IL PERIODO
ROMANO
Finite le guerre puniche, il console
Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma.
Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono
all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione
avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il
cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi
della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo
di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua
vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente
grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse
all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel
territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete
romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi
del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che
servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi
si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire
nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da
parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di
grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci
attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da
parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da
Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo
c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota"
(anfora per vino) nel cui manico [«in
manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C*
PP. ILI* F* FUSCI
RMUS.
FEC.
Il
Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale
quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi
(C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo
ad un personaggio di nome FUSCO, del
tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana.
Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti»
(VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un
Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius
Fuscus Salinator e via di seguito. Ma
una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto
era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore
dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del
Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a
Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si
evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita
agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano,
trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il
sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere
racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del
secondo secolo d.C., sotto Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si
registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di
zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne
seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme
romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con
scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu
l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento.
All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il
Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del
1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni
del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della
corrispondenza si denoma: Mattoni antichi
con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate
del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati,
interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:
Il dr.
Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da
lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei
primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale
oggetto i maggiori ragguagli.
L’interpellato risponde in data 28
dicembre 1877 (Repertorio al protocollo
1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la storia delle
miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or
sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità
taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo
museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto
d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a
sinistra, come le scritture orientali.
In uno di
essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa
questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si
rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo
stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di
Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge
il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare,
che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia
Girgentina.
L'esimio
Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V.
maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei.
Il Mommsen fu poco grato al Picone:
pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ma si guarda bene dal
ricompensare, neppure con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle
‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene
il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei
reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è
un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie
regalati dalla famiglia La Mantia all'avv.
Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di
Agrigento.
All'inizio del secolo scorso, il
SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle
che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero,
furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un
contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute presumibilmente nei dintorni
di Santa Maria, nella costruzione di un sepolcro.
Quell'insigne archeologo procedeva ad una
lettura piuttosto arruffata che pubblicava sul
bollettino dell'Accademia dei Lincei. Altre «tegulae» sono state rinvenute nel 1947 in località Bonomorone di
Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come
ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo, si trattava di un deposito di cocci di
una figlina (officina di vasaio):
dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in
particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più
letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi
romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato,
che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente
poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo
liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano
tuttavia sotto il nome di gàvite, nel
fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo
vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato
per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.»
Pare, comunque, che l'attività
mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo
quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che partendo dall'anno
180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici
secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale
all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che
ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22
ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un
infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la
sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una
miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino. Il
Giangreco Cifirri moriva dunque nella caverna di una salina, per il repentino
crollo di massi di sale.
I
TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas
si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi
datare nel IV secolo d.C. In epoca di totale declino dell’impero romano,
andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina. Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale
testimonianza, per noi non resta del tutto valido l’appunto della Guida del
T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è
detto relativamente a Racalmuto - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico
Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la
raffigurazione del Ratto di Proserpina.»
La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le
miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e
l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui
ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi
è materiale di risulta che pare trattarsi di materiale ceramico databile ad
epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva
l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello
zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in
Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e
l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al
commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si
rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di
ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La
produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi,
subentra] il silenzio dei documenti». Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la
proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI. Di recente
Giovanni Salmeri ha iniziato l’opera di revisione nei confronti del Salinas,
anche se non ha avuto il coraggio di andare sino in fondo e lasciar perdere con
la datazione commodiana delle miniere solfifere racalmutesi: «le lastre della
Sicilia […] sono state rinvenute a Racalmuto – scrive lo studioso catanese di
storia romana – in forma intera adoperate come materiali da costruzione per
sepolcro; su di esse si legge la formula ex
praedis/ M.Aureli/Commodiani». E’ piuttosto circospetto il Salmeri quando
annota: «Salinas in luogo di Commodiani
preferiva leggere Commodi Ant(onini)
pensando all’imperatore.» In effetti si trattava o di un abbaglio o peggio. Ma
scoperto l’inganno, la tentazione a datare comunque le lastre è invincibile e,
divenuto l’imperatore Commodo, “il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano”,
non si rinuncia pur tuttavia a “collocare nei decenni finali del II secolo d.
C. ”il praedium in questione”.
I dati
archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi
sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee
evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la
produzione - annota il De Miro - pur
essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle
di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo
da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi
dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci
fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse]
la gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel
III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in
Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente
alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del
concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.»
Successivamente appare «il manceps,
figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita
l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo
l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps
tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo
imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo,
indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes.
[...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale
delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV
sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto
contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale
e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che
ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione
dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.»
In tale contesto, pensiamo ad
un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con
centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio.
Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto
sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli
è rimasto. I resti di tegulae,
rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento
del centro abitativo in contrada Grotticelli,
è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione
che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero,
probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che
ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte
delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un
centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la
grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.
Nessun commento:
Posta un commento