Sale,
zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe, dunque,
ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene. Inquieta alquanto l'idea che le
ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano a quel
geologico vibrione. Ma le viscere della terra non furono solo fecondate di
zolfo dal singolare microrganismo miocenico: inghiottirono anche l’antomoniu
e cioè il grisou il venefico
idrocarburo che incendiandosi produce morte per incenerimento dei polmoni dei
malcapitati minatori che avessero a respirarlo. Sciascia vi scrisse un mirabile
racconto: L’Antomonio, appunto. Così
lo chiosa in premessa: «gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou. Tra gli zolfatari, è leggenda che il nome provenga da antimonaco: ché anticamente lo
lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne morivano. Si aggiunga che
l'antimonio entra nella composizione della polvere da sparo e dei caratteri
tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni,
queste, ad intitolare L’antimonio il
racconto.» Noi, quelle ragioni sciasciane, stentiamo ad individuarle. Ne
abbiamo, però, delle nostre. Una mia nonna raccontava del suo primo marito
finito, dopo poche settimane dalle nozze, morto per antimonio dietro un muro
prontamente eretto per impedire che il grisou
si espandesse da una “galleria” all’altra: tanto si sapeva che per i poveretti
investiti nelle viscere della miniera non c’era più scampo. Si procedeva, così,
a salvaguardare gli altri cunicoli solfiferi.
Apparentemente ancora integri, quei minatori scapparono dal profondo
della miniera, ma giunti all’uscita la trovarono murata. Ira, terrore,
sgomento, disperazione, preghiere supplichevoli, bestemmie imprecazioni ..
furono scene davvero apocalittiche che si possono soltanto sospettare, intuire,
immaginare. Poi, la morte inesorabile, senza più respiro per i polmoni inceneriti. Ancor oggi, per tanti di
noi racalmutesi, la zolfara – per dirla con Sciascia – equivale all’«uomo
sfruttato come bestia e [al] fuoco della morte in agguato a dilagare da uno
squarcio, l’uomo con la sua bestemmia e il suo odio, la speranza gracile come i bianchi germogli di grano il venerdì
santo dentro la bestemmia e l’odio.» [1]
Per
un secolo e mezzo il vibrione solforoso produrrà a Racalmuto “povertà vile” [2]
per tanti zolfatai e flebile benessere per taluni “coltivatori” di “pirrere”.
Sull’altipiano
di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da
oltre quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche
volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto
sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a
partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una
popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe
avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del
tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di
lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Ma
a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu
esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi
nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono
tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche.
Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego,
che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
La
grotta di fra Diego, circondata da una necropoli di tombe a forno, è, a mio
avviso, un inghiottitoio, ma sospeso in alto dovrebbe testimoniare uno di quei
fenomeni detti zubbi che abbiamo
sopra in qualche modo descritti. Ne nacque un avvallamento quale oggi notiamo
con tanti altri inghiottitoi lungo il costone roccioso. Sull’antico sprofondo
ebbe di certo ad accumularsi uno strato di detriti per slavamento delle
antistanti colline che ascendono sino al Castelluccio.
Oggi,
dall’alto della grotta, vi si può ammirare una plaga destinata ad essere una
zona archeologica di grosso risalto. Nell’estate del 1999 il sig. Palumbo di
Milena – un personaggio assurto alla notorietà per avere coadiuvato con gli
archeologi che hanno reso famosa la contermine Milocca sicana – rinveniva
in quell’avvallamento un continuum
ceramico sicano, greco, romano, arabo e normanno. A suo avviso, era là che si
era dispiegato l’insediamento umano dell’epoca sicana di cui le affascinanti
tombe a forno ne sono l’ancora visibile testimonianza archeologica. Ma la vita
non si era fermata al XIII secolo a. C.: era proseguita, in quello stesso
luogo, con i greci, con i romani, con i bizantini e soprattutto con gli arabi.
Accomunati si rinvengono cocci delle varie epoche, disseppelliti
disordinatamente dai moderni trattori. Forse la Gardûtah della geografia dell’Edrisi trovavasi proprio sotto la
necropoli sicana di fra Diego. Va a
finire che aveva proprio ragione padre Salvo quando scriveva [3]:
«da noi, a Gargilata, certamente [i sicani] vi ebbero un villaggio, il cui nome
con molta probabilità sarà stato Gardûtah,
più tardi corrotto il Gardulâh, donde
si pensi derivi il nome Gargilata della contrada. A fare il nome di Gardûtah è il geografo arabo Edrisi al
tempo di Ruggero I nel secolo XI. Egli chiama in tal modo un imprecisato
villaggio del suo tempo sito in quei paraggi della contrada Gargilata “a nove
miglia da Sutera”.» La ceramica araba che abbiamo notato sotto la guida del
Palumbo sembra dare il supporto archeologico alla congettura di padre Salvo.
Speriamo che le pubbliche autorità si inducano finalmente a fare le campagne di
scavi che la terra di Sciascia ben merita e speriamo che si provveda per la
salvaguardia di quei beni che sono le tombe, al momento in pasto alla selvaggia
profanazione di tombaroli.
L’affacciarsi
dell’uomo in Sicilia data ad epoca non ancora precisata. Forse 500.000 anni fa
le zolle sicule furono calpestate dal primo Homo
erectus. Più probabile che ebbero a trascorrere centinaia di anni prima che
l’Homo sapiens riuscisse a passare
dall’Africa in Sicilia. Ci pare convincente il Tusa che è molto circospetto in
proposito. «A quale epoca rimontano le prime tracce dell’uomo .. in Sicilia»,
si domanda [4].
Ed ecco il suo punto di vista: «Alcuni ritengono che i ciottoli di pietra
levigata e appena scheggiata rinvenuti in località “Giancaniglia” …
costituiscano la prova della presenza dell’uomo in quella zona durante il
Paleolitico Inferiore, quell’epoca antichissima della presenza umana che
generalmente si data a partire da 500.000 anni fa; non si è sicuri di questo
però, studi e ricerche continuano. La presenza umana è però accertata, ed anzi
considerevole, in un periodo molto più avanzato rispetto al precedente, il
Paleolitico Superiore.»
I
dilettanti non si danno comunque per vinti. Secondo notizie di stampa
dell’autunno del 1983 in Sicilia sarebbe stato rinvenuto un reperto di ossa e
denti di un Austrolopithecus e cioè
l’uomo risalente a 4 milioni di anni fa e i cui primi reperti sono stati
rinvenuti nel 1924 presso Taungs nel Bechaunaland (Tanganica nell’Africa Meridionale). Quello
di Sicilia lo si vuol far risalire a 3 milioni e mezzo di anni. Cacciava in
piccoli gruppi; sapeva accendere il fuoco e usava grossi ciottoli come
utensili.
Più
possibilista ci appare De Miro secondo il quale [5]
«dal territorio agrigentino, più particolarmente da un giacimento omogeneo di
Capo Rossello presso Realmonte, provengono i documenti di quell’industria su
ciottolo riferibili alla “Pebble Culture”, cioè alla più antica industria
litica del paleolitico inferiore: questi oggetti (ciottoli scheggiati a una
estremità su una faccia o su due facce), trovati sui terrazzi a sabbie
calabriane a quota compresa tra 60 e 70 m. s.l.m-, hanno una importanza
notevole per la più antica presenza umana nell’Isola e nell’intero continente
italiano, in quanto forniscono la prova che in Sicilia l’uomo fece la sua
comparsa alle soglie dell’Era Quaternaria e – per le relazioni con la Pebble
Culture nord-africana – sembrano suggerire per i tempi più antichi del
Quaternario l’unione della Sicilia con l’Africa e l’assenza della fossa
tunisina.» A noi è capitato d’imbatterci in schegge litiche sparse in un
terreno antistante a grotte naturali in contrada Fontana del Vozzaro (sotto il
Castelluccio). Il signor Candeloro, un solerte
ricercatore, ci segnalava reperti di antichissima presenza umana nella
stessa grotta di fra Diego. Occorrono comunque attenzioni specialistiche per
avere certezze sulla più vetusta cultura umana nei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo
saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei
abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano
in modo indubbio: le tombe a forno
scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo
il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del
paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la
strada ferrata.
Sulla primissima presenza umana nei
dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche
ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua
corrispondenza a W. Helbig, il solerte ingegnere delle ferrovie, Mauceri ([6]).
Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un
importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e
Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe
scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a
Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza
che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran
banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni
rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono
aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i
cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che
hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([7])
Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse
«erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» ([8])
Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una
riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una
“coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”,
di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un
corno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, ([9])
- conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi
sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più
che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie
a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di
una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa
avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna
delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la
giacitura.»
Dopo
la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata
sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa
- presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si
trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione,
con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo
avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel
che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un
policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo
(1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di
Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello
sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono
vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade
racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni
sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al
confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
[6]) Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la
corrispondenza fra il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle
antichissime tombe fra Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il
Mauceri risulta essere ingegnere e direttore
dell’Ufficio Centrale di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate
Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB.
AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[7]) Luigi Mauceri: Notizie
su alcune tombe ... scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr.
Arch., 1880, pag. 17.
[9]) Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di
Racalmuto ma del finitimo Castrofilippo.
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