Per dare una idea di cosa intendo per orto botanico forse un
capitoletto di un tentato mio romanzo che mai sarà pubblicato potrà essere utile
Calogero Taverna
La donna del Mossad
Capitolo III
Cavatieddi cu sucu di cuniggliu sirbaggiu, ficatieddi e sanzizza
agliannariata ed antri cosi bboni
Scinniennu scinniennu Meluzzo Cavalieri
di Giorgenti – consentiteci qui di pigliar noi la penna in mano, ma per poco:
promesso – passò in rassegna i suoi prossimi commensali: era il gotha
dell’intelligenza paesana. Racalmuto, patria di Sciascia, era da tempo che
mancava di cultura elitaria. I suoi prossimi commensali, colti di cero non lo
erano. Arguti, birbanti, scoppiavano d’intelligenza, ma sterile, caustica,
neghittosa, stracolma d’accidia.
Avrebbe
troneggiato il sindaco Pitruottu, ma l’onorevole Lasagne, ripiccatissimo,
avrebbe tentato di disarcionarlo. Non vi sarebbe riuscito: il Pitruotto,
beccato alle ultime elezioni, era più abile: qualche libro almeno in gioventù
l’aveva letto. L’onorevole Lasagne, no. Aveva inventato i caffè letterari,
finanziati dall’industriale Illy che pur doveva pur essergli avversario
politico, ma ignavo nel leggere si faceva sunteggiare il fatterello del
letterario parto dal proprio figliolo. Introduceva quella variante nel suo dire
ormai stereotipato; una qualche bella
figura, invero, riusciva a farla. La
voce sensuale ed il petto latteo in generosa mostra della subrettina
avevano già ammansito il rado pubblico maschile, ancora assatanato di sguardi
coitali.
Poi Popò,
evanescente in tutto, e l’aragonese tutto preso di sé e decisamente diafano.
Anche l’arciprete, materialone e loquace. Immancabile il “riddilio di la
chiazza”, un ex minatore mai stato in miniera ma con pensione di invalidità
cospicua e irridentemente ostensa. Ed anche “lu cammaratisi” sempre pronto a
vantare l’inesauribilità del suo attributo, a suo dire debordante ogni umano
confine. Era il cuciniere e qui davvero ci sapeva fare. Poi i suoi amici
cacciatori: tutti, da Giacumino Bedduocchiu a Gnaziu Aviluortu a Chardonnay , a
Miserere ed altri. Un bel po’ di gente insomma. Lu Parrinieddu, no: era ‘arrusu ed a Meluzzo, bando a tutta la
sua intelletualitudine, gli invertiti
maschi (per le lesbiche faceva eccezione) risultavano indigesti … specie a
tavola.
A tavola, invero,
“li ‘arrusii” si potevano dire, era preferibile “la futtuta cu li fimmini”.
Meluzzo – che le parrocchie di Regalpetra le sapeva a memoria – rimuginava:
«Le mani si muovono a plasmare nell’aria
grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere. Non è più
uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le confidenze del
giudice di corte d’appello in pensione, il vecchio dottor Presti racconta a un
amico di suo figlio di quando nudo scappò sui tetti, e un marito gli scaricava
dietro due colpi. …»
I suoi commensali si professano
grandi amatori …. Meluzzo sa che non è vero … solo qualche attricetta dopo il
variété. (Ora, però, si sussurra di un prete tenutario e di un napoletano
prosseneta e sedicente regista che spingerebbero giovanissime al sesso
compiacente per un miraggio artistico …. malelingue! … malelingue!). Fa
eccezione, di sicuro, l’onorevole Lasagne. Bell’uomo, suedente, non ha
difficoltà a portarsi a letto giovane donne, moglie ribelli e pare qualche
amica delle figlie. A Montecitorio, a palazzo Marini per la verità, ha
trangugiato le grazie di tante procasissime commesse. Chi le pagava è rimasto
però subito deluso per l’inconsistenza delle rivelazioni che l’onorevole era
subdolamente spinto a confidare e le conquiste romane subito scemarono per il
Lasagne.
Con la sua
vecchia 131 Fiat giunse sulla radura della Vecchia Maniera. L’asinello, di
taglia piccola ma non sardignola, riprese a ragliare. Meluzzo vi voltò a
guardarlo. Sotto scabolava sull’addome. Era spettacolo sconcio eppure non seppe
girare lo sguardo. Un lungo fiotto bianchiccio fu al culmine della foia
solitaria. «Che anche lui soffre di complesso di castrazione?» si disse con
celia Meluzzo, in fondo per reprimere il senso di vergogna di cui si
vergognava.
Erano tempi in
cui leggeva di psicanalisi specie per approfondire la sessualità femminile,
della cui conoscenza si sentiva a
digiuno e che voleva approfondire per non essere superficiale nel parlare di
donne nei suoi romanzi.
Si era
sciroppati i testi di JanineChasseguet-Smirgel, di Janine Lamp-de-Groot, di
Helene Deutsch, di Ruth McBrunswich, di Marie Bonaparte, di Melanie Klein, di
Ernest Jones etc. Nomi prestigiosi, letture noiose. “Complesso di edipo” nelle
donne, “monismo sessuale”, “invidia del pene”, “pene castrato”, “preedipico”,
“fase fallica”, “femminilità assimilata alla passività, mascolinità
all’attività”, “bambino anale”, “anfimixi delle componenti anali e uretrali”,
“mater dolorosa”, e via di questo passo. Per Meluzzo aveva senso solo
l’aforisma: «l’orgasmo è maschile. La donna femminile non ha un acme orgastico.
La vagina è l’organo della risproduzione, il clitoride l’organo del piacere. »
Fin lì, la sua
esperienza – ed era stata tanta – non confliggeva. Per il resto? O non aveva
capito niente delle donne o era mistificazione. Forse la donna sino a metà del
secolo scorso aveva tutte quelle turbe sessuali. Ma ora, era il contrario.
Erano i maschietti a ritrarsi nel loro sesso, castrati di vagina. Bah! Meglio
le prossime sortite oscene con i suoi simpatici commensali …- senza problemi
erotici … almeno a tavola, alla “vecchia maniera”.
Il genio
mittel-europeo aveva lanciato una sfida al mondo della cultura: Marx e Freud,
in contesa, pensarono a strutture di base con sovraccarico di complicazioni
esistenziali. Il momento economico per Marx, primigenio rispetto a tutte le
sovrastrutture pensabili, l’eros per Freud e da lì il travagliato vivere
moderno (dell’uomo e della donna, afflitti in diverso modo a seconda della
diversa età): chi dei due ha ragione? Meglio, più ragione. Meluzzo, un tempo,
avrebbe detto Marx: ora è in bilico. Ma Freud – certo non terapeuta, ma
filosofo sì - la spunta sempre più su Marx se si investiga in tante latebre del cuore umano o se si ha voglia
di capire il moderno riconformarsi degli assetti sociali. La spenta voglia
procreativa – ed in contrasto, le irrefrenabili pulsioni (sadico anali,
vaginali, castranti tanto per esemplificare) – devia e deforma
irriconoscibilmente l’umano genere del 2000, tanto più alto, tanto più erculeo,
tanto più mirabile: si rende così flebile il “dacci oggi il nostro pane
quotidiano”, motivo di preghiera per Cristo e demoniaca forza conflittuale fra
le classi per Marx.
Marx morto e
sepolto, dunque? Manco per niente. Va riletto, riconsiderato, aggiornato.
Occorre “Marx oltre Marx”. E fino a quando la sinistra – cessata l’onda idiota,
riassunti i valori della critica – non s’induce in Italia a sdoganare Tony
Negri, a rispolverare i suoi appunti, a vivificarli e ad aggredire gli
idiomatismi telematici di una rincitrullita cultura avversa, blaterata da
nicodemi, notturni amici di un rinnegato cristo socialista, il destino
di partiti non più di massa e neppure di idee è miseramente segnato.
Si diceva di
Meluzzo che quando passava agli argomenti politici diveniva dannunziano, vago,
passionale, enunciatore astratto di incomprensibili principi, vacuo di fatti,
contumelioso. Si rifaceva con i suoi “gialli”, fattuali e leggeri, spesso
gassose ghiacciate, gradevolissime nelle arsure delle estati siciliane.
Sesso e consorzio
umano, economia e società quali interconnessioni? C’era circolazione sanguigna,
magari extra-corporea? Marx e Freud andavano rifusi, interconnessi, sussunti in
amalgama. Dov’era però il genio? Dove il partito? La novella chiesa del 2000?
Non c’era, non c’erano, diamine!
* * *
Al simposio
andava come convitato d’eccellenza e, soprattutto, quale sommo sacerdote di un
rito pagano; andava a dare sacralità laica ad una crapula di cibi fatti
risorgere dagli smarriti usi del vivere contadino di Racalmuto.
Idea maiuscola,
partorita dal genio liso ma non consunto dei racalmutesi, quelli che si stavano
ora adunando per l’intellettualissima abbuffata alla “Vecchia maniera”. Il
primo germe l’aveva avuto Aurelio, purtroppo assente per misteriosa ammazzatina. Ricercatore di antiche cose locali, s’imbattè
in un rollo della Matrice. L’arciprete dell’epoca era con lui benevolo e
compiacente: quello attuale faceva il mistico in chiesa, il materialone con
qualche beghina ancora elastica in basso, ed il ciarlatano sui pulpiti e nei
banchetti, specie se prodighi di libagioni. Quanto a cultura e quanto a
sensibilità per la storia religiosa degli antichi padri, il nulla. “Rolli”,
registri, pergamene, sediole, “altaretti”, baldacchini, “sedie gestatorie”, ed
anche piviali e cingoli, amitti e patene, calici ed ostensori, mozzette e
balaustre lignee, come gli smantellati stalli del coro settecentesco per i
mansionari voluti dall’arciprete Lo Brutto, resero molto in euro e figurano mal
registrate nelle denunce di furto presso la caserma dei carabinieri a S.
Grigoli.
Aurelio era
riuscito a decifrare il primo volume della «FABRICA DELLA MATRICE CHIESA DI
RACALMUTO», ovverosia: «LIBRO
D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di
Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra» per mano di
D. Lucio Sferrazza» e nel dettaglio Introito di denari per conto della fabrica
della Matrice Chiesa di Racalmuto pervenuti in potere del dr. D. Salvatore
Petrozzella Depositario di detta fabrica conforme alle constituzioni di Mons.
Ill.mo R.mo frà Ferdinando Sancèz de Cuellar vescovo di Giorgenti - Date in
Racalmuto in discorso di visita a 28 novembre 8a Ind. 1654».
Il bel volume, rogato con grafia
davvero bella, finì nel sottoscala della Galleria Colonna, fra i libri vecchi
poco richiesti. Un’inchiesta vi fu; per
pronta giustificazione si concluse che il manoscritto si era smarrito quando
l’intera raccolta della matrice era stata traslata ad Agrigento per il restauro
dei BB.CC.AA.
L’Aurelio aveva
però trascritto con il vecchio excel l’intero volume (altri). Il passo che qui ci
incuriosisce recita: «per havere fatto venire dui burduna da Garamoli
tt. 20. e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna
dentro la fiumana» Era il mese
di dicembre 1658.
Com’era la salsiccia racalmutese del 1658? Ancora
migliore di quella che si gustava dopo la guerra del 1940. Poi erano venuti i
porci del nord, e poi quelli esteri dalla Jugoslavia e poi quelli con il
venefico mangime e poi quelli clonati … il gusto disperso, smarrito. Ne parlò
Aurelio con Giovanni Salvo: dentista per vivere, animalista e botanico sommo
(come dilettante, s’intende). Bisognava riprodurre gli antichi maiali nel
sottobosco degli Agliannari al
Castelluccio. Ignari gli Avareddi
vendettero a giusto prezzo. Anni per il ripopolamento dei lecci e dei verri. Il
tentativo riuscì. Aurelio non gustò quella salsiccia: il veleno fu più
sollecito. La degustazione sarebbe avvenuta adesso, al simposio.
Vini antichi – si sperava simili a quelli che
nelle olle venivano da Racalmuto inviate a Roma per le decumane delle verrine
memorie – si produssero con vitigni che l’accorto padre di Cicciu Marchisi
seppe ricordare: biancugiovanni, ‘nzolia, lacrima di madonna, ed anche zibbibbo
e malvasia. Nucciu Principi - occhialuto latinista e giudice in pensione –
citava Marziale:
- mescesi … il Massico vino al miele ibleo.
Il miele decantato era invero attico. Ma Nucciu
Principi seguiva la versione di Alberto Gabrieli.Altrove del resto non si
parlava di favi siciliani? «Quando regalerai miel di Sicilia/ stillato sugli
Iblèi, di’ pur che viene/ dalla cecropia Atene». Ne era nata vasta ed
inestinguibile disputa. Tre mirabili parti: un vino che Chandonnay seppe vacare
(ed un po’ manipolare) dalle prime acerbe uve dei vitigni messi su da Cicciu
Marchisi sul pendio dei Romano a Piedi di Zichi dopo l’esproprio per il
pericolo di valanghe da nubifragi.
Non si volle mischiare il vino col miele: era
come profanarlo, violentarlo. Stavolta il mondo romano era da considerare
balzano, non raffinato nel trattare il liquore di Bacco. Miele speciale però si
ottenne con arnie a “li balati” stracolmi di “satareddi” (“thimus capitatus”,
non senza sussiego precisava il dentista-botanico). E con mandorle “muddisi” –
qualità locale – si era fatta una “cubaita” (come quella insegnata a Federico
II dagli arabi) che bene si coniugava con un vinello che Chandonnay aveva
ricavato dal biancogiovanni, ‘nzolia, zibibbo e taluni altri vitigni che si
teneva per sé, «pi nun farisi arrubbari la rizetta».
Tardi si accodò Benny Alaimo Alosa: appena
laureato alla facoltà di agraria di Palermo, ove era pupillo dell’entomologo di
fama mondiale, il racalmutese Giuggiu Liotta. Venne con una sua idea: coniugare
“saperi e sapori” del paese. Peccato che s’intignò nel dare fattualità al
titolo di un epigramma di Marziale sugli “oli odorosi”. Fingendo di confondere
i profumi oleosi dell’epoca con oli odorosi di rosmarino, menta e citrosella,
cercò di sperimentarli ed anche produrli: fu disastro economico: l’olio sapeva
di afrore erbaceo, il selvatico delle piante si caramellava e dava
appiccicaticcio sapore. Ancora un’insistenza e l’avrebbero espulso dalla
combriccola. Si preferiva ed si usava l’olio tratto con macine antiche dalle
olive portate da Di Marco, eccellente produttore e convinto assertore che i
suoi uliveti sulle pendici settentrionali di Villa Petrone andavano
salvaguardati solo con la carta moschicida, appesa agli alberi a tempo debito.
Solo lui conosceva modalità e sistemi: un altro fanatico con la mania
dell’omertà bucolica.
Pitruottu, ricco di esperienze ereditarie, seppe
risuscitare tipi di verdure introdotte dagli arabi. Pregevolissima, la
“bastunaca” di cui si era perso persino il ricordo. Giacuminu Beddocchiu e
compani venatori rintracciarono – almeno così dicevano – il coniglio autoctono
a li “Pantaneddi”: nella voragine
prodotto dall’insipiente sfruttamente del salgemma poté annidarsi una coppia di
leporidi nostrani, farla franca dagli accoppiamenti dei blenorrogici animaletti
che incati cacciatori avevano senza difese sanitarie introdotto dalla
Jugoslavia ed avevano figliato a oisa, sani e gustosissimi. Questo dicevano
Giacuminu e compagni e stavolta non erano contraddetti dal solito Miserere. Il
cronista riferisce e non commenta.
E qui mi fermo, altrimenti continuerei per tomi
interi.
Giunsi con qualche ritardo, per quel dannato caso
della morte del dottore Aurelio La Matina Calello: non ne feci cenno,
altrimenti il pranzo andava a male, ché il morbo della curiosità, intrisa di
malignità e sospetto e dispetto, chissà dove ci avrebbe portato. Trovai
l’arciprete sorridente, ma nell’intimo contrariato. No pensava più alla gola
come uno dei peccati capitali: i ghiotti spettacoli erano tentazione
irresistibile. Non tanto però da non costringere la frotta dei commensali,
farli tutti segnare, recitare il pater,
invocare la benedizione celeste sul cibo che poco parco certo non era, e quindi
«gloria patri et filio et spiritu sancto» (il latino approssimativo era il
massimo che l’arciprete potesse concedersi dopo l’imbarbarimento della riforma
ecclesiastistica di Paolo VI». «Et in secula seculorum» non potei fare a meno
di celiare.
Esordimmo con antipasti ‘poveri’. Tutte le
verdurelle commestibili delle contrade racalmutesi trovarono sapiente
miscuglio, saltate in padella con aglio di Castrofilippo ed olio di Alaimo
Alosa (abbiamo dovuto fare qui uno strappo ed accettare gli intrugli di Benny …
e per quell’uso condimentale il rosmarino frammisto a succo di olive smunte
dalle presse in basalto di Cefalù non era poi spregevole). Le focaccette
(memoria di li cudduruna di gnura Annidda) erano fatte con la “tumminia”. Cipolle
e lattughe degli orti di Pitruotto e spizzichi di tumazzu che Sintini ci aveva dispensato, una volta tanto senz’astio.
Sintini, a vederlo, metteva paura: barba incolta da sempre, incedere caprigno,
capelli irsuti, tarchiato ma non corto, bacino ardimentoso … ed occhi
spaventosamente belli e neri… lupigni. Giacuminu Beddocchio lo chiamava «l’uomo
selvatico», ed era l’unica volta che si concedeva letterari toscanismi. Aurelio
aveva scritto che quelli (i Sintini e gli altri crapara del paese) erano i racalmutesi prischi, d’intatto DNA.
Erano i residui dei sicani, spintisi fra le montagne con gli armenti, per non
subire sudditanze e sfruttamento che il nuovo barbaro popolo dei geloi stava
imponendo nelle lande sotto il Castelluccio già verso la dine del VI secolo a.
C.rte dei greci agrigentini (geloi trasmigrati nell’VIII secolo a.C. da Gela ad
Agrigento .. e chi conosceva quella teoria additava me con disprezzo e persino
vindice
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