LA VERA STORIA
DI RACALMUTO.
UNA GRANDE
MEMORIA DA RECUPERARE
Antichissima è
la storia di Racalmuto. Essa è appassionante, piena di intrighi, tutta
narrabile.
La conformazione
del suolo, quale oggi ammiriamo, risale a sette milioni di anni fa: in pieno Pliocene.
Sorsero allora dalle acque il Castelluccio, il Serrone, la Montagna, le colline
del Nord, e si definirono le valli, i valloni, i declivi. L’altopiano di
Racalmuto concluse il suo splendido maquillage che è la gioia dei nostri occhi.
Nel ventre racchiuse
gesso ed alabastro, zolfo e salgemma, e giù nello sprofondo i sali potassici.
Lo stillicidio delle acque formò splendidi cristalli solforosi e salini che noi racalmutesi da
sempre chiamiamo “brillanti”.
Subito vi si sparse una flora mediterranea e sopraggiunse una peculiare
fauna. Anche animali preistorici, oggi estinti, vi si adattarono, dopo essere
trasmigrati dall’Africa. Archeologi dilettanti ne hanno rinvenuto i resti e le
testimonianze specie nella grotta di Fra Diego.
In quella grotta
trovò ricettacolo il primo uomo, anch’esso venuto dal mare che congiunge con il
continente africano. Dopo, circa dieci mila anni addietro, un popolo nuovo, i
sicani, decisamente indigeno prosperò nelle contrade racalmutesi. A Gargilata,
sotto la grotta di Fra Diego, vi fu il maggiore insediamento, come attestano le
superbe tombe a forno di una necropoli oggi negletta per incuria delle
Autorità. Ma altri insediamenti, più piccoli, si sparsero dappertutto: al
Castelluccio, a Vircico, a S. Bartolomeo, a Garamuli, e persino giù nel vallone
del Pantano. Fu una civiltà di cui sappiamo ben poco: argille, ceramica, tombe
a forno e tholoi ci attestano però che fu civiltà meravigliosa, evoluta, che va
studiata. Critichiamo aspramente le Autorità locali, provinciali, regionali,
nazionali ed ora comunitarie per l’incuria che dimostrano.
Attorno al VI
secolo avanti Cristo, i greci giunsero a Racalmuto e soppiantarono la civilità
sicana. Era stata gente rodia che si era trasferita a Gela; da lì una colonia
si era attestata ad Agrigento (Agragas) e da Agrigento il dominio si era esteso
a Racalmuto. Monete greche – in particolari monete di Agragas con il
caratteristico granchio – sono state rinvenute a Racalmuto, a testimonianze di
quella grande presenza. La mancanza di scavi scientifici ci impedisce di
conoscere come quella sublime civiltà abbia trasformato il nostro paese. La
lingua greca vi si diffuse e vi restò per quasi mille e tre cento anni, fino al
dominio arabo. Noi pensiamo a quei greci di Racalmuto che potevano godersi lo
spettacolo delle tragedie di Sofocle, Euripide, Eschilo, etc. nella madre
lingua. Potevano ascoltare le intraducibili dolcezze delle odi di Pindaro. Fu
gettato un seme del bello e dell’arte che tutti noi racalmutesi, ovunque oggi
noi stiamo, portiamo nel sangue nel nostro DNA.
Roma vi portò
invece i mali dello sfruttamento coloniale. Non si parlava latino. Si pagavano
tasse in natura ed in denaro alla lontana Roma. Fummo stranieri e vessati.
L’odio per la capitale vi dovette essere allora; continua adesso. Almeno c’è
comprensibile distacco.
Subentrarono i
bizantini. Parlavano greco come i racalmutesi. Vi fu affinità almeno
linguistica. Monete di Eracleone e Tiberio II, rinvenute nel 1940 in contrada
Montagna, attestano vivacità economica e laboriosità dei nuclei bizantini del
nostro paese.
Poi la parentesi
araba (dall’880 d.C. circa sino al 1087 d.C.). Si tende ad esagerare
l’importanza della presenza araba a Racalmuto. Era poi una presenza berbera.
Sparuti nuclei di contadini, dunque, che seppero soprattutto far crescere le
verdure in orti sotto fontane perenni. Le verdure di Racalmuto sono ancora
ineguagliabili. Per il resto, nessuna traccia archeologica, nessun documento
scritto, nessuna teoria seria ci induce a credere in influenze significative
degli arabi nel nostro centro. Può darsi che future ricerche archeologiche – in
particolare sotto le torri del castello – ci restituiscano ceramiche e segni di
una civiltà che oggi ignoriamo. Qualche sintomo, a dire il vero, va emergendo.
Arrivano i
normanni. Sono predatori. Ma sono pochi e tutto sommato ininfluenti. Ormai nel
territorio si parla arabo. I cosiddetti arabo-normanni sono disseminati in
varie parti a Racalmuto. Soprattutto a Gargilata, allo Zaccanello ed a
Garamuli. Affiorano a profusione ceramiche tipiche dell’epoca a testimoniarlo.
Quei nostri antenati sono operosi, coltivano la terra, impiano vigneti,
costruiscono palmenti, sanno convogliare le rade acque in gebbie. I vescovi di
Agrigento, in nome di un preteso lascito di Ruggero il Normanno, li vessano.
Esigono tasse, impongono balzelli, li costringono ad estranei riti cattolici.
Si distingue su tutti il vescovo Ursone. Gli arabo-normanni si ribellano.
Quelli di Racalmuto si uniscono a quelli del vicinato. In tutto il territorio
agrigentino abbiamo una rivolta che arriva ad imprigionare il vescovo. A
Palermo si è insediato Federico II. L’imperatore siculo-tedesco non tollera
rivolte, neppure quelle contro i vescovi che in cuor suo ha in odio. Disperde i
rivoltosi, anche quelli di Racalmuto.
Il nostro paese
langue. L’agricoltura si deteriora. Fame, peste, malattie, spopolamento sono lo
squallido retaggio di un altipiano, prima fiorente e prospero. Non può durare.
Il provvido Federico II consente a Federico Musca, un nobile di Modica, di
insediarsi là dove ora sorge Racalmuto. Siamo attorno al 1250. Federico Musca
porta con sé una ventina di famiglie contadine. Esse trovano alloggio nelle
grotte sotto il Carmine e la Centrale, anche in quelle attorno alla Madonna
della Rocca. Nasce un nuovo paese. La vite ed il grano, i mandorli e gli ulivi,
le tradizionali verdure, una agricoltura ferace, insomma, torna a fiorire nelle
lande racalmutesi. Sorge la nostra nuova civiltà che oggi ha residua sede nel
paese dell’agrigentino ma che si è mirabilmente irradiata a Buffalo come a New
York, negli Stati Uniti come in Canada, in Francia, in Germania, in tutta
Italia, ad Hamilton come in America Latina. Un romanziere di fama mondiale,
Leonardo Sciascia, esalta quella civiltà con echi planetari.
Sotto Federico
Musca Racalmuto diviene una “universitas”, un comune libero. E’ naturalmente
assoggettato a tasse e balzelli vari, ma ha cariche elettive, uno statuto
comunale e nomina propri “sindici” (amministratori comunali) democraticamente.
Il comune ha così modo di prosperare, godendo di una sorta di libertà politica.
Ma giunge in
Sicilia dalla Francia Carlo d’Angiò: suo fratello è re di Francia e sarà santo
per la Chiesa. Tanto signore non è gradito a Federico Musca. Questi si ribella
e Carlò d’Angiò lo priva della signoria di Racalmuto affidandola ad un
napoletano: il milite Pietro Negrello di Belmonte. Era il 1271 come attesta un
diploma che si custodiva a Napoli, nell’archivio angioino, prima che i tedeschi
lo distruggessero nel 1943.
Il signorotto
partenopeo forse non mise mai piede a Racalmuto. Ebbe, comunque, poco tempo perché nel 1282,
con i famosi Vespri Siciliani, i francesi con Carlo d’Angiò furono cacciati via
dalla Sicilia.
Ma con i nuovi
padroni spagnoli, per i racalmutesi le cose non andarono meglio. Tante imposte,
sopraffazioni e soprattutto la perdita delle libertà comunali resero la
cittadina terra di conquista da parte di un insorgente feudalesimo.
Diversamente da quello che si dice – e si scrive – i primi signori di
Racalmuto, dopo il Vespro, non furono i Del Carretto ma i Chiaramonte. Costoro
erano insediati ad Agrigento. Si erano impossessati del feudo attraverso un
cadetto della famiglia – Federico Chiaramonte - e questo appare strano: non era
legale ma in tempo di ribellioni ciò potè agevolmente verificarsi.
Un religioso –
alquanto pruriginoso -, l’Inveges,
racconta ben tre secoli dopo che
Federico II Chiaramonte aveva una figlia di nome Costanza. Giunge ad
Agrigento un ligure, un uomo di mare che si fa chiamare Antonino del Carretto.
Dice di essere il marchese di Finale e di Savona. Federico II Chiaramonte
abbocca e gli dà in moglie la figlia Costanza, bellissima e molto giovane.
Appena il tempo di generare Antonio II del Carretto ed il sedicente marchese di
Savona muore. Il suocero in dote aveva però assegnato il feudo di Racalmuto. Il
feudo passa allora al figlioletto Antonio II che resterebbe poco in Sicilia: si
sarebbe trasferito a Genova (si badi bene: non a Savona) e là avrebbe fatto
fortuna. Ha diversi figli. Si distinguono Gerardo, primogenito, e Matteo.
Questi torna in Sicilia, si allea con i Chiaramonte, lotta contro i Martino
venuti dalla Spagna. Siamo alla fine del XIV secolo.
I Chiaramonte
soccombono nella lotta contro i Martino: Matteo cambia casacca, si allea con i
vincenti spagnoli e diviene “barone di Racalmuto”. A partire dal 1396 non v’è
più dubbio che il nostro paese sia diventato una melanconica baronia dei Del
Carretto. E prima?
Dopo il Vespro
il paese era sotto il dominio dei Chiaramonte – e questo si è già detto. Quella
signoria durò sino a qualche anno prima dell’avvento di Matteo del Carretto e
cioè sino al 1392. Documenti dell’Archivio Vaticano Segreto – ricercati,
trovati e studiati dal dottore Calogero Taverna – lo comprovano. Si parla e si
scrive della signoria dei Malconvenant che sarebbero stati padroni di Racalmuto
ed avrebbero eretto la chiesa di Santa Maria nel 1108. Si scrive su una
dominazione degli Abrignano. Si afferma pure che i Barresi sarebbero stati i
feudatari del nostro paese – non si precisa però il periodo, arbitrariamente
qualcuno fornisce la data del periodo immediatamente prima del Vespro (1282).
Sono tutte tesi cari agli storici locali. Ricerche e studi critici degli ultimi
tempi dissolvono tutto ciò definendolo “una serie di cervellotiche congetture”.
Tra gli eruditi locali è la guerra.
Nel 1282 (data
del Vespro) a Racalmuto non c’erano più di quattrocento abitanti. Nel 1404 la
popolazione era raddoppiata: stavamo però al di sotto della media dei grossi
borghi del circondario. Peste e fame non erano mancate nel XIV secolo: per
scongiurare la peste del 1375 il signore di Racalmuto, Manfredi Chiaramonte,
chiede al papa perdono per le passate ribellioni politiche e per ottenere
l’indulto tassa i suoi feudi in favore del papa. Arriva a Racalmuto, il 29
marzo del 1375, l’arcidiacono Bertand du Mazel: viene da Avignone, conta i
casolari del nostro paese ed applica una tassazione tripartita: tre tarì per i
ricchi, due per la classe media ed uno per i poveri. Si giunge alla cifra di 7
onze e 28 tarì: si erano contati 136 nuclei familiari (fuochi); molte case
erano coperte da paglia; la popolazione non superava le 700 persone. Il
documento, che si trova in Vaticano, ci fornisce una preziosissima descrizione
della Racalmuto del tempo, diversamente del tutto ignota.
Il Vaticano altra volta aveva tassato il paese
nel secolo XIV: veramente erano stati due religiosi e si chiamavano Martuzio de
Sifolono ed il presbiter Angelo de Monte Caveoso. Per le decime del 1308 e del
1310 avevano corrisposto, il primo un’oncia ed il secondo nove tarì. Il
Sifolono godeva delle prebende della chiesa di Santa Maria: ricerche recenti
inducono a pensare che si trattasse del convento carmelitano. In un affresco
del Convento di S. Angelo di Licata,
nell’orbita di un tondo a modo di frutto di un grande albero raffigurante
l’intera famiglia dei conventi carmelitani, sta scritto: «conventus Recalmuti,
anno 1270». Se l’indicazione è esatta, il Carmine è la più antica chiesa di
Racalmuto ed il relativo convento carmelitano risale appunto al 1270, agli
albori dunque della fondazione del paese da parte di Federico Musca, sotto gli
auspici di Federico II (†1250).
L’altra chiesa,
retta dal presbiter Angelo de Monte Caveoso è rimasta anonima. Il testo in
latino recita: «presbiter Angelus de
Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti,
solvit pro utraque tt. ix», cioè: il sacerdote Angelo de Monte Caveoso pagò
per il suo ufficio sacerdotale che svolge nel casale di Racalmuti, per entrambe
le decime, tarì 9. Tutto fa pensare, dunque, che si trattasse di un monaco
venuto da Monte Caveoso, l’odierno Montescaglioso in provincia di Matera
(Basilicata). Noi pensiamo ad un monaco del convento fondato dalla contessa
Emma verso la fine del XII secolo.
Piccolo, specie
se adottiamo i parametri dei nostri giorni, Racalmuto era diventato comunque un
“casale” capace di attirare dalla lontana Basilicata un monaco che riusciva a
viverci bene. Da notare però che chi aveva le prebende del Carmine viveva
ancora meglio, se era costretto a pagare più tasse al pontefice di Roma.
Nell’uno e nell’altro caso, era sulle magre spalle dei racalmutesi che papa e
preti si appoggiavano per avere soldi ed oboli.
Il XV secolo
Racalmuto lo trascorre sotto l’egida dei Del Carretto. Matteo del Carretto
muore nel 1400; gli succede il figlio Giovanni che deve vedersela con gli esosi
Martino. E’ costretto ad esibire una nutrita documentazione e pagare tante once
per avere confermato il titolo di barone di Racalmuto. Vi riesce. E buon per
noi perché possiamo ora consultare presso l’archivio di stato di Palermo quella
documentazione ed avere preziose notizie sul nostro paese. Giovanni I del
Carretto a noi sembra un barone oculato, laborioso e in definitiva attaccato al
paese che sotto di lui cresce e si consolida. Ma lo storico francese Henri
Bresc la pensa diversamente ed è sicuro che il figlio di Matteo finì male e
dovette cedere la baronia agli Isfar di Siculiana. A conferma della sua tesi,
cita documenti spagnoli. Li cita in termini talmente evasivi da impedirci, per
il momento, riscontri convincenti. Siamo dunque costretti a lasciare in sospeso
la questione.
La baronia
ritorna, in ogni caso, ai Del Carretto: Federico, figlio di Giovanni I, riceve
l’investitura da Alfonso d’Aragona l’11 febbraio 1451; viene salassato, deve
corrispondere 20 once ogni anno, deve rendere omaggio nelle forme solenni, deve
rispettare i diritti di “legnatico” dei cittadini racalmutesi, non è
proprietario delle miniere, delle saline e delle antiche difese del luogo, deve
salvaguardare la libertà di pascolo dei paesani e degli equipaggiamenti regi.
In compenso ha il dominio assoluto sul feudo racalmutese che si estende però
alla parte nord-ovest del paese. La parte sud-ovest (Gibillini ed il
Castelluccio) costituisce un altro feudo (si diceva allora “stato”) ed
apparteneva per due terzi alla famiglia De Marinis di Favara. Il restante terzo
non si è mai saputo a chi appartenesse: solo nell’Ottocento vi è stata
un’annessione da parte della famiglia Tulumello.
Federico Del
Carretto fu un grande affarista: nel 1451 si associò con Mariano Agliata per
un’operazione speculativa sul grano simile a certi contratti a termine dei
nostri tempi (outright): i due consegnavano al Lomellina il vecchio frumento
delle annate 1449 e 1450 e si assicuravano il raccolto dell’anno in corso,
consegna a luglio prossimo presso il caricatoio di Siculiana.
Federico del
Carretto dovette essere molto esoso con i suoi vassalli racalmutesi se questi
nel 1454 si ribellarono violentemente. Il Del Carretto, intanto, procedeva ad acquistare
un altro feudo, quello di Rabiuni di Mussomeli, preso da Pietro del Campo.
Altri notabili racalmutesi erano diventati anche loro facoltosi: uno di loro,
Mazzullo Alongi, teneva in affitto il feudo di San Biagio sempre a
Mussomeli.per 14 onze annue, un castrato, un quintale di formaggio ed una
“quartara” di burro.
Verso la fine
del secolo Federico muore e gli succede il figlio Giovanni II. Forse visse
poco, forse il contesto politico era molto agitato, forse era propenso ad
evadere, fatto sta che non si sobbarcò alla procedura dell’investitura feudale
e non corrispose i balzelli alla corte reale. Qualche anno dopo il Barberi, un
ispettore regio particolarmente rigoroso, bolla i Del Carretto per questa
evasione fiscale. Intanto era succeduto il figlio di Federico, il celebre
Ercole Del Carretto ed anche lui incappa nelle censure dell’inquisitore: si era
ben guardato dall’ottemperare agli obblighi feudali dell’investitura. Ed eravamo già nel XVI secolo.
Racalmuto nel XV
secolo passa da 800 a 2500 abitanti circa: più che triplicata, dunque, la
popolazione. Non sarà stato tutto merito dei Del Carretto ma tale crescita non
è stata almeno impedita; depone a merito dei locali baroni. Non potè trattarsi
di mera crescita demografica: condizioni politiche, sociali ed economiche
attraevano, di sicuro, gente dai dintorni che trovavano migliori possibilità di
vita nella baronia dei Del Carretto.
Vi fu però un
fatto gravissimo che palesa una mentalità antisemita. Un ebreo fu barbaramente
trucidato a scopo di rapina. Era il 7 luglio 1474 VII Indizione, l’efferato
crimine era già avvenuto. Ma Palermo vigila e non consente crimini dal vago
sapore razziale. Il vicerè Lop Ximen Durrea dà allora commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi
a Racalmuto per punire coloro
che uccisero il giudeo Sadia di
Palermo, e di pubblicare un bando a
Girgenti per la
protezione di quei giudei. Nei giorni precedenti il giudeo Sadia di Palermo,
abitante nel casale di Racalmuto, attendendo ad alcune sue faccende fu ferito
mortalmente da un tal Leone, figlio di mastro Raneri. Altri facinorosi del
luogo, congregatisi come in un branco, mi misero ad infierire contro il povero
giudeo. Lo colpirono varie volte alla testa, gli tagliarono la lingua, gli
ruppero costole mani e gambe, gli fracassarono i denti ed infine lo gettarono
in una fossa. Lo ricoprirono quindi di paglia e vi diedero fuoco. Mentre
bruciava gli tirarono pietre e terra. Gli ordini all’algozino (ufficiale di
polizia) furono precisi e perentori. Soprattutto, però, bisognava tentare di
recuperare “ uno gippuni in lu quali si dichi erano cosuti
chentochinquanta pezi d’oro” (una giacca nella quale si dice che erano
cuciti dentro 150 pezzi d’oro). Non sappiamo sei soldi furono recuperati,
pensiamo di no. Possiamo essere certi che davvero i responsabili, almeno i
caporioni, furono tutti individuati ed insieme a Liuni figliastro di mastro
Raneri finirono nelle carceri di Agrigento.
Passeranno meno
di vent’anni e nel 1492 la regina Isabella la spunta nel cacciare via dalla
Sicilia gli ebrei. Noi, in ogni caso, siamo convinti che solo gli ebrei ricchi
emigrarono (soprattutto a Napoli, pare): i poveracci non sapevano dove andare.
Cambiarono nome, cambiarono paese, non si circoncisero, divennero marrani e
continuarono a vivere in Sicilia. Tanti ne vennero a Racalmuto come i tanti La
Licata, Lintini, D’Asaro, Aiduni, Caltabiano, Caltavuturi, Camastra,
Castronovo, Castrogiovanni, Chiazza, Madonia, Milazzo, Modica, Monreale,
Montilioni, Nicastro, Noto, Petralia, Ragusa, Randazzo, Sicilia, Siragusa,
Termini, Terranova, Vicari e simili -
che costellano la nomenclatura dell’anagrafe del ‘500 - fanno
trasparire, sia pure con tutte le riserve e cautele del caso.
Gli esordi del XVI secolo sono all’insegna del sacro e del miracoloso. Nasce
la saga della Venuta della Madonna del Monte. Narrarla comporta rischi: si può
mancare di fede, di religiosità, di rispetto. Si può scadere nella
profanazione. Per questo ci rivolgiamo al grande scrittore di Racalmuto,
prendiamo a prestito la sua ineguagliabile prosa.
«Nel 1503, da Castronovo dove viveva –
esordisce il sommo Racalmutese – il nobile Eugenio Gioeni, secondo alcuni
afflitto da “filato ipocondriaco” (ipocondria), secondo altri da mal sottile,
noleggiò un vascello e, in buona compagnia, andò come in crociera verso il
Marocco … Cacciando un giorno in quelle terre d’Africa (non si sa precisamente
dove), per un improvviso temporale trovò, con i suoi compagni, riparo in una
grotta, il cui fondo – notarono ad un certo punto – era chiuso da un muro da
mano umana edificato. Parve loro una stranezza, se ne incuriosirono ; e si
adoperarono ad abbatterlo. Era piuttosto esile, per fortuna: ed apparve loro,
splendente e dolcissima, la statua di una Madonna col Bambino. Pesantissima: e
vi tornarono a prenderla con un carro, a portarla su quel loro vascello che
subito, per l’impazienza di portare a Castronovo la statua così miracolosamente
trovata, fece vela per la Sicilia.
Sbarcarono, come punto più vicino a
Castronovo, nella cala di Punta Bianca, presso l’odierna Porto Empedocle; e da
lì, caricata la statua su un carro trainato da sei buoi (le tradizioni quanto
più sono inverosimili, tanto più sono nei dettagli precise), mossero verso
Castronovo. Ma passarono, ahiloro!, per Racalmuto, vi si fermarono a dissetarsi
in uno spazio dove era una piccola chiesa dedicata a santa Lucia. Era un caldo
meriggio del mese di maggio: a vedere quella statua coricata sul carro, vivida
di colori, soavisssima, la gente del paese accorse. Voci di stupore,
invocazioni, preghiere: e ne giunse il brusio al conte Ercole del Carretto, che
stava a far pennichella in una sala del castello. Ne domandò la ragione: e con
scherani e paggi anche lui. Folgorato dalla bellezza della statua, ne chiese il
prezzo al Gioeni che quasi se ne offese. Il conte offrì tanto oro quanto la
statua pesava: ed ancor di più il Gioeni se ne sdegnò. Ordinò ai suoi di
riaggiogare i buoi e di riprendere il cammino verso Castronovo: ma le ruote del
carro, per quanti sforzi facessero i buoi pungolati a sangue e i famigli, non
si mossero. Credette il Gioeni i racalmutesi avessero artatamente immobilizzato
il caro, diede di piglio alla spada, il del Carretto alla sua: ma mentre già le
incrociavano la folla con tale impeto gridò al miracolo che le spade si
abbassarono e i due signori, commossi, finirono con l’abbracciarsi. La Madonna
aveva deciso di restare a Racalmuto, ospite di santa Lucia – almeno
provvisoriamente – e a dividere il patronato sul paese con santa Rosalia. Più
tardi, le si edificò una più vasta e ricca chiesa e, benché come titolo
ufficiale le restasse quello di compatrona, dimenticata fu santa Rosalia. E non
solo: le si dedicò, per tre giorni dell’ultima settimana di maggio, una rutilante,
fragorosa, insonne festa.»
Allo storico è
interdetto di mettere becco in cose tanto di fede e di alta letteratura: egli
si limita solo ad annotare che Ercole del Carretto non fu mai conte, solo
modesto barone. Santa Rosalia padrona di Racalmuto lo fu soltanto a partire dal
1636. La Madonna del Monte da compatrona salì di grado nel 1848 con una bolla
episcopale di mons. Lo Iacono, vescovo di Agrigento (allora si diceva:
Girgenti) e divenne: «Patrona e regina di Racalmuto».
Sotto il profilo
strettamente storico, occorre dire che già nel 1540 la statua della Madonna del
Monte splendeva in una chiesa a lei dedicata, non ospite – o non più ospite –
di santa Lucia. Gli inviati del vescovo di nobile famiglia mons. Pietro di
Tagliavia ed Aragona sono molto burocratici ed accennano solo ad «una
figura di nostra donna di marmaro». Ma nel 1608, per il vescovo del
tempo, mons. Bonincontro, il simulacro è ora luccicante di ori, vivido di
colori come dice Sciascia, imponente ed oggetto di grande culto da parte dei
devoti racalmutesi. Per chi s’intende di latino, riportiamo il passo che
riguarda l’intera chiesa del Monte. Per tanti versi Sciascia – con la
tradizione che lui raccoglie - viene smentito:
«Visitavit ecclesiam Sanctae Mariae Montis, ubi prius conservabatur
Sacramentum Eucharestiae, et erat ecclesia Archipresbitalis. Modo inservit d.e
ecclesiae pro Cappellano D. Joannis Macaluso, qui tenetur celebrare tres missas
in hebdomada et omnes dies festos, habet pro eius mercede uncias sex, quae
solvitur a confratribus confraternitatis ibi fundatis sub titulo dictae
ecclesiae, induunt saccis albis sine mozzettis.
Visitavit altare maius super quo est imago
marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata.
che per dicto altare si compri una croce saltim
di legno
Ex parte sinistra altaris maioris est altare S. Luciae, in quo
est imago dictae Sanctae de stuccho. Deaurata.
che l'altare si faccia più lungo, e vi si compri una Croce.
Fuerunt inventae quaedam reliquiae S.cti Crispini et
Crispiniani, videlicet parvum frustum ossis, quod habet autenticum documentum
in quadam capsula lignea. Mandavit
che si faccia un reliquario di argento dove si mettano dette
reliquie.
che nell'altare di S. Margarita non vi si celebri mentri che
non si accomada, facendosi più grande.
che per l'altare di S. Francesco si compri una Croci, et 2
candelabri.»
Ma la già nel 1686 la statua era considerata
anche dall’ordinario diocesano “miracolosissima”. Ed il vescovo di allora, il
francescano mons. Francesco Maria Rini di Palermo, era molto propenso al culto
mariano, ma era dotto ed esperto per abbandonarsi ad incaute esaltazioni delle
doti miracolose di una statua, sia pure della Madonna: segno dunque che anche
allora la “Bedda Matri di lu Munti” godesse degli intensa devozione che oggi il popolo racalmutese – ovunque si
trovi – le tributa. Bene hanno fatto le autorità locali a spostare la festa –
che non piaceva a Sciascia – da maggio alla seconda domenica di luglio: Chi può
è felice di giungere a Racalmuto per godersi la festa, anche se rumorosa nella
notte, se “insonne”, come direbbe il nostro grande scrittore.
Quanto
merito abbia avuto in ciò il nobile Ercole del Carretto è arduo stabilirlo. Già
è dubbio che a reggere la baronia di Racalmuto nel 1503 fosse lui. Non sappiamo
la data della morte del padre Giovanni II del Carretto, non sappiamo la data
del suo insediamento: non vi fu comunque “investitura”. Fece però testamento e
sappiamo che morì il 27 gennaio 1517. Interessa poco che si sia sposato in
prime nozze con una tale donna Marchisa da cui ebbe un figlio Giovanni che gli
succedette. Dai pochi elementi biografici noti non sembra sia stato molto
solerte: per noi, il suo grande merito è stato quello di essersi trasferito a
Racalmuto, ove lo colse la morte. Tanto ci induce a pensare che o lui o suo
padre fece costruire l’ala del castello incassata tra le due torri. Questa
parte del fortilizio racalmutese va datata dunque tra la fine del XV e l’inizio
del XVI secolo, come peraltro dimostra lo stato dell’arte muraria che si
differenzia molto, specie per la disposizione delle pietre, sia dalle torri e
sia dal restante corpo centrale dell’attuale androne d’ingresso.
Il
merito di avere dotato una chiesa di Racalmuto con una statua di marmo - non
abbiamo altri esempi nelle locali antiche chiese, almeno sino alla metà del
‘700 – Ercole del carretto forse l’ebbe davvero. Crediamo che però giammai
pensò di avere a che fare con una statua “miracolosissima”. Non è da escludere
che prima o poi verrà fuori qualche atto notarile (forse a Palermo) che
chiarirà molti aspetti dubbi della faccenda. Scrivevamo – e qui confermiamo –
che: «Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel chiarire questioni come
questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante delicatezza religiosa. Ci
limitiamo a pensare che Ercole del Carretto ebbe davvero a costruire la prima
chiesa del Monte (di una precedente chiesetta intestata a S. Lucia, non abbiamo
alcun documento probante) ed ebbe ad arredarla facendo venire da Palermo una
statua di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine marmorea, così
somigliante alle giovani madri di Racalmuto, brevilinee e rotondette, dovette
impressionare e sbalordire gli ingenui occhi dei contadini locali. Legarvi il
senso del portento, del miracolo, fu semplice e travolgente.»
Nelle
carte dell’investitura del figlio leggiamo che Ercole del Carretto fu “signore e barone della terra di Racalmuto
e tenne e possedette quella terra con il suo castello e fortilizio, nonché con
tutti i suoi diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le
volte che gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e
proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”. “Tenne il
figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo
trattava e come tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato
dagli altri.”. “In qualità di signore e padrone della predetta terra e padre
del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della
terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere
redatto solenne testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della
città di Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire
suo erede universale il detto magnifico signore Giovanni”.
Sono espressioni rituali, ripetitive e non
forniscono molta luce sulla vita del barone racalmutese. Vi si coglie, però, il
senso di una signoria pesante, piena di imposte e di gravami per i racalmutesi.
Ad onta di ciò questi aumentavano di numero e d’importanza. Si andava
affermando anche una crescente prosperità economica: la statua di marmo e vari
imponenti edifici lo attestano. Al Monte si ammira ancora un pregevole retablo
di alabastro risalente a quell’epoca. Vi era dunque allora una
maestranza locale che sapeva lavorare quel difficile materiale gessoso: oggi
solo un paio di vecchi “mastri” lo sa fare. Finendo loro, finisce un mestiere
antico di secoli.
Ad Ercole succede Giovanni del Carretto, il
Terzo con tale nome.
Figura centrale nello snodo
dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe portare all’apice la
signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del padre s’insedia nel
castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia feudale. Invia a
Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco ed il 28 gennaio 1519
ottiene la rituale investitura.
Giovanni III del Carretto,
appena barone, si sarebbe macchiato di un efferato delitto - sia pure come
mandante - contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta, oltre un secolo
dopo, un sedicente suo lontano pronipote, Vincenzo di Giovanni.
Ma sarà stato poi vero? Si dà
il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano religiosissimo, al limite del bigottismo,
prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo
Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si
scrisse. Per eccessiva accondiscendenza verso gli eccessi dissipatori del
barone sul letto di morte, pensiamo noi.
Il Baronio ci descrive Giovanni III ovviamente
in termini oltremodo elogiativi. Secondo quello storico di casa Del Carretto:
«da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata
virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di modo che, sia
per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra
i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso
Federico che divenne barone di Sciabica.»
Dal processo di investitura di Giovanni III Del Carretto emergono alcuni
istituti molto peculiari del diritto feudale della nostra terra di Racalmuto:
1. Diritto
dei baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue
vescovo di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi
paladino di un omicida, il chierico Jacobo Vella. Non vi riuscirà: il diritto
baronale era ben saldo e neppure un vescovo spagnolo potrà scalfirlo.
2. Diritto alla destituzione e nomina di tutte le
cariche, civili e militari, di Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i
Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i Fanara, i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i
Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo possibilità di
farsi apprezzare dai locali baroni: ne diventano fiduciari; spesso si arricchiscono
alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono nella fertile terra del grano. Poi
tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta tuttora, ma senza più il ruolo di
profittatori del regime.
3. Non è ancora molto evidente il diritto al terraggio ed al terraggiolo [prestazioni in natura da parte dei coltivatori delle
terre del barone, nel primo caso, e fuori la baronia, nel secondo].
4. Il mero
e misto imperio non viene ancora accordato: i Del Carretto lo conseguiranno
alla fine del secolo.
Giovanni III del Carretto dovette subire due processi d’investitura. Come dire un raddopio di imposta: il primo nel 1519 (28 gennaio) ed il secondo l’11 marzo 1558.
Il 2 gennaio
1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente in pugno
la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia lunghissima
specie se si tiene conto della striminzita vita media di quel tempo.
Ebbe a sposare
una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo
ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la
si indica nel testamento.
Nulla ha a che
fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni III: quella
che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà fratello,
nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di “paraggio” che le
spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Se in antico nel
paese non vi erano più di due chiese, fragili e malandate, in piena signoria di
Giovanni III del Carretto, le cose cambiarono notevolmente. Intanto la popolazione
si accrebbe in modo considerevole. Nel censimento del 1548 il centro abitato
enumera 896 fuochi (capi famiglia) e non si è lontani dal vero se si afferma
che la popolazione ascendeva a quasi 3.500 abitanti.
Dai 2.500 del 1505 ai quasi 3.500 abitanti del
1548 il salto fu rimarchevole: non poteva trattarsi solo di un normale
fenomeno; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni
di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini,
mastri e forse anche mendicanti ebbero a concentrarsi nei quattro quartieri che
ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale
Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria
Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o
quartiere fontis, l’altro spicchio di
nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e la chiesa dell’Itria; d)
quartiere del Monte o montis
comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche
allora.
Era tutto suolo
baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si
andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto)
scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti
(Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il
tributo raddoppiava: terraggio
(quello intrafeudo) e terraggiolo
(quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli
che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove.
Un vescovo
agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la
comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori;
tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi
apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene
neppure citato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano
nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti
vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione
dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo
peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le
confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per
garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura. Il culto
dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso. Le
confraternite vi speculano sopra e subito vengono in possesso di disponibilità
finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense.
Esse assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche:
finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa),
danno in appalto la costruzione di chiese (fonte prima del loro guadagno per le
sepolture a pagamento che vi vengono fatte); inoltre, le fanno riparare, e così
via di seguito.
Non sono corporazioni di arti e
mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo,
ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il
detto tutto racalmutese: monaci e
parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire, i preti ed i monaci
nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione
per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e
competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano
inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed ai
deputati – pure loro laici - che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia
cerca d’irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.
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