Racalmuto e
le sue vicende storiche
di Calogero
Taverna
Una nota a
mo’ di premessa
Questa vuol essere una storia veridica su Racalmuto, una
storia che presuppone ma non esplicita l’enorme quantità di documenti
consultati presso i vari archivi di Roma, Palermo Agrigento e Racalmuto, per
non parlare della marea di letture più o meno storiche che attengono a questo
paese dell’agrigentino. Il risultato è stravolgente di ciò che agli occhi di
scrive sa ormai di stucchevole mistificazione, di aporie letterarie, di voglie
che traducono il desiderio di eventi memorabili in indubitabili realtà storiche. Abbiamo così
miti di monaci dal “tenace concetto”, di preti in decrepita età presi da
“alumbramiento” erotico, di frati omicidi, di fantasiosi eroi saraceni, di allocazione
delle misere casupole racalmutesi in presunte località amene, di frati omicidi,
di contesse in foia erotica, di pittori sublimi e di medici d’alta scienza e
via discorrendo.
A proposito dei Del Carretto, abbiamo già scritto e qui
ripetiamo:
Forse risponde
al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a
circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da costei sposare - lui
vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di
Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIII. Forse
davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto
Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la
pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato in un libro
secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e
mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico
Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri
esordi della signoria dei Del Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo
è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi risalire al
1400 - che solo negli anni ’novanta di questo secolo chi scrive ha avuto il
destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di Palermo per un’ostica ma
illuminante lettura.
Ma in quell’investitura, scopo, intento,
occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito
la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta
particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel
vantare ascendenze altisonanti: difficile credere a quanto vi si afferma nei
confronti di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto; traluce invece
una realtà ove si scorge la rapacità di codesti esattori delle imposte dei
Martino, quei Martino che risultano più che altro gli avventurieri dell’ “avara
povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII
secolo.
A noi -
racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via
discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella
oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso
Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto
maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Noi abbiamo
speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la
documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed
originale - la documentazione dei processi d’investitura - venne riprodotta in
un CD-ROM interattivo cui si rinvia. Carta canta e villan dorme: non si può
fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del
Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un
inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxororicidi
a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con
i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in
“alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove
innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e
Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo
sciasciano.
Un quadro - ora
inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso
- affiora con tasselli variamente policromi a testomoniare una vita a Racalmuto
sotto il dominio, consueto per l’epoca, dei baroni del Carretto: costoro verso
la fine del Cinquecento - dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero
spesso illuminata) - hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più
prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto; mancano però l’obiettivo e
non riescono a farsi riconoscere il titolo di marchese che fasullamente in
esordio della loro signoria su Racalmuto avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio
Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un
nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del
Carretto, la documentazione che abbiamo pubblicato ne spazza via ogni briciola
di attendibilità. E quel che si scrive
su data e struttura del castello chiaramontano svanisce miseramente, come
diviene commiserevole ogni sicumera sulle origini storiche del Castelluccio.
Ma ora uno
sguardo ai tempi remoti.
Gli stravolgimenti geologici
Sette milioni di
anni fa – qualche secolo in più, qualche secolo in meno – terminava il lungo
processo di prosciugamento marino del territorio racalmutese: abbattuto
l’ultimo ostacolo nei pressi di Cozzo Tondo, le acque defluirono anche da quel
versante verso Passo Fonduto, e di là, lungo il Platani, verso il mare. Da
Castelluccio erano scivolati scisti di pietra dura, che scivolando verso il
fiumiciattolo della Ciarla, appariranno agli autoctoni dell’epoca sicana
provvidenziali macigni per le loro tombe, a mezzo tra la tecnica del “forno” e
quella del “Tholos”. Alla luce dell’attuale scienza geologica – destinata a
venire travolta dalle tecnologie dell’incombente futuro – siamo in tempi
pliocenici.
Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto
raggiunse, dunque, l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era
terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo,
visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni.
Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale
l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([1]). Ed
anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di
milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno
formativo dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche, e
cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad
abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un
isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una
sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la
regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre
marine.
Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e
quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan ([2]) Racalmuto
si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo
intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno
Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati
fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano)
hanno di recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano,
avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina
di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente i terreni che compaiono
nella zona studiata, vengono – secondo il Romano ([3]) - raggruppati
come segue:
1) complesso
argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2) formazione
Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie
Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e
Messinese.
4) una
formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e
calcari marnosi (Trubi).
Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo
alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali
racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti
del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate
[sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per
protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura
uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo» ([4]). Secondo
tale affascinante teoria, le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di
Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche
verso sa di beffarda premonizione e di malefica iella.
Preistoria racalmutese
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben
vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni, tracce
del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito
stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per
oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C.,
mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come
attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi
micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la
civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze
che superassero l’onta del tempo).
Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel
territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie
umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e
culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze
scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di
Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il
primitivo homo sapiens sapiens dei
dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di
consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina
di Tucidide, sicani. Due
testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra
Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il
Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci
chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi:
uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone
e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo
Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
L’insediamento di Fra Diego è quello che persino nelle cartoline
illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi
ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante
segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a
forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari
dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e
forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati
pare nutrissero. ([5])
Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra
Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo,
all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età
romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso
fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il
sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si
effigiano uomini e dei ([6]). Ancora
nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni.
Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già
conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano
statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai
tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Quello che si diparte da Licata sino ai pressi della galleria ferroviaria
prossima al bivio Canicattì-Castrofilippo, viene fatto risalire al XVIII secolo
a.C. Le pertinenti solite tombe a forno
vennero scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([7]) I
reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei
sotterranei di un qualche museo siciliano. Le relative tombe a forno sono
andate del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di
Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed
approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W.
Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie ([8]).
Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un
importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e
Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe
scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a
Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza
che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran
banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni
rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono
aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i
cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che
hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([9]) Si ha,
quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate
parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» ([10]) Segue la descrizione di n.°
11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi
di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di
“una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”,
nonché di un “utensile di terracotta a forma di un corno”. Non è questa le sede per riportare
diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si
fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di
quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo
dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e
naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([11]) -
conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi
sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più
che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie
a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di
una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa
avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare
qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora
incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna
campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese.
Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro
verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo
visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio economiche, si ignora
del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine
inappaganti.
Quel che le affioranti testimonianze archeologiche
dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi
risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la
strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri,
il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe
rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del
Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non
irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei
sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e
Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella
media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il
tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si
rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da
pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il
Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti
nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([12]) Il
Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti
di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della
colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché
disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche dimostrare.
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non riusciamo a resistere alla forte tentazione
di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa
dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il
Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per
esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive
adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze
archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in
piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno ([13]).
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro
- riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in
condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici,
come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a
testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e
pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare,
l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci
sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni
di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano
preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci
sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si
insediarono nella valle agrigentina, per
i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi,
modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il
termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono
però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata
dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la
scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non
subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda
generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite
dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice
auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono,
accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano
cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della
famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla,
schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi,
feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili
a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di
uomini fieri e ribelli. In tutto ciò
sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe
agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e
peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori,
arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto
l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX
secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine
ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non potè che
essere pertinenza rurale della polis di
Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la
tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo
fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci
nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente.
Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva
lavorare per la vicina polis di
Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non
potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo
conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti
numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli
indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si faranno scavi come
quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di
Gela attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi
non resta che avventurarci in malcerte congetture.
In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte
presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota
cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962).
Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con
l'elegante 'non liquet' (non risulta) di
Filippo Cluverio. Oggi, liquet
(risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente
ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di
Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò
queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza
considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie
e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e
l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano
di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere
granché diversa da quella della fine del secolo scorso.
Frattanto Racalmuto, territorio
rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua
per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione
dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme
naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre
patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni -
pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente
subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per
i posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la
vicenda storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata,
senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata.
Periferia agricola della Polis,
dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche
con vincoli di parentela con quello di Siracusa Gelone. Pindaro esaltava, a
pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva
fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare
le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della
lontana Grecia. Dopo, chi vinceva
commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva
doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia
agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se
qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per
refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola
estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di
Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma
sensibile all'alta poesia.: «certo per i
mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del
sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti
alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da
avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone,
specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine
dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze
greche.
Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di
Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da Akragas, per il passaggio
ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella
riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua
guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola
Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano
ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico,
di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste,
certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare
la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni
bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce,
l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli
ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa
trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i
siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta
degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas,
come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di
Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha
modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine
rurale di quella polis, ne segue
sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno
al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per
Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal
giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di
impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia
punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica
cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio
l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi
durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel
dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a
Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed
alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di
bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi
dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le
disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel
vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che
vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località
racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava
frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella
mediocrità dell'epikrateia africana.
La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica.
Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che
le vicende siracusane vi riflettono. E'
comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una
parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra,
sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una
tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a
seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi
dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide
vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per
quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta
contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di
Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di
più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono
chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana
scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi
degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti
numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre
racalmutesi di quei secoli.
Sempre il Tinebra Martorana ci
testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un
cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza
dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di Dione
o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non
fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un
libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese
prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne
derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla
greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In
contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno
agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a
trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno
costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette
essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno
finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda
storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata
debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine,
vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto
raggiunge le porte di Siracusa. Akragas
ed il suo territorio - ivi
compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed
assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi,
passato alla storia per le sue risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano
nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a
quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica
romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si
avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della
lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia
che secondo Cicerone: «prima docuit
maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la
Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli
stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più
Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo
perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte
furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini
agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati:
25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi
della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A
farne le spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano
ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la
terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due
decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas
e la vicina Eraclea Minoa
appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un
massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali
6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia.
Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di
apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C.
tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce
ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani,
le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo
baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento.
Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione
e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo.
Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di
agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite le guerre
puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento
agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della
legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi
dell'Urbe: quell'estensione avviene con
la lex Rupilia del 132. E
così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono
rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli
esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i
proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle
voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte
delle Autorità.
E' tuttavia noto
un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782:
esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a
Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel
1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo
c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota"
(anfora per vino) nel cui manico [«in
manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e
pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola
del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare,
comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla
prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue
cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco
della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed
abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator
e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano
o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un
esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando
accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino,
prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle
Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei
dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare
traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha non
si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto
Comodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si registra una svolta economica
di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni
vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché
nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle
'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla
rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad
averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi
ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa
corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti
di Girgenti ed il Ministero, che risale
al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande
tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi.
Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denoma: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un
ottocentesco alto burocrate del Ministero della Pubblica Istruzione di quel
tempo, il dott. Donati, interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende
di sapere:
Il dr. Mommsen reduce dal suo
viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli
fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli
dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i
maggiori ragguagli.
L’interpellato
risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio
al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la
storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti
nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi,
con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi
si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate
al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture
orientali.
In uno di essi mutilato si legge
(totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre
iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si
legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia
risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come
dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che
possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria
zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di
sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più
dotte illustrazioni che io non saprei. ([14])
Il Mommsen fu
poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici
nei volumi del C.I.L. ([15]) ma si guarda bene dal ricompensare, neppure
con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai
consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi
per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca
romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra
Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La
Mantia all'avv. Giuseppe Picone di
Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio di
questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti
di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero,
furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino
nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro,
presumibilmente nei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad una
lettura piuttosto arruffata che pubblicava sul
bollettino dell'Accademia dei Lincei ([16]) Altre
«tegulae» sono state rinvenute nel
1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di
miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([17]), si
trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con
taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria
dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm.
di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente
poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo
liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano
tuttavia sotto il nome di gàvite, nel
fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo
vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato
per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([18]).
Pare, comunque,
che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta
nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che
partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto
di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese:
risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della
Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul
lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola,
periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di
sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam
salis repentinam, defunctus est», è
la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella
caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e
studiata dal Salinas si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il
Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([19]). In
epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto
sarcofago del Ratto di Proserpina ([20]).
Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta
ancor valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a
Racalmuto ([21]) - fondato tra il ‘200 e il
‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del
sec. IV, con la raffigurazione del Ratto
di Proserpina.» La concidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente
suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al
IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto probabile che
gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto
appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi
di materiale ceramico databile ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli
del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è
stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò
che il De Miro annota nella citata relazione in Kokalos: «Accanto a famiglie di
personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie
possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui,
proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività
proficua sulla base delle non poche tegulae
sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con
i sarcofagi marmorei[...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del
IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([22]) Sempre
secondo il De Miro, la tegula
rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo,
data la formula Ex praedis M. AURELI
([23]). Di recente Giovanni Salmeri ha iniziato
l’opera di revisione nei confronti del Salinas, anche se non ha avuto il
coraggio di andare sino in fondo e lasciar perdere con la datazione commodiana
delle miniere solfifere racalmutesi: «le lastre della Sicilia […] sono state
rinvenute a Racalmuto – scrive lo studioso catanese di storia romana ([24] ) – in
forma intera adoperate come materiali da costruzione per sepolcro; su di esse
si leggela formula ex praedis/
M.Aureli/Commodiani» E’ piuttosto pudico il Salmeri quando annota: «Salinas
in luogo di Commodiani preferiva
leggere Commodi Ant(onini) pensando
all’imperatore.» In effetti si trattava o di un abbaglio o peggio. Ma scoperto
l’inganno, la tentazione a datare comunque le lastre è invincibile e, divenuto
l’imperatore Comodo, “il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano”, non si
rinuncia purtuttavia a “collocare nei decenni finali del II secolo d. C. ”il
praedium in questione”.
I dati archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati
descrittivi sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché
alcune linee evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda
la produzione - annota il De Miro ([25]) - pur
essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle
di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo
da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi
dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un
primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra
proprietà del fundus e attività
mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”..
Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle
miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata
in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata,
la figura del concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.»
Successivamente appare «il manceps,
figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita
l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo
l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps
tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo
imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo,
indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes.
[...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale
delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV
sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto
contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale
e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che
ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione
dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([26])
In tale
contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di
Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che
verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una
necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là
dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae,
rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV
secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con
maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine
sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il
Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo
di accennare.
[1]) Ferdinando Milone: Sicilia, la natura e l’uomo
- Torino, 1960, pag. 13.
[2]) L.
Trevisan: Les mouvements tectiques récents en Sicile - Hipothèses et problèmes.
[3]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini
sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto -GEOLOGIA - Università di Palermo - Facoltà di Scienze
- Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[4]) Pratesi e Tassi: Guida alla natura della
Sicilia, Milano 1974, p. 21 ss.
[5]) Cfr. S.
Tinè: L'origine delle tombe a forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.
[6]) C.I.
Solinus, 5\ 18; 19
[7]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in
Ann. Inst. Corr. Arch., 1880.
[8]) Presso l’Archivio Centrale
dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra il Mauceri ed il Comm. G.
Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata e Racalmuto nella
provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e direttore dell’Ufficio Centrale di Direzione in Caltanissetta
delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' E
BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[9]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ...
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag.
17.
[10]) Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[11])
Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del
finitimo Castrofilippo.
[12]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia
Occidentale. - Roma 1983 - pag.
114.
[13]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia
Occidentale. - Roma 1983 - pag.
14.
[14]) A.C.S. di Roma -
Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB.
AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.3.4 -
(annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli,
miniere solfuree).
[15]) C.I.L.
[CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p. 857 -
TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[16])
NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[17])
KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[18]) B. Pace, Arte e Civiltà, I pp. 393-4
[19])
L’accenno al MANCEPS conduce a quella
datazione, se si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali
si leggono nella sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982,
pag. 324.
[20]) Oggi
custodito nell’androne del Comune, da tempo immemorabile giaceva prima al
Castello.
[21]) Guida
d’Italia del Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[22]) Ernesto De Miro: Città e contado nella Sicilia
Centro-Meridionale, nel iii e iv sec. d.C.
- in Kokalos pag. 320. In quella relazione, spunti
riguardanti specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di
cui alla Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST,
se non è proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[23]) E. De Miro, op. cit. pag. 321.
[24] ) Giovanni Salmeri, Sicilia Romana. Storia e storiografia, G. Maimone Editore, Catania
1992, p. 22.
[25]) E. De Miro, op. cit. pag. 320.
[25]) B.
Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393 ss.
[26]) E. De Miro, op. cit. passim.
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