domenica 7 febbraio 2016


Calogero TAVERNAUn vescovo discusso
Mons. Trahina
nell'Agrigento del '600Giudizi discordanti
da Pirri a Camilleri
Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600


 


 


Una introduzione è d’obbligo


 


come giudicare il Traina? Tra il Camilleri del Re di Girgenti e mons, De Gregorio nella sua storia della diocesi di Agrigento a chi dar ragione?


 

 

Mi impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale, vorrei tratteggiare la figura del discusso vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.

 

Su questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651 – non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le disavventure del vescovo Trahina.

 

Denis Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»

 

Abbiamo sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?

 


 


Il Traina, l’uomo, il vescovo


 

 

 

Ma che vescovo fu codesto monsignor Traina?; anzi vien voglia di domandarci: che razza di uomo fosse? Con la nostra mentalità, dopo un secolo di lotte sociali, dopo una rivoluzione che non può certo dirsi esaurita per totale fallimento sol perché è crollato il muro di Berlino, il giudizio scivola verso la condanna con infamia. Ma saremmo fallaci. Il Traina visse nel Seicento, in quella parte del secolo che produsse ovunque, nell’Italia soggiogata dalla Spagna, rivolte e torbidi. Un vescovo aveva ruoli pur sempre religiosi ed il suo influsso sociale poteva essere rimarchevole ma non determinante. Il Traina vi fu travolto. Poteva districarsi meglio. Non ebbe né polso né cultura per farlo. Fu debole, improvvido. Slittava in una senescenza precoce. Diffidava degli amici e si aggrappava ai parenti. Questi non erano di eccelsa statura. Un fratello, già al quarto voto fra i gesuiti, diventa la sua anima nera. E’ rapace. Tende alle espoliazioni dei benefici ecclesiastici. Il Traina lo preferisce in modo sempre più smaccato. Canonici che in un primo tempo non gli erano stati avversi, il Blasco ed il Picella, ad esempio, gli si rivoltano contro con livore, animo malevolo, tono bilioso. C’è persino da pensare che durante i torbidi siffatti canonici, fingendo di difendere il presule, si siano infilati nelle stanze più segrete, si siano appropriati di beni e soprattutto di carte, quelle custodite più gelosamente perché piuttosto infamanti, quelle della scomunica vaticana del 1631. Escono, comunque, dal segreto quelle carte. Al vescovo diranno che sono state bruciate dai rivoltosi. Ed invece, un frate dell’ordine di S. Francesco di Paola, tal Trimarchi, un autore di libelli di successo, un pubblicista, si direbbe oggi, dedito alle enfiature scandalistiche, può abbondantemente servirsene per una delazione ed una stroncatura del vescovo di Giorgento. E, dopo, quasi reo confesso, è lo stesso canonico Picella  a farne smaccato uso in processi intentati a Palermo presso quel particolare tribunale che fu quello cosiddetto della Monarchia, e al contempo a Roma presso la sacra congregazione del Concilio.

Pensate che il Picella fino ad un certo punto godeva di tanta fiducia da parte del vescovo Traina da essere delegato ad una visita dei cosiddetti Sacri Limini.

Codeste visite a Roma erano diventate triennali dopo il Concilio di Trento. Il papa voleva sapere qual era lo stato della chiesa. In effetti, era un’occasione per liquidare i tanti tributi che un vescovo doveva al Vaticano ed alle varie strutture pontificie per avere avuta assegnata una diocesi. Se non vi si ottemperava scattavano censure pesantissime e si spiegano dati i risvolti finanziari. Il denaro sarà sterco di Mammona, ma nella realtà ecclesiale cattolica ha sempre avuto predilezioni financo morbose, dai tempi della simonia sino a quelle incredibili opere di religione cui dovrebbe attendere l’attuale IOR. Se si era condannati di inadempienza, scattava l’interdetto, i canonici agrigentini eccelsero nel sottilizzare: non occorreva condanna, la censura operava ipso facto. Ad Agrigento si era forbiti nella conoscenza di tutte le pieghe sanzionatorie di una fondamentale bolla in proposito di Sisto V.

Fra le carte che siamo andati a trovarci nell’Archivio Segreto Vaticano, abbiamo rinvenuto una lunga comparsa accusatoria del Picella contro il vescovo Traina, una sorta di elucubrazione in diritto, de jure, colma di citazioni normative, giurisprudenziali e persino dottrinarie. E c’era anche qui una ragione economica.

 

L’interdetto comminato al vescovo inadempiente nell’obbligo della visita triennale dei Sacri Limini comportava anche la privazione delle rendite e pensioni del soglio episcopale che passavano – ipso facto sostenevano i canonici del Capitolo agrigentino – a quel medesimo Capitolo. Tra vescovi e canonici capitolari vi fu sempre attrito a motivo delle prebende. Tra il Traina ed il suo capitolo la contesa fu aspra sino dall’inizio. Subito il Traina predilesse il giovane nipote Tomasino, né particolarmente nobile, per nulla agrigentino, finito tragicamente per mano dei rivoltosi. Il nepotismo del Traina fu inarrestabile, produsse rotture, accese odii. Se il lettore ci degnerà di attenzione anche quando cercheremo di illustrare la faccenda del tesorierato, una ambita e lucrosa dignità canonicale, converrà con noi su tale assunto.

Vedremo come il canonico Blasco prima relaziona a Roma amichevolmente sullo stato della diocesi agrigentina, nel processo di investitura del prescelto regale Traina e 24 anni dopo si accoda al Picella in accuse persino smodate. Il processo vaticano si è incardinato nel 1650 sol perché è l’intero capitolo agrigentino che vuole la testa del vescovo. Il quale appare ora solo, senza parenti, infermo, dedito soprattutto ad acquistare città (Agrigento e Licata) per cifre esorbitanti e per un tempo ineludilmente breve, il breve protrarsi del suo occaso.

Il Camilleri prende questo vescovo tutto secentesco e persino racchiuso nei tempi delle calamità del dopo peste e lo trasporta nel 1718 a vedersela con Zosimo il “re di Girgenti”, storico e vero ma attivo nella parte terminale del breve regno dei Savoia. Fatti come quelli del ’47 rifuggono da inquadramenti nella dominazione savoiarda, epocalmente, culturalmente, socialmente diversa. Si pensi che nel 1718 Zosimo non poteva incontrare alcun vescovo ad Agrigento, essendo sede vacante per la celeberrima defezione del vescovo Ramirez. Il secolo dei lumi operava già ad Agrigento; scomuniche e interdetti lasciano piuttosto indifferenti non solo i ceti colti, ma anche le alte gerarchie ecclesiastiche e persino gli arcipreti periferici come quello di Racalmuto. Nel 1647 tanto non aveva riscontro. La scomunica era temuta e colpiva anche gli stessi vescovi, per quel che si dirà. Certo la marionetta di monsignor Reina – l’alter ego di monsignor Traina – è letterariamente riuscitissima e tanto soddisfa, crediamo, il Camilleri. Risvolti sociali, tragedie popolari, arroganza del potere, rancide visioni classiste, sopraffazioni, manipolazioni della plebe, istinti asociali, ribellismi, atteggiamenti simoniaci, abusi tributari, sono quelli. Il Camilleri è magistrale nel rievocarli, farli rivivere. Dall’ordito letterario prorompono l’indignazione, la condanna, ed al contempo il disgusto verso l’uso delle opere di religione per locupletazioni individuali, per l’arrichimento di parenti imbecilli di mitre episcopali. Ma lo storico – o chi si va a cacciare in fisime tali da volere ostentare comunque una testa di storico – quale giudizio può formulare? E’ legittimato alla condanna? Può togarsi per un processo a distanza di quasi mezzo millennio e spingersi sino alla censura, o alla legittimazione, o magari all’assoluzione per insufficienza di prove?

Lascia che i morti seppelliscano i morti, dice il Vangelo. E il Traina è morto, il modo secentesco di essere vescovo è oggi impensabile, il nepotismo di allora non più praticabile, l’aristocratico linguaggio cui indulgevano allora vescovi ed alto clero oggi totalmente ridevole (gregge, pastore, plebi infime, etc,), l’arbitrio episcopale, la dilatazione della giurisdizione ecclesiastica e faccende analoghe sono in atto solo reminiscenze erudite. Allora noi, che comunque andiamo a rivangare quelle storie, siamo a nostra volta dei morti protesi a seppellire altri morti?


 

 

Cenni biografici del Traina


 

 

Per una strana singolarità, nelle due cupe tavole di bronzo del sacello funerario del vescovo Traina risultano omessi gli anni di vita. Nell’epitaffio che, ancora vivente, il vescovo si era predisposto, stava la consueta specifica degli anni, mesi e giorni della sua umana esistenza, ovviamente con gli opportuni puntini (vixit annos …menses… Dies … , ha riportato il Pirri). E nel fluente latino del Netino si ha: «in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreum construi curavit, hoc addito epithaphio.» La lapide marmorea fu rimossa, sostituita da quelle bronzee sotto un grifagno busto e nel ricamo all’autoelegio che già il presule si era tessuto saltò l’indicazione degli anni mesi e giorni. Mi sussurra padre Alessi che in effetti il completamento del sacello avvenne nel Settecento dopo risse e controversie dei familiari. Nessuno sapeva più a quale età fosse cessato di vivere l’ingombrante antenato. Del resto l’età del Traina restò misteriosa anche durante vita. Non vi è documento pubblico da cui emerga l’anno di nascita. Qualche spiraglio lo si rinviene nel “processus consistorialis” celebrato a Roma nel 1627 per l’elevazione alla dignità episcopale. (cfr. ASV – Processi vescovi – vol. 23, anno 1627, ff. 415 e ss.) A dire il vero neppure i due referenti di fiducia,  il messinese don Dario Costa ed il palermitano don Vincenzo Antonio de Bardis, ne sapevano molto. Entrambi se ne uscirono, aggirando la domanda, con questa circonlocuzione: «l'età sua sarà intorno alli 48 in 49 anni in circa». Diamola per buona; possiamo quindi ipotizzare l’anno 1578 o quello successivo come l’anno di nascita. Essendo morto il 4 ottobre del 1651, possiamo dire che visse 72 o 73 anni.

Per quel che si vedrà, il medico Albanesi giudicherà bello e cotto monsignor Vescovo nel 1647, quando il Traina era un paio d’anni lontano dal settantesimo anno di vita. Non ci si venga a dire che allora la vita media era breve. Nostre ricerche ci  suggeriscono che la mortalità infantile era feroce, oltre il 50%, ma poi vi erano come steccati standard: si moriva spesso nel primo ventennio di vita; se però si aveva la ventura di superare quella barriera sino ai cinquant’anni ordinariamente tutto filava liscio. Altro ostacolo sui sessanta e poi si poteva arrivare tranquillamente sino a punte ultracentenarie, più di ora e con una qualità della vita migliore della nostra senescenza. La selezione naturale aveva il suo vantaggio.

Il certificato medico dell’Albanesi – stilato peraltro a distanza di tre anni – è da sospettare falso, più di quelli dei moderni medici officiati delle notorie visite fiscali avverso professori ed impiegati pubblici avvezzi all’assenza per malattia. Il Traina, che notte tempo raggiunge a dorso di mulo la città di Naro, che è assiduo in Palermo per affari che lo riguardano, che quando vuole sa essere oltraggiosamente energico, a 68-69 anni possiamo sospettare che fosse ancora di sana e robusta costituzione. La tanto ostentata decrepitezza, la sua precoce vecchiaia segnata da terzane di natura maligna, le sue gambe enfiate per podagra erano belle scuse per non andare a fare la visita ai Sacri Limini e soprattutto per assecondare i già bene predisposti cardinali romani. Ci pare almeno di doverlo sospettare.

Il Traina si proclama nobile e noi gli crediamo: sia inteso, trattasi di una nobiltà infima, di un non meglio precisato ordine senatorio.”Pervetusto Senatorio ordine ortus” scrive di sé nella lapide marmorea. Abbiamo voglia di credere che gli araldisti hanno di che storcere il muso. Questo Traina, senatore palermitano, chi era poi? Si pensi che non vi è carta conosciuta in cui si indicano i genitori del Nostro. I soliti referenti dichiarano testualmente, il Costa: « Il dottore Francesco è nativo della città di Palermo di famiglia nobile di quella città. et de cattolici parenti, et se bene io non hò conosciuto suo padre, ne sua madre, ho però inteso dire che egli sia nato da legittimo matrimonio, nobili et cattolici parenti, et io conosco li suoi fratelli, quali sono presenti della città di Palermo et poi la Maestà Cattolica non ammette cappellani, se non provano, che siano nati di legittimo matrimonio cattolici, et nobili, come si è fatto in persona di  esso dottor Francesco et poichè è publicamente tenuto, et reputato da tutti, et l'età sua è di 48 in 49 anni in circa per quanto raccoglio dalla sua cognitione, et dall'aspetto.»; ed il de Bardis: «Il detto dottor Francesco è nato in Palermo mia patria di famiglia nobile, et de parenti cattolici se bene io non ho conosciuto suo padre ne sua madre, ho però inteso dire che egli sia nato di legittimo matrimonio, et come tale l'ho visto publicamente tenere, et reputare da tutti ne mai ho inteso cosa in contrario, anzi quale consta che lui è nato da legittimo matrimonio

Dal medesimo de Bardis apprendiamo poi che il Traina fu ordinato sacerdote nel 1602 e conseguì la laurea nella sua teologia in Catania (S.T.D.) appena due anni dopo.

Il de Bardis ci informa che per alcuni anni il Traina fece il cappellano a Palermo. Solo nel 1610, diciamo così, avanzò di carriera andando a fare il cappellano al re a Madrid, ove dimorò per diciassette anni. Il Costa si dichiara suo collega nella capitale spagnola, amico e padre spirituale. La differenza di età non era poi molta, meno di cinque anni. Il referente, un messinese, è prodigo di elogi nei confronti del palermitano: non ha mai dato scandalo alcuno né in materia di fede, né nella condotta di vita, né nei costumi. Ortodosso nella fede, non denuncia vizi e difetti. Nessuno impedimento canonico sussiste alla sua elevazione al soglio episcopale della diocesi di Agrigento. Parola di un amico, attestazione di un conoscente con ventennale frequentazione. Non ci deve essere dubbio: il Traina è persona di vita integerrima, di buoni costumi, zelante dell’onore di Dio, pietoso verso il prossimo, prudente nell’uso delle cose. E’ dotato  di grande dottrina ed è molto atto al governo della chiesa di Agrigento. Elettovi vescovo, sarà di giovamento alla chiesa agrigentina ed alla salute delle anime di quella diocesi, per le sue buone qualità e per le sue virtù, quali il Costa dice di avere esperimentato di persona, ragione per cui deve così attestare per dettato della propria coscienza. Il linguaggio è ovviamente curiale, ma qualcosa di vero doveva pur esserci. Il de Bardis conferma, rincara anzi la dose di elogi. La sua trentennale conoscenza del futuro vescovo, a Palermo ed a Roma, il suo essergli “paesano”, l’averlo praticato a lungo lo rendono teste affidabilissimo. Sulla fede, sulla vita, sui costumi il suo giudizio collima perfettamente con quello del Costa. Di suo aggiunge che il Traina è persona timorata di Dio, integerrimo, di irreprensibili costumi, notoriamente “anzi è tenuto pubblicamente nella città di Palermo per un santarello”.  Non per nulla il vescovo gli diede licenza di poter celebrare nei monasteri delle monache. Prudente e dotato di dottrina «merita non solo questa Chiesa, ma qualsivoglia maggiore, la cui promotione stimo che sarà utilissima per quella chiesa, et anime di essa, essendo dotato di quelle buone virtù, che si ricercano in un vescovo, aggiungendo, che io non ho detto tanto quanto è della sua vita e costumi.»

 

Nel gennaio del 1627 giunge al cardinale Barberino dalla Spagna una segnalazione: il re ha prescelto il suo cappellano Francesco Traina quale vescovo di Agrigento. Essendo.vacante il vescovado di Girgento per la morte del signor cardinale Ridolfi, « el Rey senor como patron de las Iglesias de Sicilia se ha servido de nombrar y presentar ala dicha Iglesia al Dottor Don Francisco Trahina su Capelan». Il re si riserva quattro mila e seicento scudi di pensione nuova per le persone che sua Maestà vorrà segnalare. Per converso il Traina potrà mantenere la precedente pensione di mille e trecento scudi. La nomina dovrà aver luogo nel primo concistoro utile cui dovrà seguire la relativa Bolla. Lettera datata “a 20 del Enero 1627”, invita “Y Cardinal Barverino”  e firmata da tal Fumasor. Secca, intrigante; la dice lunga sulla iattanza spagnola, sul senso regale di Filippo IV anche con il Papa. Documento dunque che trascende il semplice taglio burocratico.

Il 10 febbraio il concistoro ha luogo ed all’ordine del giorno c’è proprio la disposizione del re: il processo di investitura del Traina. Presiede il cardinale presbitero Francesco Barberini, ex fratre germano nepos del papa. Alla sede vacante di Agrigento, per desiderio del papa, si segnala il dotto Trahina presbitero palermitano come nominato da sua maestà cattolica, per suo giuspatronato. Il cardinale dispone che subito si indaghi sulla vita, sui costumi e sugli altri requisiti del candidato. I testimoni sono lì pronti e cioè don Gaspare Blasco presbitero della diocesi di Agrigento, nonché canonico di quella cattedrale; don Dario Costa presbitero messinese, don Vincenzo Antonio de Bardis, palermitano e d. Giuseppe Micheli, presbitero agrigentino,

 

Il Blasco si dilunga nella descrizione, non molto precisa in verità, della diocesi di Agrigento, che la curia vaticana peraltro conosceva nei dettagli non foss’altro per le precedenti “relationes ad limina”. Del Costa e del de Bardis abbiamo già detto. Giuseppe Micheli è un prete di Bugio di soli 30 anni. Fa da bordone al Blasco. Una testimonianza scialba, priva di interesse, sulla chiesa agrigentina.

Trascriviamo alcuni passi in latino che precisano i meriti, i titoli e le prerogative del Traina.

 

«Eidem anno, indictione, mense die, et pontificatu quibus supra. Supradictus ad m. Ill. D. Franciscus ad docendum de eius doctoratu in Sacra Tehologia facto produxit Privilegium, in publicam formam subscriptum per d. Philippum Taranto vicarium Generalem, et Vice Cancellarium  dicti Almi Studij, et solito sigillo munitum, quod ad effectum hic inserendi mihi etc. consignavit tenoris infrascritti videlicet: 
In Nome Domini Amen, Nos don Philippus Taranto U.J.D. Can.us Cath. Ecclesiae Catanensis in spiritualibus et temporalibus Vicarius Cat. sede vacante  ... (solita forma) ... significamus .. et serie fidem facimus, quod vigore privilegiorum  fel. rec. D. Eugenii Papae 4i et gloriosae mem.ae Don Alphonsi Aragonum et utiusque Siciliae regis quorum auctoritate et potestate, qua in hac parte fungimus in presentiam R.P. M. Vincentii de Mainoin  defectu lectoris  non doctoris etiam Compromotoris, et respondit d. Alex.ri Belmuso pro Decani et Compronotaris, stante absentia P.M. Hieronimi De Catanea Decani, et Compronotaris eiusdem facultatis D. Francisci Traina felicis urbis Panormi habita prius debita informatione de eiusdem religione, et fidei catholica professione, ac juramento super sacramentis Dei evangeliis palam publice in manibus nostris praestito per venerabile Collegium s.t.d. et ministrorum studij presenti in nostra praesentia exstentium et pro Tribunali sedentium unanimeter et concorditer vive vocis oraculo  ... suffragijs d.d. Franciscus idoneus, et sufficiens doctor, et magister in sacra pagina merito exibit judicatus, et approbatus , sicut ex eorum votis vivis suffragijs datis constit evidenter. Nos igitur consideratis scientia, facundia, modo legendi genere, moribus, virtutibusque predicti D. Francisci quibus Altissimus eum decoravit, et illustravit, prout in eius rigoroso et tremendo examine visibiliter demonstratum et cuncta sibi assignata recitando, et declarando argumenta, dubia, et qualibet sibi factas oppositiones seriatim replicando, et clare confutando ac solvendo de consilio  et pari voto ad d. collegi magistrorum  et doctorum  eundem d. Franciscum nomine approbavimus
 
magna cum laude
 
Datum Catinae die 9 Junii 2a Ind. 1604. Don Philippus Taranto
 
Nec non ad docendum se esse de legitimo matrimonio procreatum facto produxit fidem primae Tonsurae subscriptam per rev. d. Archiepiscopum Panormitanum solito sigillo mun.  videlicet
Nos don Didacus de Aedo Dei et ap. sedis gratia Arch. Panormitanus regiusque consiliarius etc. ... notum facimus  presente die datae presentium in Cappella Arciepisc. Palatii huius urbis dilectus nobis in Christo filium Frasciscus Traina Panormitanum ex legitimo matrimonio procreatum scholarem panormitanum clericali carattere insignisse  eidemque hab. primam clericalem tonsuram cum ceremonijs  ... etc.
in die veneris XVIII presentis mensis decembris quatuor temporum  nativitatis, D.N. Jesu Christi..
datum un Urbe feli. Panormi die quae supra sextae Ind. 1592
 
Ego Odoardus Tibaldesius clericus Spoletinae..

 

E dopo tanto latino che pochi dei miei pochissimi lettori avranno seguito ecco ancora, per un altro pizzico di pazienza, la chiusa cardinalizia, purtroppo sempre in latino, che consacra Traina quale degno presule della Diocesi della estrema parte sud della Sicilia.

 

Ego diac. Franciscus Card. Barberinus ex praemissis censeo d.mum d. Franciscum Traynam dignum esse ut  ecclesiae Agrigentinae praeficiatur in Episcopam et pastorem

Cad. Barberinus

Idem censeo ego Vet. Eps. Ostiens. Card. Brandinus

Idem censeo ego C. presb. card. Pius

Item censeo ego diac. card. Aldobrandini

 

Avremmo qui voglia di continuare con il nostro latino, ma ce ne asteniamo. Si tratterebbe dell’atto di fede del futuro vescovo Traina, l’equivalente del Credo quale lo recitavamo nella Santa Messa quando non era stato introdotto il volgare. Andrebbe studiato per cogliere sfumature che pur palesano come la fede cattolica sia cambiata almeno rispetto al moderno catechismo.

 

Giunto il Traina ad Agrigento, inizia per così dire il suo calvario. Subito un bel contrasto con i canonici del luogo. Quei birboni sanno che di lì a poco scade il triennio per la visita alla lontana Roma. Noi li riteniamo in mala fede. Non avvertono il vescovo che, nuovo alle cose episcopali, lascia decorrere il termine. I canonici attivano gli atti giudiziari presso il Tribunale della Monarchia a Palermo e presso la curia vaticana. Al Traina sarà comminata una umiliante scomunica da cui sarà assolto previa debita penitenza. Il principe Gioeni ed altri maggiorenti di Cammarata, Chiusa S. Giovanni, Giuliana, ed anche Racalmuto sono pronti a dimezzare la giurisdizione del Traina a vantaggio dell’Arcivescovo di Palermo. Il gioco in un primo tempo riesce, compiacente la curia vaticana, Ma il re, titolare del giuspatronato sull’intera Sicilia, non ammette simili fellonie. Impone al Papa un ritorno all’ordine piuttosto scottante per Roma. Il Traina può gongolare. Intanto comincia a provar gusto nell’arricchirsi. Considera serpi in seno i canonici e si avvale in misura crescente dei propri parenti. Il Pirri gli fa visita e l’adula nella sua possente storia religiosa della Sicilia. L’Alaimo, il rinomato medico racalmutese, gli dedica un suo libro di medicina (il peggiore). Tutto sembra volgere al meglio quando scoppiano i tumulti del ’47. E da qui riprendiamo il nostro discorso critico iniziando con la menzione di quanto, mutando registro, annota nei suoi diari che finiscono pubblici Rocco Pirri.


L’EPISCOPATO AGRIGENTINO DEL TRAINA


 

 

 

 

Dalla cronaca alle pubbliche accuse


 

Il Pirri, oltre alle sue opere storiche, ci ha lasciato una sorta di cronaca, un diario dei pubblici eventi degli anni terminali della sua vita:  gli annales Panormi sub annis d. Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D. Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Noi ci avvaliamo, però, della traduzione – vetusta ma singolare – del Di Marzo. «Ma in Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese stesso [maggio] (giorno per quella città solennissimo, che anche si festeggia con corse), destossi a gran tumulto la plebe, bruciando le scritture dell’archivio civile e criminale e liberando i carcerati dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso il furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del giurato La Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto colà il Sacramento. Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor dei giurati e sindaco della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre alla spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia. Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»

«Ma inoltre que’ di Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la vicenda agrigentina – non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in grandissima carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed espostagli una sì grave sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se non si provvedesse la città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi crescere il prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando venderlo a condizioni migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il frumento, di che si era provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo, chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole di lui, creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran tumulto al palazzo, per darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i famigliari di dentro ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che quelle genti fecer grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più accaniti sul primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di archibusi il nipote del vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario ed altri sette domestici, e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto in tre luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo, e dietro una parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una somma di quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito appo alcune fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor pastore in casa del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il vescovo fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al duomo, ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento (che indi gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando dodicimila scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro dodici mila scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo al vicerè che si dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma poiché neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il vescovo medesimo con molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni capi del tumulto, che furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e preso. Onde essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi una squadra di guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime, significando con tutta sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del Bosco, ov’ei volesse levar di carcere i loro compagni, e dare indulto pel crimenlese  e per tutto ciò, ch’essi e non altro scopo avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’ tempi, e dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla proposta con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso, come più innanzi diremo.

«Frattanto egli, prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea colà mandato il capitano di campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso, ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con dieci uomini di quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare vettovaglie per la flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla tempesta, ruppe nel lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste, furon messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»

Pare sentire, se non la prosa, il racconto di Camilleri, fino nei minuti particolari, a parte s’intende l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare poi, che il Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo Trahina. Quella taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata. (Episcopus vero … summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum laudibus, .. Praesul Illustrissime», ti piaccia patrocinare la nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640.  Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.

 

Oggi non sono tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De Gregorio, suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo ingenerosi verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è stato anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.

Altro difensore ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo per dirne qualcosa. Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo epitaffio della Cattedrale ed a tramandare, almeno negli ambienti ecclesiastici, un giudizio non sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma avarizia”.

 

Per quel che concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli dedicò anche una sua opera medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!

 

Il vescovo Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella procella; è lo stesso Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo … [furono] proposti tre ad occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti, Diego Requesenz vescovo di Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti». «Fu eletto fra essi il Napoli, che era il più vecchio»

 

  Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino fornisce notizie sul presule agrigentino, come dire piuttosto burocratiche. Disincagliandoci dal suo pregevole latino – ma latino – abbiamo che FRANCISCUS TRAHNA, un palermitano oriundo o lui o i suoi antenati da Cammarata, era riuscito ad entrare nelle grazie di Filippo III e IV. Dalla corte regale viene dotato di mille aurei a carico della mensa episcopale siracusana. Come vicenda di vago sapore simoniaco il nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare. Ma non basta: subito viene proposto al presulato agrigentino uscito dalle vicende non edificanti della rinuncia dell’arcivescovo reggino, il palermitano Annibale Afflitto, non per banale questione di soldi sembra capire dal Pirri ma per ambizione; non passò molto ed infatti l’Afflitto finì a Catania, sede indubbiamente più prestigiosa di quella agrigentina, ed anche più ricca. Un confronto? 14 mila scudi aurei a Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a Catania.

 E tutto ciò dopo la morte del cardinale fiorentino Octavius Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato dall’incipiente peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi – in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’ errore questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la pagina del Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.

Il re di Spagna dunque presenta l’oriundo cammaratese a papa Urbano VIII. Sappiamo del processo concistoriale, ma il Trahina vi passa indenne, anzi cum laude. Alle spalle le buone protezioni vigilavano provvide. A consacrarlo, nella chiesa dei Frati Riformati di San Francesco di Ripa, la domenica del 4 di marzo del 1627 è il cardinale Cosimo Torres. Subito giungono le lettere apostoliche. Come non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la pensione dei mille scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed annuente il pontefice (optimo Rege id enixe efflagitante, summo vere pontifice speciali praerogativa benigne annuente - e noi per gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Salerno agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbiamo trovato assiduo nelle carte episcopali che attengono a Racalmuto. A visitatore viene prescelto un altro dottore in sacra teologia, il canonico Filippo Marino. Succede a Corrado Bonincontro di morire. A chi assegnare quell’appetibile canonicato? Il papa da Roma l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è sottile: la Dignità non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò vale la prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino, colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti. E per complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che percepiva e voleva continuare a percepire l’annessa cospicua pensione. E qui nasce controversia, naturalmente a Roma. L’intrigo diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis causa, adhuc controvertitur». Tralasciamo gli interludi in cui un qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il Netino.

E finalmente il vescovo si dedica alla cura delle anime. Visita la diocesi e per reprimere i costumi dei nostri avi indice il Sinodo il 14 ottobre 1630 che trova pubblicazione nel 1632 con i tipi di Decio Cirillo di Palermo. Il librettino si conserva ancora, con amorevole cura da parte di monsignor De Gregorio, presso la Lucchesiana.

Si mette ad ornare la cattedrale e Pirri ne sottolinea le opere più prestigiose. Rinviamo ai lavori accurati e puntigliosi di monsignor De Gregorio per i dettagli. Restiamo sensibili alla costituzione di un monte di pegni. Maliziosi come siamo, ci domandiamo: tutta bontà d’animo e generosità?

Sei candelabri d’argento tra cui potesse rifulgere il Crocifisso volle del tutto nuovi. Ordinò un’arca argentea per San Gerlando. Ed il palazzo vescovile – sempre quello dei moti – abbellì e fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia per gli occhi, godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per essere autorizzato ad insignire i propri canonici con ancora più vistosi paludamenti: almuzi, rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla grande, praestantiores speactabilioresque. Vanitas vanitatis, omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di allora) ovviamente non la pensavano così.

Ampliò il seminario e ciò meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine: mentre si adoperava a tante meritorie opere, le molestie e le fiamme dell’odio lo avvilupparono, dice il Netino. Lo accusarono presso il papa Urbano VIII di non avere ottemperato all’obbligo della visita triennale dei sacri limini e, soprattutto, di avere abusato della giurisdizione ecclesiastica nella diocesi, massimamente a Cammarata, in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed a Giuliana. Il cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25 febbraio 1631, un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di Palermo con cui si convocava a Roma il Trahina.

A Roma il Trahina andò e riuscì a farsi perdonare dal papa le proprie manchevolezze: tanto almeno ci pare che sostenga il Pirri. Per quel che si mostrerà dopo a noi risulta qualcosa di diverso. Per il Netino, comunque, «summo cum honore, summaque bonorum omnium laetitia, ac plausu brevi ad suam rediit Ecclesiam mense Majo» (come dire nel 1631 come dire il vescovo Trahina).

 

Sennonché, non molto dopo, il 13 dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un prelato della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto, il ducato di San Giovanni, la contea di Cammarata, di Giuliana, di Burgio, di Chusa e dopo di Racalmuto, tutte terre della diocesi di Agrigento, vengono sottratti alla giurisdizione civile e criminale ed assegnati a quella del Metropolitano di Palermo. Si infuria Filippo IV. Il vicerè viene investito dalla Spagna con lettere scritte con animo esacerbato, sature di indignazione per l’inqualificabile vulnerazione dei diritti regali e con toni di malcelato disappunto. La faccenda torna a Roma; si riaprono i termini del contenzioso. Asserita l’istanza popolare (chissà come appurata) e data ampia soddisfazione al vescovo agrigentino, si ottiene la riappacificazione (o la si impone) tra il presule Trahina ed i vari signorotti feudatari locali, imponendosi il totale ripristino dell’antica giurisdizione.

 

A questo punto il giudizio del Pirri nella “notitia” sulla Chiesa agrigentina, si articola nei frusti lemmi della piaggeria: «noster Antistes ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in pauperes munificus, in subditos comes nunc in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreaum construi curavit.». Monsignor De Gregorio, acuto e pur tuttavia diligentissimo storico della chiesa agrigentina mostra ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale del Netino. Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un affievolimento dei toni encomiastici. Noi – anche per la documentazione vaticana che dopo ci industrieremo di commentare – ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale avverso codesto presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle stroncature che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie – prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria “testa di storico”) “in odium Agrigenti Episcopi

 

Da vivo il Trahina fa incidere sul suo sacello marmorea questo epitaffio che noi tentiamo di tradurre:

«D.O.M.  DON Francesco Trahina palermitano, espertissimo nelle divine lettere, appartenente all’antico ordine senatorio, per diciassette anni al servizio dell’invittissimo re di Spagna, Filippo III e IV, con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha tratto con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino, acerrimo propugnatore dell’immunità ecclesiastica, per la cui difesa ebbe a soffrire infinite afflizioni, ampliò il seminario, adornò con somma munificenza il tempio, e vi eresse il proprio sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri mette i classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come recitavano le formule testamentarie dell’epoca.

 

Spetta al Mongitore scrivere l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua e stravagante la segnalzione della consacrazione di Franciscus Trahina Panormitanus, il 13 novembre del 1639,  solemni ritu  della chiesa Divae Mariae de Misericordia Panormi fratrum tertii ordinis S. Francisci.

 

Un semplice accenno, quindi, ai moti del 1647 e subito un diffondersi sui mercemoni comitali del Trahina. Le disavventure e le spoliazioni popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare, direbbe il Manzoni, non avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di un tale alto prelato, originario di Cammarata, e per fortune ereditarie pertanto non doviziosamente ricco. !20 mila scudi d’oro non erano una bazzecola eppure dopo i furti il vescovo è in grado di girarli al Re Cattolico – quando poi si nega l’espoliazione spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene conto di siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di fregiarsi del titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente -  di feudatario della Civitas Agrigentina. Era il 1648, il mese di novembre, addì 24.

Redige testamento agli atti del notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre 1651. I soliti legati alle chiese, qualche beneficenza ai poveri, appannaggi ai mansionarii della sua Cattedrale acciò fossero diligenti nella recita del Sant’Ufficio. C’era al tempo la mania di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non vi si sottrae. E un occhio particolare per le repentite: soffre d’alumbramiento annoterebbe malizioso Leonardo Sciascia.

Per la dotazione libraria del seminario, ben 20 once annue, e questo è tratto naturalmente molto esaltato. Fu, invero, cosa commendevole. E così il presule chiarissimo concluse l’ultimo suo giorno, il 4 ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era costruito nella cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a leggere a mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere tavole eburnee: il contorto latino dovrebbe scandire immarciscibilmente la gloriosa ed edificante  vicenda di monsignor Francesco Traina, oriundo cammaratese.

Domenico De Gregorio, nella sua Cammarata – notizie sul territorio e la sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura del vescovo; in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano solo le vicende del 1631, secondo l’asettica versione del Pirri. (cfr. pag. 220-221). Dopo, nella monumentale opera sull’intera chiesa agrigentina, il Traina troverà ampio spazio ed in termini di plaudente valutazione.

 

Altro laudator del vescovo è, impensabilmente, il Picone. Dopo avere traslato nella sua impacciata prosa ottocentesca il racconto del Pirri, quello dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag. 541 delle sue celebri (e celebrate Memorie), ha il destro di commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei tumulti, quale ce la tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso non osservare, che la cagione di quelle sciagure non debba attingersi alla pretesa avarizia di quel prelato, ma ad altra sorgente che la storia non volle rivelare. Egli è un fatto incontrastato, che Girgenti deve a quel vescovo la costruzione dell’arca d’argento, ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando, la creazione e la dotazione del Monte di Pietà, nel quale si mutua denaro a lieve ragionata di frutti, la costruzione e dotazione dell’ampia biblioteca del seminario e di questo il perfezionamento, la ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un giardino piantatovi alla parte di tramontana (Pirr., Sic. Sacra, T.I, pag. 772), oltre altri doni che egli largito aveva alla nostra chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640, otto anni prima delle rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia in quel vescovo, larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto dei Diarii e di Botta, il quale dovette copiarli, o è mendace, o deve far supporre in colui un radicale cangiamento di idee e di sentimenti a sbalzi; il che ripugna alla verosimiglianza. La generosità del Traina, e il mendacio di quel racconto saltano più palpitanti e provati dal fatto avvenuto nello stesso anno 1648, in cui, appena spenti gli avanzi di quei tumulti, egli compra la città nostra, contentandosi del semplice usufrutto, attaccato alla sua cadente età, non avendo voluto trasmetterne la proprietà ai suoi eredi. Io do dunque tutta la fede alla narrazione degli eccessi consumati dal popolo, nissuna all’avarizia del Traina, cui ritengo qual uno dei benefattori della città nostra, e bersaglio alle calunnie inventate dai suoi nemici, che invidi di sue ricchezze, non dovettero esser pochi».

 

Ci pare che sia scattata la molla del dispetto. Ora sono gli ambienti curiali agrigentini che sollecitano la congregazione romana delle immunità a redarguire il cardinale arcivescovo di Palermo (Giannettino Doria): i ministri di quella curia arcivescovile “inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate nelle cause per occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che repugnando alla dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della medesima Congregatione” necessita conseguentemente di un intervento del cardinale Doria atto a non permettere “simile abuso reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24 luglio 1628 (S.C. I.E., reg. 2 f. 326v).

 

 Se l’albagia del semplice senatore palermitano – in atto vescovo a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso quello di Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle storie secentesche siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di sovente nella microstoria di Racalmuto.

Eppure, ancora nel 1629, il 20 febbraio (ibidem f. 424) il Trahina costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato palermitano per dipanare una contesa circa una “vigna posta nel territorio ” di Palermo che il “vescovo di Giorgento” pretendeva. Per il papa doveva incardinarsi un processo presso il “tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo che non vi dovesse respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il vescovo insiste e fa recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è costretto a fornire informazioni. (ibidem reg.  2, f. 386v del 18 novembre 1629).

 

Chi la fa l’aspetti ed ecco infatti cominciare i guai del Trahina con la curia romana: è datato 20 febbraio 1629 questo comando papale: «Giurgento – vescovo. La Santità di Nostro Signore commanda che V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione di questa si ritrovi in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de Sacri Limini [si noti, non erano passati neppure due anni dall’insediamento, quindi in epoca ben lontana dal triennio tridentino e già il vescovo viene chiamato a Roma per un rendiconto anzitempo, n.d.r.]  che ha comminatione di tante pene [cosa nota, ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che ammonitoria,  n.d.r.] et assieme per dar giustificatione circa li particolari rappresentati à S. Beatitudine per parte del marchese di Giuliana, del duca di S. Giovanni et altri. Cossì esseguirà inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della medesima Santità di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare che siamo nel 1630, il 26 agosto.

Il Trahina si sente protetto addirittura dal re di Spagna e mostra indifferenza verso le missive tutto sommato di una semplice congregazione vaticana; in fin dei conti a pontificare è un mediocre famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche allora come ora un semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo ministro o del suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci credono davvero e vi cascano e quel che è più stupefacente è che siffatte millanterie si traducono in sonanti fatti concreti. Quando si dice, la banalità delle papali o regali o repubblicane cancellerie.

La pazienza vaticana, ad ogni modo, è proverbiale: a scuotere l’indolenza (o l’indifferenza) del  vescovo, la sacra congregazione delle immunità ecclesiastiche accentua il tono ed il 5 di marzo del 1630 intima: «lasci in termine di doi mesi” la sede e si rechi a Roma “per ricevere gli ordini di Sua Beatitudine e ciò inviolabilmente, sotto pena di sospensione et interdetto da incorrervi ipso jure passato il termine et anco d’altre pene ad arbitrio del papa”. (ibidem, reg. 2 f. 563r). Il 2 settembre il Trahina risulta ancora inadempiente ma pazientemente la curia accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).

Ma giunge il tempo del ravvedimento: monsignor Traina si veste d’umiltà e scrive al papa adducendo ragioni e giustificazioni. Gli risponde il cardinale di S. Onofrio notificandogli che il sommo pontefice ne ha preso atto ma si è limitato a concedere solo un mese di proroga per la visita e la rassegna della prima relatio ad limina  (ibidem, reg. 2 f. 649v del 1° novembre 1630).

Nel terzo registro di quella sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il sunto di una missiva inviata al “signor cardinale Doria, arcivescovo di Palermo”. Gli viene comunicato che finalmente il riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha fatta ma …. ma «abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto grave non resti impunito ha la S. di N. S. comandato il zelo, et osservanza di V.E. verso questa Santa Sede, perché ella col dovuto rigore, et servatis servandis dichiari il medesimo vescovo incorso nelle pene di sospensione a divinis, d’inhabilità perpetua à dignità ecclesiastiche, et altre pene sostenute in detta Costitutione di Sisto Quinto de visitandis S,ti Petri et Pauli liminibus [1]con procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et comandarrne poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità Ecclesiastiche, reg. 3 ff. 24-24).

 

Per quel che ne sappiamo – e siamo dilettanti per arrogarci easustività di ricerca scientifica – una tale gravissima censura non è passata sotto silenzio. Si vedrà alla fine del presente lavoro l’esito di quella scomunica. Sarà il cardinale di S. Onofrio ad irrogare le pene e poi ad assolvere il vescovo previa adeguata penitenza



[1] ) non ci pare pedissequa la citazione sistina; tanto almeno se abbiamo ben capito il magistrale lavoro di Sergio M. Pagano e Giovanni Castaldo sulle visite ad limina dei vescovi di Piazza Armerina, pubblicato nell’Archivio Storico per la Sicilia orientale, 1987 fasc. I-III. La dovizia di notizie, la perspicuità delle note bibliografiche, la conoscenza diretta degli archivi vaticani rendono quello studio basilare e concisamente esaustivo sulle visite che ci occupano. Il profluvio di scritti e librario desta smarrimento e  propizia solo dispersiva erudizione. Pagano e Castaldo ci danno la cifra colta nell’essenzialità del testo per una circospetta ed avveduta lettura dell’immane mole cartacea che inonda il ricercatore di microstoria della propria diocesi. Speriamo che gli insigni autori congedino presto altri lavori su altre diocesi, magari minori, magari non ricche di spunti storicistici atti a suscitare gli interessi dei sommi quali, ad esempio il De Rosa. Vero è che Pagano e Castaldo ci segnalano il Sindoni per certi orientamenti sulla peculiarità ecclesiastica siciliana ma noi non abbiamo trovato bussole adeguata nella ricerca sulla diocesi agrigentina (nelle nostre frequentazioni dell’ASV nel tempo passato) e su quella del nisseno (oggi oggetto delle nostre attenzioni). Speriamo che vi ovviino Pagano e Castaldo. 

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