I TEMPI
DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace
accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un
richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che
altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come
abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i
coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime
Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo
alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà
avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto
scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente
quello che casualmente affiora.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le
rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro
(1966 e 1972-73), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie
esaurienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono
state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una
qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo
l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori
studi. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie
barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio
di Racalmuto potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito
Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli
archeologi non reggono al vaglio critico.
Passando alle vicende del rado
colonato racalmutese del V e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che
si hanno per la più generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono
disponibili scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo
generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata
dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto
di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua
propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente potevano
colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per
quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se
il vescovo cattolico agrigentino - se vi
fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una
qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale
comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad
Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere
sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare ,
Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e
qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi
Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si
ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463 riescono, in
qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno
in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad
Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e
modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai
Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però,
persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa
potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose,
in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il risvolto storico dei Goti a
Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola
all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe
incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più
(quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).
IL TEMPO DEI BIZANTINI
Attorno al VI secolo d.C. a
Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è
probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto
singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione
Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa pensare che la zona fosse tutt’altro
che disabitata. E dire che il centro abitativo più intenso era piuttosto
lontano, ad un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano
un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al
cristanesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà
rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è
un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe,
distruggendo un patrimonio archeologico che avrebbe avuto un’incommensurabile
portata storica. Ma la zona resta pur
sempre ricca di reperti e saranno gli scavi futuri a fornire materiale
esplicativo di quel periodo storico, oggi affidato solo alle fantasie degli
eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo
retrocede la datazione delle monete al V secolo: cosa inverosimile se le
effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un
secolo posteriori)
A seguito
di una scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate
ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione
Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza
archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto
interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale,
costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie
abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente
a comprovare un più o meno vasto insediamento in quella zona a partire da
un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi
della caduta dell’impero romano.
L “ipogeo cristiano” di Biagio Pace
si troverebbe in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto».
Nostre personali ricerche ci fanno
pensare che l’abbaglio del grande archeologo poggerebbe su questo passo del
Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi
esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato
che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti
di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una
ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei
dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque
essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o
alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di
Bisanzio. Sulla scia di autorevoli
storici è pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario
dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a
Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.
L'ultimo reperto relativo a
Racalmuto pre-arabo resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali
(oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento
delle monete a Racalmuto, ho sentito
varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per
l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un
contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del
fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro
delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce
André Guillou, secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero
notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi,
riferentisi a Tiberio II - Héracleonas». Quelle
monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o
inficiate da errori di datazione.
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829),
il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu inglobato dai
berberi. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo
flebili barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni?
Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché.
Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con
l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove.
E che può
dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma
noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel
tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo
lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di
eclissamento della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un
fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna,
se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Siamo, in
ogni caso, affascinati dai versi di Ibn HAMDIS e tifiamo per un grande rigoglio
della civiltà araba qui da noi.
Pianse, invero, Ibn con accenti che toccano
ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:.
«Ho
riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia
mortale, fastidiosa.
«Che? Non
l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee
in chiese,
«dove i
frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città,
vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i
quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la
mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa
e fiera.
«Aprirono
con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi
lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non
hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi
la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior
parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano
soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si
era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd
ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni
amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e
cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani
erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali
convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio
del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di
religione e di culto.
Quanti
erano i berberi e quanti i dhimmi a
Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli
infedeli (i dhimmi) che per avventura
avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere
la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria
quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi
le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo
neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che
sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un
arabista del calibro di Rizzitano per tratteggiare questa congiuntura storica
di grande risalto per le vicende arabe racalmutesi.
«In
entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità
dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e
ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di
Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini
che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano
temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora
concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel
settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento
e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle
posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione
amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che
elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui
prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione
con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia,
e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in
Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti
scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici
venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti
erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo
apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre
sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero
all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo VII, quando
l’Islàm iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di
antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano
condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano
superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore
agricolo.
«Per
quanto concerneva invece i dhimmi, questi
erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini
commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale
che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante;
oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi
erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del
principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi
musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di
conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più
dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è
chiaro che erano i dhimmi a dovere
«pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto
sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto
a nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto
da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il
compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde
evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari,
avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel
nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya».
Non è
questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e
Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per
tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono -
scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di
Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di
malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò
guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30
dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le
méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso
dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi
arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a
Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio)
distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e
desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha
l’antica tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese
morto», questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata.
Solo se così inquadrata, può avere una qualche validità storica la
dissertazione del Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai
«Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari
ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran
in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si
riferisca alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva un apprezzabile villaggio
arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo,
nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non
perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si
sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che
era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese
dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma
furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie
diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il
governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità
e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il
propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il
nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940
riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame.
Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma
anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate
del 948 viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica
dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe
inizio in Sicilia un emirato ereditario - salve sempre le forme
dell’investitura califfale - protrattosi per oltre un secolo (dal 948 sino al
1053) che sembra contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo
congetturare che anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato
di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno
al 1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono
diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara,
Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e
Catania s’indussero ad appoggiare i
contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista
della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della
dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma
non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche
ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una
fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire
in arabo fortezza, castello, stazione, sibbene “comminare”, “percorere” –
poteva pur essere una fortezza sotto il dominio di Chamuth, donde l’attuale
nome.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché
un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero, ce ne ha
tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo
Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli
eventi nella sua Storia dei Musulmani di
Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel
passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso,
investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni
normanni.
«Il
cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto
Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta
all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava a dí
primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza
di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti
con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra
schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo
nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027)
indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla
Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in
quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm;
portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze
vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben
risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il quale
si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i
figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città,
batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque
luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un castello, munito di
torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in
breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl, Bifara,
Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; di talché occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella
del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche
aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutt'intera la provincia di
questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie e i figlioli
dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura e onorata
custodia: pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato
quel principe agli accordi, con servare la sua famiglia illesa da
tutt'oltraggio.»
E’agevole intravedere nel racconto
dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al
riguardo una mera traduzione dal latino. Credo che Chamuth abbia avuto un
qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non dispersivo soffermarsi
su questo personaggio. Costui, caduto in
un tranello dell'astuto Ruggero, per salvare moglie e figli, si arrende e si fa
cristiano. «Chamut - precisa Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus
efficitur, hoc solo conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam
consanguinitatis linea conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con
moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla
quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far
fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri
e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in
presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere
i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi
l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una
sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli
gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma,
gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella,
secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono
termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanze,
arroganza del potere. Sono la lingua
degli uomini del potere che
parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla
loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari
nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma
a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono
i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai
giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori
quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni
cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61
e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio dalla libertà
araba allo stato servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti
loro eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del
canonicato agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è
documentabile se non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana
ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo
sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantuomo’ della fine del
secolo scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza hanno le dicerie di un
governatore di Rahal-Almut a nome
Aabd-Aluhar, servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro
fantomatico Racalmuto nell'anno 998; di
una popolazione di 2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il
solerte arcivescovo Du Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di
seicento anime nel nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia
'palearum']; e di tutte quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane
aspirante medico Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia
tratto gli spunti per il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni
messisi a strenua difesa di Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero.
Nulla di storico, dunque, in quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le
spigolature sulle tasse e sui 'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro
dell'avvocato agrigentino Picone.
I gravami, le violenze, le
soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di
Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire
quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito
di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno,
o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare
echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il
ricordo di quel nome antico. Solo il Racel
del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni funesti: i
normanni - cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e
di prede. La Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini
o le giovani mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi
cerulei e dai capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e
saraceni e di figli longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per
durare fino ai nostri giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.
Michele Amari non ebbe in simpatia
l’emiro Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di
Racalmuto - e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal
Malaterra, ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a pag. 178
della sua Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in
Castrogiovanni; occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera;
potersi differire, non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i
pericoli della guerra, né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero
fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento;
egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che
conducevano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò
solo intorno il modo di compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di
lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte,
il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno
con fortissimo stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni;
nascondeasi in luogo appostato già con musulmano; e questi fatti montar in
sella i suoi cavalieri, traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè,
quasi a tentar impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto
all'agguato. E que' fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor
muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva dei difensori più
forti, si arrende a parte, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio.
Ibn HAMMUD poi si battezzò, impetrato da' teologi del Conte di ritenere la
moglie ch'era sua parente, né gradi permessi dal Corano, vietati dalla
disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né
volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso di cospirazioni e tumulti,
il cauto e vile 'Alida chiese di soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero
certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice
lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al seguito di
Ruggero per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati
prima a Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e
morte? A Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di
piazza Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e
disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i
cento lancieri di Ruggero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il
casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto
predoni.
L'Amari è aspro, come si è detto, nei
giudizi contro il capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna pur capire
avendo “famiglia”: moglie e figli erano, infatti, in mano ai torbidi normanni.
Il Malaterra, monaco benedettino, impantana ancor più la sua non chiara prosa
per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori suoi compaesani.
Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua eccellente prigioniera. E
noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del
Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già
macchiato di molte ignominie, specie in
gioventù. Il suo biografo ufficiale che pure è chiamato all'osanna del
suo committente, ne sente tante a corte da inorridire, fors'anche per la sua
mentalità claustrale. Ed allora nella sua cronaca si lascia andare a pesanti
giudizi morali contro i suoi.
Quando, però, si tratta di cose
militari, il candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del
Conte. Le forze del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a
dismisura; quelle amiche e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed
attendibilità. L'Amari, tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e
sentenzia che nelle cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane
vanno divise per otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che
riguardano le forze normanne, quando vincono.
Eppure il Malaterra resta sempre
cronista piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri. I tanti episodi
cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne, tra i
quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno
una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non sempre
è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite della
corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non
dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta, il monaco, le
fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di generali,
si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in Sicilia, ma
restano i rudi vandali, incolti ed immorali, dell’avventuriera giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze che gli
ispirano disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica.
Scrive, esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare
chiosando gli eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari irridere a
Chamuth. Lo ha fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il
giudizio va, però, corretto con una lettura più spassionata della cronaca del
benedettino.
Per fare terra bruciata attorno al
nostro Chamuth, tocca ad 11 castelli
l'ignominia delle scorribande dei lancieri di Ruggero. Alla nostra Racalmuto è
dato assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri
Platani, Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli
incerti Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuth si arrese, non ci
sembra proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi.
E se anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le città di
Chamuth sono costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di
Girgenti e Castrogiovanni ci convince
molto di più delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute
dell'Amari. Del resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle
terre, tra cui Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano poi
tagliato i viveri a Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
* * *
Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del
fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni,
fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio
Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che
dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione
riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava
l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata
all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo
che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo
lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte
«li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale
succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va
ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però
impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.
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