Terraggio
e terraggiolo: atto finale
Presso la Matrice si
conserva un Liber in quo adnotata
reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum. Al n.° 292 (col. 16) incontriamo
questa dedica a D. Nicolò Figliola:
«di Grotte, domiciliato in Racalmuto,
eletto nella causa del Terragiuolo, che gli antenati inutilmente tentarono nei
tribunali contro il Signor Conte.
«Nell’anno
1783 si cominciò la causa, e nel tempo dell’agitazione il predetto Figliola due
volte si trasferì in Napoli al R. Erario e riportò dal Sovrano, che il Conte
mostrasse il titolo dell’imposizione del terragiolo, che non poté provare, per
cui sotto li 30 luglio 1787, dopo quattro anni di causa dal Tribunale si era
designato il giorno di decisione, ma il Figliola nello stesso mese, se ne morì.
«Il
sudetto nel 1786 ottenne dal Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il
Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì
in corso di causa, con pianto e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP.
del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della Misericordia, in cui sta
sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»
Al n.° 297 (col. 17) tocca all’altro protagonista della
vicenda: l’Arciprete D. Stefano
Campanella, di cui si tesse questo encomio:
«Collegiale-Economo
nel 1754-1755 in Campofranco. Successore dell’Arciprete Antonio Scaglione,
fatto il concorso nella Corte Vescovile di Girgenti nel 1756 a 19 Febbraio sotto Mons. Lucchese Palli, approvato
e raccomandato alla Santità di Papa Benedetto XIV, da cui fu eletto Arciprete
Parroco con bolla emanata da Roma 16 giugno 1756 ed in Palermo esecutoriata 8
Agosto 1756 confirmata dal Vescovo di Girgenti 14 Agosto e l’indomani, 15, prese
possesso.
«Da principio curò il ristoramento
delle Fabbriche della Chiesa. Nel 1760 fece la presente ampia Sacristia, nel
1767 compì il cappellone grande. Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro
fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.
«Egli con altri primari del paese
incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di
Palermo e dopo quattro anni di
strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787.
“Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium
declaratur non deberi.”
«Finalmente nel 1787 in Favara fu
Visitatore eletto dalla Corte Vescovile di Girgenti per quel Collegio di Maria.
Morì compianto da tutti il 26 Aprile 1789 d’anni 60, mesi otto, giorni 2 - e di
Arcipretura anni 32, mesi 8 giorni 7.
«Fu ancora Vicario di questo
Monastero, Delegato dalla Regia Monarchia etc.»
La vicenda del terraggio
e del terraggiolo è stata oggetto di
nostre apposite ricerche, che, solo di
recente per il ritrovamento di
importanti documenti da parte del prof. Giuseppe Nalbone, abbiamo potuto
approfondire: crediamo di essere riusciti almeno in parte nell’opera di
ripulitura di tante incrostazioni ideologiche degli storici nostrani.
Di rilievo, alcune carte della Real Segreteria del 1785 che
palesano una settecentesca controversia clerical-sociale nella nostra
Racalmuto.
La politica antibaronale del Caracciolo è fin troppo nota
per sorprenderci dell’andamento della controversia feudale di Racalmuto.
Non siamo partigiani certamente del Principe di Lampedusa,
né del sacerdote locale, don Giuseppe Savatteri, che gli teneva bordone. Ma al
di là dei meriti dei sacerdoti Figliola e Campanella, prima rievocati, fu
quella del 28 settembre 1787 una sentenza politica, giuridicamente azzardata,
storicamente falsa.
Era di sicuro un grande araldista il Requisenz per lasciarsi
abbindolare dai legulei di Racalmuto. Avrà esibito i bei diplomi del 500 e del
600, tutti a suo vantaggio, ma contro il Caracciolo naufragò.
Al di là dell’aspetto sociale, che ci vede dall’altra parte della barricata,
siamo portati, per amore della storia
locale, a credere che il burbanzoso principe di Pantelleria avesse ragione e
l’illuminista Caracciolo sbagliasse.
Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi
feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini “terraggio” e
“terraggiolo” fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano
intendere) o in forma mista.
Abbiamo notato sopra le varie controversie dei Gaetani sul
terraggio e sul terraggiolo. I tribunali gli avevano dato, tutto sommato,
ragione, ma erano altri tempi. Ora, alla fine del Settecento la musica è ben
altra. Ne fa le spese il buon nome del sac. Savatteri, vilipeso imperituramente
da Sciascia.
Sac.
Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)
Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante -
quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della
famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di
dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite
manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri
ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione
con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata
storia del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile
consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del
paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario -
che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte
private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile
ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano studiare da medico a spese
dell’Amministrazione comunale.
Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del
Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro
sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia,
onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li
naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore
ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del
terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la
Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche
esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie
e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi
pur troppo soverchiati.»
Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per
fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte
del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e
del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque,
compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento
e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe
Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a
Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere
anticlericali. Nessuna ricerca storica,
da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo
Sciascia :
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della
Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i
poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera
anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete
Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato
le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il
Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias
Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote
Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la
cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le
cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di
Napoli, che è quanto dire.
D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il
Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802
d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il
Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare
molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i
confrati defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri
della confraternita.
Sciascia
ed i Sant’Elia - Conclusione
Sciascia è benevolo verso i principi di Sant’Elia.
Leggiamolo assieme: «Con lui [Girolamo IV, ma rectius III] si estingueva la
famiglia, l’investitura passava ai marchesi di Sant’Elia, ancor oggi i borgesi
di Regalpetra pagano il censo agli eredi dei Sant’Elia: ma certo che fu grande
riforma quella che i Sant’Elia fecero centocinquanta anni addietro, divisero il
feudo in lotti, stabilirono un censo non gravoso, la piccola proprietà nacque,
litigiosa e feroce; una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal
perito catastale a quello balistico, i borgesi hanno fame di terra come di
pane, ciascuno tenta di mangiare la terra del vicino ...» A parte la bellezza della trasfigurazione
letteraria, si resta perplessi. Sotto il profilo storico, non sappiamo dove
abbia preso Sciascia quelle notizie sui Sant’Elia. A noi risultano fatti,
intenti e liti ben diversi da quelli sottesi nella pagina sciasciana. Ad
addentrarsi in tali meandri, il discorso porta lontano, ben lontano dalla
vicenda feudale racalmutese. Ed in questa sede c’interessa solo il declino del
baronaggio in Racalmuto. Riforma borbonica e rivoluzione francese estinsero
quell’istituto. I Sant’Elia ne furono, a loro modo, vittime. Divennero semplici
proprietari “allodiali” di terre già in enfiteusi perpetua, sminuzzate tra
tanti ex vassalli racalmutesi. Gliene venne il magro censo che ancora all’epoca
in cui Sciascia scriveva si pagava, svilito ormai per le tante selvagge
svalutazioni monetarie, non certo per bontà d’animo di quei signori. Le loro
memorie giacciono negli archivi dei tribunali e quando verranno riesumate
suoneranno condanna per quegli ultimi virgulti della decrepita società feudale
siciliana.
Nessun commento:
Posta un commento