mercoledì 6 marzo 2013
CENNI
GEOLOGICI
Nel succedersi degli sconvolgimenti
geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione
nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in epoca piuttosto recente. Concetto
in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno
sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica
secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([1][1]). Ed anche qui trattasi di risalire,
nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la
fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo
momento, “formazioni calcaree
mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria”
ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina
con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si
formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre
durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le
terre marine.
Secondo una cartina della distribuzione
dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan ([2][2]) Racalmuto si modella con le forme che
oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la
transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto sono
stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi
Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano,
avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina
di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese.
«Cronologicamente - ci ragguaglia l’A.([3][3]) - i terreni che compaiono nella zona
studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di base,
di età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del
Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso
rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età
Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Completano la geologia della zona una
copertura detritica alluvionale.»
Ma abbandoniamo subito le questioni
geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un
istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li
avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune
terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di
sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della
fisica e della chimica, ma addirittura
uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo» ([4][4]). Secondo tale affascinante
teoria, le ricchezze della rampante
borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico
vibrione; il che per qualche verso sa di malefica premonizione.
LA PREISTORIA
Ma a che epoca risale il primo
insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase
evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono
e con quali riti e culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla
luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche
presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra
proprio idonea ad ospitare il primitivo homo
sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio
a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi,
sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani.
Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra
Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il
Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci
chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi
di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le
falde del versante sud del Serrone e l'altro,
in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro -
la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
Il primo insediamento è quello che
persino nelle cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza
di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni
dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il
cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti
ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse
spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice
resurrezione che pare angosciasse i nostri antenati. ([5][5])
Quei cosiddetti antichi Sicani,
installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma
delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche
in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che
secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al
territorio di Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul
fuoco, si dissolve bruciando; con esso
si effigiano uomini e dei ([6][6]). Ancora nel '700 il viaggiatore
inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo
che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri
preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi',
dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia
circolavano ancora.
Il secondo insediamento viene fatto
risalire al XVIII secolo a.C. Le
pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della
ferrovia nel 1879. ([7][7]) I reperti fittili salvati dall’ing.
Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano.
Le tombe a forno, che si trovavano nei pressi della stazione ferroviaria di
Castrofilippo, si sono te del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di
pietra.
Sulla primissima presenza umana nei
dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche
ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua
corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie ([8][8]). Apprendiamo, così, che «le scoperte
di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di
Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le
tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in
costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla
prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano
tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In
questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella
scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni
ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ...
incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre
precedentemente descritte.» ([9][9]) Si ha, quindi, la descrizione delle
tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri -
quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei
contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della
tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle
invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata
aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a
pozzo, ma irregolari. [...] La chiusura
della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi
massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura.
Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi,
contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e
carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([10][10]) Segue la descrizione di n.° 11 reperti
fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti
di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di
olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un
“utensile di terracotta a forma di un corno”.
Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che
fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed
alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene
affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte
confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello,
Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([11][11]) - conclude l’A. - nei cui contorni
sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di
altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di
ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque
esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo
che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia
antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona,
Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel rinvenimento
casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio
racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per
ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come
quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche,
si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla
fine inappaganti.
Quel che le affioranti testimonianze
archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che
può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli
lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il
Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego.
Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un
avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma
non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti
la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si
sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale
micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella
confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C.
Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte
dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti
di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca
della via del salgemma.» ([12][12]) Il Monte Campanella di Milena, ove
sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di
spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi
tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è
trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è
notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto.
Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII
secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione.
Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal
caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento
che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto
dovette essere pressoché disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza
archeologica pare dimostrare.
VERSO
L’AVVENTO DEI GRECI.
Cediamo alla forte tentazione di
formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei
primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il
Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per
esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive
adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le
testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci
portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno » ([13][13]).
Da quell'era i nostri progenitori -
siano sicani o altro - riuscirono a
sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di
relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il
diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare.
Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura e pastorizia
consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso
nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per
ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi
dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto
preferirono ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità
della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e
di Creta, via Gela, si insediarono nella
valle agrigentina, per i radi indigeni
di Racalmuto fu il momento del loro melanconico dissolversi.
I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità
e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di
colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi
a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro
famiglie contadine e, mancando di mogli, la scaricarono sulle donne indigene di
Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci
pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in
quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive
sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari
come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono
la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero
territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di
Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una
devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e
di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse,
fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si
attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi
reperti numismatici con la riconoscibile
effigie del granchio akragantino non
attestano solo l'inclusione di quel
territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla,
schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E
divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi,
irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi
sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le
radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si
evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona.
Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si
pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo
ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL
PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non
poté che essere pertinenza rurale della polis
di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere
cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora.
Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Racalmuto vi fu travolto di riflesso, per
via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre del nostro
altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla
Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili
se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che
lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita
comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio
sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si
faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandin ebbero a condurre
nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o come quelli degli anni
Ottanta guidati dal De Rosa a noi non resta che avventurarci in malcerte
congetture.
Nella campagna di scavi del 1960, furono
fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a
quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro
Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato
da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al
nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo
e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie
linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente
'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella
teoria con l'elegante 'non liquet' (non
risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet
(risulta) l'inattribuibilità di Motyon a
Racalmuto e dintorni: la località è
dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio
all'avamposto di Akragas, Motyon, nel
451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S.
Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire
grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai
siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per
Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora
non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo XX.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale
di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per
storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo,
alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente
al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca
o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini
- persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di
ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continua a riflettere
sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta pertinenza rurale,
piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione
sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno
agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa
Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei
mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni
agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli
nei giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a
scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A
Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse,
sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi
nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del
Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su
quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro
antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un
giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti
diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» erano
poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il
suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo
senza fine dell'estate racalmutese. Ed in quel territorio circolavano anche le
monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di
grano e presenze greche.
Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda
di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro
Siculo. La sua cacciata da Akragas, per
il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta,
entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte
nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e
la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo
il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un
benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima
parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di
potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di
imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro
Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con
40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta
l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e
persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla
tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di
Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale,
alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel
trambusto, Akragas ha modo di prosperare
con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti,
intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con
l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del
declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di
Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di
colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano
dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come
primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e
cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci
agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i
cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai
saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare -
il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana:
niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette
verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio
demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli
agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le
note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne
rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed
Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia
africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante
sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per
qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla politica
ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere,
vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la
civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione
cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto
ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per
penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si
apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli
potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non
addirittura prospera. Il male di Akragas si ribaltava in buoni affari per
Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano
qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non
greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra
Martorana scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe
trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei
reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese
nelle terre racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia (provincia) cartaginese.
Sempre il Tinebra Martorana ci testimonia del rinvenimento di monete «di
argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di
un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le
dittature siracusane di Dione o di
Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu
durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un
libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese
prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne
derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla
greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In
contrada Cometi, ....
si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere
antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.
LA
PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul
proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu
lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata:
in questa località il tiranno costruì una città in puro stile greco, cinta di
mura e dotata di agorà e di templi.
Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi
al sostegno finanziario delle mire egemoniche del despota agrigentino. Fu però
vicenda storica di breve respiro.
Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa
ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge
Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di
spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua
pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a
quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire
espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra
punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire un'oscura
appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo
di provincia che secondo Cicerone: «prima
docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare».
Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare
popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e
ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo
perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un
assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono
ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure
gli stessi uomini furono risparmiati:
25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a
rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava
dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la città di Akragas: i
cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto
dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di
quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti.
Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo,
vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui
successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi.
Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di
40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine
per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture
raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto
sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani
ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare: alla fine fu vacuo il
suo genio inventivo; lo specchio incendiario fu di ardita e micidiale fattura;
invento speculo, naves romanas incendit;
eppure i romani finirono per avere la meglio. Per i cartaginesi, nel grande
scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano
su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano
l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora
una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui
mercati del mondo. Levino a Roma fa il
suo trionfale ritorno. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le
distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL
PERIODO ROMANO
Finite le guerre puniche, il console
Levino avvia la Sicilia al suo secolare
sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami
fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio
delle plebi dell'Urbe: quella estensione avviene con la lex
Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani
appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui
trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per la
città ora già caput mundi.
Ma per uno dei soliti paradossi della
storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di
sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione
alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi
opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio
dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di
Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo scorso furono rinvenute
anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani
per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei
poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini degli zubbi sotto il monte Castelluccio per il timore di espropri
o molestie da parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande
interesse che fu trovato da tal Gaspare
Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime
agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina
pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza,
nel suo "Siciliae et adiacentium
insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora
fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel
cui manico [«in manubrio diotae fictilis
erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il
Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quella
epigrafe nei suoi ponderosi volumi
(C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad
un personaggio di nome FUSCO, del
tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente nella prosopografia romana.
Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi
mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui
ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio
Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non
sembra plausibile.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era
dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore
dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del
Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a
Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita
agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano,
trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il
sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha notizia
per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., pare sotto Comodo,
si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di
zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe
nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane,
simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura
alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza è stato
l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento.
All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il
Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del
1877. Si ha per oggetto: Mattoni antichi
con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un alto dirigente, il dott.
Donati, interpella il Picone in termini imprecisi quanto misconoscenti:
Il
dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta
importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di prepositi alle miniere
sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia
dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’avvocato agrigentino risponde in data
28 dicembre 1877 (Repertorio al
protocollo 1878 n.° 16) e fornisce informazioni di grosso risalto per la
storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
«
Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole
profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte
di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per
difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a
sinistra, come le scritture orientali.
In
uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFORIS
SICIL
Messa
questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX.
OF. (ex officina)
come
si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo
stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di
Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge
il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare,
che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella
provincia Girgentina.
L'esimio
Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V.
maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei. ([14][14])»
Il Mommsen fu poco corretto con il
Picone: pubblica - unitamente al
Desseau - i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ([15][15])
ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con un semplice menzione, il
nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica,
ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza
dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto.
Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di
reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'Avv. Giuseppe Picone di Agrigento e
finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio del XX secolo, il SALINAS
aveva modo di venire in possesso proprio a Racalmuto di alcuni reperti di
quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero,
furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un
contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un
sepolcro, presumibilmente nei dintorni
di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad
un'analisi storica molto erudita, ma deviante, che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei ([16][16]) Altre «tegulae» sono state trovate nel 1947 in località Bonomorone di
Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come
ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([17][17]), si trattava di un deposito di cocci
di una figlina (officina di vasaio):
dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed
in particolare, per quel che ci
riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario
che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si
tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in
rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come
illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che
dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto
il nome di gàvite, nel fondo dei
quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono
riprodotte in quelle caratteristiche
forme falcate di zolfo, le balate, che
ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([18][18]).
Pare, comunque, che l'attività mineraria
solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle
testimonianze (che pare riguardino un’attività che partendo dall'anno 180 d.C.
si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici secoli per
avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio
del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha
attinenza con le miniere. Sotto la data del
22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un
infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la
sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una
miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino. Il
Giangreco Cifirri perdeva, dunque, la vita nella caverna di una salina, per il
repentino crollo di massi di sale.
I
TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas si colloca nel II secolo
d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo
d.C. ([19][19]). In epoca di totale declino
dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina ([20][20]). Rispetto a quanto si è detto e
scritto su tale testimonianza, per noi resta ancor valido l’appunto della
Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a
Racalmuto ([21][21]) - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da
Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV,
con la raffigurazione del Ratto di
Proserpina.» La concidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente
suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al
IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto probabile che
gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto
appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta (a dire il vero,
però, trattasi di materiale ceramico databile ad epoca proto-normanna). In ogni
caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove
nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento delo zolfo. Si attaglia molto bene
anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota nella citata relazione in Kokalos.
Scrive l’insigne archeologo: «Accanto a famiglie di personaggi politici di
rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate
alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II
secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non
poche tegulae sulfuris. Questo
periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi
marmorei[...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo
d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([22][22]) Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la
proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI ([23][23]).
I dati archeologici consentono di
abbozzare alcune linee evolutive dell’economia estrattiva racalmutese di quel periodo. Nei primi decenni del
secondo secolo d. C., il territorio a nord di Racalmuto si presta ad uno
sfruttamento solfifero. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro
([24][24]) - pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente
obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di
preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse
differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci fosse
una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida la
gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III
sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in
Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente
alla proprietà imperiale figura, in posizione evidenziata, la figura del
concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.»
Successivamente appare «una nuova figura, il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età
costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la
sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto
l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato
molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che
attendevano all’amministrazione del cursus
publicus e delle stationes. [...]
Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle
miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C.
l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto
contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale
e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che
ormai ignora lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione
dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([25][25])
In tale contesto, pensiamo ad un’operosa
presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con
centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio.
Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto
sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria,
rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento del
centro abitativo in contrada Grotticelli,
è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione
che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero,
probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
I
TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a
Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo
storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro
dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo
visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni
abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante,
Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Ma di questo sinora non abbiamo alcuna
testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di
reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche
campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che
affiora per caso.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le
rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro
(1966 e 1972-73) ([26][26]), ma non può dirsi che per il momento
disponiamo di notizie appena sufficienti, specie sotto il profilo storico.
Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da
escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro
di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito
seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per quello
successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari
coloni sparsi nel territorio di Racalmuto poterono far capo all’importante
insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le
varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.
Traslando alle vicende del rado colonato
racalmutese del V e VI secolo d.C. le scarse conoscenze che si hanno per quel
periodo in tema della più generale storia della Sicilia, emergono scarsissimi
lumi, qualche indizio e indicazioni di troppo generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai
Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di
religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua
propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente poteva
colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per
quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se
il vescovo cattolico agrigentino - se vi
fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una
qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale
comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad
Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere
sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare [27][27], Ricimero con quella vittoria poté
ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, a parte il lontano
sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente
determinavano, dovettero esservi condizioni per regolari raccolti granari e
normali vendemmie, atti a consentire alla rada popolazione un apprezzabile
benessere.
I Vandali dopo il 463 riescono, in
qualche modo, a prendere possesso della Sicilia
e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente
(476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla
plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai
Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però,
persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa
potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose,
in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto
persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola
all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe
incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più
(quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).
[3][3]) Luigi
Romano: Idrogeologia della propagini
sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto - GEOLOGIA - Università di Palermo - Facoltà di Scienze
- Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[7][7]) Luigi
Mauceri: Notizie su alcune tombe .. scoperte fra Licata e Racalmuto,
in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880.
[8][8]) Presso l’Archivio Centrale dello
Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra il Mauceri ed il Comm. G.
Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il
Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale
di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S.
di Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI
(AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 - Fascicolo 40.5.2 ).
[9][9]) Luigi
Mauceri: Notizie su alcune tombe .. scoperte fra Licata e Racalmuto,
in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag. 17.
[11][11]) Pietralonga, a dire il
vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del finitimo Castrofilippo.
[14][14]) A.C.S. di Roma -
Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB.
AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 - Fascicolo 40.3.4 - (annotazioni interne:
1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli, miniere solfuree).
[15][15]) C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM
LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X, 2 p. 857 - TEGULAE MANCIPUM
SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[19][19]) L’accenno al MANCEPS conduce a quella datazione, se si accettano
le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali si leggono nella sua
relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982, pag. 324.
[20][20]) Fino a poco tempo fa mal
custodito nell’androne del Comune, ora è ritornato al Castello ove il padre
Cipolla, dopo il rinvenimento, l’aveva ubicato. Invero, il sarcofago viene al
momento neghittosamente esposto nei locali che un tempo furono adibiti a cappella
palatina dei Carretteschi. La particolarità è ovviamente del tutto ignota alle
locali autorità.
[22][22]) Ernesto De Miro: Città e
contado nella Sicilia Centro-Meridionale, nel iii e iv sec. d.C. - in Kokalos pag. 320. In quella relazione, spunti riguardanti
specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di cui alla
Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST, se non è
proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[24][24]) B. Pace, Arte e
Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393 ss.
[26][26]) M.R. LA LOMIA, in Kokalos,
VII, 1961; E. DE MIRO, in Encicopledia Arte Antica, VII, 1966, p. 276, ID, in
Kokalos, XVIII-XIX, 1972-73, pp.247.
[27][27]) Sidonio Apollinare - Carm.
II - Panegirico recitato in Roma all’imperatore Artemio (ediz. di Parigi 1599).
Di risalto i versi 362-372. Si celebra la vittoria di Ricimero del 456 con
questi encomiastici tratti:
Agrigentini recolit dispendia campi,
Inde furit, quod se docuit satis iste nepotem
illius esse viri, quo viso, Vandale, semper
Terga dabas, nam non siculis illustrior arvis,
Tu, Marcelle, redis per quem tellure, marique
Nostra syracusios texerunt arma penates.
(Da G. Picone: Memorie
Agrigentine, pag. 283).
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