Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600
Una introduzione è d’obbligo
come
giudicare il Traina? Tra il Camilleri del Re di Girgenti e mons, De Gregorio
nella sua storia della diocesi di Agrigento a chi dar ragione?
Mi impongo uno stile
moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di
quella che di solito reputo tale, vorrei tratteggiare la figura del discusso
vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile:
è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta
stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su questo vescovo –
catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi
sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651 – non si è mancato di scrivere, ed
in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea
appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri
giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di
esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri –
che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il
presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e
valutate sono proprio le disavventure del vescovo Trahina.
Denis Mack Smith ha modo di
citarlo due volte nella Storia della
Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi
Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per
descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000
scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a
pag. 270 (ibidem) allorché ne
sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di
dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo
episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla
irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò
persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo sotto mano i «diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della
Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869.
Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di
Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in
prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito
che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata
di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate
all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men
che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi
famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente
volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai
consultata?
Il Traina, l’uomo, il vescovo
Ma che vescovo fu codesto
monsignor Traina?; anzi vien voglia di domandarci: che razza di uomo fosse? Con
la nostra mentalità, dopo un secolo di lotte sociali, dopo una rivoluzione che
non può certo dirsi esaurita per totale fallimento sol perché è crollato il
muro di Berlino, il giudizio scivola verso la condanna con infamia. Ma saremmo
fallaci. Il Traina visse nel Seicento, in quella parte del secolo che produsse
ovunque, nell’Italia soggiogata dalla Spagna, rivolte e torbidi. Un vescovo
aveva ruoli pur sempre religiosi ed il suo influsso sociale poteva essere
rimarchevole ma non determinante. Il Traina vi fu travolto. Poteva districarsi
meglio. Non ebbe né polso né cultura per farlo. Fu debole, improvvido. Slittava
in una senescenza precoce. Diffidava degli amici e si aggrappava ai parenti.
Questi non erano di eccelsa statura. Un fratello, già al quarto voto fra i
gesuiti, diventa la sua anima nera. E’ rapace. Tende alle espoliazioni dei
benefici ecclesiastici. Il Traina lo preferisce in modo sempre più smaccato. Canonici
che in un primo tempo non gli erano stati avversi, il Blasco ed il Picella, ad
esempio, gli si rivoltano contro con livore, animo malevolo, tono bilioso. C’è
persino da pensare che durante i torbidi siffatti canonici, fingendo di
difendere il presule, si siano infilati nelle stanze più segrete, si siano
appropriati di beni e soprattutto di carte, quelle custodite più gelosamente
perché piuttosto infamanti, quelle della scomunica vaticana del 1631. Escono,
comunque, dal segreto quelle carte. Al vescovo diranno che sono state bruciate
dai rivoltosi. Ed invece, un frate dell’ordine di S. Francesco di Paola, tal
Trimarchi, un autore di libelli di successo, un pubblicista, si direbbe oggi,
dedito alle enfiature scandalistiche, può abbondantemente servirsene per una
delazione ed una stroncatura del vescovo di Giorgento. E, dopo, quasi reo
confesso, è lo stesso canonico Picella a
farne smaccato uso in processi intentati a Palermo presso quel particolare
tribunale che fu quello cosiddetto della Monarchia, e al contempo a Roma presso
la sacra congregazione del Concilio.
Pensate che il Picella fino
ad un certo punto godeva di tanta fiducia da parte del vescovo Traina da essere
delegato ad una visita dei cosiddetti Sacri Limini.
Codeste visite a Roma erano
diventate triennali dopo il Concilio di Trento. Il papa voleva sapere qual era
lo stato della chiesa. In effetti, era un’occasione per liquidare i tanti
tributi che un vescovo doveva al Vaticano ed alle varie strutture pontificie
per avere avuta assegnata una diocesi. Se non vi si ottemperava scattavano
censure pesantissime e si spiegano dati i risvolti finanziari. Il denaro sarà
sterco di Mammona, ma nella realtà ecclesiale cattolica ha sempre avuto
predilezioni financo morbose, dai tempi della simonia sino a quelle incredibili
opere di religione cui dovrebbe attendere l’attuale IOR. Se si era condannati
di inadempienza, scattava l’interdetto, i canonici agrigentini eccelsero nel
sottilizzare: non occorreva condanna, la censura operava ipso facto. Ad
Agrigento si era forbiti nella conoscenza di tutte le pieghe sanzionatorie di
una fondamentale bolla in proposito di Sisto V.
Fra le carte che siamo
andati a trovarci nell’Archivio Segreto Vaticano, abbiamo rinvenuto una lunga
comparsa accusatoria del Picella contro il vescovo Traina, una sorta di
elucubrazione in diritto, de jure,
colma di citazioni normative, giurisprudenziali e persino dottrinarie. E c’era
anche qui una ragione economica.
L’interdetto comminato al
vescovo inadempiente nell’obbligo della visita triennale dei Sacri Limini
comportava anche la privazione delle rendite e pensioni del soglio episcopale
che passavano – ipso facto sostenevano i canonici del Capitolo agrigentino – a
quel medesimo Capitolo. Tra vescovi e canonici capitolari vi fu sempre attrito
a motivo delle prebende. Tra il Traina ed il suo capitolo la contesa fu aspra
sino dall’inizio. Subito il Traina predilesse il giovane nipote Tomasino, né
particolarmente nobile, per nulla agrigentino, finito tragicamente per mano dei
rivoltosi. Il nepotismo del Traina fu inarrestabile, produsse rotture, accese
odii. Se il lettore ci degnerà di attenzione anche quando cercheremo di
illustrare la faccenda del tesorierato, una ambita e lucrosa dignità
canonicale, converrà con noi su tale assunto.
Vedremo come il canonico
Blasco prima relaziona a Roma amichevolmente sullo stato della diocesi
agrigentina, nel processo di investitura del prescelto regale Traina e 24 anni
dopo si accoda al Picella in accuse persino smodate. Il processo vaticano si è
incardinato nel 1650 sol perché è l’intero capitolo agrigentino che vuole la
testa del vescovo. Il quale appare ora solo, senza parenti, infermo, dedito
soprattutto ad acquistare città (Agrigento e Licata) per cifre esorbitanti e
per un tempo ineludilmente breve, il breve protrarsi del suo occaso.
Il Camilleri prende questo
vescovo tutto secentesco e persino racchiuso nei tempi delle calamità del dopo
peste e lo trasporta nel 1718 a vedersela con Zosimo il “re di Girgenti”,
storico e vero ma attivo nella parte terminale del breve regno dei Savoia.
Fatti come quelli del ’47 rifuggono da inquadramenti nella dominazione
savoiarda, epocalmente, culturalmente, socialmente diversa. Si pensi che nel
1718 Zosimo non poteva incontrare alcun vescovo ad Agrigento, essendo sede vacante
per la celeberrima defezione del vescovo Ramirez. Il secolo dei lumi operava
già ad Agrigento; scomuniche e interdetti lasciano piuttosto indifferenti non
solo i ceti colti, ma anche le alte gerarchie ecclesiastiche e persino gli
arcipreti periferici come quello di Racalmuto. Nel 1647 tanto non aveva
riscontro. La scomunica era temuta e colpiva anche gli stessi vescovi, per quel
che si dirà. Certo la marionetta di monsignor Reina – l’alter ego di monsignor
Traina – è letterariamente riuscitissima e tanto soddisfa, crediamo, il
Camilleri. Risvolti sociali, tragedie popolari, arroganza del potere, rancide
visioni classiste, sopraffazioni, manipolazioni della plebe, istinti asociali,
ribellismi, atteggiamenti simoniaci, abusi tributari, sono quelli. Il Camilleri
è magistrale nel rievocarli, farli rivivere. Dall’ordito letterario prorompono
l’indignazione, la condanna, ed al contempo il disgusto verso l’uso delle opere
di religione per locupletazioni individuali, per l’arrichimento di parenti
imbecilli di mitre episcopali. Ma lo storico – o chi si va a cacciare in fisime
tali da volere ostentare comunque una testa di storico – quale giudizio può
formulare? E’ legittimato alla condanna? Può togarsi per un processo a distanza
di quasi mezzo millennio e spingersi sino alla censura, o alla legittimazione,
o magari all’assoluzione per insufficienza di prove?
Lascia che i morti
seppelliscano i morti, dice il Vangelo. E il Traina è morto, il modo secentesco
di essere vescovo è oggi impensabile, il nepotismo di allora non più
praticabile, l’aristocratico linguaggio cui indulgevano allora vescovi ed alto
clero oggi totalmente ridevole (gregge, pastore, plebi infime, etc,),
l’arbitrio episcopale, la dilatazione della giurisdizione ecclesiastica e
faccende analoghe sono in atto solo reminiscenze erudite. Allora noi, che
comunque andiamo a rivangare quelle storie, siamo a nostra volta dei morti
protesi a seppellire altri morti?
Cenni biografici del Traina
Per una strana
singolarità, nelle due cupe tavole di bronzo del sacello funerario del vescovo
Traina risultano omessi gli anni di vita. Nell’epitaffio che, ancora vivente,
il vescovo si era predisposto, stava la consueta specifica degli anni, mesi e
giorni della sua umana esistenza, ovviamente con gli opportuni puntini (vixit annos …menses… Dies … , ha
riportato il Pirri). E nel fluente latino del Netino si ha: «in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi,
antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreum construi curavit, hoc addito
epithaphio.» La lapide marmorea fu rimossa, sostituita da quelle bronzee
sotto un grifagno busto e nel ricamo all’autoelegio che già il presule si era
tessuto saltò l’indicazione degli anni mesi e giorni. Mi sussurra padre Alessi
che in effetti il completamento del sacello avvenne nel Settecento dopo risse e
controversie dei familiari. Nessuno sapeva più a quale età fosse cessato di
vivere l’ingombrante antenato. Del resto l’età del Traina restò misteriosa
anche durante vita. Non vi è documento pubblico da cui emerga l’anno di
nascita. Qualche spiraglio lo si rinviene nel “processus consistorialis”
celebrato a Roma nel 1627 per l’elevazione alla dignità episcopale. (cfr. ASV –
Processi vescovi – vol. 23, anno 1627, ff. 415 e ss.) A dire il vero neppure i
due referenti di fiducia, il messinese don
Dario Costa ed il palermitano don Vincenzo Antonio de Bardis, ne sapevano
molto. Entrambi se ne uscirono, aggirando la domanda, con questa
circonlocuzione: «l'età sua sarà intorno alli 48 in 49 anni in circa». Diamola per buona;
possiamo quindi ipotizzare l’anno 1578 o quello successivo come l’anno di
nascita. Essendo morto il 4 ottobre del 1651, possiamo dire che visse 72 o 73
anni.
Per quel che si vedrà, il
medico Albanesi giudicherà bello e cotto monsignor Vescovo nel 1647, quando il
Traina era un paio d’anni lontano dal settantesimo anno di vita. Non ci si
venga a dire che allora la vita media era breve. Nostre ricerche ci suggeriscono che la mortalità infantile era
feroce, oltre il 50%, ma poi vi erano come steccati standard: si moriva spesso
nel primo ventennio di vita; se però si aveva la ventura di superare quella
barriera sino ai cinquant’anni ordinariamente tutto filava liscio. Altro
ostacolo sui sessanta e poi si poteva arrivare tranquillamente sino a punte
ultracentenarie, più di ora e con una qualità della vita migliore della nostra
senescenza. La selezione naturale aveva il suo vantaggio.
Il certificato medico
dell’Albanesi – stilato peraltro a distanza di tre anni – è da sospettare
falso, più di quelli dei moderni medici officiati delle notorie visite fiscali
avverso professori ed impiegati pubblici avvezzi all’assenza per malattia. Il
Traina, che notte tempo raggiunge a dorso di mulo la città di Naro, che è
assiduo in Palermo per affari che lo riguardano, che quando vuole sa essere
oltraggiosamente energico, a 68-69 anni possiamo sospettare che fosse ancora di
sana e robusta costituzione. La tanto ostentata decrepitezza, la sua precoce
vecchiaia segnata da terzane di natura maligna, le sue gambe enfiate per
podagra erano belle scuse per non andare a fare la visita ai Sacri Limini e
soprattutto per assecondare i già bene predisposti cardinali romani. Ci pare
almeno di doverlo sospettare.
Il Traina si
proclama nobile e noi gli crediamo: sia inteso, trattasi di una nobiltà infima,
di un non meglio precisato ordine senatorio.”Pervetusto Senatorio ordine ortus”
scrive di sé nella lapide marmorea. Abbiamo voglia di credere che gli araldisti
hanno di che storcere il muso. Questo Traina, senatore palermitano, chi era
poi? Si pensi che non vi è carta conosciuta in cui si indicano i genitori del
Nostro. I soliti referenti dichiarano testualmente, il Costa: « Il dottore
Francesco è nativo della città di Palermo di famiglia nobile di quella città.
et de cattolici parenti, et se bene io non hò conosciuto suo padre, ne sua
madre, ho però inteso dire che egli sia nato da legittimo matrimonio, nobili et
cattolici parenti, et io conosco li suoi fratelli, quali sono presenti della
città di Palermo et poi la Maestà Cattolica non ammette cappellani, se non
provano, che siano nati di legittimo matrimonio cattolici, et nobili, come si è
fatto in persona di esso dottor
Francesco et poichè è publicamente tenuto, et reputato da tutti, et l'età sua è
di 48 in 49 anni in circa per quanto raccoglio dalla sua cognitione, et
dall'aspetto.»; ed il de Bardis: «Il detto
dottor Francesco è nato in Palermo mia patria di famiglia nobile, et de parenti
cattolici se bene io non ho conosciuto suo padre ne sua madre, ho però inteso
dire che egli sia nato di legittimo matrimonio, et come tale l'ho visto
publicamente tenere, et reputare da tutti ne mai ho inteso cosa in contrario,
anzi quale consta che lui è nato da legittimo matrimonio.»
Dal medesimo de Bardis apprendiamo poi che il Traina
fu ordinato sacerdote nel 1602 e conseguì la laurea nella sua teologia in
Catania (S.T.D.) appena due anni dopo.
Il de Bardis ci informa che
per alcuni anni il Traina fece il cappellano a Palermo. Solo nel 1610, diciamo
così, avanzò di carriera andando a fare il cappellano al re a Madrid, ove
dimorò per diciassette anni. Il Costa si dichiara suo collega nella capitale
spagnola, amico e padre spirituale. La differenza di età non era poi molta,
meno di cinque anni. Il referente, un messinese, è prodigo di elogi nei
confronti del palermitano: non ha mai dato scandalo alcuno né in materia di
fede, né nella condotta di vita, né nei costumi. Ortodosso nella fede, non
denuncia vizi e difetti. Nessuno impedimento canonico sussiste alla sua
elevazione al soglio episcopale della diocesi di Agrigento. Parola di un amico,
attestazione di un conoscente con ventennale frequentazione. Non ci deve essere
dubbio: il Traina è persona di vita integerrima, di buoni costumi, zelante
dell’onore di Dio, pietoso verso il prossimo, prudente nell’uso delle cose. E’
dotato di grande dottrina ed è molto
atto al governo della chiesa di Agrigento. Elettovi vescovo, sarà di giovamento
alla chiesa agrigentina ed alla salute delle anime di quella diocesi, per le
sue buone qualità e per le sue virtù, quali il Costa dice di avere esperimentato
di persona, ragione per cui deve così attestare per dettato della propria
coscienza. Il linguaggio è ovviamente curiale, ma qualcosa di vero doveva pur
esserci. Il de Bardis conferma, rincara anzi la dose di elogi. La sua
trentennale conoscenza del futuro vescovo, a Palermo ed a Roma, il suo essergli
“paesano”, l’averlo praticato a lungo lo rendono teste affidabilissimo. Sulla
fede, sulla vita, sui costumi il suo giudizio collima perfettamente con quello
del Costa. Di suo aggiunge che il Traina è persona timorata di Dio,
integerrimo, di irreprensibili costumi, notoriamente “anzi è tenuto
pubblicamente nella città di Palermo per un santarello”. Non per nulla il vescovo gli diede licenza di
poter celebrare nei monasteri delle monache. Prudente e dotato di dottrina «merita non solo questa Chiesa, ma
qualsivoglia maggiore, la cui promotione stimo che sarà utilissima per quella
chiesa, et anime di essa, essendo dotato di quelle buone virtù, che si
ricercano in un vescovo, aggiungendo, che io non ho detto tanto quanto è della
sua vita e costumi.»
Nel gennaio del 1627 giunge
al cardinale Barberino dalla Spagna una segnalazione: il re ha prescelto il suo
cappellano Francesco Traina quale vescovo di Agrigento. Essendo.vacante il
vescovado di Girgento per la morte del signor cardinale Ridolfi, « el Rey senor
como patron de las Iglesias de Sicilia se ha servido de nombrar y presentar ala
dicha Iglesia al Dottor Don Francisco Trahina su Capelan». Il re si riserva
quattro mila e seicento scudi di pensione nuova per le persone che sua Maestà
vorrà segnalare. Per converso il Traina potrà mantenere la precedente pensione
di mille e trecento scudi. La nomina dovrà aver luogo nel primo concistoro
utile cui dovrà seguire la relativa Bolla. Lettera datata “a 20 del Enero 1627”,
invita “Y Cardinal Barverino” e firmata
da tal Fumasor. Secca, intrigante; la dice lunga sulla iattanza spagnola, sul
senso regale di Filippo IV anche con il Papa. Documento dunque che trascende il
semplice taglio burocratico.
Il 10 febbraio il concistoro
ha luogo ed all’ordine del giorno c’è proprio la disposizione del re: il
processo di investitura del Traina. Presiede il cardinale presbitero Francesco
Barberini, ex fratre germano nepos
del papa. Alla sede vacante di Agrigento, per desiderio del papa, si segnala il
dotto Trahina presbitero palermitano come nominato da sua maestà cattolica, per
suo giuspatronato. Il cardinale dispone che subito si indaghi sulla vita, sui
costumi e sugli altri requisiti del candidato. I testimoni sono lì pronti e
cioè don Gaspare Blasco presbitero della diocesi di Agrigento, nonché canonico
di quella cattedrale; don Dario Costa presbitero messinese, don Vincenzo
Antonio de Bardis, palermitano e d. Giuseppe Micheli, presbitero agrigentino,
Il Blasco si dilunga nella
descrizione, non molto precisa in verità, della diocesi di Agrigento, che la
curia vaticana peraltro conosceva nei dettagli non foss’altro per le precedenti
“relationes ad limina”. Del Costa e del de Bardis abbiamo già detto. Giuseppe
Micheli è un prete di Bugio di soli 30 anni. Fa da bordone al Blasco. Una
testimonianza scialba, priva di interesse, sulla chiesa agrigentina.
Trascriviamo alcuni passi in
latino che precisano i meriti, i titoli e le prerogative del Traina.
«Eidem anno, indictione, mense die,
et pontificatu quibus supra. Supradictus ad m. Ill. D. Franciscus ad docendum
de eius doctoratu in Sacra Tehologia facto produxit Privilegium, in publicam
formam subscriptum per d. Philippum Taranto vicarium Generalem, et Vice
Cancellarium dicti Almi Studij, et
solito sigillo munitum, quod ad effectum hic inserendi mihi etc. consignavit
tenoris infrascritti videlicet:
In Nome Domini Amen, Nos don
Philippus Taranto U.J.D. Can.us Cath. Ecclesiae Catanensis in spiritualibus et
temporalibus Vicarius Cat. sede vacante
... (solita forma) ...
significamus .. et serie fidem facimus, quod vigore privilegiorum fel. rec. D. Eugenii Papae 4i et gloriosae
mem.ae Don Alphonsi Aragonum et utiusque Siciliae regis quorum auctoritate et
potestate, qua in hac parte fungimus in presentiam R.P. M. Vincentii de
Mainoin defectu lectoris non doctoris etiam Compromotoris, et
respondit d. Alex.ri Belmuso pro Decani et Compronotaris, stante absentia P.M.
Hieronimi De Catanea Decani, et Compronotaris eiusdem facultatis D. Francisci
Traina felicis urbis Panormi habita prius debita informatione de eiusdem
religione, et fidei catholica professione, ac juramento super sacramentis Dei
evangeliis palam publice in manibus nostris praestito per venerabile Collegium
s.t.d. et ministrorum studij presenti in nostra praesentia exstentium et pro
Tribunali sedentium unanimeter et concorditer vive vocis oraculo ... suffragijs d.d. Franciscus idoneus, et
sufficiens doctor, et magister in sacra pagina merito exibit judicatus, et
approbatus , sicut ex eorum votis vivis suffragijs datis constit evidenter. Nos
igitur consideratis scientia, facundia, modo legendi genere, moribus,
virtutibusque predicti D. Francisci quibus Altissimus eum decoravit, et
illustravit, prout in eius rigoroso et tremendo examine visibiliter
demonstratum et cuncta sibi assignata recitando, et declarando argumenta,
dubia, et qualibet sibi factas oppositiones seriatim replicando, et clare
confutando ac solvendo de consilio et
pari voto ad d. collegi magistrorum et
doctorum eundem d. Franciscum nomine
approbavimus
magna cum laude
Datum Catinae die 9 Junii 2a Ind. 1604. Don Philippus Taranto
Nec non ad docendum se esse de legitimo matrimonio procreatum
facto produxit fidem primae Tonsurae subscriptam per rev. d. Archiepiscopum Panormitanum
solito sigillo mun. videlicet
Nos don Didacus de Aedo Dei et
ap. sedis gratia Arch. Panormitanus regiusque
consiliarius etc. ... notum facimus
presente die datae presentium in Cappella Arciepisc. Palatii huius urbis
dilectus nobis in Christo filium Frasciscus Traina Panormitanum ex legitimo
matrimonio procreatum scholarem panormitanum clericali carattere
insignisse eidemque hab. primam
clericalem tonsuram cum ceremonijs ...
etc.
in die veneris XVIII presentis mensis decembris quatuor
temporum nativitatis, D.N. Jesu
Christi..
datum un Urbe feli. Panormi die quae supra sextae Ind. 1592
Ego Odoardus Tibaldesius
clericus Spoletinae..
E dopo tanto latino che
pochi dei miei pochissimi lettori avranno seguito ecco ancora, per un altro
pizzico di pazienza, la chiusa cardinalizia, purtroppo sempre in latino, che
consacra Traina quale degno presule della Diocesi della estrema parte sud della
Sicilia.
Ego diac. Franciscus Card. Barberinus ex praemissis censeo
d.mum d. Franciscum Traynam dignum esse ut
ecclesiae Agrigentinae praeficiatur in Episcopam et pastorem
Cad. Barberinus
Idem censeo ego Vet. Eps. Ostiens. Card. Brandinus
Idem censeo ego C. presb. card. Pius
Item censeo ego diac. card. Aldobrandini
Avremmo qui voglia di
continuare con il nostro latino, ma ce ne asteniamo. Si tratterebbe dell’atto
di fede del futuro vescovo Traina, l’equivalente del Credo quale lo recitavamo
nella Santa Messa quando non era stato introdotto il volgare. Andrebbe studiato
per cogliere sfumature che pur palesano come la fede cattolica sia cambiata
almeno rispetto al moderno catechismo.
Giunto il Traina ad
Agrigento, inizia per così dire il suo calvario. Subito un bel contrasto con i
canonici del luogo. Quei birboni sanno che di lì a poco scade il triennio per
la visita alla lontana Roma. Noi li riteniamo in mala fede. Non avvertono il
vescovo che, nuovo alle cose episcopali, lascia decorrere il termine. I
canonici attivano gli atti giudiziari presso il Tribunale della Monarchia a
Palermo e presso la curia vaticana. Al Traina sarà comminata una umiliante
scomunica da cui sarà assolto previa debita penitenza. Il principe Gioeni ed
altri maggiorenti di Cammarata, Chiusa S. Giovanni, Giuliana, ed anche
Racalmuto sono pronti a dimezzare la giurisdizione del Traina a vantaggio
dell’Arcivescovo di Palermo. Il gioco in un primo tempo riesce, compiacente la
curia vaticana, Ma il re, titolare del giuspatronato sull’intera Sicilia, non
ammette simili fellonie. Impone al Papa un ritorno all’ordine piuttosto
scottante per Roma. Il Traina può gongolare. Intanto comincia a provar gusto
nell’arricchirsi. Considera serpi in seno i canonici e si avvale in misura
crescente dei propri parenti. Il Pirri gli fa visita e l’adula nella sua
possente storia religiosa della Sicilia. L’Alaimo, il rinomato medico
racalmutese, gli dedica un suo libro di medicina (il peggiore). Tutto sembra
volgere al meglio quando scoppiano i tumulti del ’47. E da qui riprendiamo il
nostro discorso critico iniziando con la menzione di quanto, mutando registro,
annota nei suoi diari che finiscono pubblici Rocco Pirri.
L’EPISCOPATO
AGRIGENTINO DEL TRAINA
Dalla cronaca alle pubbliche accuse
Il Pirri, oltre alle sue
opere storiche, ci ha lasciato una sorta di cronaca, un diario dei pubblici
eventi degli anni terminali della sua vita: gli annales
Panormi sub annis d. Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore
Abbate D. Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Noi ci
avvaliamo, però, della traduzione – vetusta ma singolare – del Di Marzo. «Ma in
Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese stesso [maggio] (giorno per
quella città solennissimo, che anche si festeggia con corse), destossi a gran
tumulto la plebe, bruciando le scritture dell’archivio civile e criminale e
liberando i carcerati dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo
scarcerò quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso il
furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del giurato La
Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto colà il Sacramento.
Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i
dritti, consultor dei giurati e sindaco della città: ond’egli in prima se ne
fuggì in una torre alla spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di
cento miglia. Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»
«Ma inoltre que’ di
Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la vicenda
agrigentina – non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato
Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore
della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in grandissima
carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed espostagli una sì grave
sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se non si provvedesse la
città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse
dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e
fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano
desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi crescere il
prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando venderlo a condizioni
migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il frumento, di che si era
provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle
armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo,
chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del
popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole di lui,
creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran tumulto al palazzo, per
darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i famigliari di dentro
ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che quelle genti fecer
grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla
stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote
Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più accaniti sul
primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di archibusi il nipote del
vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario ed altri sette domestici,
e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il
promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più
intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde
atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto in tre
luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo, e dietro una
parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una somma di
quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito appo alcune
fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor pastore in casa
del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote
Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il
vescovo fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al duomo,
ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento (che indi
gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando dodicimila
scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi
sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua
stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro dodici mila
scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo al vicerè che si
dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed
anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma
del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per
racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma poiché
neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il vescovo medesimo con
molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni capi del tumulto, che
furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto
di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare
con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e preso. Onde
essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi una squadra di
guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime, significando con tutta
sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del Bosco, ov’ei volesse levar
di carcere i loro compagni, e dare indulto pel crimenlese e per tutto ciò, ch’essi e non altro scopo
avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’ tempi, e
dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla proposta
con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso, come più
innanzi diremo.
«Frattanto egli,
prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea colà mandato il capitano di
campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso,
ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con
dieci uomini di quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare
vettovaglie per la flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla
tempesta, ruppe nel lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste,
furon messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di
duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a
cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»
Pare sentire, se
non la prosa, il racconto di Camilleri, fino nei minuti particolari, a parte
s’intende l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare
poi, che il Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo
Trahina. Quella taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata.
(Episcopus vero … summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino
è frase scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia
Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al vescovo di
Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis
virtutum laudibus, .. Praesul Illustrissime», ti piaccia patrocinare la
nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640. Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le
vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.
Oggi non sono
tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile
difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De
Gregorio, suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo
ingenerosi verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è
stato anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che
nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.
Altro difensore
ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di
riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo
per dirne qualcosa. Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo
epitaffio della Cattedrale ed a tramandare, almeno negli ambienti
ecclesiastici, un giudizio non sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di
“somma avarizia”.
Per quel che
concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico
della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli
dedicò anche una sua opera medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!
Il vescovo
Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella procella; è lo stesso
Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo …
[furono] proposti tre ad occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti,
Diego Requesenz vescovo di Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti».
«Fu eletto fra essi il Napoli, che era il più vecchio»
Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino
fornisce notizie sul presule agrigentino, come dire piuttosto burocratiche.
Disincagliandoci dal suo pregevole latino – ma latino – abbiamo che FRANCISCUS
TRAHNA, un palermitano oriundo o lui o i suoi antenati da Cammarata, era
riuscito ad entrare nelle grazie di Filippo III e IV. Dalla corte regale viene
dotato di mille aurei a carico della mensa episcopale siracusana. Come vicenda
di vago sapore simoniaco il nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare.
Ma non basta: subito viene proposto al presulato agrigentino uscito dalle
vicende non edificanti della rinuncia dell’arcivescovo reggino, il palermitano
Annibale Afflitto, non per banale questione di soldi sembra capire dal Pirri ma
per ambizione; non passò molto ed infatti l’Afflitto finì a Catania, sede
indubbiamente più prestigiosa di quella agrigentina, ed anche più ricca. Un
confronto? 14 mila scudi aurei a Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a
Catania.
E tutto ciò dopo la morte del cardinale
fiorentino Octavius Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato
dall’incipiente peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi
– in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’ errore
questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la pagina del
Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.
Il re di Spagna
dunque presenta l’oriundo cammaratese a papa Urbano VIII. Sappiamo del processo
concistoriale, ma il Trahina vi passa indenne, anzi cum laude. Alle spalle le buone protezioni vigilavano provvide. A
consacrarlo, nella chiesa dei Frati Riformati di San Francesco di Ripa, la
domenica del 4 di marzo del 1627 è il cardinale Cosimo Torres. Subito giungono
le lettere apostoliche. Come non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la
pensione dei mille scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed
annuente il pontefice (optimo Rege id
enixe efflagitante, summo vere pontifice speciali praerogativa benigne annuente
- e noi per gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e
nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Salerno
agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbiamo trovato assiduo nelle
carte episcopali che attengono a Racalmuto. A visitatore viene prescelto un
altro dottore in sacra teologia, il canonico Filippo Marino. Succede a Corrado
Bonincontro di morire. A chi assegnare quell’appetibile canonicato? Il papa da
Roma l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è
sottile: la Dignità non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò
vale la prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino,
colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti. E per
complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che percepiva e voleva
continuare a percepire l’annessa cospicua pensione. E qui nasce controversia,
naturalmente a Roma. L’intrigo diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis causa, adhuc controvertitur».
Tralasciamo gli interludi in cui un qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il
Netino.
E finalmente il
vescovo si dedica alla cura delle anime. Visita la diocesi e per reprimere i
costumi dei nostri avi indice il Sinodo il 14 ottobre 1630 che trova
pubblicazione nel 1632 con i tipi di Decio Cirillo di Palermo. Il librettino si
conserva ancora, con amorevole cura da parte di monsignor De Gregorio, presso
la Lucchesiana.
Si mette ad
ornare la cattedrale e Pirri ne sottolinea le opere più prestigiose. Rinviamo
ai lavori accurati e puntigliosi di monsignor De Gregorio per i dettagli.
Restiamo sensibili alla costituzione di un monte di pegni. Maliziosi come
siamo, ci domandiamo: tutta bontà d’animo e generosità?
Sei candelabri
d’argento tra cui potesse rifulgere il Crocifisso volle del tutto nuovi. Ordinò
un’arca argentea per San Gerlando. Ed il palazzo vescovile – sempre quello dei
moti – abbellì e fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia
per gli occhi, godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per essere
autorizzato ad insignire i propri canonici con ancora più vistosi paludamenti:
almuzi, rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla grande, praestantiores speactabilioresque. Vanitas vanitatis, omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di
allora) ovviamente non la pensavano così.
Ampliò il
seminario e ciò meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine: mentre si
adoperava a tante meritorie opere, le molestie e le fiamme dell’odio lo
avvilupparono, dice il Netino. Lo accusarono presso il papa Urbano VIII di non
avere ottemperato all’obbligo della visita triennale dei sacri limini e,
soprattutto, di avere abusato della giurisdizione ecclesiastica nella diocesi,
massimamente a Cammarata, in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed
a Giuliana. Il cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25
febbraio 1631, un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di Palermo
con cui si convocava a Roma il Trahina.
A Roma il
Trahina andò e riuscì a farsi perdonare dal papa le proprie manchevolezze:
tanto almeno ci pare che sostenga il Pirri. Per quel che si mostrerà dopo a noi
risulta qualcosa di diverso. Per il Netino, comunque, «summo cum honore, summaque bonorum omnium laetitia, ac plausu brevi ad
suam rediit Ecclesiam mense Majo» (come dire nel 1631 come dire il vescovo
Trahina).
Sennonché, non
molto dopo, il 13 dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un prelato della
Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto, il ducato di San Giovanni, la
contea di Cammarata, di Giuliana, di Burgio, di Chusa e dopo di Racalmuto,
tutte terre della diocesi di Agrigento, vengono sottratti alla giurisdizione
civile e criminale ed assegnati a quella del Metropolitano di Palermo. Si
infuria Filippo IV. Il vicerè viene investito dalla Spagna con lettere scritte
con animo esacerbato, sature di indignazione per l’inqualificabile vulnerazione
dei diritti regali e con toni di malcelato disappunto. La faccenda torna a
Roma; si riaprono i termini del contenzioso. Asserita l’istanza popolare
(chissà come appurata) e data ampia soddisfazione al vescovo agrigentino, si
ottiene la riappacificazione (o la si impone) tra il presule Trahina ed i vari
signorotti feudatari locali, imponendosi il totale ripristino dell’antica
giurisdizione.
A questo punto
il giudizio del Pirri nella “notitia” sulla Chiesa agrigentina, si articola nei
frusti lemmi della piaggeria: «noster
Antistes ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in pauperes
munificus, in subditos comes nunc in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi,
antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreaum construi curavit.».
Monsignor De Gregorio, acuto e pur tuttavia diligentissimo storico della chiesa
agrigentina mostra ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale
del Netino. Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un affievolimento
dei toni encomiastici. Noi – anche per la documentazione vaticana che dopo ci
industrieremo di commentare – ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale
avverso codesto presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle
stroncature che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie –
prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria “testa di
storico”) “in odium Agrigenti Episcopi”
Da vivo il
Trahina fa incidere sul suo sacello marmorea questo epitaffio che noi tentiamo
di tradurre:
«D.O.M. DON Francesco Trahina palermitano,
espertissimo nelle divine lettere, appartenente all’antico ordine senatorio,
per diciassette anni al servizio dell’invittissimo re di Spagna, Filippo III e
IV, con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha tratto
con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino, acerrimo propugnatore
dell’immunità ecclesiastica, per la cui difesa ebbe a soffrire infinite
afflizioni, ampliò il seminario, adornò con somma munificenza il tempio, e vi
eresse il proprio sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si
addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri mette i
classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come recitavano le
formule testamentarie dell’epoca.
Spetta al
Mongitore scrivere l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua e stravagante la
segnalzione della consacrazione di Franciscus Trahina Panormitanus, il 13
novembre del 1639, solemni ritu della chiesa Divae Mariae de Misericordia
Panormi fratrum tertii ordinis S. Francisci.
Un semplice
accenno, quindi, ai moti del 1647 e subito un diffondersi sui mercemoni
comitali del Trahina. Le disavventure e le spoliazioni popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare,
direbbe il Manzoni, non avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di
un tale alto prelato, originario di Cammarata, e per fortune ereditarie
pertanto non doviziosamente ricco. !20 mila scudi d’oro non erano una bazzecola
eppure dopo i furti il vescovo è in grado di girarli al Re Cattolico – quando
poi si nega l’espoliazione spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene
conto di siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di
fregiarsi del titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente - di feudatario della Civitas Agrigentina. Era
il 1648, il mese di novembre, addì 24.
Redige
testamento agli atti del notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre 1651. I soliti
legati alle chiese, qualche beneficenza ai poveri, appannaggi ai mansionarii
della sua Cattedrale acciò fossero diligenti nella recita del Sant’Ufficio.
C’era al tempo la mania di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non
vi si sottrae. E un occhio particolare per le repentite: soffre d’alumbramiento annoterebbe malizioso
Leonardo Sciascia.
Per la dotazione
libraria del seminario, ben 20 once annue, e questo è tratto naturalmente molto
esaltato. Fu, invero, cosa commendevole. E così il presule chiarissimo concluse
l’ultimo suo giorno, il 4 ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era
costruito nella cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a
leggere a mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere tavole
eburnee: il contorto latino dovrebbe scandire immarciscibilmente la gloriosa ed
edificante vicenda di monsignor
Francesco Traina, oriundo cammaratese.
Domenico De
Gregorio, nella sua Cammarata – notizie
sul territorio e la sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura
del vescovo; in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano solo
le vicende del 1631, secondo l’asettica versione del Pirri. (cfr. pag.
220-221). Dopo, nella monumentale opera sull’intera chiesa agrigentina, il
Traina troverà ampio spazio ed in termini di plaudente valutazione.
Altro laudator del vescovo è, impensabilmente,
il Picone. Dopo avere traslato nella sua impacciata prosa ottocentesca il
racconto del Pirri, quello dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag.
541 delle sue celebri (e celebrate Memorie),
ha il destro di commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei
tumulti, quale ce la tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso non
osservare, che la cagione di quelle sciagure non debba attingersi alla pretesa
avarizia di quel prelato, ma ad altra sorgente che la storia non volle
rivelare. Egli è un fatto incontrastato, che Girgenti deve a quel vescovo la
costruzione dell’arca d’argento, ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando,
la creazione e la dotazione del Monte di
Pietà, nel quale si mutua denaro a lieve ragionata di frutti, la
costruzione e dotazione dell’ampia biblioteca del seminario e di questo il
perfezionamento, la ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un
giardino piantatovi alla parte di tramontana (Pirr., Sic. Sacra, T.I, pag. 772), oltre altri doni che egli largito
aveva alla nostra chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640,
otto anni prima delle rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia
in quel vescovo, larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto dei Diarii e di Botta, il quale dovette
copiarli, o è mendace, o deve far supporre in colui un radicale cangiamento di
idee e di sentimenti a sbalzi; il che ripugna alla verosimiglianza. La
generosità del Traina, e il mendacio di quel racconto saltano più palpitanti e
provati dal fatto avvenuto nello stesso anno 1648, in cui, appena spenti gli
avanzi di quei tumulti, egli compra la città nostra, contentandosi del semplice
usufrutto, attaccato alla sua cadente età, non avendo voluto trasmetterne la
proprietà ai suoi eredi. Io do dunque tutta la fede alla narrazione degli
eccessi consumati dal popolo, nissuna all’avarizia del Traina, cui ritengo qual
uno dei benefattori della città nostra, e bersaglio alle calunnie inventate dai
suoi nemici, che invidi di sue ricchezze, non dovettero esser pochi».
Ci pare che sia
scattata la molla del dispetto. Ora sono gli ambienti curiali agrigentini che
sollecitano la congregazione romana delle immunità a redarguire il cardinale
arcivescovo di Palermo (Giannettino Doria): i ministri di quella curia
arcivescovile “inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate
nelle cause per occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che
repugnando alla dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della medesima
Congregatione” necessita conseguentemente di un intervento del cardinale Doria
atto a non permettere “simile abuso reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24
luglio 1628 (S.C. I.E., reg. 2 f. 326v).
Se l’albagia del semplice senatore palermitano
– in atto vescovo a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di
Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio
notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso quello di
Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle storie secentesche
siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di sovente nella microstoria di
Racalmuto.
Eppure, ancora
nel 1629, il 20 febbraio (ibidem f.
424) il Trahina costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato
palermitano per dipanare una contesa circa una “vigna posta nel territorio ” di
Palermo che il “vescovo di Giorgento” pretendeva. Per il papa doveva
incardinarsi un processo presso il “tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo
che non vi dovesse respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il
vescovo insiste e fa recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è
costretto a fornire informazioni. (ibidem
reg. 2, f. 386v del 18 novembre 1629).
Chi la fa
l’aspetti ed ecco infatti cominciare i guai del Trahina con la curia romana: è
datato 20 febbraio 1629 questo comando papale: «Giurgento – vescovo. La Santità
di Nostro Signore commanda che V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione
di questa si ritrovi in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de
Sacri Limini [si noti, non erano passati neppure due anni dall’insediamento,
quindi in epoca ben lontana dal triennio tridentino e già il vescovo viene
chiamato a Roma per un rendiconto anzitempo, n.d.r.] che ha comminatione
di tante pene [cosa nota, ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che ammonitoria, n.d.r.]
et assieme per dar giustificatione circa li particolari rappresentati à S.
Beatitudine per parte del marchese di Giuliana, del duca di S. Giovanni et
altri. Cossì esseguirà inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della
medesima Santità di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare
che siamo nel 1630, il 26 agosto.
Il Trahina si
sente protetto addirittura dal re di Spagna e mostra indifferenza verso le
missive tutto sommato di una semplice congregazione vaticana; in fin dei conti
a pontificare è un mediocre famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche
allora come ora un semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo
ministro o del suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci
credono davvero e vi cascano e quel che è più stupefacente è che siffatte
millanterie si traducono in sonanti fatti concreti. Quando si dice, la banalità
delle papali o regali o repubblicane cancellerie.
La pazienza
vaticana, ad ogni modo, è proverbiale: a scuotere l’indolenza (o
l’indifferenza) del vescovo, la sacra
congregazione delle immunità ecclesiastiche accentua il tono ed il 5 di marzo
del 1630 intima: «lasci in termine di doi mesi” la sede e si rechi a Roma “per
ricevere gli ordini di Sua Beatitudine e ciò inviolabilmente, sotto pena di
sospensione et interdetto da incorrervi ipso jure passato il termine et anco
d’altre pene ad arbitrio del papa”. (ibidem,
reg. 2 f. 563r). Il 2 settembre il Trahina risulta ancora inadempiente ma
pazientemente la curia accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).
Ma giunge il
tempo del ravvedimento: monsignor Traina si veste d’umiltà e scrive al papa
adducendo ragioni e giustificazioni. Gli risponde il cardinale di S. Onofrio
notificandogli che il sommo pontefice ne ha preso atto ma si è limitato a
concedere solo un mese di proroga per la visita e la rassegna della prima relatio ad limina (ibidem,
reg. 2 f. 649v del 1° novembre 1630).
Nel terzo
registro di quella sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il sunto di una missiva
inviata al “signor cardinale Doria, arcivescovo di Palermo”. Gli viene
comunicato che finalmente il riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha
fatta ma …. ma «abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto
grave non resti impunito ha la S. di N. S. comandato il zelo, et osservanza di
V.E. verso questa Santa Sede, perché ella col dovuto rigore, et servatis
servandis dichiari il medesimo vescovo incorso nelle pene di sospensione a
divinis, d’inhabilità perpetua à dignità ecclesiastiche, et altre pene
sostenute in detta Costitutione di Sisto Quinto de visitandis S,ti Petri et Pauli liminibus [1]con
procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et comandarrne
poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità Ecclesiastiche, reg. 3
ff. 24-24).
Per quel che ne
sappiamo – e siamo dilettanti per arrogarci easustività di ricerca scientifica
– una tale gravissima censura non è passata sotto silenzio. Si vedrà alla fine
del presente lavoro l’esito di quella scomunica. Sarà il cardinale di S.
Onofrio ad irrogare le pene e poi ad assolvere il vescovo previa adeguata
penitenza
[1] ) non
ci pare pedissequa la citazione sistina; tanto almeno se abbiamo ben capito il
magistrale lavoro di Sergio M. Pagano e Giovanni Castaldo sulle visite ad limina dei vescovi di Piazza
Armerina, pubblicato nell’Archivio Storico per la Sicilia orientale, 1987 fasc.
I-III. La dovizia di notizie, la perspicuità delle note bibliografiche, la
conoscenza diretta degli archivi vaticani rendono quello studio basilare e
concisamente esaustivo sulle visite che ci occupano. Il profluvio di scritti e
librario desta smarrimento e propizia
solo dispersiva erudizione. Pagano e Castaldo ci danno la cifra colta
nell’essenzialità del testo per una circospetta ed avveduta lettura dell’immane
mole cartacea che inonda il ricercatore di microstoria della propria diocesi.
Speriamo che gli insigni autori congedino presto altri lavori su altre diocesi,
magari minori, magari non ricche di spunti storicistici atti a suscitare gli
interessi dei sommi quali, ad esempio il De Rosa. Vero è che Pagano e Castaldo
ci segnalano il Sindoni per certi orientamenti sulla peculiarità ecclesiastica
siciliana ma noi non abbiamo trovato bussole adeguata nella ricerca sulla
diocesi agrigentina (nelle nostre frequentazioni dell’ASV nel tempo passato) e
su quella del nisseno (oggi oggetto delle nostre attenzioni). Speriamo che vi
ovviino Pagano e Castaldo.
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