Faccio fede io infrascritto M.stro not.
della Corte Giuratoria della terra di Racalmuto a tutti e singoli officiali del
Regno e specualmente a chi spetta vedere la presente, qualmente, sendosi
promulgato bando pella formazione de novi Riveli dei frumenti esistenti in
questa terra e territorio di Racalmuto sotto li dui ottobre 1763, rimesso da
S.E. per via del suo supremo tribunale del Real Patrimonio nel termine di
giorni quattro in detto bando prefisso, spirato sotto li sei corrente, non
hanno comparso in questa corte giuratoria a fare il loro rivelo a tenore del
detto bando altre persone ecclesiastiche, secolari, forani ed altri se non
l’infrascritte, cioè:
N.°
|
Denominazione
|
Salme
|
Tomoli
|
1
|
Grillo don Antonio, s.802 frumento raccolto
p.p. XI ind. 1763. Quali frumenti li servino cioè s. 300 vendute ed obligate
a questa univ. per il panizzo del popolo; s. 300 frumento per simenze in
forte e timilia, per il fego dell'Aquilìa, s. 100 frum. Pello
|
802
|
|
|
soccorso de parospolari e tenetieri; s. 30 fr.
Per mangia di propria famiglia e salme settantadue per simenza e soccorsi
delle proprie chiuse, gabbelloti e societarij
|
||
2
|
Spinola not. Gioachino, s. 10 fr. dal XI ind.
1763, quali ffr. li servino, cioè s. 3 per simenza, s. 1,8 per soccorso, s. 2
per governare le vigne ed il resto per mangia di propria famiglia
|
10
|
|
3
|
Grillo don Gaetano, come procuratore del fego
delli Gibbillini, territorio di questa rivela avere nelli magasini di quel
fego s. 306ffr. raccolto XI In. 1763, quali li bisognano per semene, soccorsi
e copertura di detto fego.
|
306
|
|
4
|
Grillo don Antonino Maria, rivela s. 91 forte
e timilia raccolto nel 1763; quali li bisognano cioè per simenze di forte e
timilia s. 40 per soccorso di detto seminerio e sem. di legumi s. 15 e s. 24
per mangia ed impiego di casa.
|
91
|
|
5
|
Amella don Antonino, rivela s. 2.. quali li
bisognano per mangia
|
2
|
|
6
|
Gambuto don Francesco Antonio. rivela s. 50 ..
quali s. 50 forte li servino cioè simenza per forte s. 10, salme 5 soccorsi
di d. sem., s. 2 per soccorso sem, d'orzo, salme 4 per provvedere la vigna, e
s. 29 per mangia e commodo di propria casa
|
50
|
|
7
|
Alfano m.° Giuseppe del quondam Bartulo,
rivela s. 65 forte .. quali li bisognano cioè s. 55 vendute a questa un. di
Racalmuto per il pubblico panizzo, s. 2 per simenza, s. 1 per soccorso di d.
sem., s. 1 per soccorso di vigne e s. 6 complimento delle s.
|
65
|
|
|
65 per mangia di casa
|
|
|
8
|
La Matina Alberto, rivela s. 5 fr.forte ..
quali li bisognano cioè s. 1.8 simenza, s. 0.12 soccorso per detto seminerio
e s. 1 soccorso in f. per sem. d'orzo e s. 1.12 per mangia di mia famiglia
|
5
|
|
9
|
Picone Margarita, rivela s. 3.8 ff.te .. quali
li bisognano per mangia di propria casa
|
3
|
8
|
10
|
Romano m.° Diego di m.° Francesco, rivela s.
105 fr.forte .. quali li bisognano per simenza, s. 3.8 e s. 6.8 per mangia di
casa
|
10
|
|
11
|
Grillo don Antonio come Governadore della
Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere nelli magazini
della Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute a questa
unoversità per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f
|
703
|
|
|
per simenza e soccorsi dello Stato di
Racalmuto
|
|
|
12
|
Salvo (di) Filippa vif.a del quondam Giuseppe,
rivela s. 12 fr.forte .. quali li bisognano s.6 per mangia e s.6 per
commodarlo a divere persone
|
12
|
|
13
|
Carbone Giovanne, rivela s. 1fr.forte .. quali
li bisogna per mangia
|
1
|
|
14
|
Nalbone Giovanne, rivela s. 10 fr.forte ..
quali li bisognano s. 4 per simenza,
s. 2 per soccorso e s. 4 per mangia
|
10
|
|
15
|
Macaluso Rosina Giuseppe rivela s. e f.f.te ..
quali li bisognano per mangia di casa
|
2
|
|
16
|
Saldì m.° Paolino, rivela s. 9 ff.f. .. delli
quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3 per soccorso di detto sem., sem.
d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di propria casa
|
9
|
|
17
|
Tulumello Calogero rivela s. 110 f.f.te e
timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per mangia della mandra s. 35 ff.,
p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e colture di
vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia
|
10
|
|
18
|
Di Franco m.° Giuseppe, rivela s.4 fr.forte ..
quali li bisognano p. simenza s. 1.8 ff., soccorsos. 0.12 ed il resto per
mangia di propria famiglia
|
4
|
|
19
|
Di Franco don Giuseppe, rivela s. 0.8 ..f.fte
li servino per mangia
|
|
8
|
20
|
Savarino Leonardo, rivela s.1 ..f.fte li
servino per mangia
|
1
|
|
21
|
Farrauto Francesco, rivela s. 2.12 ..f.fte li
servino per mangia di casa
|
2
|
12
|
22
|
Picone m.° Pasquale del quondam m.° Calogero
rivela s.1.12 ..f.fte li servino per mangia di casa
|
1
|
12
|
23
|
Castillano Diego, rivela s..4 ..f.fte quali li
bisognano s. 1.4 per simenze, s. 0.12 soccorso ed il resto per mangia di sua
famiglia
|
4
|
|
24
|
Morreale Antonino di Mara, rivela s.1 ..f.fte
quali li bisognano per mangia di casa
|
1
|
|
25
|
Alessi Giuliano, rivela s.1 ..f.fte quali li
bisognano per mangia di casa
|
1
|
|
26
|
La Matina m.° Gaspare, rivela s.1.8 ..f.fte
quali li bisognano per mangia di casa
|
1
|
12
|
27
|
Barone Carlo, rivela s.12.6 ..f.fte quali li
bisognano cioè s. 4 per simenza, s. 2 per soccorso, per seminerio di s. 2
orzo, s. 1.8 e s. 5 per mangia di casa
|
12
|
6
|
28
|
Cino Giacomo, rivela s. 5 ..f.fte quali li
bisognano per mangia di casa
|
5
|
|
29
|
Castillana Giuseppe, rivela s.2 ..f.fte quali
li servino per mangia
|
2
|
|
30
|
Lauricella Laurenzo, rivela s.1 ..f.fte quali
li bisognano per mangia di casa
|
1
|
|
31
|
Giglia (di) Liborio e Giuseppe, padre e figlio
rivelano s.4 ..f.fte quali li bisognano per mangia
|
4
|
|
32
|
Schicchi don Francesco, rivela s.3 ..f.fte
quali li bisognano per mangia
|
3
|
|
33
|
Lo Brutto don Gioachino del quondam don
Gaspare, rivela s.6 ..f.fte quali li bisognano per mangia di casa
|
6
|
|
34
|
Pomo m.° Angelo, rivela s.18 ..f.fte quali li
bisognano s. 2.8 per simenza, s. 1.12 ff. per soccorso di detto seminerio e
colture di vigna, s. 6 a nome della congregazione del Monte per espansioni
giornali e s. 7.12 per mangia di casa
|
18
|
|
35
|
Piccione Salvadore, rivela s.3 ..f.fte quali
li bisognano s. 1 per simenza, s. 1 per soccorso di detto seminerio e
seminerio di ligumi e s. 1 complimento di s. 3 per uso di mangia di casa
|
4
|
|
36
|
Borzellino m.° Raimondo, rivela s.3 ..f.fte
quali li bisognano per simenza
|
3
|
|
37
|
Carlino Gaetano, rivela s.0.8 ..f.fte quali li
bisognano per simenza
|
|
8
|
38
|
Collura Stefano d'Angelo, rivela s.2 ..f.fte
quali li bisognano per mangia
|
2
|
|
39
|
La Matina Gregorio, rivela s.6 ..f.fte quali
li bisognano s. 3per simenza, s. 1.8 soccorso di detto sem. e s. 1.8 per
mangia di casa
|
6
|
|
40
|
La Matina Giovanne, rivela s.10 ..f.fte quali
li bisognano s. 2 per simenza, s. 1 per soccorso per detto sem. e s. 1 per
soccorso di legumi e s. 6 per mangia
|
10
|
|
41
|
Tulumello Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali
li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per
soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e
garzoni
|
70
|
|
42
|
La Licata Paulo, rivela s.25 ..f.fte quali li
bisognano s. 10 per simenza, s. 8 per soccorso di d.° sem.° in forte, sem.°
di legumi ed orzo e s. 7 per mangia
|
25
|
|
43
|
Tulumello Giovanne, rivela s.70 ..f.fte quali
li bisognano s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per
soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e
garzoni
|
70
|
|
44
|
Picone Chiodo Nicolò, rivela s.42..f.fte quali
li bisognano s. 12 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per
soccorso di sem. di legumi ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di
vigna e s. 19 compl. delle dette s. 42
|
42
|
|
|
per mangia ed agiuto del borgesato
|
|
|
45
|
La Matina Calogero, rivela s. 15 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 2 per simenza, s. 2 per soccorso di
d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 11, compl. dette salme 15 per mangia
ed impiego di casa
|
15
|
|
46
|
Busuito Grispino, rivela s. 26 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. mi bisognano s 6.2 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem.° e
sem,° di legumi ed orzi e s. 5 p. governare le vigne, s. 4.8 per soccorso
dell'eredità del q. m.° Diego Marturana, s. 10
|
26
|
|
47
|
Mantione Calogero
|
1
|
|
48
|
Ristivo Matteo, rivela s. 3 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano per mangia
|
3
|
|
49
|
Collura Calogero d'Angelo, rivela s. 5 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano s 2 per simenza, s. 1 per soccorso i e s. 2, per
mangia
|
5
|
|
50
|
Licata Reda Giuseppe, rivela s. 6 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano per mangia
|
6
|
|
51
|
Mantione Vito,
rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
52
|
Collura Melchiore d'Angelo, rivela s. 4 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. mi bisognano s. 1 per simenza, s. 1 per soccorso di sem,° di
legumi ed orzi e s. 2 per mangia di casa
|
4
|
|
53
|
Vinci don Calogero rivela s.26 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 10 per simenza, s. 5 per soccorso di
d.° sem.°, s. 3 p. soccorso di sem.° di legumi ed orzi e s. 2 di posessioni
bonoficate di vigne e s. 8 p. mangia
|
26
|
|
54
|
Mantione Erasimo, rivela s. 5 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano s per mangia
|
5
|
|
55
|
Bellavia don Giuseppe, rivela s. 10 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. mi bisognano s 2 per simenza, s.1 per soccorso di d.° sem.° e s.
10 per mangia
|
10
|
|
56
|
Avarello Agostino, rivela s. 1o per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. mi bisognano s 3 per simenza, s. 3 per soccorso di d.° sem.° e
sem,° di legumi ed orzi e s. 4, compl. dette salme 10 per mangia
|
10
|
|
57
|
Matina notaro don Niccolò, rivela s. 2 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
58
|
Burruano Calogero del q. Marcello rivela s. 2
per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
||
59
|
Troisi Pietro, rivela s. 16 per raccolto f.f
per 1763, quali f.f. li bisognano s. 5.8 f.f. per simenza, s. 3 per soccorso
di d.° sem. e s. 6.8 per mangia di casa
|
16
|
|
60
|
Burruano Michel'Angelo del quondam Andrea,
rivela s. 2 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
61
|
Burruano Giuseppe del quondam Marcello, rivela
s. 28 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s.4 per simenza, s.
4 per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e governare le vigne e
s. 20 per mangia e impiego do casa
|
28
|
|
62
|
Burruano Alberto del quondam Marcello, rivela
s. 4 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 1 per simenza, s. 1
per soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e il resto per mangia
|
4
|
|
63
|
Tulumello Gioachino, rivela s. 4 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia di sua casa
|
4
|
|
64
|
Di Rosa m.° Diego, rivela s. 10 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 4 per venderli per compra di
vestimenti s. 2 p. soccorso delle vigne e s. 4.3. per mangia
|
10
|
|
65
|
Grillo e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela
s. 132 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 35 per
simenza, per soccorso di d.° sem.° s.
40 e seminerio di timilia s. 14 f.f. per sem,° di legumi ed orzi e s. 43 per
mangia e impiego di casa
|
132
|
|
66
|
Lo Brutto don Bonaventura, rivela s. 3 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
67
|
Savatteri don Francesco, rivela s. 4 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 3 per simenza, s. 2 per
soccorso di d.° sem.° e s. 3 a comp. di dette s.8 per mangia
|
8
|
|
68
|
Scibetta m.° Stefano, rivela s. 160 per
raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s.150 per averle vendute a
questa Un.tà per il pubblico panizzo ed il resto per mangia di propria casa
|
160
|
10
|
69
|
Di Rosa m.° Gioachino, rivela s. 2.12 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li servino per mangia
|
2
|
|
70
|
Frachanzillo Tommaso, rivela s. 8 per raccolto
f.f per 1763, delli quali f.f.li bisognano s. 4 per simenza, s. 2 per
soccorso e s. 2 copml. di dette s. 8
per mangia
|
8
|
|
71
|
Tirone don Niccolò, rivela s. 15 fr.forte e s.
5 timilia per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 12 per
simenza, s.61 per soccorsi e s. 2 compl. di d.e s. 20 per mangia
|
20
|
|
72
|
La Mantia m.° Giuseppe, rivela s. 4 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 0.6 per simenza, s. 0.6 per
soccorso e s. 3.4 comp. di d.e s. 4 per mangia di casa
|
4
|
|
73
|
Cacciatore m.° Antonino, rivela s. 4 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
4
|
|
74
|
Picone don Ignazio d'Alessandro, rivela s. 3
per raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia di sua casa
|
3
|
12
|
75
|
Poma m.° Gerlando, rivela s. 1.12 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano
per mangia
|
1
|
|
76
|
Rizzo don Vincenzo, rivela s. 24 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 8 per simenza, s. 6 per soccorso di
d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 10 per mangia di casa e garzone
|
24
|
|
77
|
Picone Chiodo don Antonino, rivela s. 14 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s.3 per simenza, s. 2 per
soccorso di d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 9 a compl. di d.e s. 14
per mangia e impiego di casa
|
14
|
|
78
|
Lo Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano per venderli per sollennizzare la festività di S. M.a del Monte come
Governadore della Confraternità di detta Chiesa.
|
2
|
|
79
|
Lauricella Antonino, rivela s. 12 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s 4 per simenza, s. 3 per soccorso di
d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e is. 5 compl. di d.e s. 12 per mangia di
casa
|
12
|
|
80
|
Carlino Calogero, rivela s.10 per raccolto f.f
per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 1.10 per simenza, s. 1 per soccorso di
d.° sem.° e e il resto per mangia
|
10
|
|
81
|
Galeano m.° Francesco, rivela s. 5 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
5
|
|
82
|
Castillano Michel'Angelo, rivela s. 2 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
2
|
|
83
|
Lauricella Francesco, rivela s. 8 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 31 per simenza, s. 2 per soccorso di
d.° sem.° e sem,° di legumi ed orzi e s. 3 comp. di d.e s. 8 per mangia
|
8
|
|
84
|
Borzellino m.° Ludovico, rivela s. 3 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
3
|
|
85
|
Alfano m.° Pietro, rivela s. 15 per raccolto f.f per 1763,
quali f.f. li bisognano s 8 per simenza, s. 4 per soccorso e il resto per mangia
|
15
|
|
86
|
Salvo (di) Andrea, rivela s. 8 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s. 3 per simenza, s. 1.8 per
soccorso e s. 3.8 comp. delle s. s.
8 per mangia di propria casa
|
8
|
|
87
|
Lo Giudice Pietro, rivela s. 2 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano sper mangia
|
2
|
|
88
|
Lo Giudice Giacomo, rivela s. 0.8 per raccolto
f.f per 1763, quali f.f. li bisognano
per mangia
|
8
|
|
89
|
Lo Indelicato Francesco, rivela s. 8 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano pello molino della pasta e
mangia di casa
|
8
|
|
90
|
Di Franco m.° Agostino, rivela s. 40 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano s. 6 per simenza, s. 3 per
soccorso di d.° sem.° ed altre s. 2.6 per soccorso di sem,° di legumi ed orzo e per altro il
soccorso delle vigne ed il resto per mangia
|
40
|
|
91
|
Murgante Giuseppe di Filippo rivela s. 3 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. li bisognano per mangia
|
3
|
|
92
|
Grillo fra' Antonio Maria, procuratore dello
ven. convento di S. Francesco dei minori conventuali, rivela s. 7,8 per
raccolto f.f per 1763, quali ff. li bisognano per mangia dello detto convento
|
7
|
8
|
93
|
Pirrelli fra' Giacomo Priore del ven. convento
di S. Giovanni di Dio sotto titolo di S. Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e
timilia per raccolto f.f per 1763, quali li bisognano per mangia di detto
convento
|
3
|
13,2
|
94
|
Pomo fra' Giuseppe Prc.re del venerabile
convento del Carmine, rivela s. 23 per raccolto f.f per 1763, delli quali li
bisognano s. 10 per simenza, s. 3 soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s.
8 per mangia convento
|
23
|
|
95
|
Carretto fra Gaspare pr.re del ven. convento
di S. Giuliano de Padri Agostiniani della congregazione di Sicilia, rivela s.
8 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 2 per governo di un
predio di vigna e s. 6 per mangia
|
8
|
|
96
|
Grillo sac. d. Salvadore Maria, rivela s. 160
per raccolto f.f per 1763, delli quali mi bisognano simenze in ff. s. 24,
simenza in similia s. 30 per colti scarsi le s.te tim. s. 30, per coltura di
vigne s. 20, per serviggio della mia casa e famiglia
|
||
|
per mangia s. 16, per due famoli in campagna
esistenti di capo d'anno s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a coloro che si
devono pigliare a società il sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15 ff: restano
per quelle occorrenze che potranno insorgere
|
160
|
|
97
|
Grillo sac. d. Giuseppe, rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763,
delli quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di
casa
|
20
|
|
98
|
Campanella sac. d. Stefano arciprete, rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i
quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per
soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa
università comp. di
|
||
|
salme 100 per uso del publico panizzo sotto
nome di Stefano di Salvo
|
100
|
|
99
|
Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind.
1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi bisognano salme 10 per
mangia almeno di dieci persone
|
8
|
8
|
100
|
Pumo cl. Francesco, rivela s. otto ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza,
soccorso s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa
|
8
|
|
101
|
Borzellino sac. d. Mario, rivela s. 5 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali li bisognano per mangia di casa
|
5
|
|
102
|
Conti sac. d. Gerolamo, rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali li bisognano s. 8 ff. per simenza, s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di
legumi ed orzi e governare due possession di vigna proprie, s. 11 p. mangia e
commodo proprio
|
26
|
|
103
|
Crinò diacono d. Filippo, rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, quali li servino per mangia di casa
|
2
|
|
104
|
La Matina sac. d. Gaspare, rivela s. 7 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s. 4 per mangia di casa
|
7
|
|
105
|
Farrauto sac. d. Santo, rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s.
80 obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia e simenze di proprie chiuse
|
220
|
|
106
|
D'Amico sac. d. Antonino, rivela s. 8 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo Sacramento e s. 5.8
per mangia
|
5
|
8
|
107
|
Savatteri sac. d. Michel'Angelo, rivela s. 21 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso di detto
sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4
dati in accodo e s. 10 per mangia e commodo di casa
|
21
|
|
108
|
Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe, rivela s.
30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4 ff. per simenza,
s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s. 8 per lo
soccors o di un predio di vigne e s.
14 p. mangia e commodo
|
30
|
|
109
|
Picone sac. d. Ignazio, rivela s. 4 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 1
per soccorso e s. 2, comp. di d. s. 4
per mangia di casa
|
4
|
|
110
|
Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8
per soccorso e s. 1.8 per mangia propria
|
3
|
|
111
|
Mantione sac. d. Baldassare, rivela s. 2 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia di casa
|
2
|
|
112
|
Mantione sac. d. Antonino, rivela s. 27.10 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff. per simenza, s. 5
per soccorso di detto seminerio e
socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2. per
mangia di casa
|
27
|
10
|
113
|
Pitrozzella sac. d. Baldassare, rivela s. 10
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 8 ff. per simenza, s.
4 per coltura di detto seminerio
|
10
|
|
114
|
Montagna diacono d. Onofrio, rivela s. 6 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, s. 1.8
per soccorso e s. 1.9. per mangia di casa
|
6
|
|
115
|
Baeri sac. d. Ignazio, rivela s. 0.8 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano . per mangia di casa
|
8
|
|
116
|
Baeri sac. d. Casimiro, rivela s.2 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia
|
2
|
|
117
|
Nalbone sac. d. Benedetto, rivela s. 360 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2
per soccorso, s. 3 soccorso èer il seminerio di legumi, s. 20 per mangia, s.
2 per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. Un. per
|
360
|
|
|
Pubblico panizzo e s.78 commodate
|
|
|
118
|
Fucà diacono d. Giuliano, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia
|
1
|
|
119
|
Fucà sac. d. Pasquale, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali mi
bisognano per mangia
|
1
|
|
120
|
La Matina sac. d. Pietro, rivela s.13 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2
per soccorso e s. 6 per mangia
|
13
|
11,2
|
121
|
Avarello sac. d. Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI
ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8, soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2 per
mangia ed impiego di mia casa
|
75
|
|
122
|
Busuito sac. d. Antonino, rivela s. 6 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1.4 ff. per simenza, s. 2
per soccorso sem.° di legumi e s. 1
soccorso di d.° sem.° di forte e per governare le vigne ed il resto. per mangia
|
6
|
|
123
|
Scibetta ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s.
70 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali 40 vendute a questa un. per publ.
panizzo, s. 6 per simenza e il restante per mangia di mia famiglia, soccorso
delli metatieri di legumi ed orzo e p.
|
70
|
8
|
|
Migliari dieci di vigna e più per fare
l'arbitrio di campagna
|
|
|
124
|
Farrauto sac. d. Saverio, rivela s. 0.8 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali mi
servono per mangia
|
||
125
|
Biondi sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li servono per mangia
|
4
|
|
126
|
Alfano sac. d. Filippo, rivela s. 30 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 7
per soccorso di d.° semin.° e sem,° di legumi e governare la vigna
|
30
|
170,4
|
|
|
4335
|
1
|
|
|
4346
|
|
quali infrascritti riveli sono in questa
nostra Corte firmati dalle persone che sanno scrivere e parte firmati da
persone per quelle che non sanno scrivere, ed oltre l’infrascritti riveli che
nel sopracitato termine si sono ricevuti di sopra, .. non ve ne sono altri;
onde in defe del vero ho fatto la presente sottoscritta di mia propria mano. In
Racalmuto li 30 ottobre XII ind. 1763
D.n Lucio Amella Mag. Not.
Oltre alla
composizione delle classi sociali racalmutesi (in vetta, tanti preti), possiamo
cogliere tutto un linguaggio estremamente significativo ai fini della
raffigurazione del mondo contadino dell’epoca:
1)
panizzo del popolo;
2)
frumento per simenze in forte e timilia [o
tumminìa], per il fego dell'Aquilìa;
4)
simenza
per soccorso e per governare le vigne e per mangia
di propria famiglia;
5)
Grillo don Gaetano, come procuratore del
fego delli Gibbillini, territorio di questa, rivela avere nelli magasini di quel fego s. [salme] 306
ffr. [frumento] raccolto nella XIa
In. 1763 [= 1763, undicesima indizione], quali li bisognano per semene, soccorsi e copertura di detto
fego;
6)
per simenze di forte e timilia s. [salme]
40 per soccorso di detto seminerio e
sem. [seminerio] di legumi s. 15 e s. 24 per mangia ed impiego di casa;
7)
simenza fumento forte s. 10, salme 5 per
soccorsi di d. sem. [semina], s. 2 per soccorso sem, [semina] d'orzo, salme 4
per provvedere la vigna, e s. 29 per mangia e commodo di propria casa;
8)
s. [salme] 55 [di frumento]vendute a questa un.
[università] di Racalmuto per il
pubblico panizzo;
9)
Grillo don Antonio come Governadore della
Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere nelli magazini della
Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute a questa unoversità
per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f per simenza e soccorsi dello Stato di Racalmuto;
10) Di
Salvo Filippa vid.a [vedova] del quondam
Giuseppe, rivela s. 12 fr.forte [frumento forte] .. quali li bisognano: s.6 per
mangia e s.6 per commodarlo a divere persone;
11) Saldì
m.° [mastro] Paolino, rivela s. 9 ff.f.
.. delli quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3 per soccorso di detto sem.,
sem. d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di propria casa;
12) Tulumello
Calogero rivela s. 110 f.f.te e timilia, delli quali ff. li bisognano cioè per
mangia della mandra [Traina,
vocabolario: mandra: luogo ov’è rinchiusa la freggia] s. 35 ff., p. simenza s.
20, per soccorso di seminerio d'orzo e ligumi e colture di vigne s. 12 e
s. 43 p. commodo e mangia della propria famiglia;
13) Tulumello
Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano s. 35 per mangia della mandra,
s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto simenerio, ligumi ed orzo, e s.
9 per mangia di casa e garzoni;
14) Picone
Chiodo Nicolò, rivela s. 42..f .fte [frumento forte] quali li bisognano s. 12
per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per soccorso di sem. di legumi
ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di vigna e s. 19 compl. delle
dette s. 42 per mangia ed agiuto del borgesato;
15) Grillo
e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela s. 132 per raccolto f.f per 1763, quali
f.f. mi bisognano s 35 per simenza, per
soccorso di d.° sem.° s. 40 e seminerio di timilia s. 14 f.f. per sem,° di
legumi ed orzi e s. 43 per mangia e impiego di casa;
16) Scibetta
m.° Stefano, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano
s.150 per averle vendute a questa Un.tà
[università] per il pubblico panizzo ed il resto per mangia di propria
casa;
17) Lo
Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi
bisognano per venderli per sollennizzare la
festività di S. M.a del Monte come Governadore della Confraternità di
detta Chiesa;
18) Grillo
fra' Antonio Maria, procuratore dello ven. convento di S. Francesco dei minori
conventuali, rivela s. 7,8 per raccolto f.f per 1763, quali ff. li bisognano
per mangia dello detto convento;
19) Pirrelli
fra' Giacomo Priore del ven. convento di S. Giovanni di Dio sotto titolo di S.
Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e timilia per raccolto f.f per 1763, quali li
bisognano per mangia di detto convento;
20) Pomo
fra' Giuseppe Prc.re del venerabile convento del Carmine, rivela s. 23 per
raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 10 per simenza, s. 3
soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s. 8 per mangia convento;
21) Carretto
fra Gaspare pr.re del ven. convento di S. Giuliano de Padri Agostiniani della
congregazione di Sicilia, rivela s. 8 per raccolto f.f per 1763, delli quali li
bisognano s. 2 per governo di un predio di vigna e s. 6 per mangia.
-
i
preti, il grano, il pane
Ed ecco i dati del folto clero:
a)
Grillo sac. d. Salvadore Maria, rivela s.
160 per raccolto f.f per 1763, delli quali mi bisognano simenze in ff. s. 24,
simenza in similia s. 30 per colti scarsi le s.te tim. s. 30, per coltura di
vigne s. 20, per serviggio della mia casa e famiglia per mangia s. 16, per due
famoli in campagna esistenti di capo d'anno s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a
coloro che si devono pigliare a società il sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15
ff: restano per quelle occorrenze che potranno insorgere;
b)
Grillo sac. d. Giuseppe, rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763, delli
quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di casa;
c)
Campanella sac. d. Stefano arciprete, rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i
quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per
soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa
università comp. di salme 100 per uso del publico panizzo sotto nome di Stefano
di Salvo;
d)
Lauricella sac. d. Elia, rivela s. 8.8
ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi bisognano s. 7 per simenza e mi
bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci persone;
e)
Pumo cl. Francesco, rivela s. otto ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza, soccorso
s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa;
f)
Borzellino sac. d. Mario, rivela s. 5 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali li bisognano per mangia di casa;
g)
Conti sac. d. Gerolamo, rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali li bisognano s. 8 ff. per simenza,
s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di legumi ed orzi e governare due
possessioni di vigna proprie, s. 11 p. mangia e commodo proprio;
h)
Crinò diacono d. Filippo, rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, quali li servino per mangia di casa;
i)
La
Matina sac. d. Gaspare, rivela s. 7 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s.
4 per mangia di casa;
j)
Farrauto sac. d. Santo, rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s. 80
obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia e simenze di proprie chiuse;
k)
D'Amico sac. d. Antonino, rivela s. 8 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo Sacramento e s. 5.8
per mangia;
l)
Savatteri sac. d. Michel'Angelo, rivela s. 21 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per soccorso di detto sem.° e
sem.° di legumi ed orzo, s. 4 dati in
accodo e s. 10 per mangia e commodo di casa;
m)
Scibetta e Franco sac. d. Giuseppe, rivela
s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4 ff. per simenza,
s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s. 8 per lo
soccors o di un predio di vigne e s. 14
p. mangia e commodo;
n)
Picone sac. d. Ignazio, rivela s. 4 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 1 per
soccorso e s. 2, comp. di d. s. 4 per
mangia di casa;
o)
Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8
per soccorso e s. 1.8 per mangia propria;
p)
Mantione sac. d. Baldassare, rivela s. 2
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia di casa;
q)
Mantione sac. d. Antonino, rivela s. 27.10
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff. per simenza, s.
5 per soccorso di detto seminerio e
socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2. per
mangia di casa;
r)
Pitrozzella sac. d. Baldassare, rivela s.
10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 8 ff. per simenza, s.
4 per coltura di detto seminerio;
s)
Montagna diacono d. Onofrio, rivela s. 6
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, s.
1.8 per soccorso e s. 1.9. per
mangia di casa;
t)
Baeri sac. d. Ignazio, rivela s. 0.8 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano . per mangia di casa;
u)
Baeri sac. d. Casimiro, rivela s.2 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia;
v)
Nalbone sac. d. Benedetto, rivela s. 360
ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2
per soccorso, s. 3 soccorso per il seminerio di legumi, s. 20 per mangia, s. 2
per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. un. [questa università] per
pubblico panizzo e s.78 commodate;
w)
Fucà diacono d. Giuliano, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali li
bisognano per mangia;
x)
Fucà sac. d. Pasquale, rivela s. 1 ff.
raccolto XI ind. 1763, quali mi
bisognano per mangia;
y)
La Matina sac. d. Pietro, rivela s.13 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per simenza, s. 2 per
soccorso e s. 6 per mangia;
z)
Avarello sac. d. Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI
ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8, soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2 per
mangia ed impiego di mia casa;
aa) Busuito
sac. d. Antonino, rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi
bisognano s. 1.4 ff. per simenza, s. 2 per soccorso sem.° di legumi e s. 1 soccorso di d.° sem.° di
forte e per governare le vigne ed il resto. per mangia;
bb) Scibetta
ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s. 70 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali
40 vendute a questa un. per publ. panizzo, s. 6 per simenza e il restante per
mangia di mia famiglia, soccorso delli metatieri di legumi ed orzo e p.
migliari dieci di vigna e più per fare l'arbitrio di campagna;
cc) Farrauto
sac. d. Saverio, rivela s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763, quali mi servono per mangia;
dd) Biondi
sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li
servono per mangia;
ee) Alfano
sac. d. Filippo, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li
bisognano s. 4 ff. per simenza, s. 7 per soccorso di d.° semin.° e sem,° di
legumi e governare la vigna.
Nel
mezzo del ‘700, a Racalmuto, dunque, occorrevano 4.346 salme di frumento per la
“mangia” dell’intera popolazione che, secondo “la numerazione delle anime” del
quale si custodisce in quel mirabile scrigno (purtroppo in gran dispitto alle
locali autorità) che è l’archivio della Matrice, ascendeva a circa 5.800 anime
sotto n. 1537 capi-famiglia. [2]
Il panizzo pubblico richiedeva qualcosa come 1.195 salme di frumento, il che
significa che oltre l’78% delle famiglie non aveva grano proprio bastevole per
sostentare il proprio gruppo familiare e doveva far ricorso al pubblico
“panizzo”. Solo 126 possidenti potevano considerarsi autosufficienti, ivi
compresi i quattro conventi ancora aperti, ed i 31 ecclesiastici (preti e
diaconi) che costituivano il 2% dei “fuochi” racalmutesi del ‘700. Non
disponiamo, purtroppo, notizie sul frumento che, finito nei pubblici caricatoi,
emigrava per esportazioni o per le cosiddette “tratte” che per secoli avevano
foraggiato il “biscotto” degli eserciti spagnoli.
-
i
vigneti.
Ma
non tutte le terre erano destinate al frumento. da un rollo della Confraternita
di Santa Maria (dedita alla buona morte, e si sa che il culto dei trapassati è
stato da tempo un buon affare a Racalmuto) abbiamo potuto enucleare qualcosa
come 102 vigneti di varia dimensione, con vette di 18.000 viti che i fratelli
Taibi vantavano in località Montagna, dislocati pressoché dappertutto, e
coltivati in vario modo: “vinea de aratro” (come dire che fra vite e vite si
poteva arare e quindi coltivare frumento o legumi o altro); “vinea cum suis
arboribus” (la vigna alberata era consueta a Racalmuto, almeno fino a quando
non ebbe a prendere piede quella a tettoia, ultimamente coperta con teli di
plastica, in modo anche osceno); “vinea arborata com eius clausura” (una bella
vigna alberata in mezzo a chiuse di terre da pane); “vinea cum eius clausuris, arboribus et domo”
(una spaziosa “robba” con vigneti, frutteti e campi di grano); “clausura cum
domibus, aqua, terris scapulis et arboribus et aliis” (era la “chiusa” che il
potente e ricco Giovanni Amella possedeva nel feudo di Gibillini, a confine con
il vigneto di suo fratello Giovanni, con quello di Pietro Salvo e con il
vigneto di Antonino Gugliata).
Non
disponiamo di dati sufficienti a tracciare un valido quadro statistico, ma il
seguente speccietto non è poi del tutto trascurabile:
DATA
|
COGNOME NOME
|
LOCALITA'
|
|
1589
|
MASTROSIMONE Marianus et Joannella
de Mastrosimone
|
CASALI VECCHIO
|
|
1589
|
BURGIO PIETRO
|
CASALI VECCHIO
|
|
1589
|
GIANGRECO MARIANO
|
CASALI VECCHIO
|
|
1589
|
GRACI VINCENZO
|
CASALI VECCHIO
|
|
1578
|
MONTELEONE NICOLO'
|
SERRONE
|
|
1580
|
LUPARELLO ANTONINO
|
NOCE
|
|
1580
|
DE LIO JACOBO
|
NOCE
|
|
1587
|
SUTTASANTI PIETRO
|
SCALA
|
|
1587
|
RIZZO MARTINO
|
SCALA
|
|
1587
|
ALAIMO IACUZZO MARCO
|
SCALA
|
|
1594
|
MACALUSO GIUSEPPE DI VINCENZO
|
SERRONE
|
|
1594
|
GUELI ANTONINO
|
SERRONE
|
|
1594
|
BARBIERI PIETRO
|
SERRONE
|
|
1596
|
SURCI PAOLO
|
SERRONE
|
|
1596
|
FRANCO BARTOLO
|
SERRONE
|
|
1596
|
SFERRAZZA - Gerlandus Sferracza
quondam Antonini alias Cannatuni uti tutor Francisci Sferracza eius fratris
|
ROVETTO FONTE
|
|
1596
|
MESSINA PAOLINO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
PALERMO FABIO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
RESTIVO DRAGO GIOVANNI
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
MULE' VILLICO ANTONINA
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
LUPARELLO LEONARDO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
MESSINA PAOLINO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1596
|
LA LICATA ANTONELLA
|
CELSO-LOGGIATO-GIBILLINI
|
|
1596
|
AMELLA JO. VITO
|
CELSO-LOGGIATO-GIBILLINI
|
|
1596
|
ALLETTO ANTONINO
|
CELSO-LOGGIATO-GIBILLINI
|
|
1596
|
LA LICATA ANTONELLA
|
PIRO-NOCE-FICOAMARA
|
|
1596
|
LA ROCCA PIETRO
|
PIRO-NOCE-FICOAMARA
|
|
1596
|
LA LICATA GIURLANDELLA
|
MALVAGIA
|
|
1596
|
RIZZO MARCO
|
MALVAGIA
|
|
1597
|
BARBERI GRIXO VINCENZO
|
SAMBUCHI
|
|
1597
|
RUGGERI LUIGI
|
SAMBUCHI
|
|
1597
|
LO BRUTTO CARLO
|
SAMBUCHI
|
|
1597
|
CALCI GIUSEPPE
|
SAMBUCHI
|
|
1597
|
BARBERI alias MOSSUTO ANTONINO
|
CULMITELLA
|
|
1597
|
CACCIATORE mastro PIETRO
|
CULMITELLA
|
|
1597
|
AGRO' VENTO GIOVANNI
|
CULMITELLA
|
|
1597
|
LA LICATA LOGIA ANGELO
|
DONNA FALA - PORTELLE
|
|
1597
|
TAIBI CINO LUIGI
|
DONNA FALA - PORTELLE
|
|
1597
|
LA LATTUCA GIUSEPPE
|
DONNA FALA - PORTELLE
|
|
1597
|
INGRAO FILIPPO
|
BOVO
|
|
1597
|
MORREALE mastro MARIANO
|
BOVO
|
|
1598
|
FIXINA E STAFARACI Filippus de
Fixina et Vincentius Stafarachi socer et gener
|
SANTA DOMENICA
|
|
1598
|
BELLOMO PIETRO
|
SANTA DOMENICA
|
|
1598
|
ACQUISTA SIMONE
|
SANTA DOMENICA
|
|
1598
|
GENTILE LUCIANO
|
BOVO
|
|
1598
|
PARLA VINCENZO
|
BOVO
|
|
1600
|
MANTEGNIA PASQUALE
|
GAZZELLE
|
|
1600
|
PIEMONTISI ADDARIO
|
GAZZELLE
|
|
1600
|
BRUCCULERI SIMONE
|
GAZZELLE
|
|
1600
|
GARLISI GIROLAMO FU SANTO
|
GAZZELLE
|
|
1600
|
BARBA ANTONINO FU PAOLO
|
MANCHI
|
|
1600
|
AMELLA GRAVUSO PAOLO
|
MANCHI
|
|
1600
|
BARBERI FILIPPO
|
MANCHI
|
|
1600
|
PETRUZZELLA GERLANDO
|
MANCHI
|
|
1600
|
SIGNORINO VITO
|
GIBILLINI
|
|
1600
|
AMELLA SEBASTIANO
|
GIBILLINI
|
|
1600
|
LA LOMIA GIOVANNELLA
|
GIBILLINI
|
|
1600
|
GRILLO GIOVANNI
|
BOVO
|
|
1600
|
CARAVELLO FILIPPO
|
BOVO
|
|
1600
|
PIRNICI GIOVANNINO
|
BOVO
|
|
1600
|
LA LICATA ANTONELLA
|
NOCE
|
|
1600
|
LA LICATA ANTONELLA
|
PIDOCCHIO
|
|
1600
|
LA LICATA ANTONELLA
|
GAZZELLA
|
|
1600
|
PIEMONTISI ADDARIO
|
GAZZELLA
|
|
1600
|
GIANDALIA SIMONE
|
GAZZELLA
|
|
1602
|
TAIBBI VINCENZO ED ALESSANDRO
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
CURTO ANTONINO DI BARTOLO
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
RIZZO PIETRO DI SIMONE
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
SANFILIPPO SANTO
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
TAIBBI VINCENZO ED ALESSANDRO
|
MONTAGNA
|
|
1602
|
BUSCEMI CORRADO
|
MONTAGNA
|
|
1603
|
MACALUSO FRANCESCO DI VINCENZO
|
GRANCI
|
|
1603
|
POMA IACOBO
|
GRANCI
|
|
1603
|
LAURICELLA ANTONIO
|
GRANCI
|
|
1603
|
AMELLA GIOVANNI DI FRANCESCO
|
GIBILLINI
|
|
1603
|
SALVO PIETRO
|
GIBILLINI
|
|
1603
|
D'ASARO PIETRO, PITTORE
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1603
|
MACALUSO FRANCESCO FU VINCENZO
|
GARAMOLI CORVO
|
|
1603
|
D'ASARO PIETRO, PITTORE
|
NOCE
|
|
1603
|
GUADAGNO NOT. GIOVANNI
|
||
1604
|
BARBIERI ANTONIA
|
CULMITELLA
|
|
1604
|
CACCIATORE PAOLO
|
CULMITELLA
|
|
1604
|
AGRO' VENTO GIOVANNI
|
CULMITELLA
|
|
1604
|
MONTELEONE not. NICOLO'
|
MENTA
|
|
1604
|
IANNUZZO SALVATORE FU ANGELO
|
BIGINI
|
|
1604
|
PACE GERLANDO
|
BIGINI
|
|
1604
|
XANDRO CATERINA
|
PIDOCCHIO
|
|
1604
|
TAIBI ALESSANDRO
|
PIDOCCHIO
|
|
1604
|
GIGLIA ANTONINO
|
PIDOCCHIO
|
|
1606
|
BORSELLINO PIETRO DI ANTONIO
|
MONTAGNA
|
|
1606
|
MACALUSO ALESSIO
|
MONTAGNA
|
|
1606
|
PETRUZZELLA BARTOLO
|
MONTAGNA
|
|
1607
|
LO NOBILI mastro GIULIO
|
STALLUNERI
|
|
1607
|
BARONE mastro FRANCESCO
|
STALLUNERI
|
|
1607
|
LO NOBILE mastro FRANCESCO
|
STALLUNERI
|
|
1607
|
GUELI GIUSEPPE DI GERLANDO
|
STALLUNERI
|
|
1608
|
CURCIO ANDREA
|
GIBILLINI
|
|
1608
|
CAPOBIANCO MICHELE
|
GIBILLINI
|
|
1608
|
MESSINA ORLANDO
|
GARAMOLI
|
|
1608
|
PALERMO FABIO
|
GARAMOLI
|
|
1608
|
LO GIUDICE VINCENZO
|
GARAMOLI
|
|
1608
|
RESTIVO GIOVANNI
|
GARAMOLI
|
|
I vigniti,
sparsi un po’ ovunque, si palesano però più insensivi a Garamoli, in contrada
Montagna, a Bovo, alla Noce, alla Menta, al Rovetto, a casali Vecchio, a
Culmitella, al Serrone; in varie località che in quel tempo facevano parte del
feudo di Gibillini, come dire i versanti di Monte Castelluccio; in talune
contrade oggi di incerta, e talora ormai dimenticata, ubicazione quali: Bigini,
Gazzelle, Granci, Malvagia, Manchi,
Pidocchio, Sambuchi, Stalluneri, Santa Domenica; e non mancavano vigneti
neppure nella parte Nord, a cavalcioni del vallone oggi così desolato, come ci
testimoniano i dati relativi a Donna Fala o a Quattro Finaiti.
Integrando
i dati con quelli che appaiono da un altro “rollo” – sempre custodito in Matrice
– abbiamo, infatti, vigneti – oltre alle località citate – in contrade quali:
Carcarazzo, Pernice, Muscamenti, Cannatone, per non parlare del Ferraro, dei
Malati, del Saracino, Sant’Anna, San Giuliano, Rocca Russa, Canalotto, Muccio,
Giardinello (feudo di Gibillini), Corbo, Petravella, Cozzo della Pergola, Santa
Maria di Gesù, Marcianti (feudo di Gibillini), Vella del Corbo, Arena, Muccio
(feudo di Gibillini), Lago (feudo di Gibillini), Scifitello, Castilluzzo (feudo
di Gibillini), Carmelo.
- il
sommacco.
Una
piantagione, che se pur tarda è comunque attestata da documenti del XVII
secolo, è quella del sommacco: serviva per la concia delle pelli e quindi,
allignando nei costoni rocciosi, ebbe a propagarsi in quelle zone impervie con
intensità tale che ancor oggi – seppure ormai quasi inutilizzata – non si
riesce ad estirpare. La solita Matrice ci fornisce dati d’archivio: è del 1685
questo documento che attiene ad una ipoteca :
Item in et
super salma una et tumulis octo terrarum cum eius vinea et summacio intus et
torculare sitis et positis in dicto pheudo et in contrata Bovi secus vineam
Francisci de Poma Agostini et secus contrata dello Corbo et alios confines.
Apparteneva
ad una famiglia ancor oggi in auge: al sacerdote don Pietro Casuccio ed al
fratello Nicolò. E certo, di sommacco ebbe bisogno il padre del “nonno del
nonno” di Leonardo Sciascia – che, diversamente da quanto asserisce in Occhio di Capra lo Scrittore, era
racalmutese puro sangue. Mastro Leonardo Sciascia s’induceva il 22 aprile del
1768 a fare società con mastro Carmelo Bellavia e con mastro Giuseppe Alfano, a
suo volta associato con mastro Pietro Picone. I quattro soci «posuerunt et ponunt, ac contelerunt et
conferunt … uncias quadraginta et tarenos decem et octo in pretio viginti
quatuor coriorum bovuum.» Il Bellavia e lo Sciascia conferivano «operam, artem et peritiam coriariorum ,
laborem et industriam in vendendis et emendendis coriis praedictis.»
L’Alfano ed il Picone si assumevano le spese
«coriariorum officinae, vel ut vulgariter dicitur “della conciaria”» e su
di loro ricadeva l’onere delle spese «in
emptionem calcis, summacci, et aliorum.»[3] Mastro Leonardo Sciascia aveva sposato il 7 gennaio 1754 Innocenza Alfano, figlia di mastro
Bartolomeo Alfano.
Tra gli Sciascia e gli Alfano erano consueti i matrimoni ed i gradi di
affinità erano piuttosto stretti.
-
gli alberi
da frutta
Gli alberi da frutta, che un tempo dovevano essere molto
diffusi, furono drasticamente ridimensionati quando i sabaudi, gli austriaci ed
i Borboni ebbero l’infelice idea di tassari in modo capitario.
La rarefazione degli alberi da frutta si coglie benissimo
nel rivelo che il convento degli agostiniani fa agli atti del notaio
Michelangelo Savatteri, il 10 maggio 1754. [4] Il
convento – ove da giovane divenne diacono
fra Diego La Matina - è ancora aperto, ad onta dei divieti papali, ed è davvero
prospero. Eppure, si guardi come sono esigue e ristrette le specie di alberi da
frutta:
«Beni stabili
rusticani
Possiede questo venerabile convento salma 1 e tumoli
8 di terre, atte a giardino secco, in questo stato, contrata S. Giuliano,
confinante con il detto venerabile convento e via pubblica di tutti i lati, che
secondo l'estimo dell'esperto di questa terra ragionati ad onze 120 per salma,
sono di valore cento ottanta onze, o. 180;
Item in dette terre vi esisteno alberi di diverse
sorti, cioè mandorle n.° 70 a tt. 6
per uno sono di valore onze 12 che secondo l'estimo dell'esperto d.o, fanno o.
12
Alberi di olive
n. 12 a tt. 6 per uno sono di valore onze quattro secondo l'estimo dell'
esperto ;
Alberi di pruni [albero che fa le susine = Prunus domestica
culta L., v. Traina] di tutta sorte n.° 200 a tt. 8 per ogn'uno secondo
l'estimo dell'esperto;
Alberi di peri n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto
ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze;
Alberi di fastuche [ pistacchio = Pistacium L.) n. 8 che secondo l'estimo dell'esperto a tt.
15 per uno sono di valore onze 4;
Alberi di noci
n. 2 secondo l'estimo dell'esperto unza una per uno sono onze due;
Alberi di pomi
[pyrus malus L., probabilmente compresi gli alberi di “cutugna”, cotogno, Pyrus
cydonia L.] n.° 6 ragionati secondo l'estimo dell'esperto a tt. tre per uno
sono di valore tt. deciotto;
Alberi di granati
[melograno, Punica granatum L. Denominato dalla città spagnola, a memoria
dell’importazione araba] n.° venti secondo l'estimo dell'esperto a tt. 3 per
uno sono di valore onze due;
Alberi di fichi
n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto a tt. 4 per uno sono di valore onze due.»
Mancano
aranci e mandarini ed anche limoni. Mancano: gelsi, sorbi, peschi, nespoli,
ciliegi ed altre specie oggi piuttosto ricorrenti nelle campagne di Racalmuto.
Notisi la prevalenza dei frutti invernali. Quanto al valore, questa la
gerarchia: noce (un’onza ad albero); pistacchio (15 tarì ad albero); pruni
(tarì 8 ad albero), nonché mandorli, ulivi e peri (tutti sollo stesso standard
di 6 tarì ad albero) e, quindi, gli alberi di fico (4 tarì ad albero), i
melograni con i pomi a soli 3 tarì ad albero. Si tace sui fichidindia che
dovevano pur esserci.
- le risorse agricole degli agostiniani di S. Giuliano.
Il documento ci pare perspicuo anche per quest’altri
rilievi agrari:
«Possiede pure detto venerabile convento, in detto stato
contrada Barona, salma una e mondelli due di terre scapoli per uso di
seminerio, confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo
dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque
onze ...... -/ 135.
Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di
terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata
Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via
publica, che secondo l'estimo
Possiede pure detto venerabile convento in detto stato
mcontrada Barona salma una, e mondelli due di terre scapoli per uso di
seminerio confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo
dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque
onze ...... -/ 135
Possiede più detto venerabile convento tumoli 12 di
terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli Gibillini Contrata
Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto, ed altri, e via
publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionate ad onze 12 per migliaro
sono di valore onze novantasei e tarì 10 ....................-/ 125.10.
In dette vigne esiste il Palmento per commodo della vendemmia e con
altre due case di abitazione terrane e cioè una entrata, e l'altra paglialora,
e due camere di sopra, che secondo l'estimo dell'esperto di questa sono di
valore onze trenta
................................................................... -/ 30
In dette vigne vi sono n.° trenta quattro alberi di mandorle, peri,
fiche, ed olive, che secondo l'estimo dell'esperto di questa ragionati a tt. 6
per uno sono di valore onze se, e tarì venti quattro
.........................................................................................................................
-/ 6.24.
Possiede di più detto venerabile convento tumoli 8 di terre atte a seminerio
confinanti coll'istesse vigne di sopra ad onze 64. salma secondo l'estimo
dell'esperto importa trentadue onze .. -/ 32
In dette terre
vi esiste fiumara con sua acqua sorgente in n.° 100 alberi di Pioppo che
prezzati
secondo l'estimo dell'esperto a tt. 8, grana uno, sono di valore onze
quattordici e tarì 20 ..-/14.20»
Lo spaccato contadino del
mondo racalmutese settecentesco si tinge anche di questo tratto non proprio
edificante. I ricchissimi frati di San Giuliano si danno alla questua lungo le
campagne ed ottengono dai devoti villici questi tutt’altro che trascurabili
“introiti spirituali”:
«Introito Spirituale
In primis salme 10 formenti provenuti per questua ragionati a tt. 40
salma importa ...............-/ 3
E più salmi 6 orzi a tt. 24 salma provenuti per questua importa .............................................
-/ 4
E più salmi 4 fave provenute per questua ragionati a tt. 24 salma
importa .............................. -/ 3
E più salme due lenti[cchie] provenuti per questua a tt. 42 salma
importa ....……................... -/ 2
E più salma 1 ceci provenuti per questua ragionati ad -/1.26 salma
importa .................. -/1.26
E più botte sei musto ragionate a onze 1.7 botte
.................................................................-/ 6»
I frati
questuanti portano nelle stive del convento «formenti, orze, fave, lenticchie e
ceci». Il Borbone, da Napoli, insensibile a cosiffatte devozioni, tassa.
Il convento di S. Giuliano ha pure il problema della
gesione delle vigne site al Ferraro: ecco come denuncia il «Prodotto delle vigne di Gibillini»: sono
vigne «date a società, franche d'ogni spesa, un anno per l'altro, [per un
valore di] botte 4 di vino-mosto, ragionate per onze 3,3 per botte.»
Restiamo colpiti da quel pioppeto di 100 albero lungo la
“fiumara” del Ferraro. Oggi, nessuna traccia è più lì rinvenibile, né di
pioppi, né di acque fluenti. Il pioppo,
come i tanti canneti di cui parlano le fonti, erano indispensabili nelle
costruzioni edili. Due grossi volumi contabili denominati “libri della fabrica”
sono consultabili in Matrice ai fini dell’inveramento della costruzione della
nostra chiesa madre, sempre che si abbia voglia di discostarsi delle letterarie
attribuzioni di Sciascia ad un prete in alumbramiento. Nel Seicento si faceva ricorso al pioppetto
di Garamoli. Era difficoltoso ed il trasporto costava. Lo sfruttamento di
facchini era comunque possibile: bastava dar loro “salsicce e vino”. A
comprova, citiamo: «il 22 dicembre del 1658 si pagavano mastro di Napoli e suo
figlio «per havere andato in Garomoli per sbarrare li travetti et n° 3 burduna
che mancano al complimento della nave [della Matrice] ed in più per havere
fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli.» Occorrono 20 tarì «per havere fatto venire dui burduna da
Garamoli e più per pani, salzizza e vino a vinti homini che uscirono detti
burduna dentro la fiumana e ni portaro uno a 2 dicembre alli detti Gueli et
Napoli e suo figlio per intravettare e pulire la travetta.» Le tre attuali
navate della Matrice furono dunque intravettate con legname di Garamoli nel
dicembre del 1658, quando don Santo d’Agrò – il prete alumbriato da Sciascia - era
morto da 21 anni (risulta, appunto tumulato, nella parte allora esistente della
Matrice, sotto l’altare della Maddalena il 22 luglio 1637).
I pioppi degli agostiniani del Ferraro non dovevano essere
dissimili da quelli di Garamoli, e del tutto uguali a quelli – radi – che
ancora resistono nello zubbio sotto Fra Diego. Questa è almeno la tesi dei
grandi naturalisti racalmutesi che abbiamo interpellato.
Rintracciato via E-Mail il mio compagno di liceo prof.
Giovanni Liotta, lo apostrofai nel dicembre del 1999 in questi termini:
A Garamoli, dunque, v’era nel 1658 una “fiumana” ove
impenetrabilmente prosperava un bosco di alberi ad alto fusto che
all’occorrenza venivano utilizzati per fare dei “burdana” per il tetto delle
chiese. Qui si tratta della nostra matrice (ovvio che quella di cui parla
Sciascia fatta a spese di un prete, l’Agrò, in vena di alumbriamento, non
esiste). Di che tipo erano quegli alberi? Ha ragione il dott. Salvo che li
vuole della famiglia populus alba? Si
potrebbe pensare ad una colonia di pioppi
neri (p. nigra)? O ad
altre specie di alberi ad alto fusto?
Perché sono spariti?
E prontamente – e tanto simpaticamente, quanto gentilmente
– il grande entomologo mi precisava:
Quanto alle piante che vivevano e ancora vivono ai bordi del
canale per lo smaltimento dell'acqua della sorgente, credo, come Salvo, che
debbano essere attribuite alla specie Populus
alba, (il pioppo più comune della zona).
Ma noi
continuiamo a sperare che i citati esperti racalmutesi ci forniscano risultati
di appositi studi: Racalmuto li merita.
h) La fauna
Così come a
Milena, anche a Racalmuto, la fauna che circolava dal Neolitico al periodo
tardo romano era sostanzialmente costituita dagli ovicaprini (si calcola sul
46,75%), dai bovini (sul 20,19%) e sui maiali (intorno al 19,57%) [5] Anche a
Racalmuto ebbe a pascolare il cervo e seppure rade non mancarono la volpe, la
lepre ed il cinghiale.
Ci pare
pertinente pure ai nostri siti questo passaggio del lavoro della Wilkens:
«Oltre ai resti di mammiferi sono stati identificati anche alcuni molluschi
marini (Murex trunculus, Glycymeris
sp., Glycymeris violacescens), marini
fossili (Dentalium sp.) e terrestri (Rumina decollata, Helix aspersa, Eobania
vermiculata, Leucochroa candidissima).
Mentre è probabile che le conchiglie marine, compreso il Dentalium fossile, venissero utilizzate a scopo ornamentale, la
presenza di molluschi terrestri può essere causale, dato che non sono stati
trovati in numero tale da far supporre un loro uso alimentare.»
Nell’Eneolitico,
in zona Rocca Aquilia così prossima alla contrada Marchesa di Racalmuto, «la
percentuale degli ovicaprini è molto alta, raggiungendo il 71,55%. [..…]La
caccia ha un interesse molto limitato con il 3,44% e due sole specie: il cervo
e la volpe. […]Tra gli ovicaprini
prevale nettamente la pecora, essendo la capra rappresentata solo da un
frontale femminile con cavicchie.»
Risale al
Bronzo antico l’utilizzo certo di bovini come animali da lavoro. Non mancava il
cane. Nel Bronzo medio, i maiali tra uno e due anni venivano utilizzati per la
macellazione. Per le pecore «le macellazioni avvenivano alla nascita, a 3/5
mesi e a 8/9 mesi nei giovani, si hanno resti di subadulti di 18/24 mesi e di
adulti di età media ed avanzata. Si aveva quindi uno sfruttamento di tutte le
possibilità del gregge: latte, carne e lana.» «I resti di cane sono scarsi e
comprendono la mandibola di un giovane compresa tra uno e quattro mesi. Gli
altri frammenti appartengono ad adulti di piccola taglia. Tra le specie
selvatiche sono stati identificati la volpe, il cinghiale, il cervo e la
tartaruga.»
Verso la
fine dell’età del Bronzo, la commestione del cane risulta con certezza: «una
mandibola di cane con denti regolari denota la presenza di un individuo a muso
lungo, mentre un frammento di femore con graffi di scarnificazione sul lato
ventrale in prossimità dell’epifisi distale, indica che anche i cani venivano
utilizzati nell’alimentazione.»
Estendiamo
a Racalmuto queste importanti “interpretazioni e confronti” della Wilkens:
«Nell’economia di questa area la caccia ha sempre avuto un’importanza
secondaria e solo nel Neolitico di Mandria i resti di animali selvatici
raggiungono una percentuale significativa (11,72%). La tendenza verso un
allevamento misto con forte importanza della pastorizia affiancata da buone
percentuali di bovini e maiali è evidente dall’esame del materiale neolitico. I
bovini sembrano in questa fase destinati essenzialmente alla produzione di
carne e latte, mentre negli ovicaprini, che in tutti i periodi sono costituiti
in massima parte da ovini, sembra prevalere l’interesse per la lana e il latte
rispetto a quello per la carne. […] Nell’Eneolitico si accentua la tendenza
verso la pastorizia a danno principalmente dell’allevamento dei maiali. […]
Negli strati più recenti di Serra del Palco … è presente il cavallo.»
Il cavallo
pare che sia giunto tardi in queste zone: «Il cavallo, identificato solo in
livelli di età storica, raggiunge a Rocca Amorella un’altezza di mm. 1316. Si
tratta quindi di un individuo di taglia media. I resti di asino sembrano invece
da attribuire ad animali di piccola taglia.»
In
definitiva, «tra gli animali selvatici si nota una certa varietà di specie nel
Neolitico (volpe, lepre, cinghiale e cervo). […] Solo il cervo si trova con
regolarità in quasi tutte le fasi. E’ da notare il tasso nel Bronzo tardo di
Serra del Palco. […] Il daino è presente solo a Rocca Amorella.» Non mancava il
gatto.
In millenni
di attività venatoria e di braccognaggio, la facies faunistica di Racalmuto è radicalmente cambiata.
Naturalmente vi ha contribuito l’antropica modificazione della locale
vegetazione. Il degrado degli ambienti per il dissennato utilizzo di
fitofarmaci è stato spesso esiziale. Vi si aggiunga la vulnerazione che le
tante strade hanno determinato nell’ecosistema del territorio..
Resiste,
comunque, nella zona la Volpe (Vulpes
vulpes crucigera Bech.), avente pelliccia rossastra sul capo e sul tronco e
grigia sulle parti inferiori. Vive in genere tra le sterpaglie dei campi o
trale balze rocciose (come nella cava di Fulvio Russo, al Serrone). Pare che non sia del tutto scomparso il Gatto
selvatico (Felis silvestris Schreb.).
Tra i roditori sopravvive l’Istrice (Hystrix
cristata cristata L.). Pure ancora presente il Riccio (Erinaceus europaeus consolei Barr. – Ham.), un insettivoro dal capo
largo e con il muso appuntito. Tutte le parti superiori del corpo sono
ricoperte, dalla fronte alla coda, da aculei di due o tre centimetri di
lunghezza. Lepri e conigli non mancano, anche se ormai non più indigeni, ma
provenienti dai paesi slavi ed immessi nel territorio per ripopolamento,
purtroppo senza avvedutezza veterinaria, e quindi, non di rado, infetti e
contagiosi. Lepre comune (Lepus europaeus
corsicanus De Wint) e coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus huxleyi Haeck.) sono per ora preda - al Castelluccio, al
Serrone, alla Pernice, persino sotto le varie “robbe” di campagna – di quella
fosca genia dei cacciatori locali, per fortuna in via di estinzione.
Sembrano
tornare a volteggiare sulle lande racalmutesi gli antichi rapaci. Consueti i
rapaci notturni quali: il Barbaggianni (Tyto
alba Scopp.), dal piumaggio biancastro nella parte inferiore del corpo e
rossastro nella parte superiore, con disco facciale a forma di cuore in cui
sono inseriti occhi relativamente piccoli di colore oscuro, la Civetta (Athene noctua Scop.) – e pensiamo al
Giorno della Civetta di Sciascia – piumaggio grigio marrone, attiva nel
crepuscolo e nelle prime ore dell’alba, divoratrice di insetti e predatrice di
topi e uccelli di piccole dimensioni. E, poi, il Gufo comune (Asio otus L.) e l’Allocco (Strix aluco L.). A noi fa ancora effetto
l’ansimante gridio dello Jacobbu (strix bubo L.), quando, dopo l’estivo
imbrunire al Serrone, sfreccia invisibile tra i vigneti. E quasi umano è il
richiamo dei piccoli che, sempre al Serrone, la volpe reitera divagando ora qui
ora là nella notturna pastura.
Corvi,
cornacchie, gazze, storni, cardellini, fringuelli, allodole, capinere, tordi,
merli, rondini, pettirossi, sono uccelli passeriformi o ancora non estinti o in
fase di piacevole ritorno. L’upupa, ma anche il piccione selvatico, la tortora,
la quaglia, la coturnice di Sicilia allietano ancora i nostri campi. Rettili,
di solito innocui (i familiari scursuna)
continuano, in primavera, a spogliarsi delle loro lunghe squame sui campi,
sempreché non uccisi prima dalla superstizioso e biblico ribrezzo dei contadini
nostrani. Lucertole a iosa: dalla Podarcis
wagleriana (Gist.) alla comunissima Podacis
sicula sicula (Raf.). Sui muri delle case e sulle rocce due specie di
gechi, grandi divoratori di insetti: la Tarentola
mauritanica (L.) e l’Hemidactylus turcicus (L.)
E che dire
delle lumache: a Racarmutu aviemmu li
babbaluciara, diceva un’ingenua canzone popolare. Babbalucieddi, babbaluci, iudisca e muntuna, termini familiari a
tutti i racalmutesi. Proverbi:
-
Sparaci,
babbaluci e fungi/spienni dinari assà e nenti mangi;
-
Quannu la
sorti nun ti dici,/jettati nterra e cuogli babbaluci;
-
Cu va a
sparaci mangia ligna,/ cu va a babbaluci
mangia corna;
Sciascia, nel suo Occhio di Capra, sapidamente catoneggia
sui detti popolari racalmutesi sulle lumache, a proposito dello sfortunato cui
non resta altro che buttarsi a terra a raccogliere “babbaluci” (v. pag. 113). E
la zoologia sciasciana di Occhio di capra,
oltre allo stesso titolo si estende a questi proverbi:
-
a cuda di surci,
per gli amori finiti, a coda di sorcio, nella noia; (p. 22);
-
a li piedi di lu
cavaddru, ( … «nel mondo contadino che io conobbi non era animale amato:
più delicata del mulo e di minor rendimento, bizzoso, imprevedibile, capace di
fughe da una campagna all’altra» …) e cioè quando si è «senza rimedio: ad
aspettare il colpo dello zoccolo» (p. 26);
-
a piedi
d’agnieddru, «si dice del naso alla francese» (p.29);
-
culuri di cani ca
curri, «colore indefinibile» (p. 58);
-
e iddu pirchì
sceccu si fici? «quasi che l’asino avesse scelto di fare l’asino così come
un uomo sceglie un mestiere, una professione.» (p.67);
-
e lu cuccu ci
dissi a li cuccuotti/ a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti, «chiarchiaru ..
pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di serpi; e vi si caccia
col furetto, che spesso nelle tane resta ‘mpintu,
impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che l’aggroviglia. …
Come dire agli inferi, a un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo. E
senza dubbio vi agisce la memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline
rocciose, come intorno al paese se ne trovano.» (pp-67-68);
-
lu cani di don
Miliu – lu cani di Pinu lu crastu di Pasqua – lu curnutu a lu so paisi, lu
sceccu unni va va – lu pisci di lu mari/ è distinatu cu si l’havi a mangiari –
lu puorcu all’organu – lu sceccu di
Silivestru – lu sceccu zuoppu si godi la via/ la megliu giuvintù a la
Vicaria (pp. 83-88);
-
‘mmucca a un cani,
modo scherzoso per non dare risposta a chi vuol sapere ove travasi qualcuno (
94);
Riportiamio altri proverbi e modi di dire racalmutesi
(distici, quartine) a sfondo .. animale:
-
Sutta lu to
palazzu c’è un jardinu
ci su chiantati arangi e pumadoru
e ni lu miezzu c’è cunzatu un nidu
ancidduzzi ci sunnu a primu vuolu;
-
Ora
ancidduzzi calati, calati
a la cima di l’arburi e ci viditi
quannu nni
la caggia intrati
comu di la
pena nun muriti;
amicuzzi vi
priegu ‘n caritati
amicizia cu
li donni nun aviti;
iu persi la
mia libirtati
na donna m’ingaglià cu li so ariti;
- Chi hai gadduzzu ca
reciti sulu?
Iu cci
arrispunnivu di luntanu:
persi la puddastra e sugnu sulu!
-
Comu ci
finì a lu gaddu di Sciacca/ pizzuliatuddu di la sciocca.
-
Lu gaddu
cci dissi a li gaddini/ ca lu tiempu si piglia comu veni
-
Ludia
brutta facciazza di mulu/tu va diciennu ca t’ha’ mmaritari,/ nun n’ha né robba
nemmenu dinari,/cu è ddu sceccu ca
t’havi a pigliari?
-
Si Diu voli
la mula camina/ci ammu arrivari a la missa a Ragona.
-
Ti cridi ca
era mulu di la rota/ pi pigliarimi a tia disonorata?
-
La
sciccaredda cci dissi a lu mulu/ siemmu fatti pi dari lu culu.
-
Cu di lu
mulu voli fari un cavaddu/ li primi pidati sili piglia iddu.
-
Aviva un
gaddu e lu fici a capuni/ lu sbrigu cci livavu a li gaddini.
-
Ni sta
vanedda ci abita ‘na quaglia,/ tutti la vuonnu e nuddu si la piglia.
-
Lu
puddicinu dissi ni la nassa/ quannu maggiuri c’è minuri cessa.
-
La
tarantula annaca e nun sapi a cui
stenni
l’aritu e nun lu cogli mai
passa la
musca e ni l’aritu ‘ngaglia
e ci
patisci nni ddi eterni guai
la
tarantula ngrata siti vui
la musca
sugnu iu ca c’ingagliavu
quantu aiu
piersu pi amari a vui
sugnu a lu ‘mpiernu e nun nni niesciu mai.
·
lu
cacciaturi assicuta la quaglia/e
l’assicuta finu ca la piglia;
·
La
turturidda quannu si scumpagna
si parti e
si nni va a so virdi luogu
vidi
l’acqua e lu pizzu si vagna
e di la
pena si nni vivi un puocu
e poi si
minti ncapu na muntagna
jetta suspira e lacrimi di fuocu:
amaru cu
perdi la prima cumpagna,
perdi li
piacira, lu spassu e lu juocu.
·
All’armi,
all’armi: la campana sona
li turchi
sunnu junti a la marina.
·
Ah! Quantu
è mpami l’arti di lu surfararu
ca notti e
jornu travaglia a lu scuru
piglia la
lumera e fa un puocu di lustru
quannu
scinni jusu cu lu so capumastru
·
La schetta
si nni prega di li minni
la maritata
di li figli ranni
·
Niesciu la
sira comu lu nigliu
Viersu la
matina m’arricogliu.
·
Si ni
pigliamu colari muriemmu
e
vincitoria a li mpamuna dammu.
·
Cci vò viniri
dda banna Riesi
unni ci su
pagliara comu casi;
cci sunnu
tri picciotti comu rosi
una di
chiddi tri mi dissi trasi;
trasi ca
t’aiu a dari li beddi cosi:
puma,
pumidda, maremi e cirasi.
Iu ci lu
dissi: nun vuogliu sti cosi,
vuogliu la
zita, la robba e li casi.
·
Biedda, li
tò biddizzi iu li pritiegnu
siddu li
duni a l’antri, iu m’allagnu.
·
Ora ca ti
criscieru sti lattuchi,
tutta ti
gnucculii, tutta t’annachi.
·
Ci pienzi
bedda quannu iammu a Naru
ca la
muntata ti paria pinninu?
·
Bedda, ci
vò viniri a San Bilasi,
n’addivirtiemmu ca siemmu carusi?
·
Aiu cantatu
pi sbariarimi la menti
oppuramenti
la malincunia.
·
Comu vo
fari fa, si la patruna
basta ca
truovu la pignata china.
·
Buttana ca
cu mia tu fa la santa,
cu li cani
e li gatti tieni munta.
A
mezzannotti cu scippa e cu chianta,
la tò
matruzza li cuorpi ti cunta.
Quantu
grana vusca sta figliuzza santa,
ci voli lu
nutaro ca li cunta.
·
Cu scecchi
caccia e a fimmini cridi/ faccia di paradisu nun nni vidi.
·
Lu surci
cci dissi a lu scravagliu:/ quannu tu fa beni scordatillu.
·
Ficiru paci
li cani e li lupi,/ poviri piecuri e svinturati crapi.
·
A vvu
commari chiamativi la gatta,/ sannò vi veni cu l’ancuzza torta.
·
Sugnu comu
lu cunigliu ni la tana,/ firriatu di sbirri e di ‘mpamuna.
·
Chi avi stu
sceccu ca raglia?/ avi la corda longa e s’impiduglia.
L’animale
domestico, in una società perennemente contadina come è stata sinora quella
racalmutese, ha avuto ovviamente ruoli primari nella nutrizione, nell’ausilio
nei lavori agricoli, nella caccia, nei trasporti, nello scambio e persino nei
passatempi. Gli atti notarili del Cinquecento, del Seicento, del Settecento
pullulano di contratti di compravendita di muli e giumente, di ginizze e buoi, di asine e pecore e
capre. Un carro trainato dai buoi è quello che portò a Racalmuto la Bedda Matri di lu Munti, secondo
l’ingenua iconografia settecentesca che dell’ex voto affisso nella parete destra del Santuario del Monte. E a
fine Maggio, in prossimità dei grandi lavori
estivi nelle campagne, c’era la rinomata fiera del bestiame di
Racalmuto. Ancora in Matrice – ormai piuttosto defilato – si onora S.Antonio,
cui s’intestava nell’antichità la chiesa arcipretale che era particolarmente
venerato per la protezione che accordava agli animali. Ancor oggi, il 13
giugno, una messa a S. Antonio, propiziatrice di favori celesti per la
salvaguardia del locale bestiame, viene recitata, con devozione e
partecipazione del residuale mondo agricolo. Cavalli e muli bardati, salgono
tuttora la scalinata del Monte, a portare “prommisioni” in frumento. Prima entravano
in chiesa: poi, p. Farrauto ed il vescovo Peruzzo interdissero quella devota
tradizione.
Una
terminologia sempre più in disuso entrava persino nei rogiti: “un mulu di pilu
baiu”; una jnizza; in primis, due
muli uno maschio di pilo baio castano et l’altra femina di pilo bajo; dui
muli maschi, di cojo di pilo morello, marcati allo collo e spalla destr; un
cavallo di pilo sauro, con merco [contrassegno] tundo alla coscia sinistra con
la coruna; un cavallo maurello forzato di bianco con una stilla in fronte
bianca; cavallo stornello con l’armi della razza alla coscia sinistra; cavallo
stornello, muzzo senza grigni [criniera], e senza merco; cavallo argentino
mercato alla coscia sinistra della razza; cavallo bajo, rotato,
facciolo, con tutti li quattro piedi bianchi mercato alla coscia
sinistra della razza; Un maccio [mulo] grande morello mercato allo collo della
razza del Re; una fuschetta falba che dona al scuro; un cavallo bajo chiaro
causolo di tutti li piedi faciolo con un cerro di capilli bianchi sopra la
gregna; dui giumenti di cocchio affrisciunati baj, una delli quali ha lu pedi
darreri malato.
Certo, nel gran parte, codesti sono termini usati nell’inventario del conte
Giovanni del Carretto, trucidato in una giornata di maggio a Palermo nel 1608: erano
tempi in cui un cavallo valeva più di uno schiavo. E dopo viene, infatti, la
scuderia umana che il conte deteneva per il suo servizio nel suo palazzo
palermitano. Il burocratico stile del notaio suona tristo alle nostre orecchie:
Item uno scavo masculo chiamato
Mustafà di Scandaria, moro di figlio di Abitelle, di comune statura, brunetto,
mustazzi nigri, di età di anni 27 in circa; item un altro scavo nomine Angelo
di Zagaro figlio di Fideli turco, al presente battizzato di età di anni 18,
sbarbato, pocho mustazzi; un altro scavo
nomine Alì, moro, figlio di Solomina, bono, d’età d’anni quaranta, commune
statura, olivastro, barba castagna con alcuni
pili bianchi; item un altro scavo nome Alì, turco figlio di Acudì. di
paese di Romania, di età d’anni 35, buona statura, barba e mustazzi castagnoli;
uno scavo d’età d’anni . . .
in circa nome Odeo Fazz.l di Bona, figlio di Fuit, mor; item una scava nome
Aramundi di Zaffi di anni quaranta in circa, bona statura, capilli nigri con
alcuni signi al barbarozzo; un’altra
scavotta d’età d’anni dieci nome Naclara figlia di Alburascar di Bona, moro;
item un’altra scava nome Fileze di detta Bona, matre di detto Nazar d’età
d’anni quaranta in circa, figlia d’Alì capilli nigri, mercata a la frunti e
barbarozzo con alcuni stizzi azoli.
Presso la
Chiesa Madre abbiamo rinvenuto quest’accenno ad una compera di buoi, da servire
per il trasposto dal favarese feudo di S. Benedetto di colonne per l’edificanda
Matrice nel 1655:
6.1.1655
|
A Giulio Pisano onze vinti e tt.rì undici,
quali si ci hanno pagato per havere andato alla città della Licata con
Stefano Garlisi et alli feghi attorno per cumprare altri boi di
carrozza per portare le colonne della d.a fabrica…
|
Da un rivelo del 1658 è possibile trarre un quadro dei possessori
di bestie da soma in quel di Racalmuto. Molto attendibile per motivi fiscali:
·
il numero dei fuochi era di 1239 per 5.165 ;
·
in paese vi erano 52 cavalli;
·
le giumente, invece, in minor numero, appena 38;
·
i buoi, 218 a testimonianza del fervore dei lavori
agricoli;
·
le “vacche di aratro”, n.° 191.
Pecore e capre non vennero conteggiate; e crediamo anche
gli asini.
Asini e muli s’intensificarono nell’Ottocento con
l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il tempo dei “vurdunara”. Scrive
Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo citato (p. 118): «Il solo
trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia dell’unità richiese l’impiego di
3.000 uomini e di 10.000 muli, una vera e propria armata in permanente stato di
mobilitazione.» Fino all’entrata degli americani, nel 1943, la teoria di asini
con il loro carico di “balate” di zolfo era consueto per le trazzere che da
Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si portavano alla stazione ferroviaria.
Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E l’afrore delle urine che stagnavano
nelle solite pozzanghere è rimasto memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi
sempre al solito posto per le sue evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso
del carretto, appena le carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando i dissestati Moss degli americani, la
meccanizzazione, il trasporto su camion.
La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una
passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel
feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare
tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a
tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il
bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don
Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia
campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo
famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di
quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un
fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della
Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del
processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi
si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via
Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta,
passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu
da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci
seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso
vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone;
l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta.
Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero
totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a
Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone
Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale - rimase “un reduce dalle patrie galere”,
come può leggersi in missive anonime che
si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va
letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [6]
«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli
nobiliari, ndr] sta che al mio paese,
dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi,
l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e
di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più
vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un
cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era
invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era
sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e
forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il
barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello
abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile
condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il
barone, mi si faceva un racconto minuzioso:
ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue
spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità
piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di
lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire
popolare la canna, forse perché data all’ecce
homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè
inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra
del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio
dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia
campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i
Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata –
ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale
Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si
scriveva anonimamente al Cadronghi:
«Eccellenza. -
Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole.
Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con
cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano
reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita
di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio
destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di
abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono
inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati.
Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di
circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera
manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la
villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e
Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il
maestro didattico della malavita. Et similia.»
L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà
del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso
non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si
pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette
dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o
meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore
del gesuita padre Scimé (Garibardi),
cui fu sequestrata la scecca mentre
zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per
l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
i)
Archeologia
e preistoria
In sintonia
con Milena, Racalmuto fa risalire le sue ascendenze umane comprovate al Neolitico.
La fase neolitica dei dintorni racalmutesi è variamente comprovata. «Frammenti
di ceramica impressa [provenienti dalla] contrada Fontanazza presso Milena» [7]
comproverebbero insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C.
La citata contrada non confina con il nostro territorio ma non sta molto
discosta e se insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica
colà, non è poi azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero
essere a Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo
comproveranno. A Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in
Milena, scavi eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un
insediamento del neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età
del rame.» [8] Fu epoca questa –
antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le capanne
abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del recinto”» e
ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione della fascia sud-occidentale dell’Isola,
determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli gruppi transmarini,
rapidamente assimilati.» [9] E
continuando con l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma
nell’ambito del neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio
a.C. dunque, ndr] , e certamente in
un momento anteriore alla introduzione della tessitura (nessun elemento di
fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo). […] La documentazione di
questa “cultura del recinto”, la sua brevità, l’assenza finora di materiali più
tardi di quelli stentinelliani associati a ceramica tricromica, sono dunque i
dati di maggior rilevo per uno specifico approccio al fenomeno della
neolitizzazione nella media valle del Platani.»
Lo
sprofondo di Gargilata - con le sue
acque (ora purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi per
la difesa), con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già indagate
– fa affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate, non
potranno che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra
racalmutese: e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del
Griffo ma risulterà di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C.,
anche se, a quanto pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di
molto.
Sulla falsa riga di quanto tracciato da Carla
Guzzone sul neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa al territorio
nostrano di Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del tutto
analoghe a quelle evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della successiva
età del rame (due momenti). Per abbozzare un quadro di ampia massima, siamo
costretti per il momento, in mancanza degli indispensabili e non più rinviabili
scavi stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [10]:
a)
il primo momento è quello dei fori sul banco roccioso,
destinati all’alloggiamento di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno
della copertura di capanne;
b)
il secondo momento è quello delle capanne con battuti
pavimentali;
c)
segue poi la fase monumentale; impianti realizzati con
tecnica accurata (grossi blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili
alcove e con probabili contenitori di derrate;
d)
il quarto momentoè quello dei rifacimenti;
e)
un quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe
rappresentato (se davvero può riferirsi al neolitico) da un bel focolare
impostato su di uno strato di giallastro.
Per un
quadro d’assieme, con particolare riferimento all’età eneolitica, riportiamo
queste note di sintesi di Laura Maniscalco: [11]
«L’età del
rame … è rappresentata da un gran numero di stazioni. […] I siti individuati,
sia attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul terreno, sono tutti di
carattere domestico, manca una altrettanto ampia documentazione relativa
all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti nella zona e
presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate da tempo.»
Discorso
questo valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche in riferimento alle
affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra spettacolare necropoli
di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del rame, a circa l’inizio del
secondo millennio a.C. Vi si attagliano le risultanze archeologiche della
vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui propinquità con Gargilata sono
incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la Maniscalco, «i saggi eseguiti a
Rocca Aquilia hanno restituito sequenze stratigrafiche complete dal tardo
neolitico alla fine dell’età del rame.» Come dire sino alle soglie dell’età del
bronzo, cioè ad immediato ridosso del secolo XVII. Ovvio che le date sono di
mero riferimento, atteso il continuo ripensamento delle datazioni preistoriche.
Scavi
recenti a Milena ragguagliano sulle presenze insediative risalenti alle fasi
finali del bronzo antico; [12] quelle del
bronzo medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel 1988 dal
prof. Vincenzo La Rosa [13]. Il continuum del vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui
ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi
castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato
nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per
le nostre ancor più ubertose plaghe.
A mo’ di
nota conclusiva, per avere una chiave di lettura, della vicenda preistorica
della civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da uno studio di
Fabrizio Nicoletti [14]:
«Non sappiamo se la nostra regione sia stata
popolata in un periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta
dell’Acqua Fitusa, a monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già
da ora la nostra attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti
inquadrabili tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei discoidi è .. incerta, per quanto la loro
presenza nel territorio risulti [piuttosto] capillare. Un bifacciale da
contrada Cimicia, di forma ovale, sembra potersi confrontare con esemplari
analoghi diffusi nella Sicilia centrale. Nella maggior parte dei casi si può
pensare ad una datazione compresa tra il neolitico medio e le prime fasi
dell’età del bronzo. […] Il neolitico, sin dai livelli più antichi di Serra del
Palco-Mandria, vede la comparsa di quel singolare e ricercato vetro vulcanico
che è l’ossidiana. La sua origine allogena non lascia dubbi circa la nascita di
una rete di scambi che in questo periodo interessò la valle del Platani.[…]
L’ossidiana grigia segue l’andamento generale: in ascesa durante la fase delle
capanne, in declino durante quella dei recinti, in rapida ascesa alle soglie
dell’eneolitico, quando diviene quasi l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le
consistenti importazioni di ossidiana, la materia prima maggiormente usata in
tutti i periodi, almeno a partire dal neolitico medio, è una varietà di selce a
grana fine dai colori variabili dal giallo-verde, al rosso, al marrone, spesso
mescolati su un unico pezzo a testimonianza della medesima origine. […]
L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è la più tarda tra
quelle conosciute nella media valle del Platani. Il progressivo sviluppo
culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è in questo sito
accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da chiedersi quale possa essere stato il ruolo delle
importazioni micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti,
sembra coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»
Succede
così il periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos e gli evoluti manufatti
metallici [15]. Racalmuto
non ha, però fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di quella civiltà.
Per rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo che ha fatto
sparire le testimonianze, almeno quelle più evidenti?
Ma se tombe
a tholos dell’età del bronzo il
Tomasello [16] ha
individuato in località Furnieddu
(c/o Sorgente), così prossima ai
confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle
circonvicine terre racalmutesi?
«La tomba
di Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto le due camere thoidali
costituiscono per le loro caratteristiche una presenza archeologica
significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda età del
bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio
geografico nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano
culturale, significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con
il mondo miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di
matrice egea in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale
panorama dei rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i
territori costieri dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali.
Inoltre, il materiale funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e
assegnabile quanto meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la penetrazione
di questa tipologia architettonica nella Sicilia centro-meridionale e di
tentarne una periodizzazione. Infatti la
tradizionale datazione delle tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro,
fissata da Paolo Orsi all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora
sostenibile.»
Risalirebbero
addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi rapporti di questi luoghi con i
micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di contatti – si interroga
l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi tra il XV ed il XIV
secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di Milena, portano a
chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da Pugliese Carratelli
per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un quadro storico reale,
articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di questi contatti nel
lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la quale «nella zona
agrigentino-nissena possano essersi verificati, in concomitanza con l’arrivo
dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri stanziamenti di nuclei
transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con identità culturale
progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del patrimonio
originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito direttamente alla
formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di tipi come la tomba a
tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante nostro entroterra.
Una tomba a
tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce, proprio nel podere vezzeggiato
da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che fosse subcircolare, volta a
calotta, banchina interna a ferro di cavallo e persino dotata del simbolico
incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico alle anime di trasmigrare da
lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia fatta inglobare quando
fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio
di capra che il vedersi al
Chiarchiaro era per Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi, in
un luogo di morte ove tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse il
popolare abbrividire al ricordo «delle
antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne
trovano». Nel dubbio, quella sua grotta della morte antica venne ascosa in
interno ipogeo, risuscitato alla conservazione delle cose della vita.
Confessiamo
che quanto a datazione siamo stati spesso frastornati dall’ondivaga
periodizzazione dell’antica e nuova scienza archeologica. Meritevolissimo
quello che hanno fatto a Milena: hanno rimesso ai vari dipartimenti di fisica e
di fisica nucleare dell’università di Catania i reperti ceramici ed hanno così,
potuto stabilire età, sì, presunte ma
con approssimazioni di mezzo millennio che per le cose preistoriche sono
davvero una bazzecola. Si afferma che sui «campioni ceramici … è stato
possibile operare la datazione tramite termoluminescenza (versione coars grain)» [17] che sono
termini per noi davvero ostrogoti. Ne vien fuori questa serie di età presunte
in BP e cioè a dire before present
(prima del presente):
sito strato
|
età presunta
|
Serra del Palco
recinti
|
|
Recinto maggiore
|
NEOLITICO MEDIO
|
|
7000-6500 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6893
|
864
|
864
|
4893
|
5757
|
4029
|
7445
|
1068
|
1068
|
5445
|
6513
|
4377
|
6852
|
871
|
871
|
4852
|
5723
|
3981
|
7770
|
981
|
981
|
5770
|
6751
|
4789
|
7055
|
739
|
739
|
5055
|
5794
|
4316
|
10148
|
2292
|
2292
|
8148
|
10440
|
5856
|
6773
|
398
|
398
|
4773
|
5171
|
4375
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
5361
|
6278
|
4443
|
RECINTO MINORE
|
NEOLITICO MEDIO
|
|
7000-6500 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6387
|
447
|
447
|
4387
|
4834
|
3940
|
6923
|
600
|
600
|
4923
|
5523
|
4323
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
4655
|
5179
|
4032
|
FONTANAZZA IV
|
|
CAVE
|
RAME
|
|
5500-600O BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
|||||||
4759
|
427
|
427
|
2759
|
3186
|
2332
|
|||||||
4773
|
615
|
615
|
2773
|
3388
|
2158
|
|||||||
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
2766
|
3287
|
2245
|
SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
|
|
SEQUENZA STRATIGRAFICA
|
BRONZO MEDIO
|
|
3400-3200 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
3248
|
590
|
590
|
1248
|
1838
|
658
|
3690
|
820
|
820
|
1690
|
2510
|
870
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
1469
|
2174
|
764
|
SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
|
||||||
SEQUENZA STRATIGRAFICA
|
BRONZO ANTICO
|
|||||
|
3800-3600 BP
|
|||||
Età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
|
3420
|
367
|
367
|
1420
|
1787
|
1053
|
|
4205
|
461
|
461
|
2205
|
2666
|
1744
|
|
4303
|
619
|
619
|
2303
|
2922
|
1684
|
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
1976
|
2458
|
1494
|
Ne desumiamo che anche per Racalmuto la più antica
presenza umana comprovabile risale al Neolitico medio e cioè attorno a 5361
anni prima di Cristo (al massimo a 8278 anni fa, al minimo 6443 anni addietro).
Il neolitico medio racalmutese risale dunque in BP (before present, prima del presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.).
Le datazioni del Griffo relative a materiale conservato nel museo regionale di
Agrigento sarebbero quindi confermate.
Non dovrebbero
significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del
recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno
spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del
Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto
Denominazione
|
Età media
|
Età massima
|
Età minima
|
Recinto maggiore Serra del Palco
|
5361
|
6278
|
4443
|
Recinto minore Serra del Palco
|
4655
|
5179
|
4132
|
differenza
|
706
|
1100
|
311
|
Forse possiamo congetturare che sino al 4100 a.C. nei
dintorni di Milena, e quindi anche a Racalmuto, persisteva il Neolitico medio.
Congetture analoghe per l’età del rame: dal quarto
millennio a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i reperti archeologici
oscillano attorno al 2700 a.C. in un arco di tempo ipotizzabile tra un
massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245 a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi
dell’età del bronzo: bronzo antico con ceramica che può pur risalire al 2.303
a.C.; bronzo medio, iniziato probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo
che si aggancia all’età del ferro per sfociare nel c.d. miceneo.
Certo, in avvenire, quando scavi stratigrafici verranno
praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi i ritrovati (immancabili) di
una tecnologia sempre più sofisticata, le datazioni suesposte risulteranno
senza dubbio imprecise, ma allo stato delle nostre conoscenze (o meglio nel
buio assoluto oggi lamentabile per la preistoria racalmutese) queste
cifre-simbolo una qualche luce, un certo orientamento paiono fornirlo.
Sui Sicani racalmutesi abbiamo solo i ritrovamenti del
Mauceri del 1879 di cui parliamo in vari
punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del
reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di
Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada
ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa
essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del
chilometraggio, si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a
ridosso del cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la galleria
in territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle note del
Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e ceramiche
risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del bronzo
antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non faranno
emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere ferroviario,
andate purtroppo irrimediabilmente perdute.
Le tombe a forno della parete del costone roccioso, sparse
tutte attorno alla grotta di fra Diego, sono tanto vistose e suggestive, quanto
del tutto inesplorate (ad eccezione dei tombaroli che possono violare a loro
piacimento in assenza di ogni tutela pubblica). Sicuramente sicane, di certo
antiche di svariati millenni, attendono di raccontarci la loro storia
archeologica.
Una tomba singolare abbiamo scoperto nell’estate del 1999
in contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello ne abbiamo fatto un servizio
fotografico, almeno in tempo non potendosi escludere che vandaliche manomissioni
ne stravolgano l’assetto geoantropico. Attorno si è ormai consolidato
l’assestamento steppico che abbiamo sopra segnalato: deturpato da un osceno
traliccio, abbraccia il notevole masso tombale un prato erboso in
inverno-primavera, in giallo per le stoppie in estate-autunno. In fondo, il
caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la più caratteristica zona
archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina della Culma, a Nord-Ovest:
un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli accumuli dei rosticci di
una dismessa miniera di zolfo. Prima uno
dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto.
E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu
rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta
al Salinas, da far congetturare essere là attorno la località solfifera
sfruttata al tempo dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben
tre interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime
epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la
bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di
distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu
utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo,
alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un
manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di
fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte
Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza
alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro
specialistici ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere
l’epigeo funereo databile attorno all’anno mille a.C. Lungo tutto il pendio di quella vallata
sporgono qua e là massi similari. Lungo la stessa direttrice, più in alto,
sotto un’ansa della rotabile del Ferraro, un altro analogo masso gessoso,
reclinatosi di recente ad opera dell’uomo, mostra due antiche tombe, ma per
fattura e caratteristiche ci paiono bizantine. Dovremmo, quindi, essere tra il
sesto e l’ottavo secolo d.C., ai tempi cioè del tesoretto di monete bizantine
trovate negli anni Quaranta in località Montagna. [18]
Anche qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle
piantagioni della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei,
desolati e desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti:
sopra, il lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano
dall’opera settecentesca degli agostiniani.
E’ la zona dei calanchi, della nudità arborea per il
dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero stanziarsi e gli antichi
sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni bizantine, resta per il
momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi fossero boschi e l’humus
perdurasse ancora ferace? Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia
per tumulare i propri estinti, lo farebbe arguire. Diciamo pure che
l’irradiazione dal centro di Gargilata fu nei secoli una costante: ferace il
territorio circostante, fervida l’opera dell’uomo nel coltivare dove fosse
possibile, anche lungi dalla capanna sicana o dalla frugale dimora coperta di
tegole, di canali d’argilla cotta.
In queste desolate contrade, in cima al Castelluccio,
tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla Montagna, alla Noce, al
Saraceno, ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo, ed altrove, affiorano ancora le sciasciane necropoli, non
vistose come quella di Gargilata. Invece di sperperare fondi pubblici in
insulsi “musei in piazza”, è da sperare che le future autorità locali
recuperino codeste nostre radici dell’ancestrale memoria sicana.
In questa estate, quando abbiamo fatto vedere il manufatto
sicano di Piano della Botte al noto G. Palumbo di Milena, costui era piuttosto
propenso a valutare il rudere come un tentativo di tholos, lasciato cadere
forse per abbandono coatto della località. E’ tesi suggestiva. Resta, allora,
da spiegare perché, in una certa fase della loro vicenda racalmutese, i sicani
del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi tante:
aggressioni belliche; sopraggiunta insalubrità della zona; alluvioni; dissesti geologici. Chissà se potrà
darsi in avvenire una valida risposta. Frattanto, si faccia qualcosa, come
nelle zone del vecchio (e per noi, migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena docet!
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non
riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare nostre personali
congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se
qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la
grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e
per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si
attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche
sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca
d'Oro' con le caratteristiche «tombe del
tipo a forno» ([19]).
Da quell'era i nostri
progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti
epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto
pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il
crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma
soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche
sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi
per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per
difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di
Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone
montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle
agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto
fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si
accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non
si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di
un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci
subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando
di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia,
violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice -
che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca,
né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi
dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro
imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in
patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela
fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro
Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi
della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava,
nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu
senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati
o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni
siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi,
anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che
ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici
della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve
lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i
vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi
che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai
nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570
ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di
Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e
plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci
di quel periodo.
Il piccolo
centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che
poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto
nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva
lavorare per la vicina polis di
Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non
potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo
conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti
numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli
indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non
si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a
condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più
recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in vagule
congetture.
In una
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso
Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina
di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce irrecuperabilmente.
Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) preso a prestito da Filippo
Cluverio. Oggi, liquet (risulta)
l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente ubicata
attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di
Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta
dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo
era a distanza ragguardevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano
e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai
siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per
Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora
non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo scorso.
Frattanto
Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani,
dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si
dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i
traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La
continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via
sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare
alcuna testimonianza ai posteri.
Racalmuto
continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Restava
pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una
popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno
agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa,
Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei
mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni
agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli
nei giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori
greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino,
testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la locale società
contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed
assassino», per Diodoro Siculo. La sua
cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse
neppure avvertita. Non sapremo però mai
se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi
per lo sconvolgimento nella distribuzione delle terre su nuove basi.
Dopo il 427 a. C., Akragas si
acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse
Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina,
Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti
vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per
un benessere economico, di cui dovette goderne anche Racalmuto, sia pure in
minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con
Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo
ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415
a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una
disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto
generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a
Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle
tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano
risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a
guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore
fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i
profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti,
intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con
l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del
declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il
tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo
ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente -
anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe
Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri
combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza
dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine:
fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si
diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso
- pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra
lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini
dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un
risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile
altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo
a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di
Lentini.
Dionisio il
giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte,
commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione
gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle
esigenze cartaginesi.
Crediamo
che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia
e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che
artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete
siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigi di improbabili
scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la
spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello
scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli.
Sempre il
Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi che ci richiamano le dittature siracusane di
Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio
racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari
palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti
caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del
mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di
lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando
scrive: «In contrada Cometi,
.... si rinvennero sepolcreti d'argilla
rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui
abbiamo detto sopra.
[1] ) Renda. F., Storia
della Sicilia .., op. cit. p. 84 «Lo
sfruttamento capitalistico del lavoro contadino riuscì ad elaborare varianti
ancora più gravose del terraggio, quali il paraspolo, o altri analoghi
rapporti, in cui il concessionario fu trasformato in prestatore d’opera senza
salario certo e definito (il compenso sarebbe stato una quota parte del
prodotto conseguito a fine stagione, generalmente grano, nella misura di un
quinto, di un quarto e in casi eccezionali di un terzo).»
[3] )
Archivio di Stato di Agrigento – Fondo 6 Notaio Cavallaro Angelo – anni
1767-68 - vol. 10632, ff. 165-167.
[4] )
ARCHIVIO SI STATO PALERMO - DEPUTAZIONE DEL REGNO - INVENT. N. 5 - riveli Vol.
n. 4093 anno 1748 – ff. 250-257-
[5] ) Barbara Wilkens, Resti faunistici provenienti da alcuni siti dell’area di Milena, in
“Dalle capanne alle ‘robbe’ …” cit.
p. 127 e ss.
[7] ) Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 219; vds. pure Vincenzo La Rosa, L’insediamento
preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43.
[8] ) Vincenzo La Rosa, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena,
in Dalle capanne alle “Robbe”, cit.
p. 43
[10] ) Carla Guzzone, La ceramica del villaggio di Serra del Palco ed il territorio di Milena
in età neolitica, in Dalle capanne
alle “robbe” … cit. p. 55 e ss.
[11] ) Laura Maniscalco, Le ceramiche dell’età del rame nel territorio di Milena, in Dalle capanne alle “robbe” .., cit., p.
63 e ss.
[12] ) Orazio Palio, La stazione di Serra del Palco e le fasi finali del bronzo antico,
in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 111 e ss.
[13] ) Vincenzo La Rosa – Anna Lucia D’Agata, Uno scarico dell’età del Bronzo sulla Serra
del Palco di Milena, in Dalle capanne
alle “Robbe” … cit, p. 93 e ss.
[14] ) Fabrizio Nicoletti, Industrie litiche, materie prime ed economia nella preistoria della
media valle del Platani: continuità e cambiamento, in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 117 e ss.
[15] )
Resta ancora basilare il vecchio studio del 1968 del De Miro, riportato anche
nel volume “Dalle capanne alle robbe
..” varie volte qui citato. Molto ha aggiunto Vincenzo La Rosa, come si vede
nello studio riportato a p. 141 e ss. Del citato volume.
[16] ) Francesco Tomasello, Le tholoi di monte Campanella a Milena (Cl),
in Dalle capanne alle “robbe” .. cit.
p. 165 e ss.
[18]
) v.d.s. André
Guillou, L'Italia bizantina
dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316., per la
datazione e Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento,
Roma 1987, p. 192 per la data del
ritrovamento.
.
Nessun commento:
Posta un commento