IL TEMPO DEI BIZANTINI
Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si
ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante
testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è
il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in
contrada Montagna. Si dà infatti il caso che, al di là dei divieti codificati
dalle Autorità a difesa di una asserita rilevanza archeologia, in tale contrada
nessun altro reperto antico è sinora affiorato. E dire che le ricerche dei
privati proprietari sono state frenetiche. Ciò fa pensare che il tesoretto fu
nell’antichità nascosto in zona disabitata per comprensibile cautela. Il centro
abitativo era discosto, ad un paio di chilometri circa, attorno alle
Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano -
come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai
decisamente convertiti al cristianesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di
lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro
cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali abbiano frugato
all’interno di quelle tombe, distruggendo e trafugando - a beneficio pare di un
giudice che intendevano ingraziarsi - un patrimonio archeologico
d’incommensurabile portata storica. Ma
la zona resta pur sempre archeologicamente ricca e saranno gli scavi futuri a
fornire materiale esplicativo di quel periodo di storia racalmutese, oggi
affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è
esaustivo ed il competente Griffo ([1][28])
retrocede la datazione dellle monete al V secolo: cosa inverosimile se
le effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre
un secolo posteriori)
A seguito della scoperta archeologica
del 1990 in contrada Grotticelli le
pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo sul
territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991
viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona denominata
Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di
epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad
arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato
altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto
insediamento abitativo in quella zona a partire da un’epoca che per quello che
abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero
romano.
Biagio Pace, invero, accenna ad un
ipogeo cristiano in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di
Racalmuto» ([2][29]) Nostre personali ricerche ci portano a
ritenere che l’importante notizia poggia su questo passo del Tinebra Martorana:
«..alla contrada Grutticeddi esiste
un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in
quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di
ossa». Da qui - per esser franchi -
all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che
inattendibile come i recenti ritrovamenti archeologici nei dintorni sembrano
comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle
erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa
Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri
della corte di Bisanzio. Sulla scia di
autorevoli storici ([3][30]) è pur congetturabile una sorta di
continuità tra l'assetto agrario
dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura
saracena a Racalmuto, come altrove, fu
profonda ma non invalicabile.
Ma l'ultimo reperto relativo a Racalmuto
pre-arabo resta per il momento il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre
duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle
monete a Racalmuto, ho sentito varie
versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto
di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino
di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo;
imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle
monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André
Guillou ([4][31]), secondo il quale è da collocare nei
secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi
nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto
costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».. ([5][32])
Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate
da errori di datazione ([6][33]).
RACALMUTO,
VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829),
il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio viene inglobato
nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne possono formulare tante, di
verità storiche solo deludenti barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le
attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché.
Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con
l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove. Nessuna reperto attesta il sopravvivere
in questa zona della comunità bizantina, dopo il consolidarsi del dominio
arabo. E se diamo credito alla toponomastica, una località chiamata Saracino è segnata nelle mappe catastali
al n.° 21, mentre quella di Casalvecchio
- ospitante l’antico villaggio greco - vi è indicata coi nn. 47-48, a
testimonianza della non stretta contiguità dei due luoghi d’insediamento.
E che può dirsi della
religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non
sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo
nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo
lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere verso tesi di
eclissi della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un
fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna.
Siamo troppo affascinati dai versi di Ibn HAMDIS ([7][34]) per non propendere per questa seconda
tesi. Pianse costui con accenti che trafiggono ancora il cuore dei racalmutesi
di sangue arabo:
«Ho
riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla
malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate
le sue moschee in chiese,
«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane
mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che foste
propugnacolo contro popoli possenti.»
«Quanti occhi tra voi vegliano
paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei
fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di
luce, e vi lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini
giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci
leoni.»
Consolidatasi la
conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior
parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano
soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era,
dunque, superato il periodo eroico del gihàd
ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni
amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e
cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani
erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali
convertiti. La restante popolazione era costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio
del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di
religione e di culto.
Quanti erano i berberi
e quanti i dhimmi a Racalmuto? E
quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero
deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere la gizya
ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella -
inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi, le
donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo neppure un
quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente
coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del
calibro di Rizzitano ([8][35]) per tratteggiare questa congiuntura
storica di grande risalto anche per le vicende arabe locali.
«In entrambe .. le
classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi
dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche
violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di
Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici
condottieri erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e
tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto
decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel settore
centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento e
mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle
posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione
amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che
elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva
l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione con i
bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e
forse si esasperava quella incompatibilità fra le due razze diverse che, in
Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti
scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici
venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti
erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo
apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre
sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero
all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo vii, quando l’Islàm iniziò la conquista
del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben
noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli
arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e
capacità soprattutto nel settore agricolo.
«Per quanto concerneva
invece i dhimmi, questi erano
soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini
commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale
che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante;
oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi
erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del
principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi
musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di
conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più
dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è
chiaro che erano i dhimmi a dovere
«pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto
sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto a nuovo
governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri
due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito
di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che
si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate
presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo
rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([9][36])»
Non è questa la sede
per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di
Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi
investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono -
scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di
Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di
malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò
guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30
dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le
méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso
dell’esercito depredevano ogni parte dell’isola. »
Elementi arabi, con
intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte
(investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo,
depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione.
Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica
tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto»,
questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se
così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del
Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...] a memoria perenne.»
Amari ritiene che
Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran
sol perché Ghîran in arabo significa
grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che si riferisca alla
contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi
Grotticelle attorno a cui si spandeva un’apprezzabile villaggio
arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo,
nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non
perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si
sollevò, ancora una volta, nel 937
contro il delegato distaccato da Sàlim in quel territorio accusato di soprusi.
La comunità racalmutese dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli
marciarono su Palermo ma furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono
adire le vie diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché
destituisse il governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese,
però, le ostilità e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La
rivolta finì con il propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq
(937-941) - che era il nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel
novembre del 940 riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola
capitolare per fame. Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi
furono senza dubbio, ma anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate del 948
viene a Palermo l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia dej
Kalbiti. Con lui ebbe inizio in Sicilia
un emirato ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale -
protrattosi per circa un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra
contraddistinto da un più elevato livello di vita. Possiamo sospettare che
anche l’insediamento musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole
congiuntura.
Ma attorno al 1065 si
determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono diverse le
famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara, Girgenti e
Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e Catania s’indussero ad appoggiare i contrattacchi cristiani nel
1060-61. Per accordo col Guiscardo, la conquista della Sicilia toccò
soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della
dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma
non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche
ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una
fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire in
arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette - era sotto il dominio di Chamuth.
Conosciamo le gesta di Chamuth perché un
benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo Ruggero ce ne ha
tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI del monaco Gaufredo
Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma nel raccontare quegli
eventi nella sua Storia dei Musulmani di
Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta, trascriviamo quel
passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia che, in ogni caso,
investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad opera dei predoni
normanni.
«Il cauto
normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra appunto Michele
Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano
tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086, radunava
a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per la
speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva allora
Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della
sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un tempo
nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027)
indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna,
andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia, passato in
Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in quelle
province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm; portato
in alto non da propria virtú, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende
dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde
alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di Castrogiovanni, mentre la
moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la
città, batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì
venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció fortissimo un
castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e
battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro,
Guastarella, Sutera, Rahl, ([10][37]) Bifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta,
Licata, Ravenusa; ([11][38]) di talché occupava tutto il paese
dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei
compose non guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi
risponde tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di
Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita caduti in suo potere,
tenne Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra,
che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con
servare la sua famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([12][39])
E’agevole intravedere nel racconto dell’Amari
la fonte malaterrana. Spesso la pagina del grande storico è al riguardo una
mera traduzione dal latino ([13][40]). Credo che Chamuth abbia avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto
ed è quindi non dispersivo soffermarsi su questo personaggio. Costui, caduto in un tranello dell'astuto Ruggero,
per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano. «Chamut - precisa
Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur, hoc solo
conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea
conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con
moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla
quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far
fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri
e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in
presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere
i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi
l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una
sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli
gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma,
gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella,
secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono
termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanze,
arroganza del potere. Sono la lingua
degli uomini del potere che
parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla
loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari
nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma
a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono
i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai
giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori
quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni
cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra' (v. p. 60 e 61
e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo
stato servile alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro
eppure vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato
agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se
non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie, Tinebra-Martorana ricorre
alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi indulge con un benevolo sorriso
- e alle invenzioni fantastiche di un ‘galantomo’ della fine del secolo scorso,
Serafino Messana. Abbiamo accennato alla poca verosimiglianza delle
notizie di un governatore di Rahal-Almut a nome Aabd-Aluhar,
servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto
nell'anno 998; di una popolazione di
2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcidiacono Du
Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel
nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte
quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico
Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per
il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di
Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in
quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui
'dsimmi, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino Picone.
I gravami, le violenze, le soggezioni, la
morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione di Racalmuto nell'XI
secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire quelle scene di
panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito di osannare il
potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno, o erano poeti
arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare echi, rimpianti o
cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il ricordo di quel nome
antico. Solo il Racel del Malaterra,
incerto e controverso.
Eppure, furono giorni funesti: i normanni -
cavalieri nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La
Racalmuto contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani
mogli furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai
capelli chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli
longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri
giorni, ineludibilmente.
Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro
Chamuth - quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto
- e lo descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Malaterra,
ma ne stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua
Storia dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni;
occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire,
non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra,
né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento
lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed
ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte:
rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di
compiere il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle:
alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne
tornava tutto lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo
stuolo chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo
appostato già col musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri,
traendosi dietro su per i muli quanta altra gente poté, quasi a tentar impresa
di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que' fur
tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla
volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte,
e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò,
impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né
gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi
sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospettasse di
lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di
soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi
lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al seguito di Ruggiero
per la consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a
Racalmuto (la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte? A
Racel vi era forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza
Castello); vi era, probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e
disattenti; non erano eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i
cento lancieri di Ruggiero da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il
casale e per le campagne a razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto
predoni.
L'Amari è aspro nei giudizi contro il capo
degli arabi, CHAMUTH. Ma costui aveva già moglie e figli in mano dei Cristiani
a Girgenti. Il Malaterra, monaco benedettino, intorbidisce ancor più la sua
non chiara prosa per mettere un velo pudico alle insane voglie dei predatori
suoi compaesani. Costa fatica al Conte Ruggero non far violare la sua
eccellente prigioniera. E noi qualche dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo
dell'iniziativa del Normanno. I suoi sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del
resto si era già macchiato di molte ignominie, specie in giuventù. Il suo biografo ufficiale che pure
è chiamato all'osanna del suo committente, ne sente tante a corte da
inorridire, fors'anche per la sua mentalità claustrale. Ed allora la sua
settaria cronaca si lascia andare a pesanti giudizi morali contro i suoi.
Quando, però, si tratta di cose militari, il
candido monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze
del nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; quelle amiche
e vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed attendibilità. L'Amari,
tutto preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e sentenzia che nelle
cronache del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per
otto ed, invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano le forze
normanne, quando vincono.
Eppure il Malaterra resta sempre cronista
piuttosto attendibile, come dimostra il Pontieri nell'opera citata. I tanti
episodi cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne,
tra i quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel),
hanno una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non
sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite
della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non
dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta le fanfaronate
dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di generali, si fanno
chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in Sicilia, ma restano
i rudi vandali, incolti ed immorali della loro avventuriera giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze che gli ispirano
disagio morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive,
esalta il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare chiosando
gli eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari irridere a Chamuth. Lo ha
fatto alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio va, però,
corretto con una lettura più spassionata della cronaca del benedettino. Questi dice che il Conte Ruggiero aveva già
debellato tutti i potenti di Sicilia, eccetto Chamuto. La voglia di annientarlo
era tanta ma l'impresa non era agevole e ciò costituiva un cruccio per il
Normanno. Ruggero non intende demordere; sa però che non è sul campo che può
avere ragione del musulmano. Pensa, quindi, a batterlo con l'astuzia e
l'inganno. L'ablativo assoluto adoperato dal Malaterra è efficace: «ipso
circumveniendo debellato». Lo si può debellare solo circuendolo. Chamuth
allora non è l'imbelle che ama descrivere M. Amari. Per vincere il Musulmano,
il conte Ruggero assalta l'impreparata Girgenti ove sa che dimorano la moglie
ed i figli di costui. Prende la città, la fortifica. Principalmente si
preoccupa della sorte della moglie di Chamuth. Questa viene sottratta da ogni
«dehonestatione» e viene messa sotto diretta tutela del conte normanno, il
quale è consapevole che in tal modo il Saraceno può venire ricattato ed essere
facile preda del nemico. Il conte Ruggiero è proprio «sciens Chamutum sibi
facilius reconciliari», afferma il Malaterra; ciò equivale a dire che così
sarebbe stato più facilmente soggiogabile.
Per fare terra bruciata attorno al nostro Chamuto, tocca ad 11 castelli l'ignominia
delle scorribande dei lancieri di Ruggiro. Alla nostra Racalmuto è dato
assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani,
Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti
Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuto si arrese, non ci sembra
proprio che tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se
anche fosse stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le città di Chamuth sono
costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di Girgenti e
Castrogiovanni ci convince molto di più
delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del
resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui
Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano tagliato i viveri a
Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
Il Chamuth venne in seguito rammentato con
qualche tono di esaltazione. A Sciacca per secoli si pensò di possedere il
fonte battesimale in cui era battezzato l'ultimo potente arabo di Girgenti, e
si era fieri di ciò. Un certo Vincenzo VENUTI aveva scritto una memoria in tal
senso. A stroncar tutto è il solito Michele Amari che la reputa una mera
credenza volta ad onorare un immeritevole CHAMUTH , dal canto suo, «degenere
nipote di 'Ali». Per il resto, il libro del Venuti sarebbe stato corredato da
«diplomi che puzzano di falso, negli opuscoli di autori Siciliani [V. Venuti, t.
VII, p. 16 - Palermo, 1762]».
* * *
Da tempo
gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del fascinoso
periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni, fantasticherie. La
silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio Napoleone Messana.
Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che dileggiarlo si può, ma
ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione riportata da un non
precisato cultore di storie sacre che avvalorava l’esistenza di una moschea a
Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata all’Arcangelo. Secondo presunte
memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo che lasciò il Castelluccio (Al
’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo lasciò seppellito. Al Raffo -
toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte «li signureddi cu l’aranci
d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale succede la schiarita, escono
gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va ad attingere acqua alla
sorgente omonima, ma chi tocca le arance però impazzisce.» E naturalmente
trattasi di fantasmi “arabi”.
[1][28]) Il Griffo (op. cit.)
accenna all’esposizione di «un ripostiglio di aurei imperiali (ben 207 pezzi)
del V secolo d.C. proveniente da Racalmuto per scoperta occasionale del 1940. »
A suo dire il medagliere sarebbe stato
oggetto di «un accurato inventario a cura della dott.ssa M. T. Currò-Pisanò,
che s’era preso anche carico di elaborarlo per le stampe». (Ibidem, pag. 317). Abbiamo cercato di
saperne di più presso il Museo di Agrigento, ma siamo stati sgarbatamente messi
alla porta come importuni scocciatori.
[3][30]) V. D'Alessandro, per
una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in Archiv. Storico
Siracusano, n.s. V, 1981.
[4][31]) André Guillou, L'Italia bizantina dall'invasione longobarda
alla caduta di Ravenna, Vol. I,
Torino 1980, pag. 316.
[7][34]) Ibn Hamdis: poeta arabo,
nato a Siracusa verso il 1053 e morto in Africa nel 1133. Vedi Michele
Amari: Biblioteca Arabo-Sicula - Torino 1880 - pagg. 312 e ss.
[8][35]) Umberto Rizzitano: Gli
Arabi di Sicilia, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso, UTET 1983, Vol.
III, pagg. 384 e ss.
[9][36]) «Khafagia ibn Sufyàn era
indubbiamente una personalità di primo piano; si era già distinto in Ifrìqiya
all’epoca della rivolta dei giùnd,
dando prova di grande fedeltà alla dinastia aghlabita. Quando arrivò in Sicilia
non mancava quindi né di esperienza né di prestigio personale. Il primo anno
della sua permanenza a Palermo lo trascorse, secondo Ibn al-Athìr, più che in
operazioni militari proprio nel delicato compito di ristabilire ordine e
disciplina fra gli elementi musulmani, e di armonizzare conquistatori e
conquistati: condizioni indispensabili alla ripresa delle operazioni militari.
Cfr. Ibn al-Athìr, Al-Kàmil, pag. 312. Cfr. anche SMS, I,
482.
[10][37]) Su tale toponimo RAHL abbiamo appuntato tutta
la nostra attenzione ritenendo che potesse essere quello del nostro paese.
AMARI riduce in RAHL un RACEL che trovavasi nel manoscritto malaterrano che fu
trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e pubblicato a Saragozza nel 1578.
Quel manoscritto è andato perduto. La pubblicazione che resta ancora l'edizione
principe fu recepita nella colossale opera di Ludovico Antonio MURATORI RERUM ITALICARUM SCRIPTORES nel vol. V
con il sintetico titolo HISTORIA SICULA, Gaufredi MALATERRAE. Il Muratori dà
la lezione RACEL e in calce annota RASEL-BISAR ad indicazione di altre lezioni
da lui tenute presenti. L'Amari non si produce in ulteriori ricerche
paleografiche: distingue RACEL da BIFAR; per lui arabista, RACEL equivale a
RAHL [casale]; si confessa incapace di individuare un RAHL nelle pertinenze
agrigentine, che ne sono piene. Il PICONE segue la pista dell'AMARI e nelle sue
MEMORIE (cfr. pag. 401) reputa incompleto il toponimo e segna RAHAL...,
distinguendolo comunque da BIFAR, una località piuttosto nota tra Campobello di
Licata e Licata. Si sa che la raccolta di 'scriptores rerum italicarum' è
stata, a cavallo di secolo, oggetto di pregevolissime riedizioni con interventi
di personalità della cultura del calibro del CARDUCCI. Il testo del monaco
benedettino dell'XI secolo ha avuto nel 1927 una diligentissima riedizione con
una illuminante introduzione da parte di Ernesto PONTIERI. Questi venne in
Sicilia; trovò altri codici (A=Cod. X. A 16 della Biblioteca Nazionale di
Palermo; B=Cod.II.F 12 della Società Siciliana per la storia patria; C=Cod. 97
della Biblioteca universitaria di Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca
comunale di Palermo) che, comunque, mutili e scorretti e pur sempre derivanti
dalla fonte dell'edizione principe del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il
PONTIERI adottò la lezione RASELFIFAR, legando insieme Racel e Bifar, e in nota
fornì la versione della Biblioteca universitaria di Catania (C): RACEL GIFAR.
Nel 1937, Carlo Alfonso NALLINO, nell’ integrare le note della STORIA DEI
MUSULMANI DI SICILIA di M. AMARI controbatteva al PONTIERI e reinterpretava il
passo malaterrano con questa dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177
op. cit.]: «In realtà i castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra
(Saragozza 1578), e le prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno
'Ravel, Bifara', come se si trattasse di due luoghi diversi; ció ingannó
V.D'Amico, Diz. topogr. trad. Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del
1757-1760), che nel vol. I, pag. 143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di
RACEL (dal solo Malaterra), e quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente
all'attenzione del Diz. stesso, I, p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL
BIFARA' (evidentemente nell'uso locale siciliano). Il traduttore Dimarzo, I p.
144, n. 1, osserva che Bifara ' è un sottocomune aggregato a Campobello di
Licata ..., in provincia di Girgenti (Agrigento) ..., circondario di Ravanusa'.
Campobello dista 50 Km. da Girgenti (Agrigento) e 9 da Ravanusa. E. Pontieri,
ultimo editore del Malaterra (1928), trovò nei mss. anche le varianti
Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la prima nel testo (p. 88) e
nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo componente è rahl (racel,
racal, ragal), come ben vide l'A.» [cfr. pag. 178 op. cit.] Quel che sorprende in entrambi quest'ultimi
due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali conquistati da
Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la premessa del
MALATERRA che parla di ben undici castelli agrigentini presi all'arabo
CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come si vede
un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere apparso
pedante e tedioso. Ma è l'unico probabile appiglio ad una fonte storica delle
origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica, vien però da domandarsi
se è proprio importante trovare un antico toponimo da assegnare alla storia
della nostra terra.
[11][38]) A completamento del discorso sui toponimi
svolto nella precedente nota, riportiamo il commento dell'AMARI nella sua
STORIA (pag. 177, n. 1): «I nomi delle castella prese nella provincia di
Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun evidente errore del
testo. Rimane dubbio il suo Racel, che ho trascritto sicuramente in Rahl
(stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella
appellazione generica, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi
Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il Remise (variante
Remunisse) del testo, poiché MICOLUFA sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone
da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra nel suo libro 'La
conquista di Sicilia' recentemente uscito alla luce (Collezione d'opere
inedite e rare, Bologna 1865, in -8), dà otto soli nomi degli undici, dicendo
non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un ms. della stessa opera,
appartenente alla Bibliothèque de l'Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette
soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catalanixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo
'e li altri, aggiunge, non so chi si fusseru e non si canuxirianu, ect.).
Intorno i nomi non si trovano nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi
vegga il Dizionario Topografico dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine
della 'Carte comparée de la Sicile, [1859], Notice'.»
[12][39]) Michele AMARI - STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA, Catania 1937, Vol. III, parte
prima, pagg. 174, ss. Nel trascrivere il CHAMUTH del MALATERRA in HAMMUD,
l'AMARI annota [nota 1 di pag. 175]: «la h, sesta lettera dell'alfabeto
arabico, fu resa per lo piú, sino ad uno o due secoli addietro, con le lettere
latine ch; e il d, ottava lettera, piú spesso con una t che con una d.
L'anonimo ha HAMUS [cioè ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic. pag. 855].
Sapendosi dalla storia che Chamuth, fatto cristiano con tutta la famiglia,
rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo ben identificare il casato
con quello di Ruggiero HAMUTUS, già proprietario di certi beni che Federico II
concedea nel 1216 alla chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra,
p. 142) e dell'Ibn Hammud, ricchissimo signore che Ibn GUBAYR vide in Sicilia
nel 1185. Questo nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote del regolo di
Castrogiovanni. Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abû al Qâsim, sembra
anco il Bucassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne' primordi del
regno di Guglielmo il Buono....». Ancor oggi, alcune nobili famiglie siciliane
vantano discendenze da quel ceppo Hammûdita. Trattasi dei nobili NICASIO di BURGIO.
Impietoso l'Amari contro il libello di Nicasio Burgio, conte palatino XXIII
intitolato «La discendenza di Achmet ultimo potente ammiraglio fra i Saraceni
dominanti in Sicilia, rappresentato in questo medesimo luogo dalla chiarissima
famiglia Burgio», pubblicato a Trapani nel 1786. Indulgente il NALLINO che
nella stessa nota si dilunga accogliendo le precisazioni di una nobildonna di
quella famiglia. Costei segnala che i primogeniti della casata Burgio
continuano a chiamarsi ACHMET, ( ad. es. ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO,
principe di Aragona e di Villafiorita, di Palermo). Per quel che ci riguarda,
l'ipotesi potrebbe avere qualche fondamento. Tra i beni del citato Ruggiero
HAMUTUS poteva esserci qualche signoria sul diruto castello di Racalmuto, un tempo
appartenuto al nonno, o bisnonno, CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che lascia
il tempo che trova.
[13][40]) Trascriviamo qui per eventuali cultori delle
fonti l'intero passo latino della cronaca del Malaterra: «Comes ergo Rogerius,
omnes potentiores Siciliae a se debellatos gaudens, et nemine, excepto CHAMUTO,
seperstite, ad hoc assidua deliberatione intendit, ut ipso circumveniendo
debellato, omnem sibi de caetero Siciliam subdat. Unde, exercitu admoto, ipso
apud Castrum-Joannis immorante, uxorem eius ac liberos apud Agrigentinam urbem
obsessum vadit, anno Dominicae Incarnationis millesimo octogesimo sexto
[l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis, quam undique exercitu vallans,
diutina oppressione lacessivit; studioque machinamentis ad urbem capiendam
apparatis, tandem vicesimaquinta die Julii viribus exahusta, imminentibus hostibus,
patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est captione. Comes itaque,
pro libitu suo positus, uxorem Chamuti, omni dehonestatione prohibita, suis
custodiendam deliberata, sciens Chamutum sibi facilius reconciliari, si eam
absque dehonestatione cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo
ordinans, castello firmissimo munit, vallo girat, turribus et propugnaculis ad
defensionem aptat, finitima castra incursionibus lacessens ad deditionem cogit.
Unde et usque ad undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt
nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Rasel, Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua
interpretatum, resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.» [Le lezioni
dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi volesse averne
completa conoscenza, deve consultare
l'edizione del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss. A parte RASEL, che ovviamente abbiamo seguito
con puntigliosa attenzione, per il resto abbiamo scelto alquanto liberamente,
intendendo privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai
toponimi di Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, Bifara, Milocca (?!), Naro, Caltanissetta,
Licata e Ravanusa.
Nessun commento:
Posta un commento