lunedì 16 febbraio 2015

[chissà se gli amici di Malgrado Tutto han voglia di pubblicarmi A RATE il mio romanzetto LA DONNA DEL MOSSAD, magari iniziando da questo esordio MINISTERIALE]


La donna del Mossad capitolo primo
Calogero Taverna
 
La donna del Mossad


 
CONCOMITANZE
 
 
Alla Farnesina d’improvviso fu sgomento: il vecchio guru, che querulo saccente malefico lo era da tempo, si impossessò del massimo scranno. Erano teorie di sale a cassettone, lucide d’oro, allicchittate [1] e poi gli anodini arazzi, gli squallori di quadri vetusti ma stinti, il sapore insomma di una politica estera in minuetto e servile, incisiva forse solo al tempo del Duce. Quel fascistone, lì, il fatto suo lo seppe fare con i convitati dei grandi del mondo … almeno sino ad una certa epoca della sua enfiata era.
I molteplici salti di quantità del votare a fiume in piena per quel tale Berlusconi, di colpo segnarono il cambio di tutta intera l’Italia. Era, ora, bifronte: spezzata provinciale e svagata all’interno; insensa, minuscola acquiescente, fuori degli storici confini. Il guru della Farnesina nulla valeva, nulla poteva. Il primo ministro aveva palesi tedi nel sentirlo: solo voglie vindici verso i già licenziati plenipotenziari, un tempo amici dei comunisti, razza ormai desolatamente estinta. Ed a Berlusconi quel rimasuglio delle sue antiche crociate dava disgusto, come il parlar pederasta a donna che quando vergine fosse adusa a concedere la retroposta entratura. Aveva imposto abiure umilianti e remissive, anche il V*** s’era lasciato andare ad assiomatiche inconciliabilità tra comunismo e democrazia: poté diventare sindaco di Roma per momentanea permissione di monsignor Rubicchi arcigno modenese in eterno astio verso i conterranei rossi sciamanti dall’Abetone alle radure benedettine del nonantolese. Durò poco il canuto Violo e sparì di scena: sapeva d’affari e gli esperti suoi familiari seppero arricchire nell’interscambio astuto con gli astuti ex sovietici.
Fu un pomeriggio del 29 giugno, quando Roma in impercettibile devozione verso i suoi santi padroni Pietro e Paolo non permise agli addetti della Farnesina  di trasmigrare ad Ostia per la lasciva contemplazione degli ancora bianchicci glutei di ragazzotte romane dell’ultima generazione, alte poppute auree su trampoli rastremati come di gazzelle umane. Il guru, umidiccio di sudore, stanchi gli occhi dietro lenti spesse, quasi spenti per defluvio dell’intelligenza, ebbe scatto iroso:
-       ma che cavolo mi porti?
-       dottore, stava abbandonato sul tavolo dell’ambasciatore Michetti.
-       ed io di Michetti me ne sbatto le palle …. ma già ora trema per il suo culetto al n. 4 della Rehov Weizmann di Tel Aviv. Là ci fui anch’io, è vero; là anch’io ebbi talora spavento per quei palestinesi bombaroli … che si diverti ora lui, come hanno cercato di far divertire me i suoi porci amici quando comandavano … al soldo del Kgb …
 
Il dottor Giliberti, Mefisto nell’eloquio dell’ambiente, mefistofelico appariva davvero: nero, con abito sempre nero; barbetta nera sotto occhialetti tondi in radica nera; sibilante di parola, tetro, proprio infernale:
-       non so, proprio male forse ho fatto. L’ho visto là quel telex: l’ho letto. Misterioso l’ho trovato. Mi sono precipitato da sua eccellenza, prima che altri lo notassero.
 
Quell’eccellenza non si poteva più usare, non si doveva. Eppure Mefisto sapeva che al guru piaceva. Se era trasmigrato a destra da Lotta continua (perché da giovane il guru lì militò) non poco contribuì la soppressione democratica degli orpelli ministeriali. Finì l’«eccellenza» proprio quando la folgorante carriera del guru approdava al lido dell’ «eccellenza».
 
Il guru si ammansì di colpo:
-       dai, dai. Fai vedere, va! …. Ma che cazzo significa? Quella sfilza di citazioni bibliche, con l’indicazione dei soli libri e dei … versetti, è proprio stramba…
Il guru ebbe un moto di autocompiacimento per quel “versetti”…. si sentì eruditissimo come di sapiente “in utroque”. «Che bravo che sono» – si disse e plaudì a se stesso per quelle rimembranze del latino clericale. L’aveva appreso in seminario.
Restituì il foglio al Mefisto. Sottolineato colpiva:
Fino all’anglicismo e-mail il guru arrivava; Mefisto neppure lì.
-       Che ne faccio?
Un fuggevole istante per il solito tic: aggiustare gli occhiali sul naso mentre la fronte si aggrottava.
-    Passalo agli infami.
-       Al dottor Ciunnameli del Sisde? – volle con malizia essere preciso il Mefisto.
-       Ed a chi? Se no?
Tornò ingrugnito il guru.
Era pomeriggio duro, non tanto per il caldo che l’incombente temporale non riusciva ad addolcire, ma per l’inane gelosia che tutto nell’intimo sfibrava il signor ministro degli esteri dell’Italia berlusconiana. Elisa, napoletana di cerulee fattezze, quel pomeriggio aveva voluto godere della festività per i santi padroni di Roma. Segretaria del guru, imbecillotta ma avvenente, nella pausa antimeridiana doveva sobbarcarsi alla “fellatio in ore” in quella che nel gergo ministeriale si definiva l’ora erotica, dalle 14 alle 15. Sciamavano dal ministero le frotte impiegatizie per l’onanistico food nei bar dei dintorni. Dentro rimanevano i dirigenti, quelli d’alto grado che usufruivano di stanza a solo. Quasi tutti si sprangavano nel loro ufficio con la collaboratrice e consumavano l’ora erotica, appunto.
Il guru, prima da direttore generale ed ora da ministro, si avvaleva della bella Elisa, cui incombeva il bacio della lascivia. Non eravamo negli Stati Uniti ed il guru non era Clinton. Nessun timore, nessuno scandalo era da paventare. L’affaretto semifloscio stentava a piangere, ma con pertinacia anche se con ripulsa Elisa alla fine riusciva. Non volle però mai rapporti completi o diversi. Conservava la sua verginità per il suo lui. Ed una volta descrisse al guru annientato da collera gelosa l’imene violato dal suo priapo biondo, massiccio ed inestinguibile. La fece pedinare, il guru. Gli uomini di Tom Ponzi non ebbero nulla di impudico da riferire. Mentivano?
E quel pomeriggio la Elisa lontana, il bacio mancato, il disagio dell’estate incipiente in una Roma al caldo-umido ed il telex biblico snervavano il guru come in un preludio tetro e cupo del meritato castigo eterno. Già, il guru all’occiduo stagionare della vita era tornato cattolico, roso da scrupoli intrisi di religiosa tortura, inquieto, peccatore cui Dio stentava a dare l’ultima assoluzione, destinato alle pene del fuoco eterno. Solo il giorno in cui, con la lingua del burocrate, avesse dismesso Elisa si sarebbe forse salvato. Ma la volontà steccava, imperdonabilmente. Che fortuna nascere nella terra protestante dell’America clintoniana.
La porta si riaprì con nervosissimo scatto. Mefisto sibilò:
-       come glielo mando?
Il guru trattenne l’insolenza scurrile che l’esser distratto da pensieri di chiesa e da rabbie dell’eros stava per ingozzarlo con furia di non facile controllo:
-       ma mandaglielo con la solita nota d’accompagno ….. Mi raccomando: sii conciso!
-       Dovrò portargliela alla firma?
-       Firma tu, firmala tu stesso.
 
*    *     *
 
Così quella “nota d’accompagno” è lì ora sul mio tavolo da lavoro, nella mia villetta alla Zingarella. E qui è d’uopo presentarmi. Sono Meluccio Cavalieri di Giorgenti. Dottore in legge, molti anni fa; sceneggiatore squattrinato, per decenni in preda alla mala povertà; ora ricchissimo avendo scritto scriteriati gialli che la gente (pronuba la pubblicità) legge a valanghe. La mia notorietà – oh quanto l’avrei voluta da giovane! – è divenuta mitica; si è accoppiata – con mio disappunto – autorità indiscutibile, somma, perentoria. Persino il ministero, persino Berlusconi (ed io sono vetero comunista tutt’altro che pentito) si avvalgono di me, come consulente (e vengo profumatamente pagato) per dipanare i misteri dei tanti, troppi omicidi che si consumano in questa Italia di destra, che di efferati fatti di sangue, specie a sfondo politico, non dovrebbe registrarne di taluna sorta.
La “nota d’accompagno” reca in agghindata grafia la firma di M. Giliberti. Non scherziamo:‘M’ non sta per Mefisto. Michele? Mario? Manilo? Minuzio? Marcello? Marzio? Massimo? Metello? Sì, forse Metello: mi sembra il più acconcio a quel cognome tanto italianamente esotico. Non mi si dica: che ti costa interpellare il Ministero? Sì, mi basterebbe una telefonata alla signorina Saguatti (tanto modenese, tanto caruccia anche per i miei quindici lustri), ma non ne ho voglia alcuna. Diciamo: non mi va.
Vorreste sapere se vi sono le tante note di colore che prima ho profuso? Ovviamente, no. Eppure gli ipotattici incisi, alla Sciascia (limitatamente alla ostica sintassi, s’intende) e i miei irrefrenabili svolazzi fantasiosi rendono veridica, anche se non vera, la narrazione di quel pomeriggio romano alla Farnesia che si data 29 giugno duemila…..
Siete curiosi e vorreste sapere dell’altro? Con comodo, a suo tempo e luogo come si conviene ad un giallo di consueta fattura.
Sto rimestando carte, appunti, rapporti, ritagli, missive, libri ed ho già consultato l’intero hard-disk del dottore Aurelio La Matina Calello di Racalmuto. Ha tentato di mutarne i connotati lo scrittore indigeno Sciascia, cercò di farlo chiamare Regalpetra, ma Racalmuto resta Racalmuto ad onta di tutto. Ed il dottore Aurelio La Matina Calello racalmutese lo fu fino al midollo. In che senso? Ma nel senso da lui stesso dato in uno dei suoi abortiti sforzi letterari: «Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).

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