratori di Racalmuto.
Il cognato dell’arciprete, primo sequestrato dell’Italia
del dopoguerra.
D.: Non è
detto che debba rispondere a questa domanda. Può anche non rispondere. Ricordo che alla fine degli anni quaranta la
sua famiglia fu contraddistinta da un evento molto increscioso: il sequestro di
suo cognato. Questo fatto ha creato in lei dei traumi? Ha visto i racalmutesi
nello stesso modo? O si è insinuato in lei il dubbio che non tutti i
racalmutesi fossero delle brave persone?
D.: E’ vero! Era
l’anno 1946: venendo dal seminario per le vacanze ho avuto l’amara sorpresa di
sapere che un mio cognato era stato sequestrato. Era il primo sequestrato in
Italia. Certo è stato traumatizzante pensare che quest’uomo poteva non tornare
più. Erano tempi di grande miseria; mancava persino il pane. Erano tempi di
grande bisogno. I sequestratori erano andati per altre persone. Ma poi,
fallendo, si erano accontentati di qualcuno che poteva disporre di qualche
migliaio di lire, perché lavorava. Comunque, fu restituito ai familiari:
evidentemente c’era stato qualcuno che si era mosso in soccorso di chi in fondo
era un pover’uomo sfornito di grandi mezzi. L’hanno rilasciato con una piccola cauzione.
Tutto questo ha destato in me un’avversione verso la malavita, locale o
nazionale che sia. Ecco perché in questi fatti luttuosi che si sono di recente
verificati a Racalmuto ho assunto una posizione rigida, in quanto motivata.
Sono stato dalla parte dei più deboli, evangelicamente.
I
tanti, diversissimi vescovi agrigentini di questo cinquantennio
D.: In
questo cinquantennio, ad Agrigento vi sono stati diversissimi vescovi; lei li ha conosciuti tutti. Vogliamo farne
una rapida, come dire?, rievocazione?
R..: Ho conosciuto mons. Giovanni Battista Peruzzo
- un vescovo definito da Leonardo Sciascia, rinascimentale.
E’ stato un vescovo intelligente, un vescovo che affascinava per la sua
oratoria, per il suo stile. [...]
* * *
Le confraternite
cinquecentesche
D.: In
effetti a Racalmuto sorgono nel 1500 sei o sette associazioni o congregazioni o confraternite. Si chiamano
confraternite per la buona morte come dappertutto, perché curano la sepoltura
dei morti. Ma, a ben guardare, sono organismi economici, anzi, finanziari.
Dispongono di un patrimonio immobiliare immenso. Sono proprietari quasi monopolistici delle case di
abitazione; fanno prestiti ad interessi, sia pure conformi ai dettami della
Chiesa: talora assurgono a vere e proprie banche moderne. Queste confraternite
racalmutesi hanno di particolare due caratteristiche: 1) una loro laicità. C’è il cappellano, ma il
cappellano serve solo per dire la messa. Per il resto, c’è una lotta per
evitare che vi siano infiltrazioni ecclesiastiche nella gestione sociale ed
economica della confraternita, che è retta da un governatore e da rettori
laici; 2) vi sono associati indifferenziatamente confratelli di tutte le classi
sociali, dai cosiddetti “magnifici” (i moderni “galantuomini”) ai “mastri”, ai
“borgesi” e persino ai “jurnatara”.
Da ciò oso
desumere una duplice conseguenza:
a) una fede
religiosa del popolo di Racalmuto molto profonda, che si accompagna, però, ad
un anticlericalismo piuttosto viscerale. C’è la battuta a Racalmuto che dice:
«monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini».
b)
un’abitudine all’interclassismo, quasi l’interclassismo alla De Gasperi. Forse
nasce da qui se a Racalmuto mai vi sono stati contrasti sociali atti a
suscitare moti rivoluzionari, diversamente, ad esempio, da Grotte.
Dall’alto
della sua quarantacinquennale esperienza pastorale, lei che ne pensa?
R.: Prima di tutto
debbo precisare che la frase «monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li
rini», è diffusa dappertutto in Sicilia. Nasce nei tempi in cui la stampa era
espressione della massoneria e del suo anticlericalismo. Erano i tempi delle
leggi eversive: quando furono soppressi i monasteri e la manomorta dei
conventi. A Racalmuto, in definitiva, non vi sono state tensioni sociali acute
anche perché il popolo poté appropriarsi agevolmente dei beni della Chiesa.
Peraltro, il clero locale ha sempre parteggiato per la classe meno abbiente.
Vedasi la bella figura di padre Elia Lauricella. Abbiamo avuto anche, a dire il
vero sacerdoti alla Savatteri - nati magari in famiglie di massoni - ma furono
eccezioni, e comunque ininfluenti. I racalmutesi sono stati anticlericali
subendo l’astiosa propaganda massone, ma nel profondo sono stati vicini ai loro
sacerdoti, almeno quelli migliori come il padre Elia Lauricella, morto in fama
di santità.
Figure singolari di sacerdoti racalmutesi si ebbero, ad
esempio, a fine dell’Ottocento. Guardiamo all’arciprete Tirone, uomo
inflessibile, di profonda cultura anche giuridica, sagace difensore dei diritti
della Chiesa. Tanti beni si sono salvati dall’espoliazione governativa per suo
merito. E nello stesso tempo, così legato alle autorità ecclesiali da venire
prescelto nella salvaguardia della fede fra i fedeli di Grotte, messi in
subbuglio da taluni preti finiti nello scisma, non tanto per ragioni di fede,
quanto per interessi materiali, legati al gius-patronato della locale
arcipretura. Alla fine quei sacerdoti scismatici tornarono nel grembo di madre
chiesa e ad accoglierli è stato proprio il padre Tirone.
Il
vescovo spagnolo Horozco e Racalmuto
D.: Passiamo ad altro. Leggo nelle carte
dell’Archivio Segreto Vaticano un furibondo contrasto sorto tra il vescovo
spagnolo di Agrigento, Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ed il conte del Carretto. Entrambi si accapigliano per impossessarsi
dello “spoglio” dell’arciprete Romano. Siamo alla fine del 1500. Non è detto
che lei risponda alla domanda che sto per farle, che potrebbe considerare
impertinente. Ho avuto l’impressione che i vescovi di Agrigento guardano a
Racalmuto più dalla parte dei ricchi che dalla parte dei poveri. Lungo i secoli
sembra che si sia snodato, senza interruzione, un filo conduttore - da Horozco
al vescovo Peruzzo - benevole con i ricchi racalmutesi; ostile verso i
poveracci. Per converso il clero locale è stato in opposizione a questa
condotta ambivalente dei vescovi agrigentini. Quali le sue considerazioni?
Quali le sue controdeduzioni?
R.: Da precisare che a Racalmuto il clero ha raggiunto la
quota di n.° 52 componenti. Quindi fu un clero molto forte. Vi sono anche i
monaci. Se diamo uno sguardo ai testimoni che hanno firmato il documento sulla
fama di santità del padre Lauricella, notiamo ben n.° 32 sacerdoti firmatari di
quell’atto. Ciò dimostra la solidarietà, coesione e serietà di quel folto clero
del Settecento Racalmutese. Che in siffatta compagine sacerdotale serpeggiasse
ostilità verso i vescovi agrigentini, non risulta. Risulta, invece, una estrema
prudenza, una grande cautela dei vescovi agrigentini nelle cose di Racalmuto,
che hanno guardato con circospezione ma anche con tanta carità. Si pensi
all’autorizzazione accordata dalla curia vescovile di Agrigento ad ipotecare i
“giogali” preziosi delle chiese racalmutesi, pur di sfamare il popolo nella
tragica congiuntura alimentare di fine Settecento. Più in generale, può
affermarsi che in curia vigesse una valutazione positiva del clero racalmutese,
cui si lasciavano ampi spazi di autonomia amministrativa; per contro, il clero
racalmutese è stato sempre ligio agli indirizzi episcopali in materia di fede e
di morale.
Che
vuol dire essere arciprete a Racalmuto?
D.: Essere
arciprete a Racalmuto è identico che esserlo in qualunque altra parrocchia
dell’agrigentino?
R.: Bisogna
intendersi. Una volta l’arciprete era quasi un mezzo vescovo. Al suo
presentarsi ci si doveva togliere la “scazzetta” o la “birritta”. Era il grande
datore di lavoro del luogo. Era il distributore di messe ai tanti sacerdoti che
non disponevano neppure di una piccola chiesa (ed a Racalmuto di chiese ce ne
erano tante). Oggi, l’arciprete è alla stregua di tutti gli altri parroci. Un primus inter pares, magari, ma niente di
più. E questo a Racalmuto, come altrove.
Il
belato delle pecorelle
D.: Nei confronti
della Chiesa, le “pecorelle” racalmutesi belano più o meno rispetto a quelle
delle altre parti?.
R.: Beh! se le pecorelle “belano” perché bramano pascoli più
ubertosi, allora è ben giusto che belino. Se poi è vezzo critico - molto
diffuso in questo nostro paese - allora bisogna rintuzzare quelle critiche.
Oggi si parla molto di dialogo. Quindi, con spirito di carità, la dialettica
con il popolo di Dio deve essere fervida, reciprocamente rispettosa,
missionaria. Diceva papa Giovanni «chi è dentro deve sforzarsi di guardare a
quelli che stanno fuori; chi è fuori deve sforzarsi di guardare meglio dentro.
» Forse, se Sciascia si fosse sforzato di guardare meglio dentro, non sarebbe
incorso in quelle critiche... diciamo, esagerate. Sciascia guardava alla Chiesa
dal lato esterno. Anche la Chiesa è un’istituzione, che nella sua componente
terrena può venire migliorata. Comunque, quelli che dall’interno ci produciamo,
talora, in critiche, tentiamo di migliorarla. A Sciascia, forse, di migliorare
la Chiesa con le sue critiche non importò granché. Diceva madre Teresa di
Calcutta, a chi parlava male della Chiesa: «Lei che cosa ha fatto per la
Chiesa? Niente! Ed allora?».
Sciascia
e gli eretici di Racalmuto: fra Diego La Matina, il notaio Jacopo Damiano e la
strega Isabella Lo Voscu.
D.: Detto,
tra parentesi, che Leonardo Sciascia, immenso scrittore, è stato secondo me, un
pessimo politico ed un massacratore della storia locale di Racalmuto, ho da
precisare che nei miei studi storici su Racalmuto, che modestia a parte, credo
che abbiano una qualche valenza, non ho mai riscontrato moti locali che
sapessero di eresia. La vicenda di fra Diego La Matina è tutta da studiare e va
totalmente revisionata rispetto all’abbozzo forzato di un testo come Morte
dell’Inquisitore. Il notaio Jacopo Damiano - notaio di fiducia del barone
Giovanni del Carretto negli anni sessanta del 1500 - ridonda, nei suoi
rogiti, di fervore religioso ed
irreprensibile ortodossia. Ora si parla di una certa Isabella Lo Vosco (o
Bosco) come eretica. Costei, murata viva per dieci anni dall’Inquisizione,
appare più che un’eretica, una mondana che ai suoi tempi destava scandalo,
specie fra i famigli del Sant’Uffizio. Una questione dunque di morale sessuale
e l’ortodossia c’entrava ben poco. Quindi Racalmuto può definirsi un popolo
fedele alla Chiesa. Concorda?
R.: Racalmuto è stato sempre
fedele alla Chiesa e quando vi è stato il famoso scisma di Grotte, nessun
racalmutese è stato coinvolto. Né vi fu, da parte di un qualche sacerdote o di
un qualche laico, moto alcuno di simpatia o di fiancheggiamento a quella
ribellione di ecclesiastici grottesi. Quanto al protestantesimo - che qua e là
nell’agrigentino un qualche proselitismo è riuscito ad avere - qui a Racalmuto
esso è stato sempre rigorosamente bandito. Qualche elemento viene ora da
Agrigento, ma è fatto trascurabile. Il motivo? Diceva il grande padre Parisi,
eccelso predicatore - anche il Circolo Unione si sentì in dovere di accoglierlo
come socio onorario -, diceva dunque il padre Parisi: è grazia della Madonna
del Monte. La devozione alla Madonna a Racalmuto è stata sempre profonda e
radicata. Ciò l’ha preservato dall’apostasia. La bontà, l’attaccamento alla
chiesa ed altre doti del popolo di Racalmuto restano comprovati dai tanti
documenti d’archivio, che anche tu ed il prof. Giuseppe Nalbone state
studiando, con risultati conformi a
questa valutazione.
D.: Ma
questo è un atto di fede, o di speranza o di carità verso i racalmutesi?
R.: Credo solo che sia un atto di giustizia e di sincerità.
Alla carità gratuita, non bisogna indulgere. Cerco solo di essere obiettivo e
sincero. Ma i momenti di smarrimento che per avventura vi siano stati a
Racalmuto vanno presentati con altrettanta sincerità ed obiettività. Non sono
comunque uno storico per avere di siffatti problemi. Tocca a chi cerca la
verità storica, essere veridici, a qualunque costo. Amicus Plato, sed magis veritas, mi pare che un tempo si dicesse,
quando era di moda il latino. Ed oggi Sciascia appare tanto Plato!
* * *
Le
opzioni umane dell’arciprete
D.: Il 25
dicembre 1991 lei diceva: «fare cose utili, dire cose coraggiose, contemplare
cose belle: ecco quanto basta per la vita di un uomo». E per quella di un
prete?
R.: Per la vita di un prete è immergersi nella
preghiera. E’ entrare nel vivo della vita dei propri parrocchiani. Sapere
portare gli altri, con la forza dello spirito di Dio, al Padre. Se questo si
riesce a fare, si può dire che il prete è riuscito. Se questo non riesce a
fare, il prete, pur avendo avuto l’ordine sacro, è sempre un fallito.
e
quelle dello spirito
D.: L’altro
giorno, quando è stato celebrato il suo quarantacinquesimo anno di sacerdozio,
lei pronunciò un’omelia memorabile. Ci sono stati tre passaggi che mi hanno
particolarmente colpito:
1) un
oscuro riferimento ad un deserto da attraversare;
2) un
ribadire, quasi con rabbia, «io sono comu l’ovu, ca cchiù si coci, cchiù duru
addiventa»;
3) un suo
non volere scegliere tra l’atteggiamento pratico e conservatore di S. Pietro e
l’atteggiamento speculativo ed innovatore di San Paolo.
Vuol
commentare?
R.: Io non oso
mettermi, sia pure lontanamente, a confronto con tali giganti della Chiesa.
Cerco di imitarli quanto più posso, essendo noi i continuatori della loro
missione. Quando faccio qualche battuta del tipo «cchiù mi cuociu, cchiù duru
mi fazzu» intendo sottolineare la mia ostinazione, il mio attaccamento, il mio
volere essere sempre più fedele al sì,
a quell’eccomi pronunciato al tempo
della mia consacrazione sacerdotale. Voglio perseverare nella grazia che Dio
concede giorno per giorno, perché nell’amore di Dio si cresce giorno per
giorno. Nessuno può presumere di essere arrivato. Nessuno deve adagiarsi. Ed
allora ecco il cammino, che può essere un cammino nel deserto, che può portare
incontro al proprio Calvario. Sono tappe, anche dolorose, che vanno
ostinatamente raggiunte e superate, ad imitazione di Cristo. Con l’andare degli
anni, si riflette maggiormente. Ci si accorge di avere avuto dei difetti. C’è
bisogno di maggiore ostinazione, ma non basta la buona volontà: occorre la
grazia di Dio.
Come
è cambiato Racalmuto in quest’ultimo cinquantennio.
D.: In questi
quarantacinque anni, Racalmuto, sotto il profilo della fede, di quello morale e
di quello sociale, è migliorato o peggiorato?
R.: Anche Racalmuto,
come tutto il resto del mondo, ha subito l’influenza generale. Se Berlino
piange, Roma non ride e viceversa. Siamo in epoca di cosiddetta planetarietà.
Il mondo è diventato, davvero un paese. Il nostro paese è diventato, in certa
misura, il mondo, nel bene e nel male. A Racalmuto - possiamo dirlo - un
miglioramento c’è: lo Spirito Santo
soffia dove vuole e sta soffiando un po’ dovunque, anche a Racalmuto. Quindi i movimenti che nascono, gli oratori
che rinascono. Il bisogno di pace, il bisogno di associarsi, il bisogno anche
di rinnovarsi. Si avverte, e questo è già molto. Ma Racalmuto subisce anche
l’ondata deleteria del rilassamento dei costumi, del consumismo, del
materialismo.
D.: A
Racalmuto vi sono molto meno vocazioni di una volta. E’ un segno negativo, è un
momento transitorio, è un indice di un certo affievolimento della fede
religiosa?
R.: La scarsità delle vocazioni è un segno di crisi, più che
del sentimento religioso, della famiglia. Oggi la famiglia è in crisi. I mass-media hanno operato negativamente.
C’è stata anche una crisi di fede: non si può negare. Un paese antico come
Racalmuto, ha risentito con un certo ritardo degli effetti negativi. Noi preti
dobbiamo puntare di più sulla catechesi, sull’istruzione religiosa e sulla vita
liturgica.
D.:
Racalmuto, il popolo di Dio di Racalmuto, è sincero con i sacerdoti, o no?
R.: Beh! Se vedono un sacerdote che si muove, che
agisce con serietà, con purezza d’intenti, sì. Non si guarda più tanto al grado
di cultura del prete, perché la gente vuole ed esige un servizio all’insegna
della charitas, dell’amore. Dove non
c’è amore, scatta la critica. Del resto il Vangelo lo dice: se il sale è
insipido, lo si calpesta; se il sale è buono, lo si apprezza.
D.: A
Racalmuto la fede è diversa a seconda del sesso, dell’età, delle classi
sociali?
R.: Sì. La gioventù,
ad esempio, è stata un poco più lontana. Ma qualcosa si muove in senso
positivo. Si è costituito un oratorio, si è costituita una consulta giovanile.
Cresce il richiamo associativo tra i giovani. Le donne sono più vicine: ciò è
stato sempre scontato. Una qualche indifferenza religiosa è atavica fra gli
uomini anziani. E qui l’asino zoppica. Dovremmo trovare la maniera come mobilitare anche gli uomini.
Abbiamo trovato delle difficoltà anche con questi Centri d’ascolto familiari.
Non solo qui a Racalmuto, ma anche in tutta la diocesi. Mi ero permesso di
suggerire qualcosa per interessare gli uomini, specialmente la sera.
La
morale sessuale di Racalmuto
D.: Ho
l’impressione che la morale sessuale a Racalmuto sia stata una cosa molto
relativa e talora inquinata. Si levano dai documenti d’archivio sussurri e
grida che fanno intuire scelleratezze consumate qualche volta persino nel
chiuso delle famiglie. E’ un mio pessimismo o lei non intende accedere ad una
provocazione del genere?
R.: I misfatti di
sesso sono capitati ovunque. La verità è un’altra: siamo portati a
scandalizzarci oltre misura quando i fatti di sesso investono la vita
religiosa. Siamo portati a credere che tutto un edificio crolli. Ma non è
soltanto questo il succo della morale cristiana. E’ tutto l’insieme di atti, di
comportamenti. Ed allora è erroneo pensare che se si verificano peccati di
sesso, non c’è più religione. Assolutamente, no! Ci possono essere grandi
convinzioni e ci possono essere grandi cadute.
D.: Ma io
non mi riferisco alla sessualità dei preti. E’ un problema troppo grosso e
troppo grande per affrontarlo io. Mi riferisco, però, alla morale sessuale
corrente del cosiddetto popolo di Dio, che in questo mi sembra troppo poco
popolo di Dio, per quanto riguarda Racalmuto. E non tanto per un certo tipo di
sessualità, diciamo così sfrenata che può rientrare nell’ordine umano delle
cose, quanto per quell’andare al di là, oltre il pentagramma e pigliare certe
stecche. E non sono, secondo me, fatti isolati, ma palesano un certo costume di
vita che non va criticato - perché nulla che è umano è criticabile - ma
sicuramente non va ammirato.
R.: La prevenzione è sempre il problema più difficile. Là
dove la prevenzione è stata praticata, si è evitata la frana. Laddove si è
fatto di meno, certamente la frana si avverte. Ora qui a Racalmuto occorre
praticare un metodo preventivo - ed io come sacerdote credo di averlo fatto
nella scuole. Per quanto riguarda il passato gli antichi nostri non ci davano
un contributo, per premunirci dai mali che oggi sovrastano. E’ certo, però, che
la gioventù di oggi è più preparata e più attenta rispetto al passato. Le
coppie degli sposi sono più preparate. Vi sono i corsi di formazione. Certo si
suol dire che male comune, mezzo gaudio. E l’opera nefasta dei mass-media, del materialismo
dilagante, si fa sentire. E’ in atto una scristianizzazione subdola. La
famiglia è stata minata nelle sua fondamenta: vedi divorzio, aborto, etc. che per noi cristiani sono piaghe e piaghe
anche sociali.
D.: Racalmuto ebbe certamente una cultura
contadina, quindi chiusa e sessualmente repressa e tendente agli eccessi.
Questo, però, vale per la Racalmuto antecedente agli anni ’50-’60. Dopo, in
coincidenza con la sua arcipretura, Racalmuto - se debbo giudicare dall’esterno
- ebbe un salto di qualità. Certe repressioni della società contadina non ci
stanno più. Oggi, ci saranno ... peccati, ma normali; prima, i peccati potevano
invece apparire ... anormali.
R.: Io, nei primi anni di sacerdozio, ebbi
infatti a notare un periodo, definiamolo, preconciliare. Vigeva allora quella
moralità antica. Sembrava che stesse bene per tutti. Ma apparvero subito le
prime avvisaglie dell’incombente grande corruzione. Abbiamo dovuto provvedere.
In Azione Cattolica ed in altre associazioni cattoliche abbiamo intrapreso ad
affrontare problemi di morale che prima era azzardato toccare. La questione
sessuale, nelle scuole, io l’ho affrontata, naturalmente con le dovute cautele
e ... con le pinzette. Allora c’erano le
denunzie che si facevano con estrema facilità. Nelle scuole medie - ricordo -
c’è stata una preside che mi diceva: meno male che c’è lei a trattare questi
argomenti, perché gli insegnanti sono ostili a trattarli, per paura delle
denunzie. Il paese nostro era, comunque, un paese chiuso, un paese di montagna.
Appena si è affacciato, con i ragazzi che andavano a scuola, non appena
cominciarono a muoversi, vi furono le prime vittime che finirono subito ...
segnalate. Due periodi a confronto si ebbero, in ogni caso: quello
preconciliare e quello successivo in cui le cose cominciarono a vedersi con
altra ottica.
La
politica della Curia Vescovile di Agrigento.
D.:
Continuo sul piano della provocazione. Nel Settecento, mi è sembrato che ci
fosse un atteggiamento differenziato della curia vescovile nei confronti dei
matrimoni tra parenti. Quando si trattava di poveri, scattava tutto un processo
con l’adozione di provvedimenti che imponevano atti di mortificazione pubblica.
I fidanzati dovevano cingersi il capo con una corona di spine e in ginocchio
dovevano chiedere perdono sul sagrato delle chiese: dovevano così recitarsi in
ginocchio tanti rosari davanti a tante chiese. Veniva dato incarico al Vicario Foraneo
affinché vigilasse sul completo adempimento delle penitenze inflitte. Quando,
invece, si trattava dei cosiddetti galantuomini, i matrimoni tra parenti, anche
tra primi cugini, non solo non venivano osteggiati ma persino favoriti. Ci si
guardava bene dal comminare pubbliche penitenze come per i poveri. E questo si
trascina fino a certi conclamati gesuiti dell’epoca contemporanea. Questa
faccenda, al laico suona molto strana. Si domanda: ma che ci stanno, secondo la
curia vescovile, due morali matrimoniali: quella dei ricchi e quella dei
poveri? Per converso, il sacerdozio locale mi è apparso piuttosto lungimirante
ed equo.
R.: Che in passato ci sia stato qualche inconveniente, è
fuori discussione. La Chiesa, si sa, dall’interno ha modificato certi atteggiamenti
giuridici. Molti canoni sono stati aboliti, molti canoni attenuati, molti
canoni cambiati. Abbiamo un codice nuovo, ben diverso da quello antico. La
Chiesa ha dovuto modificare il suo atteggiamento per stare al passo con i
tempi. C’è stata una maturità popolare e questa è stata registrata dalla
Chiesa. Ricordo che nei primi anni di sacerdozio, per i fuggitivi c’era il matrimonio in sagrestia. Era umiliante, ma
serviva anche da deterrente, per evitare gli abusi. Oggi la gente ha più
maturità, più coscienza. Una mea culpa
ricade sui sacerdoti, che non erano riusciti a far maturare religiosamente i
propri fedeli. Ma c’era il peccato per ignoranza della povera gente e bisognava
correggerla per evitare il peggio. Le ingiustizie? E dove non sono?
Vi è
stata una doppia morale matrimoniale?
D.: Durante
l’arcipretura Puma, ho avuto l’impressione - naturalmente sono un osservatore
non qualificato ed esterno - che le due morali matrimoniali, quella dei ricchi
e quella dei poveri, si siano finalmente unificate. Non posso dire altrettanto
per l’arcipretura del suo predecessore.
R.: Beh! .. il mio predecessore ha avuto grandi virtù: sono
stato con lui una vita. Carattere forte, duro, qualche volta, ma a volte era
necessario prendere atteggiamenti e decisioni dure. Bisognava creare una certa
coscienza. Andare ai Sacramenti senza una preparazione, accostarvisi con
leggerezza, erano malvezzi da correggere, anche con durezza. Quell’arciprete
andava giustificato. Avrei preferito, invece, meno severità e più disponibilità
verso la gente. A ciò ci stiamo uniformando io ed i miei confratelli. Bisognava
più convincere che reprimere. Con l’amore si ottiene di più, come diceva don
Bosco, della rigidità.
Ricchi e poveri, tutti uguali?
D.: Perché
negli alti prelati c’è una sorta di diffidenza nei confronti dei poveri ed una
sorta di intelligenza con i ricchi? Ci
si scorda che nel Vangelo sta scritto «è più facile che un cammello entri nella
cruna di un ago che un ricco nel regno dei cieli»? Perché invece i parroci,
l’arciprete, il basso clero che sono più a contatto con il popolo, sovvertono
quell’atteggiamento?
R.: Diceva il servo di Dio padre Elia Lauricella: «bisogna
avvicinare i ricchi e tenerseli vicini perché facciano del bene ai poveri.».
Credo che questa sia una strategia intelligente, pastorale. Nel Vangelo non c’è
scritto che si devono disprezzare i ricchi. Certo non bisogna affiancarsi ai
potenti sol perché sono potenti. Occorre comunque stare in mezzo ai poveri,
perché la Chiesa è dei poveri. Lo diceva anche papa Giovanni: Ecclesia pauperum. Essere poveri non va
considerata una gran bella cosa. La maggior parte del mondo vive in povertà non
per sua scelta. Sorge il problema dell’aiuto che occorre approntare. Un aiuto
verso i fratelli poveri.
I vescovi “rinascimentali” agrigentini.
D.:
Premesso che a me i vescovi rinascimentali non piacciono, mi pare che gli ultimi tre o quattro vescovi agrigentini
siano di tutt’altra paste. Non sono, di certo,
rinascimentali.
R.: Sì, I vescovi di oggi sono diversi, perché è cambiato
anche lo stile della Chiesa. I trionfalismi di una volta sono sorpassati. Il
tipo di cultura ecclesiale è cambiato. Il vescovo ora è fratello fra i
fratelli, per quanto riguarda i sacerdoti. Il vescovo è ora un pastore: gira,
si muore, entra a stretto contatto con i fedeli della sua diocesi. Prima,
invero, non era così. Ai tempi, il vescovo aveva il potere, aveva autorità e
quindi era il vertice. Oggi, con il Concilio Vaticano II, il Pastore sta al
centro: la Chiesa non è più verticale, come si pensava una volta; la Chiesa è
circolare. Al centro il parroco con le varie entità come il Consiglio
pastorale, presbiterale, Consiglio economico. Prima il parroco era il deus ex machina e accentrava tutto,
mentre i laici erano scollati. Oggi il laicato ha ripreso il suo ruolo.
Rammentiamoci che il laicato ha i doni che abbiamo avuto noi sacerdoti: il
laico battezzato è sacerdote, fa parte del regno di Dio, ed ha anche l’ufficio
profetico. Quindi i laici predicano, annunciano la parola di Dio e mutano nel
tempo.
Il
laicato racalmutese
D.: A tal
proposito, c’è a Racalmuto un laicato fervido?
R.: Grazie a Dio, sì. Anzi,
addirittura qualche vescovo mi diceva: «fortunato, perché lei ha collaboratori
numerosi». Non possiamo cantare vittoria .. ma, tutto sommato, ci è lecito un
moto di soddisfazione. Sotto questo profilo, siamo a posto.
D.: Quando
nel 1960 ho dovuto emigrare da Racalmuto, per motivi di lavoro, ho lasciato un
paese povero, con grande miseria, con strade sporche, con case invivibili, oggi
- a parte il vezzo di piangere miseria, che è vecchia abitudine contadina - il
paese mi pare di gran lunga cresciuto, economicamente parlando. A questa
crescita economica - se vi è stata - si è accompagnata una crescita religiosa?
R.: Sì, possiamo
affermare con certezza che c’è anche una crescita religiosa. Ad esempio, le
varie parrocchie - che prima stentavano ed avevano vita grama - ora sono
fervide, con varie associazioni, con tante belle iniziative, vi si celebrano
incontri parrocchiali ed interparrocchiali. La consulta che già è nata fra i
giovani è efficiente. Abbiamo organizzato gli incontri anche col Vescovo.
Stanno sorgendo, anche, dei movimenti artistici, lirici. Tutte le occasioni
servono per essere anche noi presenti e dire una buona parola, anche di
incoraggiamento. Ciò dimostra che cosa? Una maggiore apertura ed una maggiore
coscienza da parte delle famiglie che incoraggiano questi ragazzi a vivere la
vita della parrocchia. Sarebbe auspicabile che le Amministrazioni comunali
concertino con le parrocchie attività a respiro annuale. Su questa lunghezza
d’onda ancora non ci siamo.
Fede
e preti a Racalmuto
D.: Trenta
quarant’anni fa, a Racalmuto - mi consenta una battuta - c’erano tanti preti ..
e poca fede; ho l’impressione che ora ci stia tanta fede ma pochi preti.
R.: Ih! ...ih! ... ih! [piccolo accenno al riso]. Vuoi forse
dire che è scattato un processo inversamente proporzionale? Beh! Io non vorrei
giudicare il passato; comunque mi consta che nel passato vi erano uomini di
fede granitica. Se la fede si deve misurare dalle opere, allora dobbiamo dire
che in passato attività se ne fecero. Le varie chiese che sono state costruite
dalle varie maestranze sono l’attestato più
bello. Le varie opere caritative come la casa della fanciulla, la Misericordia
(quella della mastranza), il
maritaggio dell’orfana, furono edificanti iniziative dei nostri padri
racalmutesi, atti bellissimi di fede. Ecco, perché mi sembra un po’ azzardato
avanzare riserve sulla fede degli antichi di Racalmuto. Col cambiare dei tempi,
certo cambiano le manifestazione di fede. Anche oggi abbiamo tante belle
manifestazioni di fede .. specie per l’apporto dei laici che suppliscono alle
deficienze numeriche di sacerdoti.
D.: Altra
domanda scottante... Come giudica le vicende politiche di Racalmuto?
R.: Beh! .. Racalmuto ha avuto la mala sorte di avere subito
amministrazioni poco accorte. Forse elementi non preparati sufficientemente
hanno potuto scalare i vertici del potere locale. Ma contro le tristi vicende
che abbiamo subito c’è stata una reazione che dobbiamo definire sana. Si è
cercato di ovviare alle varie piaghe che si sono aperte. Ma dal punto di vista
amministrativo, c’è stata una specie di corsa .... ai beni, più che al bene
comune. Ai beni, di vario genere. Quindi il paese si è sviluppato piuttosto
caoticamente. Ognuno ha cercato di fare a modo proprio. Tanti hanno cercato di
affermarsi con il potere. In case, sono finiti i sudati risparmi dell’onesto
lavoro dei racalmutesi, del lavoro degli emigranti. In politica, qualcosa, molto deve cambiare:
così il paese non può migliorare.
[Questo
passo dell’intervista appare decisamente datato: si riferisce al tempo -
trascorso ormai da vari anni - in cui si è svolta la stessa intervista. Non vi
si può attribuire valore attuale o riferimento alla presente congiuntura
politico-amministrativa del paese, n.d.r.]
Quarantacinque
anni di eventi
D.: In
quarantacinque anni di sacerdozio, ne saranno successi di tutti i colori.
Ricorda eventi belli, eventi brutti?
R.: Eventi brutti? ... possiamo dire anno per anno. Eventi
belli, dopo la guerra? ... quelli a livello nazionale della ricostruzione.
Riflessi sul posto, tanti. Poi abbiamo avuto il nefasto blocco dell’attività
edilizia. Dei tempi buoni, a respiro nazionale, noi racalmutesi ne abbiamo
usufruito, però, tutto sommato, poco. La povera gente è rimasta delusa. Molti
dovettero uscire fuori dal paese, per
trovare lavoro. Sono dovuti andare a cercare pane altrove. In Germania, ad
esempio. E’ stata un’emigrazione dolorosissima. La migliore gioventù è dovuta
emigrare. Andare negli Stati Uniti, in Canada. Qualcuno poté emigrare con
qualche documento parrocchiale ... vorrei dire un po’ ... truccato. Allora
c’era lo spauracchio del comunismo. Qualcuno doveva, per emigrare, rinnegare la
propria ideologia, che poteva risultare sgradita e fingere di professare quella
... gradita. Tutto questo non è stato bello. Abbiamo avuto le sciagure
minerarie del Belgio che hanno coinvolto anche nostri emigranti. Sono uscito
diverse volte: sono stato in Belgio, in Germania, due volte negli Stati Uniti.
Ho avuto modo di vedere i nostri emigranti nella loro nuova patria; ho potuto
scorgere il buono ed il cattivo, il positivo ed il negativo, della loro nuova
vita.
In definitiva, il paese, dal punto di vista socio-economico,
non possiamo dire che sia migliorato di molto. Si è soltanto difeso.
D.: .... sono convinto che se si sapesse la
verità sui depositi bancari, sulla sottoscrizione dei titoli pubblici, sulle
disponibilità, addirittura, in valuta estera, sui depositi postali, di
Racalmuto, forse, il giudizio cambierebbe.
R.: Sì, perché si
tratta di un paese parsimonioso. Noi in definitiva discendiamo dai giudei:
risparmiatori, avvezzi alle banche, ai depositi. La gente nostra non è abituata
ad investire. Anche perché ha avuto diffidenza verso le istituzioni finanziarie
(e talora grosse fregature). Una
diffidenza che ha investito anche le istituzioni finanziarie d’ispirazione
ecclesiastica.
D.: Padre
Puma, lei accennava alla grande emigrazione degli anni quaranta, cinquanta...
sessanta. Ne derivò un forte flusso di rimesse degli emigranti... mal
convertite in lire dalle banche. L’Italia ha potuto sfruttarle per costruire le
sue fortune, per cui oggi, nel bene o nel male, viene considerata la sesta,
settima ottava potenza economica del mondo. Queste rimesse degli emigranti, già
mal convertite in lire e finite in depositi bancari, sono state quindi
polverizzate dall’inflazione galoppante degli anni settanta. Lo Stato quindi è
doppiamente debitore nei confronti di Racalmuto. Non riesco a capire perché a
livello nazionale si vuole recitare il de profundis allo Stato assistenziale e rompere con ogni forma di sovvenzione al
Sud (e quindi a Racalmuto), dimenticando che si debbono atti di risarcimento,
di riparazione. Lei è sacerdote e quindi le cose dell’economia le lascia agli
economisti. Il suo parere resta però sempre interessante: si tratta pur sempre
delle condizioni di vita dei suoi parrocchiani.
R.: Io - per quello
che ho potuto constatare, sentire, avvertire - debbo sottolineare che qui la
mano del minatore, del bracciante, dell’operaio, del commerciante, è stata
sempre defraudata. Il mare di rimesse dall’estero non ha lambito, vivificato le
nostre aride terre. Sono d’accordo, dunque,
sul fatto che lo Stato è fortemente debitore. Addirittura, se ci rivolgiamo
alle banche per prestiti, loro fanno gli indiani verso i racalmutesi. Le banche
locali, già assorbite da quelle colossali del continente, sono molto aperte a
prendere (i depositi racalmutesi), ma del tutto restie a dare (accordare
prestiti, finanziare, etc.). Noi non abbiamo avuto agevolazioni da parte delle
banche. Sono scesi come i predatori - mi dispiace dire questa frase - perché
sanno dove pescare. E qui hanno sempre pescato un po’ tutti. Nel vicino paese
di Grotte, invero, è stato diverso. I grottesi si sono serviti delle banche per
i loro investimenti, ma lì vige un’altra mentalità, diversa da quella
racalmutese. Non va sottaciuto il ruolo della Regione Siciliana. Essa ha
comprato a poco prezzo le miniere: ha fatto sorgere delle società alquanto
speculative. Beh! Sappiamo tutti come sono andate a finire le miniere
racalmutesi. Quando si è finalmente levata una voce di protesta, questa voce -
voce nel deserto - è stata soffocata.
Una
rapina di Stato.
D.: Di
fronte a questa - che io azzardatamente chiamerei - rapina di Stato, secondo
lei il sacerdote deve mantenere un atteggiamento di dignitosa distanza o è
chiamato ad elevare, se non altro, un grido di protesta?
R.: Ma credo che il
grido di protesta sia stato spesso elevato. Io non accetto la supina
rassegnazione che alcuni, impropriamente, dicono cristiana. La rassegnazione
cristiana è valore ben diverso rispetto a ciò che suona omertà, silenzio,
acquiescenza che per secoli hanno danneggiato questa povera gente siciliana.
Tanto ha dato adito al rifiorire della mafia, all’ingrossamento delle fila
della mafia, ai 43.000 killer che spadroneggiano e fanno tutto quello che
credono. Tutto questo è l’effetto. Ma le cause non sono forse quelle a cui
abbiamo accennato? Chi doveva provvedere non ha provveduto. Chi doveva agire
non ha agito. Chi doveva gridare non ha gridato. Noi sacerdoti abbiamo questo
compito di gridare perché si dice: il cane che non abbaia, non è un buon cane.
Noi siamo come i cani da guardia che dobbiamo abbaiare, se non altro per scongiurare
i pericoli. Ma non basta denunciare i pericoli, occorre provvedere. Mettersi a
fianco della povera gente, a fianco dei sindacati, in un’azione a pro’ dei meno
abbienti.
D.: Ci
stanno le virtù teologali ed i peccati capitali ... Quanti sono .... sette i
peccati capitali, mi pare. Quali sono le virtù teologali dei racalmutesi e
quali i peccati capitali?
R.: Le virtù
teologali - lo sappiamo - sono fede, speranza, carità. Vivere solo di speranza
significa ... morire disperati. La fede non è soltanto fede che ci sia Dio, ma
mettere in pratica i comandamenti e la legge di Dio, costi quello che costi.
Qualcuno magari ci rimette la pelle. Amare non è vacuo parlare. Amore significa
condivisione: soffrire con quelli che soffrono e magari qualche volta venire
emarginati. Qualche volta ti sbattono la porta in faccia e tu devi essere
inopportuno come dice S. Paolo.
I vizi capitali sono sette, ma sono ancora di più, i vizi.
Quelli sono capitali, ma ce ne sono tanti altri, che magari possono sembrare
virtù. ( ih!..ih!... sorrisetto beffardo).
D.: Mi
rendo conto che non possiamo continuare su questo tasto perché la prudenza del
sacerdote è ostativa. Scatta da parte mia il sacro rispetto verso la
riservatezza totale del sacerdote che non può certo svelare i segreti più
intimi dei suoi parrocchiani. Passiamo ad altro. Nel 1860 Garibaldi conquista
anche Racalmuto. Distrugge tutti i pii lasciti che sono costati lagrime di
sangue alle nostre pie trisavole del cinquecento o del seicento. Sussistevano
vincoli: dovevano recitarsi sante messe in perpetuo per la loro anima. Pro
Deo et anima testatricis
è la formula ricorrente nei Rolli delle confraternite che si conservano
in Matrice. Tali sacri vincoli, oggi come vengono onorati?
Garibaldi
a Racalmuto. Parliamone male!
R.: Garibaldi da buon
cattolico finisce col depredare chiese, conventi e pii lasciti. Pio IX, da
papa, finisce recluso in Vaticano. E’ la storia. Oggi, quanto alle sante messe,
supplet ecclesia. Noi sacerdoti continuiamo a dire le messe e
sappiamo che una sola messa ha un valore infinito. E’ un atto riparatorio verso
i pii benefattori dei secoli scorsi. Da condannare tutti i gesti che si
risolvono in ingiustizia verso i poveri. Ed i provvedimenti eversivi
garibaldini furono soprusi verso gli indifesi di Racalmuto.
D.: Presso
la Matrice stanno questi Rolli delle confraternite. In gran parte sono i rolli
dei lasciti per la buona morte. Tutto ciò deve ridursi, secondo lei, ad una
memoria storica, più o meno sbiadita, o si può fare qualche cosa per una
riesumazione di questi vincoli testamentari.
R.: Per quanto riguarda il valore monetario di quei lasciti,
sappiamo bene come la moneta si sia svilita nel corso dei secoli. La Santa Sede
in tali casi dispensa, i vescovi hanno facoltà speciali derogative. Noi
sacerdoti, comunque, recitiamo sempre le messe dei legati. Le volontà
testamentarie possono dirsi rispettate. Per il resto, anche i sacerdoti
subiscono le leggi economiche. Il valore di quei lasciti si è dissolto per
effetto dell’inflazione plurisecolare.
I
“galantuomini” arraffano i beni della chiesa.
D.: Lo Stato, il comune di Racalmuto si è
impossessato di beni immobiliari di grandissimo valore economico. Si è impossessato
di stabili che non appartenevano alla Chiesa, ma a queste confraternite, che
erano laiche, come prima accennato, e gestite con spirito laico. Certi
“galantuomini” di Racalmuto si sono impossessati, a seguito delle leggi
eversive, di terre, di feudi, di palazzi delle confraternite. Hanno arraffato a
poco prezzo. I sacerdoti riuscivano ad intimorire la povera gente che
abbandonava la terra che era pure riuscita a vincere nelle pubbliche gare di
concessione ed i maggiorenti locali ne approfittavano. Gli atti della Matrice
testimoniano impietosamente le piraterie dei notai, dei signorotti
dell’ottocento racalmutese. Non pensa lei che prima o poi occorrerà chiamare in
causa lo Stato, il Comune - per i privati, le leggi sono invalicabilmente
ostative - per quella immonda rapina? Non va preteso un redde
rationem?
R.: Per quanto riguarda il passato, credo che purtroppo non
vi sia più nulla da fare. Meritoria fu a quel tempo l’opera dell’arciprete
Tirone - intelligentissimo - che salvò il salvabile. Il Collegio di Maria,
qualche chiesa, qualche convento. Oggi non è più possibile recriminare, non è
neppure opportuno rivangare il passato. Con il Concordato, si è transatto su
tanto contenzioso. Quello che si è salvato oggi è stato destinato al
sostentamento del clero. Alcuni beni sono rimasti alla chiesa locale e servono
per le attività pastorali e sociali. Attualmente c’è l’otto per mille
dell’Irpef per consentire ai sacerdoti di vivere per l’altare. Auspichiamo che
siano i fedeli con le loro offerte spontanee a fornire gli occorrenti mezzi
finanziari all’intera struttura parrocchiale. Un’azione rivendicatrice
dell’antica manomorta rifomenterebbe atteggiamenti anticlericali, decisamente
da scongiurare. I fedeli apprezzano i loro sacerdoti, se operano con spirito
evangelico e abnegazione. I fedeli di oggi son ben diversi da quelli
dell’ottocento, anche a Racalmuto.
Il
restauro di Santa Maria di Gesù
D.: Nel
1550 circa la Confraternita di Santa Maria di Gesù, ha costruito l’omonima chiesa,
prima chiamata di “jusu”, alla latina “deorsum”, quindi “inferioris” e poi
“maioris”. Questa Chiesa finita poi ai francescani, per un arbitrio del solito
vescovo spagnolo Horozco, è stata poi requisita negli anni sessanta
dell’ottocento dallo Stato. Ultimamente hanno fatto dei lavori cosiddetti di
restauro, distruggendo tutte le cripte che ci stavano. Sono sparite tombe
antiche per le quali abbiamo dovizia di fonti documentali. C’era ad esempio la
cappella del sac. Monserrato d’Agrò, un sacerdote degno. Non pensa che sia il
caso di formulare una qualche protesta, anche di carattere culturale?
R.: Io ho seguito un po’ questi lavori del Cimitero. La
chiesa era stata assegnata al Comune, ma lasciata alla disponibilità del clero
locale per le funzioni religiose. Le cripte sono aste restaurate: quelle di sotto il pavimento si sono salvate.
I documenti esistenti sono stati fotografati. Peccato che si sia provveduto
molto tardivamente. Da tempo sin dagli anni cinquanta, io ed il mio
predecessore ci eravamo adoperati per il restauro della chiesa. In altri tempi,
purtroppo, non è stato possibile. Ritardi, remore anche da parte della
Soprintendenza che rimandava sine die
i sopralluoghi di rito, hanno impedito una tempestiva opera di restauro. Finalmente si è potuto fare un restauro.
Critiche o non critiche, la chiesa di S. Maria di Gesù è salva. E’ dunque opera
meritoria, questo restauro. Qualche figura, alcuni affreschi sono scomparsi. Il
Crocifisso è stato salvato. Il quadro di Pietro d’Asaro, purtroppo, è anduto
tutto a pezzi. Non è rimasto più niente, tranne la cornice. Quindi gli altari
saranno restaurati, e così qualche statua lignea. Ringraziamo comunque il
Cielo: la struttura portante è stata messa a posto. Il tetto è stato messo a
posto. La facciata normanna pare che sia stata rifatta soddisfacentemente,
anche se con risultati non condivisibili al cento per cento.
D.: Sto
trascrivendo tutti gli atti notarili della confraternita di Santa Maria di
Gesù. Lì emerge che alla fine del ‘500, quando Pietro d’Asaro credo che ancora
dovesse mettere mano ai pennelli, si trovavano in quella chiesa un paio di
quadri, La Madonna dell’Itria e la figura del Crocifisso (non il Crocifisso
ligneo), che dovrebbero risalire al 1550. Secondo me, questi quadri furono poi
regalati dai Del Carretto o venduti dalla Confraternita alla chiesa dell’Itria
ed al Carmelo. Secondo me, quindi, si attribuiscono ancora infondatamente
questi quadri a Pietro d’Asaro. Lo studio di questi Rolli rivoluzionerà, a mio
sommesso avviso, certe versioni che si danno sull’attività pittorica di Pietro
d’Asaro. Secondo lei, che tutti sappiamo essere tanto sensibile ai problemi
dell’arte, reputa questa prospettiva,
una prospettiva percorribile oppure no?
R.: Io sono convinto che non tutti i quadri che stanno a
Racalmuto e che si attribuiscono a Pietro d’Asaro, siano effettivamente di
Pietro d’Asaro. Tanti quadri gli sono stati attribuiti anche perché si pensava
che un altro pittore più bravo di lui non ci fosse stato a Racalmuto. Sappiamo
che i quadri erano fatti dietro commissione, sia dei Del Carretto sia parte dei
privati. Quando la maestranza
dell’Itria mise piede dentro la chiesa del cimitero, per accedere alla propria
cappella attraverso una porta che ora risulta chiusa, niente di straordinario
che quel quadro della Madonna dell’Itria sia stato portato nella chiesetta
omonima, al centro del paese. L’altro quadro, quello più grande con il
Crocifisso attorniato dai Santi ausiliatori, sembra appartenere al Carmine ove
c’erano altri monaci. Può, comunque, darsi che non siano di Pietro d’Asaro,
questi due quadri. Il quadro che si è rovinato pare invece indubbio che sia di
Pietro d’Asaro. Il Crocifisso ligneo, molto bello, che ancora resiste mercé il
mio interessamento, è del Seicento, (o almeno così si ritiene). Per
l’attribuzione di quei due quadri prima menzionati, aspettiamo i risultati
degli studi.
D.: Questi
due quadri si trovavano in due cappelle della chiesa di Santa Maria di Gesù.
Queste cappelle sono state soggiogate con atto notarile a due famiglie
racalmutesi, per la sepoltura dei loro defunti. Fu stabilito che i quadri
dovevano essere rimossi e ceduti a disposizione della confraternita. Al loro
posto, i soggiogatari dovevano mettere un altro quadro. Uno di questi soggiogatari era il sac. Monserrato
d’Agrò. Ho il sospetto che nel fare il restauro della chiesa non si sia tenuto
conto di tutto questo patrimonio artistico e storico della vecchia chiesa.
R.: Anche gli ingegneri e gli architetti che mi avevano
interpellato si erano travati in grande difficoltà perché dalle ricerche che
loro avevano fatto non emergeva granché. Le notizie che avevamo allora erano
rade e scarne. Ignoravamo anche tutti questi dettagli delle fonti che si
custodiscono in Matrice. Sapevamo qualcosa del lascito per il maritaggio dell’orfana. Ma nessuno si era addentrato nei
labirinti della contabilità della confraternita. Il restauro ha inteso ad ogni
modo salvaguardare almeno la struttura portante della chiesa. Non si poteva
ancora aspettare, magari per meglio salvaguardare le varie iscrizioni
rinvenibili nell’antica chiesa. Ad esempio, all’ingresso della chiesa, sul
portone principale vi sono delle iscrizione che non è stato facile decifrare.
Pensavo ad una specie di monizione. Ho detto: vedete quello che si può salvare.
Alcune fotografie sono state fatte. E sono testimonianze che potranno servire
agli studiosi, un domani.
D.: Mi
sembra che lei - e più fondatamente di me - guardi con un certo ottimismo a
questi lavori di restauro della chiesa di Santa Maria di Gesù.
R.: Io - lo dico
francamente - non mi aspettavo che sarebbero stati capaci di salvare tanto,
quasi tutto. Non solo, ottimismo mio, ma anche obiettività. Meritano davvero un
plauso perché sono riusciti a portare la chiesa all’antico splendore. Ricordo
che nel ’50 ho celebrato una messa proprio in quella chiesa, e già c’era lo
squallore. Sono passati quarantacinque anni e vedere la chiesa ritornata quasi
come prima, pare quasi un miracolo.
Racalmuto,
domani.
D.: Questa
la storia. E le prospettive di Racalmuto? Quelle morali, quelle religiose,
quelle della fede, quelle politiche, quelle economiche, secondo lei quali sono?
R.: Io credo che se il Signore ci assiste - ho
molta fiducia nella Provvidenza, nei collaboratori - Racalmuto avrà un futuro
migliore. Le chiese stanno per essere tutte restaurate e sono un patrimonio
artistico e culturale, con grande vocazione turistica, anche. Dal punto di
vista morale c’è da sperare in bene. Guardiamo ai tanti ragazzi, ai tanti
giovani che si dedicano ad un meritevole volontariato. Gli oratori - ben
quattro - sono segni tangibili di questa buona volontà, della saldezza
dell’istituto familiare. Abbiamo, anche, alcune organizzazioni culturali,
artistiche. Vedo che diverse mostre sono state organizzate in questi ultimi
tempi, segni di una crescita culturale, di una maturità diffusa. Per quanto
riguarda il fattore politico, credo che se non cambia qualcosa a livello
nazionale, regionale, non riuscirà a cambiare nemmeno un piccolo paese. A Racalmuto, al popolo di Dio di Racalmuto,
vada tutto il mio affetto, il sincero augurio del loro parroco, di questo
sacerdote prossimo alle nozze d’oro con la Chiesa, alle nozze d’oro di un
sacerdozio tutto speso qui, in questa terra del sale e dello zolfo, dei campi e
delle vigne, del pavido commercio, della minuscola borghesia; in questo paese
talora inverecondamente bagnato di sangue, in questo paese che ad ogni buon
conto ha una insopprimibile voglia di redimersi, di migliorare, di essere
civile, di avere fede in Dio, nella sua materna Madonna del Monte. Racalmuto,
ove la gente nei tempi si è abbarbicata “come erba alla roccia”.
Pervicacemente. Ove la gente vuole costruire una città del sole, la città di
Dio.
SOMMARIO
Cenni autobiografici
In tempo di guerra, in seminario
I militi fascisti a rovistare nelle cantine del seminario di
Agrigento
Sciascia, i seminaristi e gli aspiranti gesuiti
Le grandi figure dei sacerdoti racalmutesi
Il cognato dell’arciprete, primo sequestrato dell’Italia
del dopoguerra.
I tanti, diversissimi vescovi agrigentini di questo
cinquantennio
Le confraternite cinquecentesche
Il vescovo spagnolo Horozco e Racalmuto
Che vuol dire essere arciprete a Racalmuto?
Il belato delle pecorelle
Sciascia e gli eretici di Racalmuto: fra Diego La Matina, il
notaio Jacopo Damiano e la strega Isabella Lo Voscu.
Le opzioni umane dell’arciprete
e quelle dello spirito
Come è cambiato Racalmuto in quest’ultimo cinquantennio.
La morale sessuale di Racalmuto
La politica della Curia Vescovile di Agrigento.
Vi è stata una doppia morale matrimoniale?
Ricchi e poveri, tutti uguali?
I vescovi “rinascimentali” agrigentini.
Il laicato racalmutese
Fede e preti a Racalmuto
Quarantacinque anni di eventi
Una rapina di Stato.
Garibaldi a Racalmuto. Parliamone male!
I “galantuomini” arraffano i beni della chiesa.
Il restauro di Santa Maria di Gesù
Racalmuto, domani.
Nessun commento:
Posta un commento