La svolta del
1375
Si accredita
autorevolmente, dunque, la tesi di un Mafredi Chiaramonte, bastardo, nelle cui
mani «per via di fortunate combinazioni, si venne a riunire .. l’ingente
patrimonio della casa.» [1] Non
sembra potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi
Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo;
dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di
Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari,
Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo,
Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in
documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Segreto Vaticano anche il
nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355
dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con certezza peste bubbonica o
pneumonica, fu pestilentia nel senso
allora corrente di gravissima epidemia». [2] Già
vi era stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola.
Racalmuto ne fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni
si ebbero per un ritorno dei focolai epidemici di una ventina d’anni dopo.
Operava frattanto la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e
bigotte seminavano il panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in
quel tempo erano emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era
facile additare una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era
propenso a credervi.
I nostri
storici locali raccolgono gli echi di quei tragici eventi ed imbastiscono
trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto questo è però provabile. Un
fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un massiccio trasferimento, da
Casalvecchio all’attuale sito, della residua, falcidiata popolazione. Già,
subito dopo la conquista di Garibaldi, il locale sindaco - pensiamo a
Michelangelo Alaimo - faceva scrivere ad un dotto professore del Continente –
oltre a quanto prima citato - che
Racalmuto: «….Fu distrutto dalla peste
del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora
alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei
lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi
dei sepolcreti e ruderi di edifici. Questo borgo fu sotto il dominio della
famiglia Chiaramonte, passò quindi in feudo della famiglia Requisenz, principi
di Pantelleria. (Alcune delle surriferite notizie debbonsi alla cortesia
dell'on. Sindaco di questo Comune).»
[3]
L’apice della
visionarietà si ha naturalmente nel Messana, [4]
secondo il quale: «A Racalmuto le cose andavano bene, la
popolazione cresceva, sempre attorno al castello. Vista insufficiente la
cappella del Palazzo che nei primi tempi dopo il 1355 fu aperta al culto dei
pochi superstiti alla calamità, si costruì la chiesa dedicata a S. Antonio
Abate, eletto patrono del paese, alla periferia del nuovo centro abitato, verso
l'odierno cortile Manzoni. Intanto gli anni passavano, e al barone Antonio Del
Carretto erano succeduti i figli Gerardo e Matteo. La baronia di Racalmuto con
altri possedimenti era toccata a Matteo, a Gerardo invece Siculiana col resto dei feudi. I due
germani non rimasero estranei agli avvenimenti politico militari del regno.
Essi seguirono, come aveva fatto il padre, i loro parenti, i Chiaramonti, anche
perché questi avanzavano rivendicazioni sulla baronia, tutte le volte che non
vedevano i Del Carretto al loro fianco con entusiasmo e dedizione. Negli anni
di grazia tra il 1374 ed il 1377 in più luoghi storici infatti Racalmuto è
annoverata fra i beni chiaramontani. E' chiaro che i Del Carretto erano i
signori di Racalmuto negli affari interni, ma tanto legati e dipendenti dai
Chiaramonti che all'esterno apparivano come valvassori dei potentissimi
parenti. Gerardo e Matteo, alla caduta di Andrea Chiaramonti, che avevano
seguito nell'assedio di Palermo, riuscirono a sfuggire all'ira di Martino e
ricoverarono all'interno. » In
questa pagina del Messana c’è del vero, ma tanto da rettificare, almeno se si
dà in qualche modo credito alla versione da noi sopra esposta.
I traumi che
la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a
coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è possibile documentare su basi
certe. Gli scontri tra le parzialità - solo vagamente definibili latine e
catalane - continuano a scoppiare nel 1360. L’anno successivo giunge in Sicilia
Costanza d’Aragona per sposare Federico I, il quale, sfuggendo a Francesco
Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può solo nell’aprile convolare a
nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con 9 galeee attacca nel maggio
la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva scortato Costanza e ne cattura
una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV si dà da fare per rappacificare
e rappacificarsi con i potentati del momento: nell’ottobre ratifica la pace di
Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci da una parte e Francesco
Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di nutrite fazioni)
dall’altra. Nel biennio 1362-1363 si registra una recrudescenza della peste.
Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si riesce a recuperare il piano di
Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si può parlare di pace con gli
Angioini di Napoli.
Ma quando
agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe le condizioni di pace,
divenne più agevole definire il concordato con il papato che manteneva sulla
Sicilia il suo irriducibile interdetto. La corte pontificia, ancora ad
Avignone, versava in ristrettezze economiche: se la Sicilia si mostrava
disponibile ad una tassazione straordinaria aveva possibilità di una rimozione
del gravame papale. Fu così che si fece strada la soluzione della controversia
con il papa: bastava assicurare il pagamento di un sussidio il cui peso sarebbe
finito direttamente sulle vessate popolazioni dell’Isola, compreso Racalmuto
naturalmente.
E qui la
minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia
medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa
Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XI era in effetti
Pietro Roger de Beaufort nato a Limoges
nel 1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto
papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla
cosiddetta "cattività avignonese". La fine del suo pontificato fu
contraddistinta dalla rivolta generale delle province italiane. Nel 1375 e nel
1376, nel momento in cui Firenze ingaggiava contro la Santa Sede la guerra
degli «8 santi», novanta città e castelli dello Stato pontificio si sollevavano
contro gli ufficiali apostolici e demolivano le fortezze edificate
antecedentemente dal cardinale Albornoz. La rivolta può venire considerata
causa del definitivo tracollo del papato francese in Italia, che non riesce più
a percepire i sussidi straordinari imposti dal 1370 al 1375 nei domini della
Santa Sede.
Negli ultimi
anni della loro dominazione in Italia, i papi avignonesi ricorsero molto spesso
alla generosità dei loro sudditi con richiesta di sussidi straordinari, tanto
da trasformarsi in imposte ordinarie. Quanto al consenso dei parlamenti,
divenuto alla lunga puramente formale, a partire dal 1374 esso tendeva a
sparire del tutto. Dal 1369 al 1371 si trascina la guerra di Perugia e diviene
controversa l’esazione dei sussidi della Tuscia in favore del patrimonio della
Santa Sede.[5] Scoppia quindi la guerra
milanese ed insorgono difficoltà per l’acquisizione dei sussidi relativi agli
anni 1372-1373. L’Italia conosce, nel 1374 e nel 1375, la devastazione della
peste e della fame. L’epidemia di peste bubbonica affiorata a Genova nel 1372
si diffonde a poco a poco per il resto d’Italia, e nel 1374 raggiunge la
Francia meridionale. Una grande siccità imperversò alla fine del 1373. Dopo,
nel successivo aprile, cominciarono piogge torrenziali e protratte che
rovinarono la mietitura e provocarono la carestia. Un coacervo dunque di
circostanze per le quali Gregorio XI si vide costretto a sollecitare un nuovo
aiuto economico da parte dei sudditi italiani per sostenere la guerra che
continuava più furibonda e più rovinosa che mai, contro il signore di Milano.
All’inizio
del 1375, la Camera apostolica non incontra difficoltà soltanto in alcune
province dell’Italia centrale. La carenza contributiva si estende alla Cristianità
intera. Salvo forse la Francia, la percezione dell’obolo è un totale fallimento
nel reame di Napoli e, specialmente, in Sicilia. L’Inghilterra si era sollevata
contro le pretese di Gregorio XI. Il clero di Castiglia e di Lione e quello del
Portogallo rifiutava ogni aiuto. Il papa fu allora costretto a revocare le
vecchie tasse e dichiarare che si accontentava di somme relativamente modeste
(qui 20.000 e là 25.000 fiorini). Nella stessa Italia, gli ecclesiastici fanno
orecchi da mercante e rifiutano di consegnare al collettore Luca, vescovo di
Narni, i contributi che pure avevano promesso. I mercenari non sono pagati e,
per calmarli, Gregorio XI deve conferire terre della Chiesa ai loro capi.
La guerra
milanese è frattanto prossima a concludersi. Il 4 giugno 1375, la tregua con i
Visconti è conclusa. Lungi dal riassettare una situazione fortemente
compromessa, la fine delle ostilità aggrava le tensioni. I mercenari, privi del
loro soldo, sono lì lì per costituirsi in compagnia e rifarsi con i saccheggi.
Non basta, certo, un’ipotetica retribuzione a frenarli. Solo degli espedienti
possono salvare provvisoriamente la Camera apostolica. Gregorio XI si fa prestare somme enormi.
L’incapacità
del papato di procurarsi il denaro necessario al finanziamento della guerra
contro Bernabò Visconti è il segno del fallimento finale della fiscalità
avignonese. Questo fallimento deborda dai limiti dello Stato pontificio e si
estende a tutta la Cristianità, come mostra il rifiuto pressoché generale di
pagare i “sussidi della carità” sollecitati da Gregorio XI nel 1373.
Per un
sussidio di carità può però la Sicilia togliersi da dosso l’interdetto,
conseguenza del Vespro: lo può l’intera Sicilia ed è perdonata; lo può Manfredi
Chiaramonte e tutte le sue terre sono perdonate; lo può Racalmuto ed il 29 marzo 1375 viene
solennemente assolto con un cospicuo “sussidio della carità” di una colpa mai
commessa.
Storici di
acuto intelletto scrivono che «c’è un elemento comune del mondo moderno che è
stato considerato come il fondamento del suo processo evolutivo, nelle forme di
stato e Chiesa, costumi, vita e letteratura. Per produrlo le nazioni
occidentali dovettero formare quasi un unico stato spirituale e temporale
insieme.» [6] Ma
ciò per un breve momento. Sorgono quindi le lingue nazionali; si sfalda il
precedente mondo monolitico e «un passo dopo l’altro, l’idioma della Chiesa si
ritirò dinanzi all’impellenza delle varie lingue delle varie nazioni.» L’universalità perse terreno; l’elemento
ecclesiastico che aveva sopraffatto le nazionalità entra in crisi; i popoli si
mettono in cammino lungo percorsi nuovi,
in incessante trasformazione, e sempre più accentuatamente distinti e separati.
La potenza dei papi era assurta ad altissimi livelli in un mondo coeso. Ma ecco
che nuovi momenti cominciano ad eroderla. Furono i francesi che opposero la
prima decisa resistenza alle pretese dei papi. Si opposero, in concordia
nazionale, alla bolla di condanna di Bonifacio VIII; tutti i corpi di quel
popolo espressero il loro consesso agli atti del re Filippo il Bello.
Seguirono i
tedeschi. L’Inghilterra non rimase estranea per lungo tempo a questo movimento;
quando Edoardo III non volle più pagare il tributo al quale i re suoi
predecessori si erano impegnati, ebbe l’assenso dei suo parlamento. Il re prese
allora misure per prevenire altri attacchi della potenza papale.
Una nazione
dopo l’altra si rende autonoma; le
pubbliche autorità rigettano le idee di sudditanza ad una autorità
superiore, sia pure a quella del papa. Anche la borghesia si discosta
dall’umile sottomissione ai papi. E gli interventi di costoro vengono respinti
dai principi e dai corpi statali.
Il papato
cade allora in una situazione di debolezza e di imbarazzo che rese possibile ai
laici, che sinora avevano cercato di difendersi, di passare al contrattacco. Si
ebbe addirittura lo scisma. I papi poterono essere deposti per volontà delle
nazioni. Il nuovo eletto doveva adattarsi a stabilire concordati con i singoli
stati.
E così da
Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento culminante
della crisi che abbiamo fugacemente additata. Ed in questa congiuntura, cade
appunto la remissività papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplementare
si può procedere alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed
al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana
della storia passa allora anche per il modesto, gramo paesetto di Racalmuto.
Altro che isola nell’isola, nell’isola - scrivemmo una volta, in sommesso
dissenso con Sciascia.
Le decime racalmutesi al reduce di
Avignore, per volere dei Chiaramente nel 1375
Nel contesto
della politica fiscale di papa Gregorio XI un personaggio acquisisce contorni
di rilievo e diviene memorabile nell’ambito nostro, cioè della microstoria
racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel. Originario della diocesi di
Mende, in Francia, fu uno dei valenti agenti dell’amministrazione finanziaria
della Santa Sede sotto i pontificati di Urbano V e di Gregorio XI. Si distinse
come collettore in Germania (1366-1367) e quindi nella Penisola Iberica
(1368-1371). A questo punto il suo destino si lega a quello della Sicilia ed
investe a Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del 1375. La sua carriera in
Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i
suoi compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri
contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi.
Vi troviamo Racalmuto.
Bertrand du
Mazel era “archidiaconus Tarantone in
ecclesia Ilerdensi, cappellanus pontificis” (Reg. Vat. 268, f. 67) cioè a
dire un diacono maggiore che aveva l’amministrazione dei beni di taluni settori
della chiesa (canonica, etc.). Oggi il titolo è meramente onorifico e viene
attribuito ad un componente capitolare delle cattedrali. Du Mazel, come tutti i
collettori, dovette tenere un registro delle sue operazioni per sottometterle
al controllo dei chierici della Camera apostolica. Pare che sia stato un uomo
preciso e metodico: conservò una copia della sua corrispondenza. Una parte di
tale corrispondenza riguardava, per nostra fortuna, la Sicilia e risulta
custodita in Vaticano. Ciò si deve al fatto che per il diritto di spoglio tutte
le carte di Bertrand du Mazel dovettero essere versate in blocco alla Camera
apostolica alla morte del proprietario.
Du Mazel curò
un carteggio con le autorità siciliane dell’epoca nella sua qualità di
collettore del sussidio riscosso dal popolo siciliano. Inoltre conservò i
documenti contabili tra cui quietanze, conti dei sotto-collettori, minute e
bella copia dei conti. Nel Reg. Av. 192, fol. 414-419v, abbiamo la minuta
autografa, cancellata e corretta, del conto del sussidio raccolto dal popolo
siciliano.
La visita in
Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca nel quadro degli eventi sopra
abbozzato. In particolare occorre tener
presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV
di Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida
del papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV
accettava la signoria di Giovanna Ia, e quella di Gregorio XI. Egli
si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla regina che lo doveva
trasmettere alla Santa Sede. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare
giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi
che godeva prima del Vespro del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto
che gravava sull’isola da lunghi anni.
L’accordo si
rendeva necessario per le ristrettezze finanziarie pontificie a seguito della
lotta contro i Visconti di cui abbiamo detto. Si è anche visto come i “sussidi
caritativi” chiesti al clero di molti paesi fossero risultati fallimentari. In
Sicilia la percezione di tale sussidio fu decisa prima della ratifica della pace,
nel dicembre del 1372; la promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di
pressione fiscale. Vengono chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono modalità
di esazione contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per i
riottosi. Le bolle del dicembre del 1372, chiedendo un aiuto per la lotta
contro i nemici della Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse dato
“prima dell’abolizione dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo. In
virtù di una clausola apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano
esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento
di rispettare la pace e d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato,
ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario
si trasformava in imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a
parlare della tassa riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di
Racalmuto, ove invero si parla ancora più esplicitamente di “subsidio auctoritate
apostolica imposito” . E ci
siamo dilungati proprio perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia
“narrabile” del nostro paese.
Illuminato
Peri chiarisce gli aspetti storici di
siffatta atipica tassazione pontificia. «La esazione fu affidata a collettori
pontifici, e fu convenuto che 1/3 sarebbe andato alle finanze regie. Nella
forma Federico IV si presentò mediatore fra popolazione e autorità ecclesiale.
Tanto che l’atto del maggio del 1374, con il quale egli fissò la misura della
sovvenzione, fu dichiarato “moderatio regia”. Con tale atto si cercò di sedare
le reazioni piuttosto violente suscitate dalla prima richiesta (“rumori,
rivolte, novità, assembramenti e molte indicibili e turpe parole contro la
chiesa romana e noi”, sintetizzava il collettore Bertrand du Mazel). Il
sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni
economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate
(“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna
località metà delle famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra
le benestanti: se le condizioni economiche fossero omogenee, sarebbe stata
distribuzione equa. Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono
nell’isola infiniti” e le “miserabili persone” che non era prefigurato fossero
tali.» [7]
Intensa è la
fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a destra e a manca per spingere
i notabili siciliani ad accedere alle nuove istanze impositive della Santa
Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed università a recarsi presso
“Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo convincano a fare pace con
“la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli inviti sono mandati a
Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca
(reg. Vat. 268, f. 295-297).
Sempre da
Avignone, il 1° ottobre del 1372, si officia Guglielmo affinché interponga
“partes suas consolidationi Agrigentinae civitatis efficaciter et, cum
consummata fuerit, Francisco de Aragonia impendat obedientiam et reverentiam,
sicut decet.” (Reg. Vat. 268, f. 298 v.° 299 v.°). Si ripristini ad Agrigento
la fedeltà a Francesco d’Aragona, che risultava infranta.
Vediamo
questo diploma: «Al nostro diletto figlio, nobiluomo Guglielmo di Peralta,
conte di Caltabellotta della diocesi di Agrigento, salute. Ed al magnifico diletto figlio, nobiluomo Giovanni Chiaramonte, signorotto (domicellus) della diocesi di Agrigento,
nonché ad Emmanuele Doria, signorotto (domicellus)
della diocesi di Mazara, a Manfredi Chiaramonte,
(domicellus) della diocesi di
Siracusa, a Benvenuto de Graffeo, signore di Partanna della diocesi di Mazara.»
Il pontefice mostra di conoscere molto bene la mappa del potere feudale in quel
frangente storico, come dimostra il dosaggio dei titoli nobiliari nella missiva
di cui abbiamo citato l’indirizzario.
Ma
particolare attenzione viene rivolta a Giovanni Chiaramonte che ancora nel 1372
è vivente e domina sull’intera provincia agrigentina, Racalmuto compreso (il
papa ignora i Del Carretto, argomento ex
silentio, quanto si vuole, ma pur sempre circostanza rivelatrice).
Sottolineiamo questa lettera del 20 gennaio 1372: «a Giovanni Chiaramonte per i suoi buoni offici tra la Regina di Sicilia
e Federico d'Aragona - secondo il tenore delle lettere per Nicolò de Messana, Pietro d'Agrigento custodi delle
custodie di Messina e di Agrigento dell' O.F.M.» (Reg. Vat. 268, f. 247).
In ben sei lettere papali a Giovanni Chiaramonte, questi viene chiamato “domicellus panormitanus”. Nello stesso
periodo sono sette le missive papali a Manfredi Chiaramonte. I due sono dunque
personaggi di rilievo sino alle soglie del 1374. Il 6 febbraio 1372, per il
papa avignonese Giovanni Chiaramonte è cresciuto d’importanza: viene chiamato
“domicello dell’isola di Sicilia”.
Il 9 febbraio
1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella sua qualità anche di ammiraglio
di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di percepire nelle sue terre il denaro del
sussidio dovuto alla Chiesa e di consegnare il frutto della loro raccolta al
collettore apostolico che subito toglierà l’interdetto. Il precedente 18
novembre 1374, Manfredi è a Mussomeli nel suo castello che ora si denomina dal
suo nome “Manfreda”: là si redige un processo verbale che attesta che egli,
ammiraglio del regno di Trinacria, presentandosi davanti al re Federico III gli
ha prestato fedeltà e devoto omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi
natali, si era dunque quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che
accompagnava il re, Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare
il trattato di pace, come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una
bolla d’oro e finché il re l’osserva lui stesso. Egli ha promesso di fare
versare il sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle sue terre di
Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia,
Montechiaro, Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina,
Castronovo, Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo,
Misilmeri, Cefalà, Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di
Capobianco, Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire
delle proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande.
Le proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro
estensione. Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse
comprendono buona parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa,
Modica, Spaccaforno, Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di
Agrigento e di Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto,
Montechiaro, Camastra, Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro:
Mussomeli, S. Stefano, Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le
proprietà della regione di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [8] Il
processo verbale è stato redatto su domanda del re e del nunzio apostolico
nella casa dove risiede il re da Francesco da Treviso, notaio apostolico e
imperiale «presentibus reverendo patre Rostagno abbate monasterii Sancti
Severini Majoris de Neapoli et nobilibus et circumspectis viris Jacobo
Pictingna de Messana milite, Georgio Graffeo de Mazaria, Bonaccursio Maynerii
de Florencia, Manfredo de la Habita de Panormo, Raynerio de Senis, Reynerio
Pictingna de Messana et aliis.» [Copia di Bertrand du Mazel: Reg. Av. 192. Fol.
4.]
Dalla lettera
circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375
riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa
ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il casale è evidentemente
assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e
ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas
ha un suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei
giudici, a degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituisce un
soggetto giuridico (universi homines).
Rientra tra le terrae nostrae, cioè
di Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali),
Racalmuto sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto: il diploma in
esame smentisce in pieno.
«Cum zo sia cosa ki - soggiunge il conte
di Chiaramonte con un siciliano cancelleresco che ha il suo fascino - a nuy sia debitu procurari vostru beneficiu
et universali saluti, cossì di l’anima comu di lu corpu, idcirco vi significamu
ki pir tali ki vuy putissivu aviri lu divinu officiu et la celebracioni di li
missi, sì comu ànnu la plu parti di li altri terri di quistu Regnu, et maxime
per consideracioni di la malvasa epithimia ki vay discurrendu per diversi terri
et loki, in presencia di lu R[e]... prestamu et fichimu juramentu di observari
la pachi facta per lu signur Re comu [illu] ... observirà et hannu juratu li
altri baruni, et lu simili avimu factu fari a la universitati di Palermu et di
Girgenti; per la quali concordia esti commisu a lu venerabili misser Bertrandu,
capellanu et nunciu apostolicu et collecturi deputatu per nostru signuri lu
papa di lu subsidiu impostu per la relaxioni di lu interdictu, ki pagandu vuy
chauna universitati oy locu la taxa imposita et consueta, comu ànnu pagatu li
altri terri di lu predictu Regnu, ipsu per la auctoritati a ssì commissa
relassi lu dictu interdictu et restituiscavi lu divinu officio et la
celebracioni di li missi, ut predicitur; et impirò vulimu et comandamu ki vuy,
officiali predicti, ordinati tri boni homini un chascuna terra et locu predicti
ki aianu a recogliri la dicta munita, et ki incontinenti si pagi a lu dictu
collecturi perkì puzati consiquiri tanta gratia et beneficiu supradictu. Et
pirkì siati plu certi di la supradicta nostra voluntati, fachimu fari quista
nostra patenti lictera, sigillata di lu nostru sigillu consuetu, cum li nomi di
li terri et loki infrascripti. Datum in
castro nostro Cacabi, VIIII° Februarii XII indictionis [rectius: XIII
indictionis = 1375].
«Nomina terrarum et locorum sunt hec, videlicet:
Spackafurnu
- Naru - lu Mucharu - Sanctu Stephanu - la Petra d’Amicu
Sicli
- la Delia - li Glubellini - Perizi - Calatrasi
Modica
- la Favara - Sutera - lu Palazu Adrianu - lu Misilendinu
Ragusa
- Monticlaru - Manfreda - Cacabu - Camarana
Claromonti
- la Licata - Camastra - Chifalà - Petra Russu
Odorillu
- Rachalmutu -
Castrunovu - Misilmeri - ____Ç____
Terranova
- Guastanella - Bibona - la turri di Capublancu - Et cetera
Copia di B.
du Mazel: Reg. Av. Fol. 431-431v.»
Ancora una
volta le singole università devono dunque nominare tre probiviri (tri boni homini) i quali devono
assolvere il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli abitanti
(nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano stati i
prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino la
ficcante tassazione.
L’elenco
delle università ha una sua logica: Racalmuto si trova in mezzo ad un
itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su Naro, da qui a Delia e da
lì si torna a Favara (ammesso che si tratti dell’attuale Favara e non di un
centro nel nisseno); da Favara a Palma di Montechiaro, quindi a Licata per
convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella (una rocca sul monte
omonimo a poco più di 2 km. a Nord di Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro.
Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini)
che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto
livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo
chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese si arricchisce di un altro
importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa
a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano,
Prizzi, Palazzo Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a
questo punto il nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi
diviene nullo.
Fin qui si è
trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo delle tasse vere. L’arcidiacono
du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire dai primi di marzo del 1375.
Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo);
il 18 dello stesso mese può togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a
Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a
Guastanella.
Lo stesso
giorno è la volta di Racalmuto. Dal
nostro paese si passa a Castronovo (8 aprile 1375). La raccolta del sussidio
s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione dell’interdetto che
incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione, lontana da Agrigento. Per
noi ha particolare rilievo ovviamente la nostra Racalmuto.
Disponiamo di
un paio di annotazioni che riguardano il casale e che naturalmente svelano
tratti storici diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto
Vaticano ci degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit amotum interdictum in
casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI
que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del
pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di
Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte
di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e
27 tarì.» Ad essere precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze 7 e tarì 28
(anziché 27) dato che così andava ripartita:
|
|
quota individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
numero fuochi
|
136
|
|
238
|
onze 7
|
tarì
28
|
ceto medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
|
|
benestanti (1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
|
|
poveri (1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
|
|
Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque
una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni nucleo
familiare): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i preti
(tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che dispersi per
le campagne non era possibile includerli nel censimento; un venti per cento,
come abbiamo calcolato per l’analoga tassazione del Vespro. Nel 1375 Racalmuto contava
dunque circa 650 abitanti.
Come si è
visto le case erano di paglia: segno di grande indigenza. Eppure i racalmutesi
o per solerzia degli scherani pontifici o per vero timore di Dio (e della
peste) furono solerti e puntuali nel dare il sussidio caritativo al papa. Non
così in altre zone della Sicilia, come ebbe a lamentarsi quello straniero di
Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte del
du Mazel non vanno minimamente confuse con riveli censuari. Abbiamo solo numeri
simboli da cui possiamo dedurre solo qualche ipotesi di lavoro di carattere
demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a Racalmuto vi erano davvero 136
case con tetto a paglia; che 34 di queste (1/4) fossero abitate da benestanti
in grado di corrispondere la tassa pontificia in misura massima (3 tarì a
fuoco); che altre 34 appartenessero a ceti medi (tassati per 2 tarì a
famiglia); la metà (n.° 68) ospitasse famiglie di dignitosi coltivatori e
mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1 tarì per ogni nucleo).
Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per stima aprioristica.
Certamente in misura più limitata dovette essere la densità delle famiglie
veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più vasta quella
della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi (tassati a
parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili”
(nullatenenti e non imponibili per legge o per dato di fatto), gli
irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessibili o nei
contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in
stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva.
Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel
1375, che il centro (snodantesi negli scoscesi avvallamenti sotto le grotte
dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti, che tutto
considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e
poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”). Una popolazione
già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste trecentesca ed ancora
non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento del predace duca di Montblanc
ebbero a verificarsi, come vedremo.
L’Universitas
Rakalmuti alla fine del Trecento
L’ultimo
quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che
spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico
siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana
racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora una tale contiguità
da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero
ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si
rende indispensabile.
Il 27 luglio
1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese
coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte
avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i suoi predecessori - Scrive
il D’Alessandro [9] - e certo molto più che
Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che affliggeva il
regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva desiderato
riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla passata
storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una
aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli
disponeva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale
sin’allora erogate e confermate: un “impeto di giusto dispetto” come poi fu
detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»
Il regno
passava alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina
sul serio - ma solo pro forma visto
che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come
Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si
reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli
altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo
Peralta.
La vita
riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In
effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i
cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per
Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi
Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché
storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia
intendere che costoro se ne stessero ancora a Genova a curare i nuovi loro
affari in seno a compagnie marittime.
Racalmuto
scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la
legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [10] Solo
che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua
cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo
III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal
castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi
III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le
trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non
lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla
alla monarchia iberica.
Rientrava in
scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di
Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in
contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva
l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito
Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di
Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo
alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante
Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione
della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie.
In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della
corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare.
Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao
di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le
nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389
moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per
l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra
l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli
e consociativi.
Morto anche
Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un
periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto
l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e
l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante
Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel 1389,
allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di
Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in
Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il
duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava
di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento
del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non
sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano
celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale
della storia di Sicilia.
Si giunge
così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte,
personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore
e su altri nobili di Sicilia, punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX
(1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli
scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche
sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al
giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi di «frenare le bramosie dei magnati e
coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte
d’opposizione ai Martini.» [11]
Nel frattempo
Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli
impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed
entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto:
la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano approdo
dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di
inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu
Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi
in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine
del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra
l’attuale corso Garibaldi e la strada
intestata al celebre medico racalmutese.
Nel 1392 gli
spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo
Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori:
anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in
soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma
Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel
Papa e nella possibilità di resistere agli iberici. Asserragliatosi a Palermo,
resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle
azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze,
grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea
Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi
nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco
dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria
di Racalmuto e dà inizio al lungo
periodo della sua baronia vera e storicamente documentata.
Si dissolveva
così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391
quando si era celebrato il convegno di Castronono in cui si era giurata fedeltà
alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto né
legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiaramonte,
erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni
convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale,
evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima
isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era
del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio
Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» [12] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era
lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei nuovi invasori; per “necessità”
finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
Ancora
nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di
mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente
ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la
spedizione militare aragonese.
Gli eventi
precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana
presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi
entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio
Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare
l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani reali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affiorare: Andrea
II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a
Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo
ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed il figlio Martino il
giovane. Il duca si irritiva a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3
aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il
Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed
ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a
Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte
si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a
prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme
all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo
palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i
sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li
faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando
venne decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il
celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed
avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona, delle
passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava
definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e
la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma
c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le
prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati
smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino,
con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca
dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro
feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del
Carretto devono fornire carte e prove per far valere il loro titolo sul feudo
di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più
Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato,
ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di
legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di
sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò
due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la
peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le
assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità
centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno
catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle
aliene di Catalogna.
Martino I
rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo
divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare
l’amministrazione della Sicilia fino nei più minuti aspetti. Questa sudditanza
attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di
sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un
infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo
che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una
insurrezione in Sardegna.» [13]
Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in
successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le
corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così
nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per
dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento,
sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente
era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia
aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò
governata direttamente dalla Spagna.» [14]
L’avvento dei Del Carretto
PERCHE' UNA STORIA SUI DEL
CARRETTO
|
Astrette in un paio di pagine sono godibili le
riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([15]) su tutta
la storia racalmutese. Desolato il
quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si
amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e
solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità
di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro
direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole
una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di
un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena
'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte
della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara
povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a
volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura,
millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che
si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche
traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo ugualmente a
scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo
negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano;
da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte,
documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la
proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a
superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli
eruditi locali con approssimazioni e topiche: diradarle o correggerle alla luce
dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo.
Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad
altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando
provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia,
uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
* * *
Sui Del Carretto di
Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del
Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le
parrocchie di Regalpetra e Morte
dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli
amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si
sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici
dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare credibilità a vicende
inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto
gravi:
1. Il 'Girolamo terzo
Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che
tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([16]) è
inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo
era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello
che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui
il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V,
la contea viene restituita, nel 1654, all’ultimo dei Girolami Del Carretto.
Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada
figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedali e chiese.
Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,[17] forse
perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, avendogli
denegato le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del
Carretto [18]; e contro la parte abbiente
del clero nostrano intentò, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che
poteva costargli una terrificante scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del
Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori,
facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto
il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con
la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV [19], dunque,
non è mai esistito.
2. Giovanni V Del
Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di
Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca
[20] - il
Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era
la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio
del 1622 sarebbe stato perpetrato
insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" [21].
3. Che Girolamo II
Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria pressione fiscale»
del terraggio e del terraggiolo, «canoni e tasse
enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo
particolarmente crudele e brigantesco» [22] dal conte
in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo
fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin
dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo
I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti -
quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati
compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo
II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto
una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il
terraggiolo con una donazione una
tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli
effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I
fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo
del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non
dovessero il terraggiolo (e cioè due
salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello
di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo
maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime
sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento
degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive
il Pirri. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa
gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi, specie se si va dietro alla
stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a
limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a
Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice,
così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre
agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del
Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di vita 'appena descrivibile', si tratta pur
sempre della storia di Racalmuto.
* * *
Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è
reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI, il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce
in una maligna stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto
della rampante famiglia d'origine ligure.
Stando ad una nostra traduzione dal latino, ecco come tratta
i Del Carretto quel temibile inquisitore in un'apposita "ALLEGACIO
RAYALMUTI" del suo «magnum capibrevium» [23]:
In effetti, per questa terra
di Racalmuto, niente trovo in favore del diritto del sacro regio demanio ad
eccezione del fatto che nessun titolo risulta del modo come la predetta terra
sia venuta nelle mani ed in potere del prenominato Antonio del Carretto. Ed a
tal fine è soprattutto da vedere la
forma della prima alienazione della già detta terra per sapere se avvenne
legittimamente che essa fosse staccata dal sacro demanio. Certo sembra lecito
per quella clausola insita nel privilegio del signor Re Martino, quella che
recita: «Gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i
singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per
qualsiasi fatto o diritto, ecc. ... ». Se ne trae l'incontrastabile diritto del
sacro regio demanio sulla detta terra. C'è allora da chiedersi quale causa e quale riguardo abbiano spinto
lo stesso signor Re Martino a fare la
detta cessione di diritti al predetto Matteo. Infatti è chiaro che il re stesso
non poteva minimamente fare ciò in pregiudizio dei signori re successori. Così
la vostra Maestà Cattolica, giusta quanto sopra detto, ha pienamente il fondato diritto di chiedere
all'attuale possessore della terra di Racalmuto il titolo rilasciato da tutti i
suoi predecessori affinché si dipani la totale verità.
Del pari e poiché al detto
Matteo successe Giovanni del Carretto che nel privilegio o investitura venne
chiamato «figlio ed erede di Matteo» ma non venne indicato quale «figlio
legittimo e naturale», nel qual caso è
di diritto da reputarsi bastardo. A tal fine abbiamo chiesto, se la forma della
alienazione della detta terra era tale, il titolo in base al quale poteva
estendersi l'alienazione stessa ai bastardi o illegittimi. Similmente l'attuale
possessore deve presentare e la sua investitura
e quella del condam Giovanni, suo padre, nell'interesse della regia
curia.
Abbiamo scritto una volta e ci pare opportuno ripeterlo qui
che, nella sua verve investigativa,
G.L. Barberi sia andato un po' oltre nell'insinuare l'illegittimità della
nascita di Giovanni I Del Carretto. Nel
processo d'investitura di Federico Del Carretto del 1453, i testi concordi
avevano dichiarato: «Item quod dictus
quondam magnificus dominus Mattheus de
Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus
et uxor ex quibus jugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus
Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam
filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad
eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica». Avevano mentito?
Ha invece ragione da vendere il Barberi quando contesta
l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del
Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito,
peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né
vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del Carretto né
del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente
annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive,
dopo il 1519, quel diligente inquisitore sull'origine e sui primi sviluppi
dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo
che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una
terra feudale racalmutese in mano a Federico II
Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato
che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto,
il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi
al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de
communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore
Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma su ciò ci
siamo a lungo intrattenuti nel nostro lavoro a stampa su “La signoria
racalmutese dei del Carretto” cui ovviamente facciamo qui debito rinvio.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo
di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili,
che nessuno mai ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso
mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto
Barberi [24] aveva così ricostruito,
sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento ed il
consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo
castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era
un tempo posseduta dal condam Antonio
del Carretto.
Morto costui, doveva
succedere nella stessa terra Gerardo del
Carretto, come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti
i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del
cennato suo padre e soprattutto quei
diritti che aveva e poteva avere per ragione
di successione e di eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti
dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi
genitori e del condam Giacomo suo
fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam
Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto
Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di
Savona, acquista i predetti beni e diritti dal
fratello Gerardo, per il prezzo
di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per
il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il
contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello
stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come
risulta nel privilegio di tal conferma dato in Catania il 13 aprile del detto
anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo
Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re
Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della
presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che
possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel
libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del
Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio
fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal detto
signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della detta
terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti,
sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio
della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle
carte 33.
E morto Matteo, gli successe nella detta
terra Giovanni del Carretto [I], suo
figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta
terra in un diploma ove risultano
inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto
condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto
re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria
nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni, successe Federico
del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale
Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della
detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare
e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re
Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta
nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare
dall'ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della
detta terra.
Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del
detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al
presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un
reddito annuo superiore ad once 700.
E morto il detto Ercole successe nella detta terra Giovanni del Carretto [III], suo
figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta
terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re
Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518
VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il padre non avesse preso l'investitura e reso
l'omaggio entro l'anno della morte del
proprio genitore. [25]
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come
questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte
(del padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli
Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa per
ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene
rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di
constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel
dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto,
titolo che la cancelleria di Martino riserba solo a Gerardo Del Carretto. Ma
nostre personali ricerche – quali
abbiamo richiamate nel citato lavoro – ci portano a pensare che in ogni caso
era una mera millanteria parte di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei
veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna
sono preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del
Carretto e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di
questa terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo
in base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria
vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono;
men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica
contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la
regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel
XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei
feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di
Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte
di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo
del tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non
risulta investitura (Vedi Vincenzo Di
Giovanni, Palermo restaurato,
libro 4°, f. 229).» [26]
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627.
Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni
II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente
rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI
secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a
Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni;
a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D.
Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([27]) Il Di
Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione
di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il
nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino
De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque,
anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur
eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a
questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è
consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette di
seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso
Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519
che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad
Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il
vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche
ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito
dire e Dio sa quanto menzogneri fossero
quei nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come
l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon
conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale fede.
Allo spirare del secolo XVI, il vescovo di Agrigento Giovanni
Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei
Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una
conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino
e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa
agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo
Padre - esordisce il prelato - l'Episcopo
di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B. che l’è pervenuto notitia che
alcune persone maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et
amministration che l'ha fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et
don Gastone del Porto, il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il
Marchese di Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron di Rafadal, il Baron di San
Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior
parte delli quali son parenti [.....]
Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che
s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra
facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar
la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso
Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli
vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et
per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao
tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato
seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente
della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con
intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo
regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con
tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore
et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso
Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene molti migliara di
scudi et molti animali toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche,
censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca
al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et
per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al
exponente.
Et più esso Conte ha voluto
et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta
sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà
ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler:
Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in
una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi
anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perchè il vicario
generale d'esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et
gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di
corda a detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a
monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo
regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare
che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse,
che è stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la
potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso
exponente have liti civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di
detto archipretato.
Et di più don Cesare parente
di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti
dalla corte episcopale di Girgente, et perchè ni fù prosecuto, diventano
innimici delli prelati.» [28]
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti
contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli encomiastici
o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti,
processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque rispettose
testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa
nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene,
nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il
Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il
secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto.
Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero
cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia,
è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel
fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata,
senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia
stata la base di un libro scritto poi,
nel 1630, proprio dal Baronio. [29]
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni
che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo.
Abbiamo già accennato al suo Palermo
Restaurato. Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato
dalla Sellerio (v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato
una «storia encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento
urbano che faceva di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla
pubblicazione del 1872 nella Biblioteca
Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo
manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana,
che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di
Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirri: ma qui quella famiglia entra in gioco solo
se le vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato
della iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto
degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito
acriticamente per il rabberciamento della prima storia medievale di Racalmuto -
tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108
avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse la
prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in
località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza
successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato
Antonio Del Carretto figlio del
marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del
tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle
cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di
Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240
[30] alla
famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella inverosimile
narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra Giacomo
Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza di come
fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del Seicento in
Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci
pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile
narrativo che possono indurre in errore (sempreché di effettivi errori si
tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante il successore
di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima lettura, che
Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo anziché del
primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe
confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli
storici del ramo siciliano dei Del
Carretto anche per quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo
in tre secoli). Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in
effetti gli succede Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos:
Federico subentra al padre, Giovanni I - sempreché non emergano documenti
inediti che rettifichino questa incerta successione. Il padre di Ercole, quello
della venuta della Madonna del Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I,
diversamente da quello che si arguisce dal passo del Mugnos). Una girandola di
nomi come si vede che non agevola la precisione e la correttezza nel tracciare
la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei feudatari». E qui Sciascia
ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della trama successoria dei
padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente don Giovanni conte di
Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data della 'mesta fine' di
quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due
lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges:
il primo, Palermo antico, è del 1649,
anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine Siciliana, è datato 1661 [31] e può dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni
V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si
trova molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i
feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami
trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non
sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio,
mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal
sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di
piaggeria araldica. [32] ( E questo
già si disse).
Si dà il caso che
l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la indubitabile
fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai
Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag.
18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende
chiaramontane raccontate nella Cartagine
Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia
racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il
testamento di Federico II Chiaramonte è
il fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo
aliunde essere davvero la nonna di
Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il
lavoro dell'Inveges, ma sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in
mano dei Del Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi
d'investitura né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto,
non avrebbero mancato, costoro, di farne varie copie e di esibirlo nelle
diverse congiunture giudiziarie, ove sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali
segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è
molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare cronaca
del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case da strani
diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della famiglia Del
Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento.[33] Valerio Rosso
accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a
Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. [34]
Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni
IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo
diarista palermitano.[35] Quando, ai
primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu
arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo
dovette essere enorme. Il conte è imputato del delitto di lesa maestà, come uno
dei capi principali di una congiura andata fallita. Nel suo diario ne fa
diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria [36] che poi segue passo passo lo sviluppo
giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento"
«privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di
quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO IN EPOCA MEDIEVALE
Siamo ormai troppo abituati a pensare che i nostri
racalmutesi Del Carretto provengano davvero dalla potente famiglia denominata
“DEL CARRETTO” affermatasi a Finale
Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche
a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di Finale e
Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto
liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il
feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non
dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo
avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia
l’esistenza di un tal marchese, evidentemente se non spurio dubbio, e
l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Baronio è tale che gli
odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio nella
ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un
marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure
per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II
Chiaramonte, o non esiste o fu scialba figura di comprimario, con tendenza al
mendacio.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto
accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte.
E forse è proprio così che è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del
commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli
anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la
altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il
mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere
Antonio del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il
tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il
vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che
questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio
nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia
siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un
qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti
genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre
interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che
circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia storica di sé: di
lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della
sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e
l’irrequieto Matteo.
In quel documento emerge che Antonio II del Carretto passò la
fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di
Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal
che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri
padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi
sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul preteso titolo:
ci appre così alquanto ambiguo, comunque il Nostro non ne fece alcuna
rivendica. Il che ci pare sconcertante. A meno che, aveva piena coscienza della
sua infondatezza.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due
figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre
che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino
strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era
Racalmuto.
Non sappiamo quando e dove sposi una tal Salvagia di cui
ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti
alla data di un importante documento del 12 marzo 1399. Antonio II - pare certo - lascia in eredità
ai figli:
«loca vigintiocto et
dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu”
civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia
di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a
quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva
raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia
per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del
fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può
essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e
cioè:
«casale et feuda Rachalmuti
ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè
in
«territorio Garamuli et
Ruviceto, in Siguliana, cum onere iuris canonicorum civitatis Agrigenti, .... et eciam in quoddam
hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium magnifici Aloysio de
Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti
Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de
Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios
confines, ac eciam in quoddam viridario quod dicitur “lu Jardinu di la rangi”
posito in contrata Santi Antonij Veteris cum terris vacuis vineis et in toto
districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte orientis viam publicam
ex parte occidentis et alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi
Dominici de Agrigento nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et
censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac ... in
omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus sistentibus
in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus suis, et in omnibus et singulis bonis stabilibus castris villis
baronijs feudalibus et burgensaticis
sistentibus in toto regno Sicilie.»
Che Antonio II sia morto a Genova è ipotesi desumibile da
questo passo del citato documento:
«dominus Gerardus
promisit sub vinculo iuramenti amnia privilegia instrumenta et scripturas
facientes pro bonis predictis venditionis ut supra et specialiter pro baronia
Racalmuti que remanserunt penes eundem dominum Gerardum post mortem magnifici
quondam domini Antoni de Carretto eius patris qui mortuus fuit in posse et
manibus dicti domini Gerardi mittere de Janua ad Siciliam ad eundem dominum
Matheum et heredes suos.»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo
primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e
Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto:
non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro
d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse
alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto, solo per
consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con
la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i
termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e
cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due
fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo,
a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che
sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non
ammessa secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un
concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative
giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che
ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli
storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Baronio e poi Girolamo III
del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri
moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili
Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da
Morreale a Salvo) è semplicemente fantasiosa congettura. Invero anche il Surita
incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli
Gerardo e Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da cui ebbe una
caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome della nonna
paterna, Antonio, Nicolò, Luigi, Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il
titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il
titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles
marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima [37] era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone
di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero
capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse
un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà
sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo
(alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel
diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in
modo malinconico, con un processo rivendicatorio finito a pro’ di una popolana
(la Macaluso) che poi impudentemente dichiara di avere messo su una gran
manfrina per recupero crediti (modestissimi) d’ordine e per conto per la
famiglia ducale dei Caetani della vicina città di Naro..
Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e sembra averne
avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e
consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza
in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di
Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro Martino il
Vecchio. Un liso diploma di Palermo [38] ne
fornisce indubbia testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS
LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti
cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru
locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri fideli quelli di lu dictu locu qui tutti
generalmente defrodaru e fichiruli assai dispiachiri; per la quali cosa si ita
est la nostra maiestati haviva causa di
meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna
affannu di chircarisi che cumandamu ki
con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki
incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu procuraturi di la presente per parte di li
altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la
nostra maiestati cesaria [si occupi]
plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki
vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date
in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben
complesso come si è cercato di additare prima: Matteo del Carretto vi si trova
impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato
dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli spagnoli che bussano alla porta non
sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni per le campagne: le terre racalmutesi del
barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il
Duca di Mont Blanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque
come un conquistatore straniero spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi
- è alquanto amletico: prima blando, ha momenti sediziosi, si riappacifica,
torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne
diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di
once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni
racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per
quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie,
l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito
ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta
incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il martello del vicino
Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un
diploma [39] del 1395 (die XV° novembris
Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del grande
storico siciliano Gregorio [40]: « Matheus de Carreto miles baro
terre et castrorum Rahalmuti - vi si
annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra
maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu
Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Le
note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono
i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su
istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro
i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che
non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli
avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi
dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato
nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora
accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo,
familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo
barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a
risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser
Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a
se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu
burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu
offitio de lu mastru rationali lu quali
per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu
Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit
ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato
nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere
l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da
altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di
Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma prosegue:
"Item peti chi lu dictu
misser Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a
Malta". Placet.
Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la
quale condivideva proprietà a Malta.
Item peti "Lu dictu
misser Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi
casi, jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto
serenissimo inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li
agrigentani". Placet.
E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era
stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e
distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati oltremodo
danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la
colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto
misser Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi
la paci li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani
erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma
drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà.
Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e
ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto. In calce
riportiamo un documento in latino – aspro e contorto ma basilare per la storia
di Racalmuto – cui l’eventuale lettore colto potrà ricorrere per concederci
credito nella nostra ricerca storica. [41]
Vi è riportata una formula assolutoria, ampia, faconda,
omnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è
costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?
Insuper confirmamus, laudamus et approbamus ditto Mattheo omnia et
singula privilegia per nos seu predecessores nostros eidem Mattheo vel suis
concessa seu indulta sub servitijs et conditionibus contentis in eis et
quolibet eorumdem ac etiam expressatis
iuxta modum et formam capitulorum predittorum et responsionum per nos fattarum
eisdem ut superius continetur, nostris tamen et alterius iuribus semper salvis.
La chiosa finale è ulteriormente munifica per l’avventuriero
ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri
antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del nostro
altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione
politica ed accensione passionaria per noi. Non tutto è negativo però nella
storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura
di letteratura francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da
Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe
Beccaria [42] che ha modo di narrare:
«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando
de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della
seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello
scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia,
ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...
Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da
Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese,
di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e
metterne a memoria alcune delle storie.»
[Documenti pag. 97 - I
(F.72 e segg.) - 5 giugno 1397.]
Rex Siciliae etc. Consiliare
noster, La nostra maiestati ha gran plachirj di exercitarj et legirj lucanu in
franciscu, maxime per mectirini a menti alcunj di li storj; et, certificati ki
vui vi haviti unu bellu et utilj, per li presentj vi pregamu effectuare ki nj
dijati complachirj et mandarinj lu dictu lucanu, et di zo plachiriti la
excellentia nostra.
Data Cattanie sub nostro
sigillo secreto quinto Junij, quinte indictionis. Post datam. Vi diclaramu ki
per portari lu dictu libru vi mandamu lu purtaturj di la prisenti, cum lu qualj
nj mandiriti lu dictu libru. Data ut supra.
Dirigitur matheo de
carrecto.
Dominus rex mandavit mihi
notaro furtugno.
(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. -
Archivio Stato Palermo)
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della
curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo
momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello
Gerardo della lontana Genova, e poi diversi notai di Agrigento; deve oliare
abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa
ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali.
E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in
vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del
Carretto
GIOVANNI I DEL CARRETTO
Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420:
eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi
inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi
sono più dubbi che Racalmuto è feudo dei del Carretto: manca però un tassello;
non è certo se spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e
misto impero. La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a
favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete
Campanella che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del ’Settecento e
l’avranno vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré
Caracciolo.
Nel processo d’investitura del successore di Giovanni,
Federico del Carretto, abbiamo dati alquanto biografici di questo barone di
Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:
dictus quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica
domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus
natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui
subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et
naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de
hoc fuit vox notoria et fama publica et ..
Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del
Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà l’erede nella baronia
Federico del Carretto.
Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non
lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo
troppo lungo (dalla presunta morte di Giovanni I attorno al 1420 alla data del
processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) genera
incertezze, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia
passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni
da parte di un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore
delle proprie fortune.
Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni
I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401
giungeva una lettera [43] da Catania
per la sistemazione delle pendenze fiscali.
Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria
relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis.
Questa la situazione del giovane barone di Racalmuto: v’era la successione della baronia da Matteo
al medesimo Giovanni I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute,
quella relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava
(1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once
d’oro. Il diploma che ha il sapore di una quietanza attesta che la posizione è
stata sistemata come segue: 30 once in
contanti e dieci a compensazione di un
mutuo a suo tempo approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.
Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543
Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue
sulla curva dei prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un
indebitamento sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del
patrimonio residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e della classe
feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie: Giovanni del
Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto, affidata in
curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene
però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.
Nella nuova opera, invece, “Un monde etc”, vi è qualcosa in
più: viene precisata la fonte.
Racalmuto viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La
sua baronia a pag: 417 e 872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag.
880. La parte narrativa non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In francese, recita: «La
baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des
fief vendus par la noblesse - oblige à un endettement toujours plus grave et à
une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers
l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration
des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi
dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son
gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.» E qui la nota che non
trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc.
2808, f. 54: le bon baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce
qui passe, aux yeux de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de
enteniment rahonable”». [Per ACA Canc.
s’intende: “Archivio de la Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria. Il fondo 2808
riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à
2880 (1416-1458) op. cit. pag. 29]. Sarebbe da rintracciare quel foglio 54
al fine di ben ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di
Racalmuto affidata a Gispert d’Isfar.
Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è
molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di
vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar,
l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per
sottrarre l’eredità e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti
tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc).
Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio
dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote della
figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola
volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del
Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari
rami cadetti.
Non possiamo revocare in dubbio che sia il figlio legittimo e
naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi
palermitani dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi
a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è indubitabile (come abbiamo
visto dai passi in latino sopra riferiti).
“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del
Carretto; non manca del requisito della primogenitura maschile come imposto dal
diritto feudale dell’epoca [44]. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo
sa - non ha dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:
«E morto Giovanni, successe Federico del
Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico
ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta
terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con
riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signor Re
Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come
risulta nel libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » [45]
Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere
determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i
traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenze della regina
Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben
42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto
s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di
Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste
condizioni:
n presti il
cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;
n renda
l’omaggio nelle forme solenni del tempo;
n restino salvi
i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;
n e del pari
restino riservate alla Corona le
miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;
n resti
salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli
equipaggiamenti regi.
Per il resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente
insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da
Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo
il contratto che lo vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno
scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo
Lomellino consegnabile a luglio E il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce
qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini moderni si
parlerebbe di forward in grano. La
domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il "Caricatore" di
Siculiana. Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di
Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850
Sempre il Bresc fornisce nella citata opera un'altra
interessante notizia. Secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag.
893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta antifeudale
estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un libro: «Luigi
Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».
GIOVANNI II DEL CARRETTO
La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi
dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi
d’investitura tacciono.
Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è
motivo per dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non
sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del
1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis
aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus
dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole
di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali siano quelle
gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e
noi non ne abbiamo nessuna ... memoria.
Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore [natus maior] e che avesse partorito il
successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte,
e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche
dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto [46].
Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli [47] che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni
di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi
trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando sia avvenuta quella vendita non sappiamo; il
rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti
anni si riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge
nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno
all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il contratto col quale il
procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro Del Campo la baronia di
Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini presso gli
Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et
investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non ci hanno
sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e
specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di
Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato
che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto di Racalmuto si sia bene ripresa
dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso
feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del
resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello
stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386) si
accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3
videlicet quinte Ind. 6 Ind. e 7 Ind. et pri unzi quattordichi quolibet anno
uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno
da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano
intentendosi quindici anni primi poi di Pasqua.» [48]
Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del
Carretto - la fa a ridosso degli anni
della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:
«E morto il
cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale,
come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai
l’investitura della detta terra.»
Abbiamo cercato di illustrare le fonti, spesso maldestre
quasi sempre paludate di piaggeria, sulle quali si fondano le storie sui Del
Carretto. Dopo, inquinamenti localistici, magari per esaltare la Madonna del
Monte, hanno cosparso brume ed ingenuità sui poveri del Carretto che sono
divenuti, da cornuti provati, infoiati sverginatori di sposine racalmutesi. Si
è detto che persino la sequela delle successioni è viziata nella forma e nella
sostanza. Come scheletro che in qualche modo traccia l’andamento di quella
prosapia trascriviamo ed additiamo in nota quello che con tanta pedanteria ha
scritto in proposito un araldista che talora suscta interesse anche tra i più
scaltriti stoci. Mi riferisco al San. Martino de Spucches. [49]
GLI EBREI A RACALMUTO
In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen
Durrea dava ordine all’algoziro (a metà tra il
capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore) Olivero
Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione
dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era
avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice
e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro
Raneri. Ma tanti
altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad
alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne
assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato.
Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato
ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.
Non sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore
religioso. Dovette, dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e
per l’inflessibilità nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si
desume dal fatto che sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa
come 150 pezzi d’oro - una enormità per
i tempi e le condizioni della Racalmuto di allora -
e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.
L’algoziro Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con
prudenza ed acume. Dovrà appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione
del giudeo. Complici e fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti
dal funzionario viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare
l’incarico recandosi di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta
scoprire se trattasi di moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente
tumulto popolare. Non va trascurata l’eventualità che addirittura si sia
consumata una vendetta collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto
va fatta una puntuale relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma
inflessibilmente, andranno carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti
nella città di Agrigento, per essere affidati alle
carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga. La
città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono
in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non
tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che gli ebrei sono servi della regia Camera e
quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli
ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa
privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento con le autorità locali agrigentine e quelle
racalmutesi.
E’ uno spaccato del vivere sociale locale che trascende
l’efferatezza del crimine e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio
Evo. Se tanta solerzia traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli
imperdonabili criminali, ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva
vivere e prosperare nell’assetto comunale racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi
in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel
quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo.
Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e,
pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad
appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è
accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere
locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La
corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.
RACALMUTO
NEL QUADRO STORICO DELLA SICILIA DEL ‘400
Poco abbiamo
sul feudo racalmutese durante il ‘400: qualche scisti documentale emerge dalle
carte dei del Carretto. Il truce episodio di antisemitismo, appena commentato, getta sinistra luce sull’intolleranza razziale
di Racalmuto a ridosso dalla tristemente nota cacciata degli ebrei dalla
evoluta Girgenti di fine secolo. Il medioevo si chiudeva a Racalmuto con
sinistri bagliori di morte, con misfatti e depredazioni letali che richiamano
il biblico Caino, sotto un’intermittente signoria carrettesca – non si sa bene
se diretta ed insediata al Cannone oppure dimorante nel bel palazzo di proprietà
a fronte della opulenta sede dei vescovi agrigentini.
Pochi tratti
della più generale vicenda storica possono illuminarci del contesto in cui
visse il contado racalmutese in quel torno di tempo.
Sino al 1412
i Martino – con quel tragico succedere del padre al giovane figlio morto in
guerra per un empito di personale orgoglio -
mantengono un sia pur scialbo barlume d’indipendenza della nazione
siciliana. Poi, nel 1413, la successione di Alfonso stronca ogni velleità
indipendentista - per unione personale
del regno di Sicilia con quello aragonese, si scrive. «Il ristagno della vita
morale – puntualizza con il suo solito acume il De Stefano [50]
- congiunto al mancato ricambio della
vita economica e sociale, aveva causato la corruzione politica. Baroni e città
non avevano acquistato la coscienza dello stato; la sovranità di esso si era
frantumata nell’anarchia baronale e nel municipalismo cittadino. La tendenza
anarchica del baronaggio fu aggravata dalla eterogeneità della sua costituzione
e dalle influenze esterne a cui era sensibile. Eccettuati pochi, e questi
stessi in rare occasioni, i feudatari rimasero sordi agli appelli dei sovrani e
passarono chi da una chi dall’altra parte dei pretendenti al trono siciliano.
Il vizio costituzionale del regno, la mancanza di equilibrio tra le forze
sociali e politiche, lo strapotere di un ceto, lo scarso sentimento del
pubblico bene in tutti avevano reso lo stato siciliano incapace di resistere
all’urto esterno. Il regno [..] di Sicilia non durò, e a stento, che centotrent’anni,
perché in esso più presto [rispetto a Napoli] giunse a maturità la crisi
interna e su di esso si fecero presto sentire gli influssi della mutata
situazione internazionale.»
La Sicilia
perde la sua indipendenza senza eroismi, senza azioni epiche, priva di ogni
furore, di ogni empito vuoi ribellistico vuoi di generosa dedizione. Il
parlamento del 1413 si limita a chiedere
che venisse in Sicilia l’aragonese o almeno un suo figlio. Non fu esaudito.
Venne persino disattesa l’istanza che almeno a siciliano fosse affidato il
governo.
Tralasciamo
qui le brighe del Cabrera. Limitiamoci a segnalare che nel 1415 venne il primo
viceré, l’infante Giovanni, duca di Peñafiel. Nel 1416 lo stesso parlamento
siciliano tentò di acclamare proprio il viceré, ma l’infante Giovanni
rifiutò.
Sotto
Alfonso il Magnanimo abbiamo un sottile gioco terminologico che può abbagliare,
ma la sostanza resta: scatta un sistema impositivo in favore di un dominatore
straniero che non s’incentra più sulla “colletta”, sibbene – più graziosamente
– sul “donativo”, con il che si voleva far credere che si trattasse di
erogazione volontaria per pubbliche finalità. Era comunque un’imposta
straordinaria che si aggiungeva al reticolo fiscale, specie a livello locale,
con l’aggiunta delle tante tasse religiose che curie vescovili e strutture
parrocchiali esigevano puntigliosamente.
Migliora
l’ordinamento giudiziario e di polizia, ma la condizione di pubblica sicurezza
non sempre poté fare l’auspicato salto di qualità. «Un complesso di cause - scrive sempre il De Stefano [51] - l’impedì: la concessione del mero e misto
impero, prima provvisoria e limitata ai grandi feudatari, con la riserva della
necessità, per il suo esercizio, dell’atto sovrano della concessione,
dell’appello dei vassalli alla Magna Curia e del rispetto della procedura; la
difesa vigile e gelosa del privilegio del foro locale da parte delle città
demaniali, non solo per le cause civili ma anche per le penali, e tanto per le
cause riguardanti sia i singoli cittadini sia il comune; […] la dilatazione del
foro militare a spese del civile; i conflitti di giurisdizione, gli abusi di
autorità, l’influsso di parentele che legavano i funzionari ai “gentiluomini” e
ai principali cittadini; e, infine, il privilegio baronale dell’«affidare», per
cui “delinquentes, malfactores, omicidas et debitores et bannitos et alios” si
rifugiavano in “locki de baruni et da loru non si po fari ne haviri justicia”.»
Con fermezza
Alfonso contrastò i casi di eterodossia: resta memorabile la decisione regia
nel conculcare l’eresia che un minorita, nel 1434, andava diffondendo nel
trapanese. Fu arrestato il minorita visto che propalava «multa enormia
concernentia contra catholicam fidem.»
Alfonso
(1416-1458) ebbe il dominio della Sicilia per lungo tempo, per quarantadue
anni: morto il re, il successore, nel 1460, per decisione sovrana annunciata
alle Cortes, volle che l’Isola entrasse formalmente a far parte della monarchia
spagnola. Con nobiltà d’intenti, ma con palese faziosità, il De Stefano [52]
crede che la Sicilia vi entrò «forte della sua coscienza autonomistica, con
un’anima e un pensiero suoi propri saldamente confermati che i secoli di quella
appartenenza nulla tolsero o poco modificarono del suo patrimonio spirituale.
La cultura giuridica e l’erudizione storica la tennero salda nelle sue
istituzioni particolari; quella umanistica conservò tenaci i suoi spirituali
con la grande nazione italiana.»
Giovanni
d’Aragona (1458-1479) resse una Sicilia ove sommosse popolari causate da
carestie e odi baronali (come il famoso caso di Sciacca del 1459), nonché
l’efferata uccisione della baronessa di Militello, donna Aldonza Santapau,
sgozzata nel 1475 dal marito Antonio Barresi, contrassegnarono quei ventuno
anni di regno aragonese.
Nel 1475 fu
creato un organo speciale, detto deputazione del regno, per l’esecuzione delle
decisioni parlamentari. Solo che il potere del parlamento andò sempre più
decadendo e i rappresentanti dei tre bracci (militare o baronale, ecclesiastico
e demaniale) disertavano le adunanze e si facevano spesso rappresentare dai
loro delegati.
Succede a
Giovanni d’Aragona Ferdinando il Cattolico (1479-1516) che sposa Isabella di
Castiglia e riuscì ad unificare la Spagna. Di notevole personalità furono i
viceré che inviò in Sicilia come Gaspare De Spes (1479-1488), Ferdinando De
Acugna (1489-1494) e Ugo Moncada (1509-1516).
Il
Sant’Uffizio venne introdotto in Sicilia sotto il vicereame di Gaspare De Spes,
nel 1487, per iniziativa del frate Antonio della Pegna. Al tempo del viceré
Ferdinando De Acugna, con l’editto del 31 marzo 1492, si ha l’espulsione degli ebrei dalla Sicilia, con danni gravi
per l’economia e la cultura.
In tale contesto,
Racalmuto fa raramente capolino, come si è detto. La sua vicenda storica, in
questa congiuntura, si fonde e finisce per coincidere con quella tutta baronale
dei Del Carretto. Almeno per la prima metà del secolo, occorre mutuare le
ricerche di Henri Bresc[53] per
capire che cosa ha significato il regime aragonese e come questo si sia
riflesso sul baronaggio (e di conseguenza su Racalmuto).
Con lo storico
francese dobbiamo convenire che gli anni
1390-1416 introdussero nella storia del feudalesimo una rottura evidente: le
grandi signorie sono domate e solo due conti, Ventimiglia e Centelle di
Collesano e Cabrera di Modica tennero testa alla monarchia. Il sogno feudale
finisce: non si ha notizia, dopo il 1400, che di rare donazioni che i signori
della terra fanno
ai loro fedeli. [54] Il sistema feudale si semplifica;
una sorveglianza efficace e puntigliosa sanziona ormai ogni infrazione della
legge sul feudo, affidata ad una burocrazia largamente in mano agli spagnoli.
La medesima disciplina regola i rapporti fra l’aristocrazia feudale, città
demaniali e chiesa; la Monarchia controlla l’espansione dei patrimoni
nobiliari; essa permette o proibisce a seconda dei sui interessi strategici e, in ogni caso, fa
pagare cara ogni sua elargizione. Essa vigila sulle combinazioni dei matrimoni
eccellenti. [55] La nobiltà feudale, largamente
rinnovata, e fortemente contrassegnata dall’elemento catalano ad opera dei
Martino, deve fronteggiare l’avversa congiuntura che caratterizzò la fine del
XIV secolo: una rendita decrescente che non compensa più le usurpazioni facili
delle rendite del Patrimonio reale, ora
difese da un’amministrazione castigliana strettamente legata alla casa
d’Oltremare ed un indebitamento cronico in crescita insopportabile a causa
degli sperperi per doti insufflate. Nel servizio reale la concorrenza dei
giuristi e dei tecnici dell’amministrazione limita i profitti ed i posti
prestigiosi riservati all’aristocrazia regnicola. Essa difenderà duramente i
suoi privilegi e lotterà qualche volta ad armi eguali, fornendo a sua volta
chierici e letterati – conforme al modello ispanico. [56]
Questi ostacoli, la rivalità di una
giovane nobiltà burocratica, l’impoverimento dei baroni, l’emergere di una
classe di notabili della piccola borghesia comunale, determinano un
ripiegamento sui valori sicuri, sulla terra e sul potere signorile.
Una buona gestione patrimoniale, il
consenso generale della pubblica opinione e della monarchia che vedono nella
classe feudale l’asse insostituibile della società e dello Stato, la ripresa
economica dopo una pausa di più di 50 anni,[57]
permettono al feudalesimo siciliano di superare senza troppo danno il punto di
svolta dell’avversa congiuntura. Il prestigio è salvo – e questo è
l’essenziale; la ripresa delle rendite, cui seguono subito la crescita
demografica ed il grande movimento commerciale. All’inizio in modo incerto e
dopo con regolarità si risolve, a ridosso del 1450, la precaria situazione
economica della nobiltà fondiaria e del clero. I primi indici di questo
raddrizzamento si percepiscono nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento delle
rendite dell’erbaggio è sensibile dal 1420. Poi s’estende ai feudi
dell’interno. [58] Nel 1513, Giovan Luca
Barberi farà una descrizione dettagliata d’una Sicilia feudale che ha ritrovato
e superato largamente le rendite descritte nel Rollo del 1336: in media, per 36
feudi non abitati nelle due fonti che riportano la rendita – sulla quale poggia l’imposta
feudale -, l’aumento sarà del 113% : esso si alzerà al 190% nel Val Demone e al
193,8% in Val di Noto; infine esso sarà minore in Val di Mazara, dove il
campione comprende senza dubbio dei feudi minori e smembrati nel corso di
questi due secoli. Una cosa è sicura: le modifiche della geografia feudale
sono, in effetti, numerose.
L’interesse dell’aristocrazia feudale e delle famiglie
della nobiltà urbana alle rendite terriere non spiega solo la corsa ai “latifondi” che riesplode, dopo la fase di
stanca avutasi tra il 1350 ed il 1390, quando solo una dozzina di donazioni di
feudi ai monasteri aveva avuto corso, e ritorna l’antico costume della
rifeudalizzazione dei beni ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari
e nobili di estrazione modesta e con titolo recente rivaleggiano per ottenere
una investitura di beni ecclesiastici o l’assegnazione di un baglio. Essi
spogliano puntualmente vescovadi e monasteri delle relative rendite e si
adoperano per la risoluzioni di antichi contratti.[59] Ora hanno maggior fiducia in loro stessi ed
estendono la loro supremazia incrementando il possesso delle terre, rafforzando
a proprio beneficio i vincoli fondiari ed accrescendo il peso dello stato
feudale terriero.
Del pari, dopo una dura battaglia
contro i loro vassalli, i baroni titolari di “terre” abitate assicurano una
amministrazione efficace dei loro diritti sugli uomini. Usciti generalmente
vittoriosi da questi conflitti, la classe baronale estende il potere feudale su
numerose “università” demaniali: gabelle, diritti di giustizia, bannalità,
tutto un patrimonio strappato alla corte reale, in cambio di finanziamenti
della lunga e costosa impresa napoletana. Un obiettivo viene sempre più
perseguito: quello di ripopolare le “terre”. Ora, i baroni, dopo la parentesi
della catastrofe demografica, ritornano alla loro tradizione volta alla difesa
dell’abitato rurale; ottengono, così, un migliore sfruttamento della terra, un
incremento della rendita di quanto dato in gabella, una più redditizia gestione
della giustizia; e l’aumentato peso politico vale bene il sacrificio di qualche
salma di terra, per giardini o per le infrastrutture sociali occorrenti ai
nuovi abitanti.
Questa nobiltà che
accetta la pace col re, non rinuncia né al prestigio della cavalleria né al
dominio violento. Se, nella mischia feudale, le grandi famiglie cozzano fra
loro, la nobiltà terriera tiene comunque al suo stile di vita, alla sua
autorità, ai propri vassalli, altera del suo rango. Ma non si lascia andare
alle “serrate”: questa aristocrazia resta aperta all’ascesa dei nobili
municipali e dei mercanti-banchieri. Piuttosto: autorità, distinzione,
prestigio attirano, affascinano. E il rinnovamento delle famiglie permette la
mobilità del capitale feudale e, spesso, disinnesca gli scontri frontali tra le
oligarchie municipali e l’aristocrazia fondiaria.
Le suesposte considerazioni del Bresc trovano, invero, riscontro nelle
vicende racalmutesi per quanto ha tratto con il consolidarsi, esplicitarsi ed
evolversi della signoria baronale quattrocentesca dei del Carretto. E di ciò abbiamo già detto a sufficienza..
[1] ) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e
documenti - Palermo 1891, pag. 14.
[2] ) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[3] ) DIZIONARIO
COROGRAFICO DELL'ITALIA a cura
del prof. Amato AMATI - Milano
(Vallardi) - (1869) - vol. VI pagg. 712-713.
[4] ) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Atec - Canicattì - Giugno 1969. pag. 77.
[5] ) Jean Glénisson: les origines de la revolte de l’état pontifical en 1375, in Rivista
di Storia della Chiesa in Italia, Anno V
. n. 2 1951, pag. 147 e segg.
[6] ) L. von Ranke - Storia dei Papi - Sansoni Firenze 1965, vol. I pag. 34.
[7] ) I. Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
[8] ) J. Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla
collettoria di Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in
Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[9] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese
- U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 107.
[10]) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese
- U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[11] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese
- U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[12] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese -
U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121. Continua il D’Alessandro:
«ascoltati gli emissari, i quali “latius narraverunt”, il duca rispondeva che
“super praedictis providebimus et providere curamus taliter quod gratias et
alia quae per dictos nuncios a nobis postulata fuerunt celerem sortientur
effectum et proinde vos, et alii nostri servitores, dante Deo, merito
contentari.»
[13] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag.
115.
[14] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag.
116.
[15]) Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto
- Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[16]) Leonardo Sciascia, Morte dell'inquisitore - Bari 1982, pag. 182.
[17])
Anche se non disponiamo dell'atto di nascita, siamo quasi certi che Girolamo,
ultimo di tal nome dei Del Carretto, sia nato nel 1648. Lo desumiamo da un
documento della Gancia (Anno 1651 vol.
609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.) che vuole: «Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto,
cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del Conte; figli don
Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido
Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di
Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000; inoltre rende
ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382
e tt. 5 per il principato di Butera quale che tiene il capitale di onze
5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di
Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del
Carretto onze 500 per tanto prestatoci.» La moglie di Girolamo, Melchiorra
Lanza di Trabia, era più vecchia di quasi 18 anni. E ciò se crediamo all'atto
di morte che si custodisce presso la Matrice di Racalmuto (libro dei morti
1694-1707), ove si annota: Die 10 Aprilis
1701 ind.nis 9^ Ecc.ma Domina D. Melchiora Lanza uxor ecc.mi
Principis comitis Racalmuti Hieronimi del Carretto annorum 70 circiter, in
communione s. matris eccl.ae, in sua
propria domo h.t. Racalmuti, animam Deo reddidit. Cuius corpus sepultum in
Ecclesia sanctae Mariae de Jesu in venerabili Cap.a Sanctissimi Rosarii huius
terrae Racalmuti et praesidio omnium
sacramentorum munita, et roborata, per me D. Fabritium Signorino Archipraesb.
huius matricis Eccl.ae terrae praedictae.
[18])
Ampia è l'esenzione fiscale dell'ultimo barone come può vedersi da questa
disposizione del testamento del 1560:
Item dictus dominus testator voluit et mandavit, ac retulit et refert
spectabili domino D. Hieronymo de Carrecto eius filio et successori in dicta
Baronia et pheudis, quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae
Terrae Racalmuti sint et esse debeant immunes, liberi et exempti ab omnibus et
singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili domino eius
successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum et olei, et
hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et
mandavit.
[19]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[20])
F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia
Nobile - PARTE II. libro I - DELLA
SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA]
[21]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[22]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 181.
[23]) Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori
- a cura di Giovanna Stalteri Ragusa - Università degli Studi di Palermo -
Facoltà di Giurisprudenza - Dipartimento di Storia del Diritto - Palermo 1989,
pag. 445 (f. del ms. 528v).
[24])
Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - op. cit. -
pag. 526 e segg.
[25])
G.L. Barberi aveva conseguito la nomina a Maestro Notaro della Cancelleria nel
1491. Gli viene quindi affidato il compito di svolgere le inquisitiones che gli serviranno per la compilazione dei
Capibrevia.
Le sue indagini sono svolte
prevalentemente sui registri della Cancelleria. Scrive G. Stalteri Ragusa: «E
dai polverosi archivi vengono fuori i personaggi di due secoli di storia
siciliana, dei quali il Barberi non manca di interpretare i caratteri.... La morte di Ferdinando nel 1516 - soggiunge
l'A. (pag. 14) - poneva fine alle
preoccupazioni di feudatari, ecclesiastici e ufficiali del Regno, che sentivano
il loro potere insidiato dal Maestro Notaro: la sua opera alla quale, pure,
andava facendo piccole aggiunte annotandoci le ulteriori successioni nei feudi
o nei benefici ecclesiastici, non pare avere sortito l'effetto che Ferdinando
aveva sperato nel suo disegno.
Ferdinando, in effetti,
aveva affidato quelle ricerche d'archivio ad una persona di sua fiducia qual
era il Barberi per avere materiale di scambio - ed anche di ricatto - per
ricostituire il patrimonio della Corona.» Il terribile e puntiglioso Inquisitore
non è certo tenero verso i nobili, specie con le sue allegationes.
Quella che stila contro i
Del Carretto poteva, invero, procurargli una scopettonata. Si vede che a quel tempo i baroni di Racalmuto non
avevano raggiunto l'alterigia del secondo conte, quel Giovanni del Carretto IV,
mandante nell'omicidio di La Cannita.
[26]) Francesco San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari
di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1925). Lavoro compilato su
documenti ed atti ufficiali e legali. - Volume sesto, Palermo 1929 - quadro
783 - Conte di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[27]) Vincenzo di Giovanni, Palermo restaurato. Citiamo dalla
edizione di Sellerio editore Palermo - 1989 - pag. 191. Evidentemente questa
parte del manoscritto che viene datato 1627 era stata scritta prima del maggio
1622, epoca della morte (o omicidio) di Girolamo II Del Carretto.
[28]) Archivio
Segreto Vaticano - SACRA
CONGREGAZIONE VESCOVI E REGOLARI -
Anno 1599 - pos. C-L
[29]) D.
Francisci Baronii ac Manfredis - De Majestate Panormitana libri IV - Panormi
apud Alphonsum de Isola - MDCXXX - [Biblioteca Nazionale V.E. - Roma -
7.4.L.31.
[30]) Filadelfio Mugnos, Teatro genealogico delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed
antiche del fedelissimo regno di Sicilia, viventi ed estinte, 3 volumi,
Palermo 1647, 1655; Messina 1670. [Dalla ristampa anastatica di Arnoldo Forni
editore, pagg. 237-240 del Libro I].
[31]) D. Agostino Inveges - Palermo antico - Palermo 1649 e D.
Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da Sciacca - Anno 1660. - La Cartagine Siciliana, historia in due
libri, pubblicata in Palermo, nella typograph. di Giuseppi Bisagni. 1661.
[32]) Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e del commercio nel medio evo -
Girgenti porto del sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo, Studi in onore di A. Fanfani, I -
Giuffrè Editore Milano 1962, pag. 607.
[33]) Diario della città di Palermo dai mss.
di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - in Diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di
Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag. 136.
[34]) Varie cose notabili occorse in Palermo ed in
Sicilia, copiate da un libro scritto da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI
al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag.
283.
[35]) Aggiunte al diario di Filippo Paruta e di
Nicolò Palmerino, da un manoscritto miscellanio segn. Qq C 28 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI
al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e
ss.
[36]) Diario delle cose occorse nella città di
Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto
dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della Biblioteca
Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq A 6,
7 e 8, in
Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di
Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
[37] )
Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die
primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio
Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO -
PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni
1399-1401]
[38] )
ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[39] )
Noi utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[40] )
Rosario Gregorio fu storico e paleografo di grandi meriti: non si riesce a
capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute
nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico,
caso personale a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da
uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla guancia sinistra, i
capelli radi che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e
fermi; e una freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto
reciso delle mani spesse e corte.
Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano
tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[41] ) Remictimus et gratiose relaxamus Matteo
preditto omnem penam, culpam et offensam, dolum, delictum, fraudem, malitiam et
omnem crimen et spetialiter crimen lese maiestatis in omnibus suis capitulis,
depradationes, dampna homicidia et robberias et omnem culpe causam que prefatus
Mattheus commiserit hactenus et perpetraverit, quesiverit et ordinaverit motu
proprio vel alieno, tam contra personas quam contra statum nostrarum
maiestatum, nec non contra consiliarios nostros atque fideles et vassallos
atque extraneos et loca fidelia serenitatis nostre, parcentes et indulgentes
ipsi Mattheo eius uxori et filijs, familiaribus et domesticis suis ac
restituentes eosdem ad statum pristinum et honores et famam integram tam quo ad
personam quam etiam ad baronias et omnia bona feudalia et burgensatica ubique
existentia mobilia et immobilia, et specialiter ad terras et castra
predictorum Rachalmuti et ad jura et actiones sibi hactenus competentes et ad
bona omnia quocumque nomine censeantur, que omnia etiam si opus est de novo
conferimus, concedimus et donamus prefato Mattheo et suis heredibus in
perpetuum, eo modo et sub illis oneribus et servitijs quibus ea tenebat et
possidebat ante perpetrationem criminis supraditti; donationibus,
concessionibus et alienactionibus
quibuscumque de bonis ipsis aut
alterius ipsorum alicui per nostras serenitates factas quas de certa nostra
scientia plena concientia et absoluta potestate pro bono pacis et beneficio publico revocamus, irritamus et
penitus anullamus, obsistentibus nullo modo posito etiam quod in prefatis
nostris concessionibus sit adietta clausula remissionis fatta et fienda non
obstante, vel eciam si in illis nostris concessionibus diceretur quod quecumque
remissio non preiudicet illis nisi in ea
ponantur forma dittarum concessionum de verbo ad verbum vel forte alia formula
verborum sub quacumque conceptione
verborum sit in illis [3] apposita, quibus clausulis derogamus expresse de conscientia nostra et plenitudine
potestatis regie annullamus etiam et irritamus omnes sententias, editta de
certa etiam iuditia contra ipsum
Mattheum edita, lata et promulgata per magnam regiam curiam de crimine lese
maiestatis ac si contra eumdem numquam prolata fuisset.
[42] )
Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia -
Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[43] )
ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - - REAL
CANCELLERIA - BUSTA N. 39 - (Anni 1401-1402) pag. 232 recto.
[44] )
Invero nella conferma della baronia del 1453, il maggiorascato sembra certo se
crediamo al seguente passo di un documento facente parte del fondo Palagonia:
« Quo Joanne mortuo, dictus
Fridericus tamquam eius filius legitimus et naturalis, ac mayor natu de eius
patre in dicto Casali, et bonis aliter feudalibus successerit, et succedere
voluerit, et vult, et ab eo tunc tenuerit,
et possiderit, et de praesenti tenet, et possidet fructus, redditus, et
proventus percipiendo et percepi faciendo,
[viene posta istanza] ut dignaremur dicto Friderico, et suis heredibus, et
successoribus dictum Casalem, et alia bona feudalia quae dictum eius praesente
posessa confirmare, eiusque supplicationi benignius inclinati nec non
considerantes servitia tam praedecessores eiusque Friderici serv. Dominis Petro
principibus divae recordationis quam
quod ipsum Fridericum Domino Regi praestita, queque prestat ad praesens,
et in antea speramus volente Domino meliora Et quia nobis de possessione,
filiatione, successione et morte, ac mayornatu praedictis constitit quod testes
numero competenti super hoc seré productos eidem Friderico et suis heredibus,
et successoribus cum debito tamen consueto militari servitio, .. videlicet
unciae viginti pro qualibet equo armato juxta usum et consuetudinem dicti Regni
secundum annuos redditus et proventus/ quod servitium dicto Friderico in vim
praesentia constitutus se et heredes, et successores suos curiae dicti Regni
Siciliae sponte obtulit praestiturum
Praestans pro inde fidelitatis debitum juramentum faciensque homagium
manibus, et ore comendata juxta sacrarum constitutionum dicti Regni Siciliae
continentiam, et tenorem Casale praedictum Racalmuti, et alia bona feudalia
superius expressata juxta formam praeinserti privilegij confirmamus, itaque
ipse Fridericus et heres sui Casale, et
feuda praedicta in capite à Regia Curia teneant, et cognoscant, et ipse Curiae
et Militari servitio teneantur Vivantque jure francorum, videlicet quod mayor
natu minoribus fratribus, et coheredibus suis, ac masculus foemenis
praeferatur, temptis tamen et reservatis, que à praesente confirmatione omnino
exstendimus juribus lignaminum seque sint in pertinentijs dictorum casalis et
feudorum, que Curie debentur, nec non minerijs, salinis, solatis forestis, et
defensis antiquis, que sunt de regio Demanio, et dominio et ... ... ex antiquo
ispsi demanio spectantia eisdem Demanio, et dominio volumus reservari, si vero
in pertinentijs dictorum casalis, et feudorum
sint aliqui barones, et feudatarij, qui pro baronis et feudis eorum
servire in capite Regiae Curiae teneantur eidem Curiae serviant, et tenentur,
quodque illi quibus in pertinentijs dictorum Casalis et feudorum habent aliqua
jura possessionis et bona que Petro regis divi recordij aut dominum Regem
concessa fuerint in dicta pertinentia dictorum casalis et feudorum, vel aliquis
ipsorum pretenderent usque ad mare jus, dominium, et proprietas, locis
littoris, et maritime pertinentiarum ipsarum in quantum à mari intra terram per
factum ipse pertinentia praetendaretur, tamquam ex antiquo ad regiam dignitatem
spectantiam eisdem demanio, et dominio volumus reservari, et quod ad ea omnia,
et singula occasione praesentis confirmationis ipse Fridericus, et heredes sui
non extendant aliquatenus manus suas, et quod animalia omnia et equitature
arariarum, massariarum, et marescallarum regiarum in pertinentijs dictorum
casalis et feudorum libere sumere valeant pascum, et quod ipse Fridericus, et
heredes et successores sui sint .. Regni
Siciliae et sub regia fidelitate, et dominio habitent, et morentur d. domini
nostri Regis heredum et successorum suorum, nec non constitutionibus, et
capitulis serenissimi Domini [12] Regis
.., olim Aragonum, et Siciliae Regis, dum eidem Regno prefuit editis,
aliorumque Retroregum, et domini nostri Regis ... militari servitio, juribus
Curiae, et cuiuslibet alterius semper salvis in cuius rej testimonium paresens
privilegium fieri jussimus Regio magno Sigillo impendenti munitum.»
(Datum in Urbe Felici Panormi: Die XI mensis februarij V^ ind. 1453.
Simon Archiepiscopus Panormitanus Dominus Praesidens mandavit mihi Gerardo
Alliata Procuratori et vidit illud Joannes Chominus Adnotatus Fisci.
Ex Cancelleria Regni Siciliae extratta est.- Coll. Salva. Franciscus
Grassus Panormitanus Not.)
[45]) vedi
anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE
N. 1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[46] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Libro
dei Vescovi 1512-20 - f. 284v 285r
Documento datato 17 maggio 1512 -
XV^ Ind., riguardante la consegna di cedole della Curia Vescovile ai sindaci di
Racalmuto Vito de Grachio, Francesco de Bona, Jacobo de Mulé, Philippo Fanara,
Salvatore Casuchia, Grabiele La Licata, Orlando de Messana, presbitero Franesco
La Licata e Stephano de Santa Lucia, a seguito di istanze avanzate alla Gran
Regia Curia. L'incarico promana dal
Vicario Generale Luca Amantea ed è rivolto al Vicario di Racalmuto. Emerge
l'interessamento del magnifico chierico
Paolo del Carretto. Di risalto il rito della consegna delle singole copie degli
atti vescovili ai sindaci racalmutesi.
[47] ) Giuseppe Sorge - Mussomeli, dall’origine all’abolizione della feudalità, edizioni
ristampe siciliane Palermo 1982 - vol I - pag. 386 e segg.
[48] ) Il
conto venne presentato in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentatus Pan. 18: Maij
1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[49])
Anche se friabile in tanti punti come abbiamo cercato di dimostrare, non
possiamo mandare del rutto al macero la ormai datata ricostruzione del San
Martino de Spucches nel quadro 783 del vol. VI (Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La
storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri
giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol VI). La rievochiamo qui in nota per il
valore che può ancora avere: molto poco, ma pur sempre allettante per certi
tradizionalisti nostri compaesani che ben conosciamo.
«1. - Federico CHIARAMONTE, figlio
terzogenito di Federico e Marchisia PREFOLIO,
ebbe Racalmuto da FEDERICO di Aragona; lo affermano concordi
tutti gli storici. Sposò questi certa Giovanna di cui si sconosce il casato.
Egli morì in Girgenti;
il suo testamento porta la data 27 dicembre 1311, X Indiz., fu pubblicato da
notar Pietro PATTI di Girgenti il 22 Gennaro 1313, II Indizione. [XI IND.]
2. - Costanza CHIARAMONTE, come figlia unica di Federico suddetto,
successe in tutti i suoi beni come erede universale del padre. In conseguenza
ebbe il possesso di RACALMUTO. Sposò questa in prime nozze,
Antonino del CARRETTO, M.se di Savona
e del Finari (Dotali in Notar Bonsignore de Terrana di Tommaso da Girgenti li 11 settembre 1307). Sposò in seconde nozze Brancaleone Doria, genovese, col quale
ebbe molti figli. Questo risulta possessore di RACALMUTO, (MUSCA, Sic. Nob. pag. 20). Costanza morì in Girgenti
... Il testamento di lei è agli atti di Notar Giorlando Di Domenico di
Girgenti, sotto la data 28 marzo 1350, V Indiz.; fu transuntato in Catania,
agli atti di Notar Filippo Santa Sofia li 24 novembre 1361 (INVEGES, Cartagine
Siciliana, f. 228-229).
3. - Antonio del CARRETTO
successe nella signoria di RACALMUTO, come donatario della madre,
per atto in Notar RUGGERO d'ANSELMO da
FINARI li 30 agosto 1344, XII Indizione. Sposò questi certa SALVASIA
di cui si sconosce il casato. Nacquero da lui GERARDO e MATTEO. Il
primo se ne tornò a Genova dopo aver servito Re MARTINO contro i ribelli;
i beni di Sicilia li cesse al fratello.
4. - Matteo del CARRETTO suddetto fu
investito della Baronia di RACALMUTO in Palermo, a 4 Giugno, IV
Indizione 1392. (R. Cancelleria,
libro dell'anno 1391, f. 71) [L'indizione è del tutto errata. Il 1392 cadeva
nella XV Indizione. Occorrerebbe cercare meglio di quanto abbiamo fatto noi
nella R. Cancelleria il citato documento che a dir poco è segnalato in modo
impreciso]. .»
[50] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo,
UL Bari, 1977, p. 68.
[51] ) ibidem,
p. 73.
[52] ) ibidem,
p. 83.
[53] ) Henri
Bresc, Un monde méditerranéen.
Économie et société en Sicile – 1300-1450. – Palermo 1986 p. 865 e ss.
[54] ) Nel 1455 quella del
feudo Paterna da Gilberto La Grua Talamanca a suo fratello Guglielmo (ASP
Cancelleria 104, f.179; 21.6.1455) che è stata approvata dal re, e, verso il
1459, quella del feudo Taya ad Angelo
Imbriagua fatta dal conte di Caltabellotta (Barberi, 3,407).
[55] )
Oltre le autorizzazioni richieste dal diritto feudale (per i matrimoni
dell’erede unico del feudo), Alfonso, dal 1419 al 1454, accorda a pagamento
permessi nuziali: 100 onze promette al re Giovanni Torrella per la mano della
figlia di Giovanni De Caro, di Trapani, il 10.5.1443; ACA, Canc. 2843, f. 131 vo).
Quanto ai matrimoni sollecitati, su 50 candidati, 32 sono catalani, 5 napoletani,
e solamente 12 siciliani (più un rabbino siciliano); quasi tutti sono nobili, o
per lo meno in carriera militare o sono addetti alla corte. Le giovani date in
isposa sono 28 (di cui 15 nobili), ma le vedove sono 16 (di cui 9 nobili, e 6
ricche vedove di patrizi). Lettere contraddittorie sono inviate, qualche volta
successivamente, qualche volta lo stesso giorno, in favore di diversi
concorrenti: il 13.9.1451, il re approva contemporaneamente il matrimonio di
Disiata, vedova del marchese Giovanni Scorna, con Roberto Abbatellis, Placido
Gaetano, Galeazzo Caracciolo e Giovanni Peris di Amantea; ACA Canc. 2868, f. 55
vo - 56 vo.
[56] ) I
dottori in legge provengono già di sovente, nel XIV secolo, da cavalieri
urbanizzati (Senatore di Mayda, Orlando di Graffeo, Manfredo di Milite); il
movimento continua nel XV secolo, a Messina (Matteo di Bonifacio, Antonio
Abrignali, Gregorio e Paolo di Bufalo), a Catania (Antonio del Castello,
Gualterio e Benedetto Paternò, Goffredo e Giovanni Rizari, Francesco Aricio), a
Sciacca (Iacopo Perollo) e a Palermo (Nicola e Simone Bologna, Enrico Crispo).
La nobiltà baronale rimane estranea agli studi universitari.
[57] )
Molte famiglie aristocratiche sicule-aragonesi tentano una sistemazione in
Terraferma: i Centelles-Ventimiglia a Crotone, per un’alleanza matrimoniale con
il marchese Russo, I Cardona di Collesano a Reggio, i Siscar ad Aiello. La
conquista del regno napoletano ha così permesso di ridurre in Sicilia la
concorrenza, all’inizio molto forte, tra l’aristocrazia immigrata e le vecchie
famiglie; cf. E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo, re di Napoli
(1435-1458). Napoli, 1975, p. 87.
[58] )
Nel 1446 la locazione del feudo Giracello, a Piazza, passa da 22 onze a 27; ASP
ND N. Aprea 826, 17.12.1446, Notiamo che, nel 1431, l’affitto non era che di 17
once: 58% d’aumento in 5 anni.
[59] )
Così per ottenere dall’arcivescovo di Palermo l’enfiteusi perpetua di Brucato,
i fratelli Rigio banchieri ed imprenditori, offrono, nel 1465, un po’ di più
del canone abituale (70 once e 140 salme di grano, in luogo di 40 once e di 150
salme): incassarono così la differenza tra la rendita in aumento ed il canone
bloccato. ASP, Archivio Notarbartolo 227, f. 40 sq.
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