VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non riusciamo a resistere alla forte
tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed
abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto
durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo:
quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a
valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita.
Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e
ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno».
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro -
riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in
condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici,
come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a
testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e
pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare,
l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci
sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni
di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano
preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i
greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,
si insediarono nella valle agrigentina,
per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi,
modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il
termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono
però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata
dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la
scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non
subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda
generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite
dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice
auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono,
accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano
cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della
famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi
dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da
quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I
nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per
trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se
non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della
gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti
negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi,
feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili
a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di
uomini fieri e ribelli. In tutto ciò
sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe
agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e
peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori,
arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto
l'ha potuto registrare solo molto di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX
secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine
ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere
pertinenza rurale della polis di
Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la
tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo
fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per
via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito
ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla
Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili
se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che
lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita
comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro
territorio sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli
che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela
attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non
resta che avventurarci in malcerte congetture.
In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti
scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la
nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962).
Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante
'non liquet' (non risulta) di Filippo
Cluverio. Oggi, liquet (risulta)
l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente
ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di
Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò
queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza
considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie
e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e
l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano
di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere
granché diversa da quella della fine dell’Ottocento-.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva
usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena
lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla
vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce
di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini
cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva
certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità
e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda
storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza
monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia
agricola della Polis, dunque, al
tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con
vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a
pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva
fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare
le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della
lontana Grecia. Dopo, chi vinceva
commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva
doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla
cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una
flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie
terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante
la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria
col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato,
incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo
per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio
del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti
alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da
avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone,
specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine
dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze
greche.
Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di
Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da Akragas, per il passaggio
ad un regime democratico, non fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella
riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua
guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola
Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano
ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico,
di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste,
certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la
Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni
bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce,
l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli
ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova
alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i siculi di
Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli
ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al
solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine
e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di
prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale
di quella polis, ne segue sicuramente
le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a.
C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu
l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo
della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di
impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia
punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano
dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come
primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e
cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci
agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i
cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai
saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare -
il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana:
niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette
verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio
demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli
agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le
note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si
impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas
cadeva nella mediocrità dell'epikrateia
africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante
sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per
qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla politica
ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere,
vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la
civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione
cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri:
i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e
infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo
per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta
contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di
Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più
delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono
chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana
scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi
degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti
numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre
racalmutesi di quei secoli.
Sempre il Tinebra Martorana
ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una
parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi
senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di
Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu
durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un
libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese
prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne
derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla
greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In
contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia
un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo
Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il
tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette
essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno
finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda
storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole
e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile
ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le
porte di Siracusa. Akragas ed il suo
territorio - ivi compreso Racalmuto - si
estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti
all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue
risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella
zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a
quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica
romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda
siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura
appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo
di provincia che secondo Cicerone: «prima
docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare».
Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare
popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e
ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo
perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi,
le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri
cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono
risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della
città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne
le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa,
abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto
dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di
quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti.
Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo,
vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui
successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi.
Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di
40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine
per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture
raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto
sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani
ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel
grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici
ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi
consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei
romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una
vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per
Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella
lontanissima Roma.
Nessun commento:
Posta un commento