VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non
riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali
congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se
qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la
grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e
per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si
attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche
sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca
d'Oro' con le caratteristiche «tombe del
tipo a forno» ([1]).
Da quell'era i nostri
progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti
epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto
pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il
crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma
soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche
sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi
per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per
difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di
Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone
montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle
agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto
fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si
accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non
si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di
un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci
subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando
di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia,
violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice -
che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca,
né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi
dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro
imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in
patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela
fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro
Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi
della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava,
nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu
senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati
o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni
siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi,
anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che
ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici
della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve
lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i
vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi
che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai
nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570
ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di
Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e
plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci
di quel periodo.
Il piccolo
centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che
poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto
nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva
lavorare per la vicina polis di
Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non
potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo
conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti
numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli
indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non
si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a
condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più
recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in vagule
congetture.
In una
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso
Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina
di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce irrecuperabilmente.
Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) preso a prestito da Filippo
Cluverio. Oggi, liquet (risulta)
l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente ubicata
attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di
Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta
dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo
era a distanza ragguardevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano
e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai
siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per
Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora
non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo scorso.
Frattanto
Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani,
dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si
dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i
traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La
continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via
sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare
alcuna testimonianza ai posteri.
Racalmuto
continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava
pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una
popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno
agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa,
Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei
mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni
agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli
nei giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori
greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino,
testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la locale società
contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed
assassino», per Diodoro Siculo. La sua
cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse
neppure avvertita. Non sapremo però mai
se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi
per lo sconvolgimento nella distribuzione delle terre su nuove basi.
Dopo il 427 a. C., Akragas si
acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse
Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina,
Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti
vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per
un benessere economico, di cui dovette goderne anche Racalmuto, sia pure in
minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con
Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo
ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415
a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una
disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto
generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a
Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle
tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano
risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a
guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore
fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i
profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti,
intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con
l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del
declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il
tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo
ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente -
anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe
Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri
combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza
dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine:
fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si
diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso
- pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra
lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini
dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un
risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile
altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo
a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di
Lentini.
Dionisio il
giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte,
commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione
gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle
esigenze cartaginesi.
Crediamo
che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia
e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che
artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete
siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigi di improbabili
scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la
spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello
scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.
Sempre il
Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi che ci richiamano le dittature siracusane di
Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio
racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari
palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti
caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del
mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di
lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando
scrive: «In contrada Cometi,
.... si rinvennero sepolcreti d'argilla
rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui
abbiamo detto sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al
282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro.
Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa
ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge
Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di
spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua
pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per
quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire
espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264
a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e
suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo
Cicerone: «prima docuit maiores nostros
quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa
gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E,
ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto)
saranno per i romani nient'altro che «extera
gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi
abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni
dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la
flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la
città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo
che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due
decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas
e la vicina Eraclea Minoa
appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un
massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali
6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia.
Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di
apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C.
tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce
ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani,
le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo
baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento.
Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione
e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo.
Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di
agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL
PERIODO ROMANO
Finite le
guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento
agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della
legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi
dell'Urbe: quell'estensione avviene con
la lex Rupilia del 132. E
così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono
rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli
esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i
proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini
del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle
autorità.
E' tuttavia
noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel
1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a
Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel
1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo
c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota"
(anfora per vino) nel cui manico [«in
manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e
pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola
del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare,
comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla
prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue
cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco
della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed
abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator
e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano
o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un
esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando
accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato
in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di
Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei
dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare
traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha
notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto
Comodo, secondo una non convincente lettura del Salinas, si registra una svolta
economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come
alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché
nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle
'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla
rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad
averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi
ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa
corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei monumenti
di Girgenti ed il Ministero, che risale
al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande
tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati racalmutesi.
Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denomina: Mattoni antichi con bolli relativi alle
miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della
Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella seccamente il
Picone:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi
parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di
preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V.
se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’interpellato
risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio
al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la
storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di
Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che
io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle
iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di
che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a
rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare
che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina
Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta
sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai
frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che
possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria
zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo
Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni
che io non saprei. ([2])
Il Mommsen
fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici
nei volumi del C.I.L. ([3]) ma si guarda bene dal ricompensare, neppure
con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai
consistente la pubblicistica, ma in essa non si rinviene il minimo accenno a
chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di
epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro
Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia
La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di
Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio
di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni
reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero,
furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino
nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro,
provenienti presumibilmente dalle miniere dei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad una
lettura oggi non piùconvincente che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei. ([4])
Per lui, l’iscrizione:
EX PRAEDIS
M. AURELI
COMMODIAN
che si
poteva leggere nell’esemplare cedutogli per denaro da un contadino di
Racalmuto, comprovava la «provenienza dai predii dell’imperatore Marco Aurelio
Commodo Antonino» ed era anche atta a far desumere dalla titolatura la data
esatta; ciò «in quanto Lucius Aurelius Commodus, salendo al trono nel 180,
s’intitola Marcus Aurelius Commodus
Antoninus, per esser poi di nuovo, nel 191, Lucius (Aelius) Aurelius Commodus (Eckhel, Doctr. Num. VII, 134 segg., 102 seg. C.I.L. VI, 992).» In
definitiva, «per siffatta ragione le nostre matrici sarebbero da attribuire al
periodo tra il 180 e il 191.»
Già, il
dotto Michelangelo Petruzzella mi faceva notare che quella trasposizione di
COMMODIAN in Commodo non era molto attendibile. A conferma, il prof. Salmeri [5]
optava per la formula: ex praedis/ M.
Aureli/ Commodiani, pur non ignorando la tesi del Salinas, e continuava:
«al centro della fascia compresa tra l’ultima linea e il margine inferiore è
raffigurato, a rilievo come le lettere, un caduceo; mentre tra la prima linea e
il margine superiore compaiono – come sigma
– un ramo (di palma) e due stelle ad otto punte. Il nesso ex praedis, di uso comune nei bolli laterizi urbani, seguito dal
nome del dominus al genitivo, nel
secondo secolo d. C., sta ad indicare il “fondo” da cui viene estratta
l’argilla per la produzione di mattoni e di altri manufatti di terracotta.
Nelle lastre siciliane esso rimanda invece al “fondo” da cui provengono i
blocchi gessosi che, una volta sottoposti a fusione, daranno luogo alle forme
di zolfo. Il praedium in questione,
stando ai dati di rinvenimento delle lastre, deve avere occupato tutta o una
parte del territorio degli attuali comuni di Milena e di Racalmuto, che del
resto sono stati tra i primi nell’area nisseno-agrigentina ad essere stati
interessati, dopo una lunga interruzione, della ripresa dell’attività
estrattiva dello zolfo nel XVIII secolo [6];
suo proprietario risulta il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano [7],
da collocare nei decenni finale del II secolo d. C. L’assenza di ulteriori
specificazioni dopo la formula ex praedis
M. Aureli Commodiani, in particolare del nome di un conduttore, induce a
ritenere che le cave di zolfo dell’area Milena/Racalmuto, nel tempo a cui
risalgono le lastre, venissero sfruttate direttamente dal proprietario. […]
Quanto alla manodopera impegnata nel praedium di Commodiano, essa sarà stata costituita da
schiavi e da liberi salariati; nel De
officio proconsulis di Ulpiano si prevede inoltre che il governatore possa
comminare quale condanna il lavoro in una sulpuraria
[8]»
L’avere
scisso l’epigrafe dall’imperatore Commodo per collegarlo al liberto Commodiano
comporta, però, uno scardinamento della ricognizione temporale del Salinas.
Continuare ad assegnare il reperto agli ultimi decenni del II secolo d. C. pare
fragile congettura, né la figura di quel liberto può venire invocata per
datazioni certe, come invece la primigenia lettura consentiva. Neppure può affermarsi
che il liberto Commodiano fosse davvero il dominus
delle miniere: più probabile che fosse invece il proprietario di un “fondo”
agrigentino ove si potevano benissimo fabbricare le “gàvite” come altri mattoni
e manufatti di terracotta. Nulla proprio ci assicura che Comodiamo sia vissuto
a Racalmuto, a capo di una miniera di zolfo che, stante il luogo del
ritrovamento della “tegula” o “tabula” sulphuris,
potova essere propinqua alla pirrera di
la Ciaula che mastro Liddu Casuccio
seppe ben coltivare nella seconda metà del XIX secolo.
Ma, se fu
assente Commodiano, certo vissero nei dintorni di Racalmuto, tra il Castello
Chiaramontano e la Piana di la Cursa minatori romani - schiavi, salariati e di
certo damnati ad sulpurariam, come
dire una specie di galeotti – le cui condizioni di vita furono molto simili
alla ottocentesca sorte dei minatori che ci hanno descritta Franchetti e
Sonnino nella loro Inchiesta in Sicilia. [9]
Che le
“gàvite” fossero fabbricate lungi dalla miniera, sembra comprovato dalle «tegulae» che sono state rinvenute nel
1947 in località Bonomorone di Agrigento. E qui non attestavano la presenza di
miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([10]),
si trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a
Racalmuto.
Biagio
Pace, con taglio più letterario che scientifico, così descrive quell'attività
mineraria: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di
lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente
poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo
liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano
tuttavia sotto il nome di gàvite, nel
fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo
vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato
per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([11]).
Pare,
comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta
nell'antichità: iniziata, a seguire il Salinas ed anche il Salmeri, attorno al
180 d.C., autorevoli autori la ritengono protratta sino al IV secolo d.C. Dopo,
per oltre 14 secoli, nessuna notizia su miniere di zolfo a Racalmuto. Risale,
invece, agli inizi del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della
Matrice che ha attinenza con una miniera, ma non di zolfo, sibbene di salgemma.
Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra
un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la
sig.a Nicola, periva sotto una valanga di massi, mentre scavava in una salina.
Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam
salis repentinam, defunctus est», è
la malinconica annotazione in latino.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se
la tegula rinvenuta e studiata dal
Salinas e dal Salmeri si colloca negli ultimi decenni del secondo secolo d.C., quella di cui riferisce il
Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([12]).
In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto
sarcofago del Ratto di Proserpina ([13]).
Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta
ancor valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a
Racalmuto ([14]) -
fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un
sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e
quella della tegula studiata dal
Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque
attive dal II al IV secolo d.C. e l‘insediamento umano è molto probabile che
gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto
appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi
di reperti ceramici databili ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli
del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è
stato lo sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò
che il De Miro annota in una relazione pubblicata in Kokalos: «Accanto a
famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi
medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per
cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività
proficua sulla base delle non poche tegulae
sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con
i sarcofagi marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni
del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([15])
Sempre secondo il De Miro, la tegula
rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo,
data la formula Ex praedis M. AURELI
([16]).
I dati
archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi
sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee
evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la
produzione - annota il De Miro ([17])
- pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da
quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di
zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse
differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in
un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo
tra proprietà del fundus e attività
mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a “officine”..
Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle
miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata
in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata,
la figura del concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.»
Successivamente appare «il manceps,
figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita
l’indicazione dell’officina e del conductor,
essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto
l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato
molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che
attendevano all’amministrazione del cursus
publicus e delle stationes. [...]
Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle
miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C.
l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente
al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi
ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignorava
lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette
superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([18])
In tale
contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di
Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che
verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una
necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là
dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae,
rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV
secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
Ma i resti archeologici che ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con
maggiore attenzione da parte delle autorità, attestano necropoli bizantine
sotto il Ferraro e soprattutto un centro abitato – che per padre Salvo è il
Gardutah dell’Edrisi – sotto la grotta di fra Diego, come già si è avuto modo
di accennare.
I
TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai
suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più
generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che
ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche
eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai
fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e
Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né
scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti
significativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche
campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolasamente quello che
casualmente affiora.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano:
ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([19]), ma
non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto
il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada
Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il
finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha
sinora impedito seri e chiarificatori appuramenti archeologici. Per tutto il
periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino
all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto
potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui
si ignora il toponimo antico.
Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V
e VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più
generale storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili
scarsissimi lumi: qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica
portata.
Se nel 439
la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad
aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso
il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo
difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il
profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il
profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo
avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche
riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo,
quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella
guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a
Sidonio Apollinare [20],
Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e
qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi
Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si
ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a
prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto
l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende
queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto
ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di
un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane
contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare
tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti,
non solo documentali, ma anche archeologicche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al
535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente:
inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di
quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due
e mezzo dell’insediamento berbero).
IL TEMPO
DEI BIZANTINI
Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto
diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto
di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento
delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa
pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro
abitativo più intenso, per tradizione, viene individuato piuttosto lontano, ad
un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per Biagio
Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini
racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al cristanesimo e sicuramente
grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in
greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali
abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo un patrimonio
archeologico d’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre ricca di reperti
e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo
storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure
il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([21])
retrocede la datazione delle monete al V secolo: data improbabile se le effigi
degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un paio di
secoli posteriori. [22]
)
Un
interessante rinvenimento archeologico si ebbe nel 1990 in contrada Grotticelli, ma le pubbliche autorità si sono per il momento decise a imporre la
ricopertura e si sono peraltro limitate
ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione
Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza
archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto
interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale,
costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie
abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente
a comprovare un più o meno vasto insediamento in quella zona a partire da
un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi
della caduta dell’impero romano.
L “ipogeo
cristiano” di Biagio Pace, ma più appropriamente bisognerebbe parlare di
“epigeo”, si troverebbe in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di
Racalmuto» ([23])
Nostre personali ricerche ci fanno
pensare che lo spunto del grande archeologo poggerebbe su questo passo del
Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi
esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato
che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti
di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una
ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei
dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque
essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o
alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di
Bisanzio. Sulla scia di autorevoli
storici ([24]) è
pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca
bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto,
come altrove, fu profonda ma non insormontabile.
L'ultimo
reperto relativo a Racalmuto pre-arabo (stando almeno a quanto per adesso
disponibile) resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre
duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete
a Racalmuto, ho sentito varie versioni
pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una
vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non
eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista
denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete
finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ([25]),
secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori
di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi,
riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».. ([26]) Quelle monete sono oggi custodite in una sala
sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero restate nell'oblio o
inficiate da errori di datazione ([27]).
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta Agrigento sotto gli
Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio fu
inglobato dai berberi. Identica sorte per l’agglomerato – se vi fu – nel
ripiano di Gargilata a ridosso del costone di fra Diego. Di congetture se ne possono formulare tante,
di verità storiche solo flebili barlumi.
Che cosa ne
fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti
per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà
dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove,
oppure, come a Gargilata, finire per convivere.
E che può
dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma
noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel
tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo
lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e propendere per tesi di
eclissamento della religione cattolica o di sua sopravvivenza, come di un
fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna,
se non addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Fascicolo 40.3.4 -
(annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli,
miniere solfuree).
[3])
C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p.
857 - TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[4])
NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[5] ) Giovanni Salmeri, Sicilia Romana. Storia e storiografia, G. Maimone Editore, Catania
1992, pp. 29-43.
[6] ) M. Colonna, L’industria zolfifera siciliana. Origini, sviluppo, declino.
Catania 1971, pp. 14-15.
[7] )
Così giustamente R.J.A. Wilson, Sicily under the Roman Empire,
Warminster 1990, p. 238 e p. 395 n. 8.
[8] )
Tavole di flessione: sulphuraria, sost.; sulpuraria, sost. sulphuraria, ae, f.,
solfatara, ULP. – Dig. XLVIII, 19, 8,
10; F.G.B. Millar, Condemnation to Hard Labour in the Roman
Empire, «PBSR» 39 (1984), pp. 124-147.
[9] ) Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Inchiesta in Sicilia, edizione
fiorentina del 1974, pp. 269-279 del II volume.
[10])
KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[12])
L’accenno al MANCEPS conduce a quella
datazione, se si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali
si leggono nella sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982,
pag. 324.
[13])
Oggi custodito nell’androne del Comune, da tempo immemorabile giaceva prima al
Castello.
[14])
Guida d’Italia del Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[15]) Ernesto De Miro: Città e contado nella Sicilia
Centro-Meridionale, nel iii e iv sec. d.C.
- in Kokalos pag. 320. In quella relazione, spunti
riguardanti specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di
cui alla Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST,
se non è proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[16]) E. De Miro, op. cit. pag. 321.
[17]) E. De Miro, op. cit. pag. 320.
[17]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393
ss.
[18]) E. De Miro, op. cit. passim.
[19])
M.R. LA LOMIA, in Kokalos, VII, 1961; E. DE MIRO, in Encicopledia Arte Antica,
VII, 1966, p. 276, ID, in Kokalos, XVIII-XIX, 1972-73, pp.247.
[20])
Sidonio Apollinare - Carm. II - Panegirico recitato in Roma all’imperatore
Artemio (ediz. di Parigi 1599). Di risalto i versi 362-372. Si celebra la
vittoria di Ricimero del 456 con questi encomiastici tratti:
Agrigentini recolit
dispendia campi,
Inde furit, quod se docuit satis iste nepotem
illius esse viri, quo viso,
Vandale, semper
Terga dabas, nam non siculis illustrior arvis,
Tu, Marcelle, redis per quem tellure, marique
Nostra syracusios texerunt
arma penates.
(Da G. Picone: Memorie Agrigentine, pag. 283).
[21]) Il
Griffo (op. cit.) accenna all’esposizione di «un ripostiglio di aurei imperiali
(ben 207 pezzi) del V secolo d.C. proveniente da Racalmuto per scoperta
occasionale del 1940. » A suo dire il medagliere sarebbe stato oggetto di «un accurato
inventario a cura della dott.ssa M. T. Currò-Pisanò, che s’era preso anche
carico di elaborarlo per le stampe». (Ibidem,
pag. 317). Abbiamo cercato di saperne di più presso il Museo di Agrigento, ma del tutto invano.
[22] )
Bisogna innanzitutto invertire l’ordine: Eracleona (Eraclio II) viene ben prima
di Tiberio II. Eraclio è dei primi decenni del secolo VII, mentre il Tiberio
delle monete cui si riferisce il Guillou chiude nel 711 la sua dinastia. Per il
primo vds. Georg Ostrogorski, Storia dell’impero bizantino, Einaudi
Torino 1968, pp. 95,99,100; per il secondo, ibidem, pp. 120-122, 157.
[24]) V. D'Alessandro, Per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in
Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981.
[25]) André Guillou, L'Italia bizantina dall'invasione longobarda
alla caduta di Ravenna, Vol. I,
Torino 1980, pag. 316.
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