ARCIPRETI
E SACERDOTI NELLA SECONDA META’ DEL CINQUECENTO
Don Aloysio (Lisi) Provenzano
Questo sacerdote traspare dai registri di battesimo e di
matrimonio della Matrice. Il suo ministero sembra discontinuo. Nel biennio
1575-1576 dovette avere funzioni di cappellano ed il suo nome si alterna con
quello di don Vincenzo d’Averna negli atti di battesimo. Ancora nel 1581 è uno
degli officianti della Matrice ed il 19 settembre 1581 battezza Paolino
d’Asaro, fratello del pittore e futuro sacerdote racalmutese.
In tale veste compare sino al 1584, dopo subentrano altri
cappellani come don Paolino Paladino e don Francesco Nicastro. Don Lisi
Provenzano riappare successivamente nei documenti della Matrice, ma come teste nella
celebrazione di matrimoni (ad es. il 28 settembre 1586) o come semplice padrino
in battesimi (come quello di Francesco Castellana del 3.10.1587 ).
La sua presenza a Racalmuto è attestata sino al 1593 come
dal seguente atto di matrimonio, da cui però risulta che il Provenzano non è
più cappellano della Matrice.
La figura di d. Lisi Provinzano emerge invero da un
documento dell’Archivio Vescovile di Agrigento che risale al 31 ottobre 1556.
Se ne ricavano alcuni tratti biografici. Ma soprattutto è la vita paesana a
metà del XVI secolo che traspare. Val quindi la pena di riportarne alcuni
brani.
Siamo stati supplicati da parte del Rev. presti Aloysio
Crapanzano (ma trattasi di Provenzano) ... del tenor seguente: .. da parte del
rev. presti Aloisio Provenzano della terra di Racalmuto, subdito della
giusridizione di V.S. ... In tempi
passati venendo a morte lo condam ... di Salvo della ditta terra, fece il suo
testamento agli atti dell’egregio condam notaro Vito Jandardoni et per quello
inter alia capitula legao all’esponente pro Deo et eius anima et in
satisfatione de suoi peccati tarì dudici anno quolibet sopra tutti li soi beni
hereditari durante la vita di esso esponente per una missa da dovirisi diri in
die lunae cuiusvis hebdomadis .. in ecclesia Sancti Francisci dictae terrae per
ipse esponente. Et mancando, che tali
tarì dudici li havissero li frati di ditto convento durante la vita di
esso esponente, si como per ditto legato appare in ditto testamento fatto ni li
atti de ditto notaro Vito 21 novembre iiij ind. 1545. Et perché lo esponente si
trovao absenti da ditta terra alla morte del ditto testatore, che havea stato
in Palermo et ad altri parti per soi negotij et non habbi mai notitia di tale
legato et li frati di ditto convento quello si exigero con diri che ipsi
voleano dire tali missa.
Appena saputa la faccenda del legato, il sacerdote si
dichiara disponibile alla celebrazione della messa per l’anima del di Salvo. Ma
i frati sono riluttanti e non consentono al Provenzano di celebrare quella messa
nella chiesa del loro convento. Quindi il sacerdote si trova nell’impossibilità
di adempiere all’obbligo nelle modalità volute dal testatore. Egli non può
celebrare
ditta missa per la repugnantia di
ditti frati in la loro ecclesia; pertanto supplica V.S. sia servita provvedere
et comandare che ipso exponente possa satisfare la volontà di ditto defunto in
diri la missa ogni lune cuiusvis hebdomadis in alcuna altra ecclesia in ditta
terra di Racalmuto ben vista a V.S. Rev.da et comandare alli heredi di ditto
defunto che di ditti tarì dudici anno quolibet
staiono de rispondere et quelli dari allo esponente con la conditione
ordinata e fatta per lo defunto che quando mancasse per sua colpa e defetto
recada al ditto convento di santo Francesco. Et ita petit et supplicat. ..
Il vicario generale dell’epoca don Rainaldo dei Rainallis dà
quindi disposizioni al vicario del luogo perché faccia un’inchiesta e ragguagli
il vescovado.
Quel che emerge con chiarezza è dunque la vita piuttosto
girovaga di questo nostro prete del Cinquecento che per affari si reca a
Palermo ed in altre località ed è tanto affaccendato da non sapere neppure di
un legato in suo favore. Non meraviglia certo che il di Salvo s’induca a
lasciare a favore di questo sacerdote, durante vita, un legato di dodici tarì
per una messa la settimana, il giorno di Lunedì, da celebrarsi nella chiesa di
S. Francesco. Le disposizioni testamentarie pro Deo et anima in remissione dei
propri peccati investivano i vari strati della popolazione. Non sorprende che i
frati siano riluttanti a concedere il permesso di celebrare nella loro chiesa a
sacerdoti secolari. Se messe di suffragio sono da dire, possono benissimo
essere loro ad adempiere ogni volontà testamentaria al riguardo. Ovviamente
percependone le elemosine. A chi abbia dato ragione il Vicario Generale, se ai
frati o a d. Lisi Provenzano non sappiamo, ma propendiamo a credere che sia
stato quest’ultimo a venire favorito. Non per nulla, qualche anno dopo il
sacerdote si stabilisce a Racalmuto e qui svolge funzioni da cappellano.
Il documento è comunque importante perché ci fornisce
qualche dato sul convento e sulla chiesa di S. Francesco. L’uno e l’altra erano
dunque operanti da prima del 1545. Stanziano a Racalmuto padri francescani che
dispongono della chiesa ed erano sottratti alla giurisdizione del vescovo
agrigentino. Nella visita pastorale del 1540-43, il vescovo Tagliavia omette
ogni riferimento ai francescani. Eppure abbiamo motivo di ritenere che essi fossero già insediati. Nel 1548 il
convento possedeva una bottega in piazza e ciò risulta dalla bolla di
riconoscimento della confraternita di S. Maria di Juso datata 21 maggio 1548 ( A.C.V.A. - Registro
Vescovi 1547-48, p. 142).
Con i padri dell’Ordine dei Minori Conventuali di S.
Francesco, ebbe dunque a confliggere don Lisi Provenzano attorno al 1556 per un
legato del 1545. Il convento francescano precede quindi di almeno 15 anni il
1560, data ritenuta di fondazione dal Tossiniano. Al 1560 risale, invero, il
testamento di Giovanni del Carretto che accenna alla chiesa di S. Francesco ed
al convento ma in questi termini:
Del pari
lo stesso spettabile Testatore volle e diede mandato al predetto d. Girolamo
del Carretto, suo figlio primogenito ed erede particolare, di far celebrare
delle messe nel convento di S. Francesco di detta terra. Inoltre dispone che
sia costruita una cappella in un luogo da scegliersi in detta chiesa dal
suddetto erede particolare ed a tal fine saranno da spendere 100 onze entro due
anni dalla morte del testatore. La Cappella è da fabbricarsi per l’anima del
predetto testatore e dei suoi predecessori.
Inoltre decide di venire sepolto nella chiesa di S.
Francesco con l’abito francescano:
Item
elegit eius corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus
ordinis ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.
Anche da qui emerge che S. Francesco esisteva da tempo.
Il Sac. Lisi Provenzano visse, dunque, gli anni del suo sacerdozio
tra Palermo, altri luoghi e Racalmuto. Ordinato già nel 1545, all’epoca cioè
del testamento del di Salvo, nacque a Racalmuto qualche tempo prima del 1520.
Morì attorno al 1597.
Nel 1584 fa una donazione alla chiesa di S. Maria Inferiore
(di Gesù) di tt. 6 annui, cedendo un censo annuo su una casa una volta
appartenuta a Violante Petruzzella:
Actus donationis o. - 6.
Pro ven: Eccl. Sanctae
Marie inferioris - cum p.ro Aloisio Provenzano.
Die xxiiij° septembris xiij^ ind. 1584
Reverendus presbiter Aloisius
Provenzano de Racalmuto coram nobis mihi notario cognitus pro anima sua titulo
donationis et omni alio meliori modo sponte cessit et cedit ven: Eccl.
Sanctae Mariae Inferioris dictae terrae
per eum Mattheo La Paxuta rettore mihi cognito omnia jura quae et quas habuit
et habet in et super tt. 6 census quolibet anno solvendi contra magistrum
Joseph Cachiatore super domo olim Violantis Petrocella virtute contractus facti in actis meis die etc.
Testes m.j
Joseph Lomia et Jacobus de Poma.
Arciprete Gerlando D’Averna
Con bolla pontificia del 13 novembre 1561 ( Archivio Segreto
Vaticano - Registri Vaticano - Bolla n.° 1911 -
f. 211 e ss.), Pio IV nomina arciprete di Racalmuto don Gerlando
D’Averna (chiamato nel documento Giurlando de Averna). La bolla viene
indirizzata al diletto figlio, arciprete e rettore della chiesa di S. Antonio
di Racalmuto, diocesi di Agrigento.
Pius
episcopus servus servorum Dei. Dilecto filio Giurlando de Averna rectori archipresbitero nuncupato parrochialis
ecclesiae archipresbiteratus nuncupatae Sancti
Antonij terrae Rachalmuti
Agrigentinae diocesis, salutem et apostolicam benedictionem.
E’ del tutto rituale l’apprezzamento che giustifica la
concessione papale del lontano beneficio dell’arcipretura racalmutese, ma è pur
sempre un riconoscimento di meriti:
Vitae ac morum honestas aliaque
laudabilia probitatis et virtutum merita, super quibus apud nos fide digno
commendaris testimonio, nos inducunt ut tibi reddamur ad gratiam liberalem.
Ci appare oggi strano come una prebenda così striminzita
fosse di concessione pontificia. All’epoca era invece una consuetudine ed il
papa mostra di esserne un custode geloso et attento. Ne fa accenno nel corpo
della stessa bolla, dichiarando illegittima ogni usurpazione da parte di
qualsiasi autorità:
Dudum siquidem omnia beneficia
ecclesiastica cum cura et sine cura apud Sedem apostolicam tunc vacantia et in
antea vacatura collationi et dispositioni nostrae reservavimus, decernentes ex
tunc irritum et inane si secus super hijs a quacumque quavis auctoritate
scienter vel ingnoranter contingeret attemptari.
In un siffatto quadro giuridico si colloca, dunque, il
beneficio di Racalmuto, un beneficio che, comunque, tal Sallustio - già rettore
ed arciprete di Racalmuto - non ha reputato utile mantenere e l’ha restituito
nelle mani del Papa.
Et de inde parrochiali ecclesia archipresbiteratus nuncupata Sancti
Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis per liberam resignationem
dilecti filij Salustij humilissimi nuper ipsius ecclesiae rectoris
archipresbiteri nuncupati, de illa quam tunc obtinebat in manibus nostris
sponte factam et per nos admissam apud
Sedem predictam vacantem.
L’arcipretura di Racalmuto, cui rinuncia anche il chierico
Cesare, viene alla fine assegnata al D’Averna per i suoi meriti:.
Noi, quindi vogliamo concederti una
speciale grazia per i tuoi premessi meriti, e assolvendoti da ogni eventuale
censura, disponiamo che tu ottenga tutti i singoli benefici ecclesiastici con cura e senza cura
(d’anime) e tutto quanto ti compete in qualsiasi modo, comunque e per qualsiasi
quantità; ed in particolare gli annessi frutti, redditi e proventi che
costituiscono una pensione annua di 24 scudi d’oro italiani secondo la
ricognizione fatta dalla Santa Sede quando ebbe ad accordarla al predetto
Sallustio, pensione che in ogni caso non supera i sessanta ducati d’oro come tu stesso affermi.
E vogliamo ciò
anche se sussiste una qualche riforma insita nel corpo delle leggi visto
che la predetta chiesa è riservata alla disponibilità apostolica in forma
speciale e generale.
Pertanto ti conferiamo il beneficio
con l’autorità apostolica che ci compete, giudicando irrituale ed inefficace
ogni altra contraria decisione di qualsiasi autorità che abbia ritenuto di poterne
disporre, scientemente o per ignoranza. E ciò vale anche verso chi tenterà in
futuro di arrogarsi poteri dispositivi.
Intorno a quanto precede, diamo
mandato per iscritto ai venerabili fratelli nostri, i vescovi Amerin/ e Muran/
nonché al diletto Vicario del venerabile fratello nostro, il vescovo di
Agrigento, affinché loro due o uno di loro, direttamente o per il tramite di
qualcuno introducano Te o un tuo procuratore nel materiale possesso della
chiesa parrocchiale e degli annessi diritti e pertinenze e lo facciano per la
nostra autorità. Non manchino, altresì, di difenderti, dopo avere rimosso
qualsiasi altro detentore, facendoti dare integro il resoconto della chiesa
parrocchiale e degli annessi frutti, redditi, proventi e doti. A ciò non osti qualsiasi
contraria costituzione di papa Bonifacio Ottavo, di pia memoria, nostro
predecessore, né ogni altra decisione apostolica. Del pari, nessuno può
richiedere per sé o per il proprio legato un qualche diritto di omaggio o un
qualunque beneficio ecclesiastico in base a lettere o in forma speciale o
generale, anche nel caso in cui vi sia stato un processo e sia stato emesso
decreto riformatore.
Vogliamo che tu comunque entri in
possesso di detta chiesa parrocchiale, senza pregiudizio alcuno degli annessi
benefici. Se qualcuno dovesse tentare presso il venerabile fratello nostro, il
vescovo di Agrigento o presso chiunque altro che sia stato dalla Sede
apostolica dotato in comunione o frazionatamente nei beni della chiesa, non gli
si accordi costrizione o interdetto o sospensione o scomunica. Resta ribadito
che quanto ad omaggi, benefici ecclesiastici, relativa collazione, provvisione,
presentazione e qualsivoglia altra disposizione, sia congiuntamente che
separatamente, non può provvedersi per lettera apostolica che non faccia piena
ed espressa menzione, parola per parola, alla presente, la quale ha forza di
annullare qualsiasi altra indulgenza, generale e speciale, di qualsiasi tenore
della Sede apostolica.
La complessità della bolla invero illumina poco sulle
peculiarità parrocchiali della Matrice del tempo. V’è un rigonfiamento di
formule curiali, del tutto sproporzionato alla esiguità dell’affare.
L’arc. D’Averna non pare essere racalmutese. Sembra venire
da Agrigento. E’ un po' nepotista. Con lui si sistema a Racalmuto il sac. d.
Vincenzo d’Averna che è anche cappellano. Appare un vicario a nome don Giuseppe
d’Averna. Fa capolino un chierico: Orlando d’Averna.
Come arciprete, lo riscontriamo con una certa assiduità
negli atti di battesimo dal 12.11.1570 sino al 5.7.1571; poi appare
sporadicamente. Non abbiamo, però, serie complete di atti di battesimo: il
primo quinterno è incerto se si riferisce al 1554 o al 1564. Si salta, poi al
1570-71-72 e quindi al 1575-1576. Quindi il vuoto sino al 1584.
L’arc. Gerlando d’Averna figura ancora il 24 di maggio 1576
in questo atto di battesimo - ed è l’ultima testimonianza di cui disponiamo:
24 5 1576 Joannella figlia di Barbarino Vella
(di)e diPalma;
madrina: Juannella
di Rotulu;officiante: Don Gerlando di Averna.
Va, quindi, fugato il
sospetto che, ricevuto il beneficio dal papa, egli abbia soltanto
percepito i proventi della sua arcipretura e per il resto se ne sia stato
lontano. La sua arcipretura sembra durare oltre 18 anni: è, infatti, nel 1579
che subentra l’arc. Michele Romano.
Don Vincenzo D’Averna
Ci sembra un parente dell’arciprete d. Gerlando D’Averna, ma
non abbiamo prova alcuna ove si eccettui una qualche singolare coincidenza.
Sicuramente non era racalmutese. E’ cappellano della matrice a partire dal
luglio del 1571. I salti della documentazione parrocchiale ci impediscono di
sapere sino a quando operò assiduamente. Comunque, stando agli atti di
battesimo disponibili, nel successivo periodo che decorre dal 6.11.1575 sino al
21.5.1576 è il sacerdote officiante in n.° 76 funzioni battesimali. Dopo quella
data non lo s’incontra più, ma vanno tenute presenti le interruzioni che si
riscontrano per quel periodo nell’archivio della matrice. Don Vincenzo D’Averna
non appare nel “liber” della parrocchia: ovviamente già nel 1636 si era perso
il ricordo di quel cappellano.
Don Giuseppe D’Averna
Appare per la prima
volta in un atto notarile della confraternita di S. Maria Inferiore del 31
agosto 1578:
Terrae Racalmuti Die xxxi° augusti
vj ind. 1578. - Notum facimus et testamur quod Reverendus pater Joseph d’Averna
cappellanus, Antoninus de Acquista; Jo Grillo et Vincentius Macalusio rectores
venerabilis ecclesiae Sanctae Mariae
Inferioris ...
Nel 1580 fa da padrino di battesimo a Vincenza Stincuni:
14 2 1580 Vincentia di Gerlando Stincuni e Angela; lo q. don
Joseph di Averna la q. Betta la
Carretta'.
E’ poi assiduo come cappellano sino alla data della sua
morte che il ‘Liber’ segna sotto la data del 26 ottobre del 1600 (Liber in quo
adnotata .. cit. col. 1. n.° 13). Una
malcerta annotazione sembra indicarlo come Vicario Foraneo, ma è indizio troppo
dubbio per essere certi che abbia ricoperto tale importante carica. Comunque è
presente nei battesimi dei figli degli ottimati locali come quello di
3 7 1598
Margarita donna di Geronimo don Russo e di donna Elisabetta del Carretto, per
don Gioseppe d'Averna; patrini Vinc. Piamontese et soro Gioanna Piamontese
Elisabetta del Carretto era figlia di Giovanni del Carretto,
conte di Racalmuto e di donna Caterina de Silvestro. Ella fu legittimata il 12
novembre del 1587.
Giovanni del Carretto, fa sposare la figlia, attorno al
1590, con il nobile Girolamo Russo. Costui figura come governatore del castello
di Racalmuto nell’ultimo scorcio del secolo. Un’eco affiora in certo carteggio
scambiato tra il vescovo di Agrigento Horozco Covarruvias e la Santa Sede, come
si è visto nello stralcio di un documento vaticano sopra richiamato.
Clerico Blasi Averna
Tra il 1579 ed il 1581fa capolino negli atti parrocchiali
tal Clerico Blasi Averna. Di lui non fa menzione il “Liber”: era dunque sparito
persino dal ricordo nel 1636. Nel rivelo del 1593 figura tal Blasi Averna, ma è
un ragazzo di 22 anni che vive con la madre Vincenza nel quartiere di S.
Giuliano: non ha dunque nulla a che vedere con il chierico in questione. Costui
sposerà nel gennaio del 1601 Agata Mastrosimone, come da seguente trascrizione
della Matrice:
7 1 1601 Averna Blasi di Antonino q.am e di
Vicenza q.am con Mastro Simuni Gatuzza di Nicolao q.am e di Francesca; testi:
Muntiliuni cl. Jac. e Gulpi Antonino: Benedice il sac.Macaluso Jo:
Don Monserrato d’Agrò.
Compare come cappellano della Matrice attorno al 1579, agli
esordi dell’arcipretura Romano, e la sua missione sacerdotale, in subordine
all’arciprete, dura sino al 1594. Sotto la data del 30 aprile 1595 lo
incontriamo negli atti della chiesa di S. Maria di Gesù, di cui è divenuto
cappellano. Nel coevo atto di assegnazione di un’onza di reddito da parte dei
fratelli Vincenzo e Giacomo d’Agrò per avere in cambio la concessione di
sepoltura nella medesima chiesa, don Monserrato d’Agrò fornisce il suo
benestare nella cennata veste di cappellano:
Praesente ad haec omnia et singula
praesbyter Monserrato de Agrò, mihi etiam notario cognito et stipulante pro
dicta ecclesia uti eius cappellano et se contentante de praesente attu et
omnibus in eo contractis et declaratis et non aliter.
Ma negli ultimi
giorni di agosto dell’anno successivo è già infermo e si accinge a fare
testamento. Il suo attaccamento alla chiesa di S. Maria di Gesù è tale da
presceglierla quale luogo della sua tumulazione. A tal fine assegna una rendita
annua di un’onza e 3 tarì.
In un atto della chiesa del 12 settembre 1596 viene
formalizzato il contratto di concessione in termini che sono uno spaccato del
vivere civile e religioso dei racalmutesi dell’epoca.
Sappiamo dal rivelo del 1593 che a quel tempo il sacerdote
aveva 45 anni. Era nato dunque attorno al 1548. Muore giovane, all’età di 48
anni. Abitava, apparentemente da solo, nel quartiere della Fontana come da
questa nota del rivelo del 1593:
3
149 AGRO' (DI) PRESTI MONSERRATO [Sac:] CAPO DI CASA DI ANNI 45
La cappella desiderata da don Monserrato sorse nella chiesa
di S. Maria vicino a quella di S. Maria dell’Itria e di fronte all’altra ove
era raffigurata l’immagine di S. Francesco di Paola (intus dictam ecclesiam Sanctae Mariae Majoris prope Cappellam Sanctae Mariae Itriae in
frontispicio cappellae Imaginis Sancti Francisci de Paula...). Risulta che
questa fu dedicata a S. Michele Arcangelo ( nell’atto del 1604 si parla,
infatti della dote Cappellae Sancti
Michaelis Arcangeli condam presbiteri Monserrati de Agrò).
Per quel che ci dice il Rollo della confraternita di S.
Maria di Gesù, don Monserrato aveva almeno quattro nipoti di cui si ricorda nel
testamento:
Est sciendum quod inter alia
capitula donationis causa mortis facta per condam don Monserrato de Agrò
Paulino, Natali, Joseph et Joannelle de Agrò eius nepotibus est infrascriptum
capitulum tenoris ....
Il nipote Paolino d’Agrò risulta figlio di quel Simone
d’Agrò che approvò la transazione feudale con il conte Girolamo del Carretto
nel 1581 (è il 229° dei presenti nella chiesa maggiore di Racalmuto che diedero
l’assenso il giorno 15 gennaio 1581). Don Monserrato si limiterà ad apporre la
sua firma come teste.
I primi
cappellani:
don Vincenzo Colichia;
don Antonino La Matina;
don Dionisi Lombardo;
don Antonio Castagna.
Il più antico quinterno di atti battesimali della Matrice è
composto di n.° 26 colonne. In alcune parti è indicata la data del 1554 (ad
esempio 24 di augusto 1554 o die Xbris 1554) in altre 1563 (adi 9 januarii 1563) ed in altre ancora 1564
(junii VII ind. 1564). Non è facile districarvisi. A noi comunque sembra che le
date sia apocrife, aggiunte successivamente. In effetti il fascicolo dovrebbe
essere datato 1563-64, settima indizione anticipata.
Vi vengono segnati i sacerdoti che celebrano il battesimo.
Sono costoro i cappellani della Matrice (operante nella chiesa di S. Antonio).
Non riscontriamo mai la presenza dell’arciprete (né don Gerlando d’Averna, né
quello che si considera il suo predecessore,
don Tommaso Sciarrabba (“Arciprete e canonico della cattedrale di
Girgenti anno 1553”, annota il Liber citato, c. 1 n.° 2).
I cappellani officianti risultano:
•
don Vincenzo
Colichia;
•
don Antonino La
Matina;
•
don Dionisi Lombardo;
•
don Antonio Castagna.
La maggior frequenza si registra per don Vincenzo Colichia e
per don Dionisi Lombardo. Entrambi vengono segnati con il titolo di “presti”
(prete). Di nessuno di loro si fa il più
vago cenno nel “Liber”. Nella successiva documentazione del 1570/71, riappare
soltanto il cappellano don Antonino La Matina.
I cappellani del periodo successivo (1570/1571):
Don Vincenzo d’Averna;
Don Jo Cacciatore;
Don Antonino D’Auria;
Don Giuseppe Garambula;
Don Antonino La Matina;
Don Filippo Macina.
E’ il periodo centrale dell’arcipretura di don Gerlando
D’Averna che spesso presiede alla funzione battesimale. Su don Vincenzo
d’Averna ci siamo già abbondantemente soffermati. Abbiamo pure accennato a don
Antonino La Matina, presente negli atti del periodo precedente del 1564 (o giù
di lì). Sul D’Auria, Cacciatore e Garambula non disponiamo di altri dati. Fra
tutti questi cappellani, il solo ricordato dal Liber è don Filippo Macina (c. 1
n.° 8). Stando ai cognomi, il D’Auria,
il La Matina e Jo Cacciatore possono essere stati benissimo indigeni. Il Macina
ed il Garambula appaiono oriundi.
I cappellani del periodo 1575/76
Don Vincenzo d’Averna;
don Lisi Provenzano.
I salti della documentazione disponibile ci portano a questa
quarta indizione anticipata (1575/76). I battesimi vengono ora suddivisi solo
tra il d’Averna ed il Provenzano. Su entrambi ci siamo dilungati in precedenza.
Arciprete di Racalmuto è ancora don Gerlando d’Averna
I
cappellani del periodo 1579/1582:
Don Michele Abate;
Don Monserrato d’Agrò;
Don Lisi Provenzano;
Don Giuseppe d’Averna.
Nei fascicoli dei battesimi del 1579 appare segnato come
arciprete Don Michele Romano, dottore in sacra teologia (S.T.D.). Nel Liber
vengono citati Abbate (n.° 24), Monserrato d’Agrò (n.° 7) , Giuseppe d’Averna
(n.° 13) e naturalmente l’arc. Romano ( n.° 4). Il Provenzano è segnato come
diacono (n.° 18) non si sa se per errore o perché c’era veramente un diacono
Luigi Provenzano morto il 20 luglio 1600.
I cappellani del periodo 1583/84:
Don Monserrato d’Agrò;
Don Francesco Nicastro;
Don Paolino Paladino;
Don Lisi Provenzano.
Arciprete del tempo è don Michele Romano che appare in
qualche battesimo. Rispetto al precedente periodo appaiono per la prima volta
don Francesco Nicastro e don Paolino Paladino: entrambi sono annotati nel
Liber, ma senza alcun altro dato all’infuori del nome e cognome.
Don
Giuseppe Romano
Annotato nel Liber (c. 1 n.° 17) si riscontra solamente in
questa nota a margine del libro parrocchiale delle trascrizioni dei matrimoni
1582-1600:
Die 24 ottobris Xa ind.s
1597, mi detti lu cunto don Leonardo Spalletta delli sponczalicii a mia don
Joseppi Romano come procuraturi di mons.r ill.mo.
L’arc. don Michele Romano era morto solo da poco
tempo (28 luglio 1597). Che vi sia un qualche vincolo di parentela, è
congetturabile.
Arciprete
Michele Romano
Ha tutta l’aria di essere il primo arciprete d’origine
racalmutese. Insediatosi attorno al 1579, succede a don Gerlando d’Averna.
Muore il 28 luglio 1597, prossimo al suo
ventennio di arcipretura. Ebbe forse ad acquisire un discreto patrimonio, fatto
sta che il vescovo Horozco intenta una lite al conte del Carretto per
rivendicare i beni successori del defunto arciprete Romano. Il Vescovo ne fa
cenno in una sua difesa inviata al Vaticano, ove fra l’altro si legge:
« [.....]Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s’ha voluto occupare la
spoglia del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti
et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante à
detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam
Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per
occuparseli esso conte, come se l’have occupato, et per non pagare ne lassar
quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran
Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone
sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta
spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in
condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno. »
A distanza di secoli non è facile sapere chi avesse ragione.
Di certo, il Romano durante la sua vita non si mostra contrario ai Del
Carretto. Sul punto di morte è persino propenso a favorire il conte facendogli
- a dire del vescovo - «certi testamenti
et atti fittizij, falsi e litigiosi».
L’arciprete Romano deve vedersela con il primo conte di
Racalmuto, Girolamo del Carretto - divenuto tale nel 1576 - e, dopo il 9 agosto
1583, con il successore, l’avventuroso Giovanni del Carretto, che finirà
trucidato a Palermo il 5 maggio 1608. Entrambi furono però signori di Racalmuto
che amarono starsene a Palermo. L’arciprete Romano ebbe a che fare più con gli
amministratori comitali, quali Cesare del Carretto e Girolamo Russo, che non con
gli altezzosi titolari. E l’intesa sembra essere stata buona, anche quando si
trattò di stabilire, nel 1581, oneri e tributi di vassallaggio.
Quando scende a Racalmuto un parente dei del Carretto per
battezzare il figlio di un personaggio eccellente, in quel tempo operante nella
contea, l’arc. Romano è ovviamente presente:
“Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 Diego
figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano
archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Conbare
l'Ill'S.ora Donna Maria del Carretto''
In ogni caso, nei raduni del popolo, chiamato ad avallare
gravami tributari, l’arciprete si mantiene, almeno formalmente, al di sopra
delle parti e non appare neppure come teste.
Arciprete
Alessandro Capoccio
Il Vescovo Horozco lo nominò arciprete di Racalmuto
nell’estate del 1598. Il Capoccio aveva vari incarichi presso la Curia
Vescovile di Agrigento e non aveva tempo di raggiungere la sede
dell’arcipretura: mandò due suoi rappresentanti, muniti di formalissimi atti notarili. Presso la Matrice può leggersi
questa nota apposta al margine di un atto matrimoniale:
«DIE 16
Julii XIe Indi.nis 1598: ''Pigliao la possessioni don Vito BELLISGUARDI et don
Antonino d'AMATO (?) procuratori di don Lexandro Capozza p. l'arcipretato di
Racalmuto come appare per atto plubico''.» (cfr. Atti della Matrice: STATO DI FAMIGLIA - M A T R I M O N I - 1582-1600 )
Tre
anni prima, don Alexandro Capocho era stato inviato a Roma, al posto del
Covarruvias, per presentare la prima relazione 'ad limina' dei Vescovi di
Agrigento al Papa. Nell'atto di delega del 12 settembre 1595 "Don
Alexandro Cappocio' viene indicato come "Sacrae theologie professor eiusque [del vescovo] Secretarius”.
In
Vaticano si conserva il processo concistoriale di quel vescovo (Archivio
Vaticano Segreto - Processus Concistorialis - anno 1594 - vol. I - (Agrigento)
- ff. 30-62.). La testimonianza del Capoccio è, a dire il vero, schietta e per
niente compiacente (f. 36v e 37).
Sintetizzando
e traducendo dallo spagnolo ricaviamo questi dati:
«Depone
il dottor Don Alexandro Capocho, suddiacono naturale del Regno di Napoli e
residente per il momento in questa
corte. Egli testimonia che conosce il detto signor Don Juan de Horoczo y
Covarruvias di vista e solo da due mesi, poco più poco meno, e di
non essere né familiare né parente dell’ Horozco».
Salta quindi ben dodici domande che attenevano
alle origini ed alla vita del futuro vescovo. La sua testimonianza è quindi
molto minuziosa sulla Cattedrale di Agrigento (circostanza che non ci pare qui
conferente). ‘Conosceva piuttosto bene Agrigento per esservi stato due anni,
poco più poco meno’.
Per quanto tempo il Capoccio sia stato arciprete di
Racalmuto, s’ignora. Sappiamo che subentrò l'Argumento, nominato nel marzo del
1600. Quel che appare sicuro è che l’arciprete Capoccio non fu presente in
alcun atto di battesimo o nella celebrazione di un qualsiasi matrimonio nella
parrocchia racalmutese di cui per un biennio fu titolare. A sostituirlo nelle
incombenze pastorali fu di certo don Leonardo Spalletta, il cappellano di cui
gli atti parrocchiali testimoniano zelo ed assidua presenza.
Giurati a
Racalmuto a fine ’500
I giurati di Racalmuto allo spirare del secolo XVI sono:
1.
Nicolò Macaluso: ha 45 anni; abita nel centro del paese, al
159° fuoco del quartiere di S. Giuliano; la moglie si chiama Francesca ed è
coadiuvata nei servizi di casa da Dora una “citella di casa”; non ha figli che
coabitano con lui;
2.
Giuseppe Cacciatore: ha 42 anni e viene fregiato con il
titolo di “magnifico”; abita al quartiere Fontana al 226° fuoco; la moglie si
chiama Giovannella: convivono con lui quattro figli: Giuseppe di anni 11 e le
femminucce Caterina, Franceschella e Contessella;
3.
Giuseppe Vilardo: ha 30 anni ed anche lui viene fregiato con
il titolo di “magnifico”; abita al quartiere Fontana al 76° fuoco; la moglie si
chiama Giovannella: convivono con lui sei figli: Giuseppe di anni 9 e le
femminucce Franceschella, Costanza,
Innocenza, Angela e Fania [Epifania];
4.
il notaio Giuseppe Sauro e Grillo: ha solo 25 anni ed è
sposato con Antonella: non ha figli; professionalmente si affermerà molto;
frattanto abita al quartiere di S. Giuliano al 167° fuoco; si era sposato a Racalmuto il 20
settembre 1592 appunto con Antonella
Magaluso e le nozze erano state benedette da don Francesco Nicastro: compari,
il sac. don Paolino Paladino e il maggiorente Giovan Francesco d’Amella.
Abbiamo l’impressione che il Sauro e Grillo non fosse racalmutese: il
matrimonio con una locale gli poteva consentire di installarsi nel feudo dei
del Carretto per una esplosiva carriera ed una fortunata professione notarile.
Sono chiamati a fungere da delegati per il Rivelo:
per il principale e più popoloso
quartiere di Santa Margaritella:
•
Martino di Messina: ha 35 anni circa; abita al quartiere
Fontana al 29° fuoco; la moglie si chiama Catherinella ed ha un figlio di otto
anni;
•
Vincenzo di Amella Pridicaturi: ha 40 anni; abita al
quartiere Santa Margaritella al 369° fuoco; la moglie si chiama Biatricella; ha
tre figli maschi: Giuliano di anni 9, Giuseppe di 6 e Diego di un anno, ed una
femminuccia, Jurla [Gerlanda];
per il quartiere di San Giuliano:
•
Giovanni Antonio Sferrazza: secondo noi risiedeva al
quartiere Monte di cui, come detto, non abbiamo il quinterno di dati
demografici;
e per il quartiere della Fontana:
•
Giovan Cola Capoblanco;
•
Natale Castrogiovanni;
•
Pietro Bellomo.
Di questi tre personaggi non abbiamo notizie certe:
dovrebbero tutti e tre abitare al quartiere Monte.
Chiese, quartieri e facoltà nel
rivelo del 1593
I ponderosi volumi del rivelo del 1593 non possono essere
tutti minuziosamente setacciati, se non da una squadra di studiosi e con
rilevanti mezzi economici. Dobbiamo quindi accontentarci di alcuni sommari
cenni.
A quell’epoca la terra di Racalmuto era idealmente segnata
da un sistema di assi cartesiani in cui l’ascissa era una linea ideale che
dalla Guardia andava al Padre Eterno e l’ordinata (che all’atto pratico era una
sequela di strade tortuose) partiva dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel
mezzo vi era di sicuro la chiesa di Santa Rosalia (sicuramente in prossimità
dell’attuale Collegio, ma a quale punto non sembra che si possa individuare con
certezza). In tale sistema la parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere
di S. Margaritella; quella di sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di
nord-est era la Fontana ed infine il quartiere del Monte occupava la sezione di
nord-ovest.
All’interno vi erano località di spicco che negli atti
ufficiali servivano per l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione
di Santa Rosalia che in effetti risultava inglobato prevalentemente nel
quartiere di San Giuliano ma una minima parte debordava in quello di S.
Margaritella. Santa Rosalia - che talora veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna
o S. Rosaria, non si capisce bene se per errata trascrizione o per omonimia
popolare o per la presenza nella chiesa di qualche altra immagine della
celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava tanti personaggi cospicui. Esclusivo
appare anche il rione di S. Agata.
Dettagli del Rivelo del 1593
Sembra fuor di dubbio che il monaco benedettino Vito
Maria Amico ebbe tra le mani, verso il 1750 il materiale
del rivelo di Racalmuto del 1593. Nel suo Dizionario topografico (la parte
riguardante Racalmuto è riportata in appendice al libro di Tinebra Martorana)
l’Amico infatti annota: «Contaronsi nel tempo di Carlo V 890 case, e 4447
cittadini nell’anno 1595», (secondo la traduzione del Di Marzo). Una
particolarità ci sorprende: del censimento sotto Carlo V (che crediamo essere
quello del 1548) l’A. ci fornisce il numero delle case (890) e non quello degli
abitanti, per quello del 1595 (per noi 1593) fa l’inverso dandoci invece solo
il numero degli abitanti. E dire che se l’Amico ebbe i due volumi dell’Archivio
di Stato di Palermo (il n.° 597 ed il n.°
598) sarebbe arrivato presto a quel conteggio: bastava sommare il numero
finale del primo volume delle numerazioni dei fuochi con quello del secondo per
avere l’esatto (o quasi) ammontare dei fuochi di Racalmuto.
Il numero degli abitanti che ci fornisce il d’Amico è di
complessa quantificazione se ha proceduto ad un analitico conteggio dei
componenti dei nuclei familiari: se, invece, come crediamo, disponeva del
quinterno del quartiere Monte, in calce del quale è da presumere esistesse già
quel calcolo di sintesi, la fatica del benedettino fu di poco conto.
Presso il Tribunale del Real Patrimonio dell’Archivio di
Stato di Palermo, all’apposito fondo dei Riveli, possiamo rintracciare tre
distinti gruppi di documenti che riguardano appunto quello del 1593 fatto nella
‘terra’ di Racalmuto:
1.
alle pagine 807r - 807v del vol.
n.° 596 abbiamo lo spaccato della
finanza locale sopra riportato;
2.
allegati al volume stanno i quinterni delle rilevazioni
fatte dagli appositi deputati, disgraziatamente limitati a solo tre dei quattro
quartieri (visto che è stato trafugato quello del Monte). A parte ci diamo carico di farne la
trascrizione;
3.
in due grossi volumi (n.° 597 e n.° 598) sono annotate le
dichiarazioni che i racalmutesi erano tenuti a fare dinanzi al “Delegato”, reiterando
quanto già direttamente (o tramite un loro familiare) avevano segnalato ai
‘deputati’ ed aggiungendo dati sommari sulle loro possidenze. Va notato che
ancora nel 1593 la ‘dichiarazione dei redditi’ non aveva la completezza che
avrà poi nel XVII secolo.
Località e Rioni
La suddivisione amministrativa tra i deputati era in quattro
quartieri: S. Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte. Nelle dichiarazione
dei privati (rivelanti) e negli atti notarili si faceva invece ricorso ad una
ripartizione topografica alquanto diversa che faceva sostanzialmente capo alle
varie chiese e qualche volta alle particolarità di alcuni luoghi. Non si
trattava di veri e propri rioni, ma il concetto vi rassomiglia molto. Abbiamo,
così:
•
•
il Carmine;
•
S. Margaritella;
•
S. Giuliano;
•
S. Leonardo;
•
la Fontana;
•
il Castello (o Castrum);
•
S. Francesco;
•
S. Nicola;
•
la Cava;
•
Santa Maria;
•
li Fossi;
•
San Gregorio;
•
S.Antonio;
•
la Nunciata;
•
il Monte (lu Munti);
•
lu Spitali o S. Sebastiano o S. Bastianu;
•
la Piazza (o Platea);
•
Santa Rosalia;
•
Sant’Agata;
•
li Bottighelle;
•
Zagarano..
•
Molte di queste località si estendevano in due e forse, come
nel caso di Santa Rosalia, in tutti e quattro i quartieri.
Centro topografico del paese era Santa Rosalia -
difficilmente collocabile con estrema decisione, ma certamente - come detto
- non lontano dall’asse Itria-Collegio -
che era quartiere ove stavano botteghe e le abitazioni di alcuni ottimati
locali (il padre di Marc’Antonio Alaimo, il dott. Pietro; i Macaluso; i Taibi;
i Lo Brutto; i Sanguineo; gli Afflitto, i Monteleone; i Cacciatore; i Catalano
e via dicendo). Ma il rione più esclusivo sembra quello di S.Agata (gravitante
sull’attuale via Rapisardi): vi abitavano i potenti Piamontesi ed i nobili Ugo.
Molti militari stavano invece al Monte. Non molte erano le
case ‘solerate’ - quelle dei benestanti - ma non rare: in cortili a grosso
affollamento si ammassavano attorno le case terrane (di norma un solo locale) ove dimoravano i
poveri.
Le maestranze riuscivano a farsi soggiogare dalle potenti
confraternite di appartenenza delle discrete abitazioni. Le botteghe (c.d. Apoteghe) erano in mano alle stesse confraternite e venivano
affittate con magniloquenti atti notarili ai propri confratelli.
Il castello - rimesso a nuovo a metà del XV secolo dai del
Carretto, come abbiamo sopra visto - era in piena efficienza: non vi stavano
più i conti, ma vi erano alcuni loro stretti parenti che gestivano la cosa
pubblica come avvenne sotto i Russo il marito della figlia spuria di Giovanni
del Carretto.
Il Carmine era piuttosto deserto: del tutto fuori
dell’abitato si ergeva il Convento sotto l’egida dei del Carretto e con un
valido priore padre Paolo Fanara. C’era anche un altro carmelitano sacerdote:
padre Roberto Costa. Ben sei coadiutori semplici frati rendevano fertile la
tenuta annessa. Costoro si chiamavano (e dal cognome sembra che fossero tutti
racalmutesi): Fra Salvatore Riccio; Fra Francesco Sferrazza; fra Angelo
Casuccio; fra Geremia Russo; fra Giuseppe Ragusa e fra Zaccaria Riccio. Le rade
case intorno erano ripartite tra il quartiere di S. Margaritella e quello del
Monte.
Rientravano totalmente nel quartiere Monte i rioni dello
Spitali (l’attuale S. Giovanni di Dio), di S. Antonio, Zagarano e quello
strettamente confinante con la chiesa. Vi confluivano parzialmente quelli di S.
Rosalia, della Nunciata e di San Gregorio.
Erano annessi
amministrativamente al quartiere della Fontana le località di S. Agata,
della Fontana vera e proprio, del Castello, di San Francesco, di S. Nicola, di
Santa Maria, delle Fosse e qualche frangia di Santa Rosalia. Qualche abitante
di San Gregorio viene incluso alla Fontana.
Il nome della Nunciata appare a cavallo tra Monte e Fontana.
Se nel 1540 quella dell’Annunciata era una ‘ecclesiola’ e
Sant’Antonio la chiesa principale; dopo mezzo secolo le parti sembrano
invertite. L’Annunciata non ha la grandezza dell’attuale Matrice (che
conseguirà nella seconda metà del Seicento) ma è già abbastanza capiente con
una ‘cupolona’, come recita un atto notarile del tempo.
Fino al 1608 S. Antonio era ancora operante ma il suo ruolo
era di molto scemato. Persisteva comunque il toponimo che, come abbiamo detto,
indicava una zona gravitante sul quartiere del Monte.
Lo Spitale era operante nel 1593 quando ancora non era stato
affidato ai Fatebenefratelli. Tale affidamento avvenne un secolo dopo nel 1693
per opera dell’ultimo Girolamo del Carretto. Ma godeva già di rendite. Tale
Giovanna Vigni aveva soggiogato all’Ospedale due case per tarì sei annui con
atto del notaio Gio: Vito d’Amella del 10 settembre 1585.
Giuseppe Gulpi gli aveva costituito un’onza e 15 tarì di
rendita sopra 9 salme di terra con
vigne, stanze ed alberi nel fego della Menta con due atti soggiogatori: uno del
notaio Gacomo Damiano di Racalmuto in data 24 ottobre 1551 e l’altro a rogito
del notaio Nicolò Monteleone in data 29 dicembre 1582.
Un altro atto di dotazione dello Ospedale risale al 10
gennaio 1558, sempre a gli atti del notaio
Giacomo Damiano. Risultavano incisi quasi due secoli dopo “Santo Cristofalo, Vincenzo e Marc’Antonio di
Giglia e Isidoro Mulé Paruzzo”.
Nel 1693 ecco com’era descritto il vetusto ospedale:
«Nella terra di Racalmuto vi è un Spedale sotto titolo di S:
Sebastiano che dall’antichità di esso non si ha certezza della fondazione e
perciò li Prelati ... [ed i del Carretto] have dato la cura ed amministrazione
di detto Spedale, e sue rendite alli Deputati di tutte le Chiese di detta
terra, li quali, benché s’havessero impiegato à tutto potere all’augumento di
Esso, e suo servizio, per le molte occupazioni, e per la poco prattica con esse
somiglianti, l’Ammalati patiscono della loro salute in tanto detrimento del
publico di essa terra.»
L’ospedale era peraltro munito di “chiesa con giogali ed
arnesi”.
Qualche
immigrato di spicco
Capitava che dalle vicinanze venisse qualche persona di
spicco per trovare moglie a Racalmuto. Ebbero così inizio famiglie oggi fra le
più significative del paese. Dal libro dei matrimoni della Matrice estraiamo
qualche esempio:
SAVATTERI (provenienza: Mussomeli)
“7 7bris XIIIe Ind.nis
1586 - Vincenzo figlio di Vito et Angila Carlino cum Margaritella figlio di Paulino et
Belladonna SAVATERI dilla terra di Mussumeli, servatis servandis et facti li tri denunciatione inter
missarum solenia et observato l'ordine
sinodali et consilio tredentino, non si trovando inpedimento alcuno,
contrassero matrimonio pp.ce in facie
ecclesie et foro beneditti nella missa celebrata per me presti Francesco Nicastro, presenti li
magnifici notari Cola et Gasparo Montiliuni et notaro Jo:Vito D'Amella et di
multa quantità di personj”.
BUSCEMI (provenienza: Agrigento)
“Die 6 di Jongno 1593
- Petro BUXEMI di la gitati di Jorgenti
cum Margaritella figlia di Jacubo di Graci, servatis servandis .... contraessiro matrimonio pp.ce e foro
benediti per me don Paolino Paladino,
presento presbiter Francesco di Nicastro, don Michele Romano e multa quantità
di agenti”.
SCHILLACI (provenienza: Cerami)
“Die 9 februarij 1591
- Vincenzo SCHILLACI di la terra di Cirami cum Angila figlia di Calogiaro
Savuso, servatis servandis ...., contrassiso matrimonio pp.ce e foro
beneditti per don Paolino Paladino,
presenti Paulino Buscarino et Antonino di Mole' et multa quantità di genti”.
SCHILLACI
(provenienza: Sutera)
“Die 21 di Jongno 1593
- Scipiuni Jngrao di li Grutti cum Joanedda SCYLACHI di la terra di Sutera,
servatis servandis e fatte le tri denunciationi inter missarum solemnia, non
si trovando inpedimento alcono, contra
essiro matrimonio pp.ce e foro beneditti per me don Paolino Paladino, presenti
clerico Jacubo di Avedda e multa quantità d'agenti”.
RIZZO (provenienza: Scicli)
“Die 30 Januarii 1600 - Antonino RICZO di la terra di Xicli cum Diana figlia di lu q.dam Minicu et
Margarita Muraturi, servatis servandis et facti li tri denunciationi inter
missarum solemniarum et observato l'ordini sinodali seu concilio tridentino,
non si trovando impedimento alcuno, contrassiro matrimonio publice et in facie
ecclesie foro benedicti per don Leonardo Spalletta, p.nti Filippo di Graci e
Francesco Furesta”.
BONGIORNO (provenienza: Gangi)
“Die 6 di ferbaro 1583
- Vicenso BONJORNO di Ganci con Contissa figlia di Petro e Joannella di
Antonuczo Caldararo di Agro', a litre
(lettera) di monsignore illustrissimo e
reverendissimo di Jurgenti, servatis servandis e facte li tre
denunciaczioni, la prima a li 9 la 2a a li 16 e la tercza a li 20 di Jnaro inter missarum solemnia, non si
trovando inpedimento alcono
contraessiro matrimonio pp.ce in facie ecclesie e foru benediti jn la missa
celebrata per me don Paolino Paladino, presenti lu magnifico Jacubo Piyamontisi,
lu magnifico Cola Montiliuni, lu
magnifico Marino Catalano e multa quantitati di agenti”
PIAZZA (provenienza: Mussomeli)
“Die 8 Januarii 1594 - Minico di CHIACZA di la terra di
Musumeli con Josepa di Vinciguerra, servatis servandis ..., contra essiro
matrimonio pp.ce et foro benediti per me don
Paulino Paladino, p.nti Mastro Francesco Sachineo, clerico Jacubo
d'Aveda e multa quantità di agenti”.
LO JACONO (provenienza: Aidone)
“Die XVo Julii Xe ind.is 1589 - Mastro Masi La Iacono della terra di
Daiduni cum Lucretia figlia di Antonj et Hiaronima di Guarino, servatis
servandis .... contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie e foro beneditti
per presbiter Leonardo Spalletta, p.nti
Ioanni di Vigna et Hieronimo Piruchio et
multa quantità di genti”.
Uomini e
cose da segnalare
A Racalmuto sono stanziati come soldati di professione:
1.
Salvo (de) Mg. Ruggero, soldato anni 45, che
abita al Monte;
2.
Morriali Antonino di Federico, soldato di
cavallo, di anni 75, pure del quartiere Monte;
3.
Buxemi Currau anni 35, soldato, abitante anche
lui al Monte;
4.
Barberi Petro anni 50; soldato cavallo, sempre
del quartiere Monte;
5.
Matina (la) Gio, soldato di anni 70, residente
nello stesso quartiere;
6.
Morriali Federico anni 40; soldato, vicino di
casa;
7.
Sferrazza Mariano soldato di anni 22, che abita
nel quartiere di S. Antonio.
In paese, a fine del secolo XVI, non è del tutto ignota la
schiavitù. Il magnifico Giacomo
Piamontisi di anni 44 e sua moglie Beatricella tengono una “scava” nella loro
abitazione di S. Agata.
La loro vicina Antonella, vedova del quondam Leonardo La
Licata, ricchissimo per i suoi tempi, emula il singolare rapporto e tiene
“Cristina sua serva seu scava” a farle compagnia.
Del resto a quei tempi anche l’altezzosa donna Aldonza del
Carretto manteneva una schiava addirittura dentro il convento che l’ospitava.
Sono invece ben 17 le famiglie che possono permettersi una
“citella”, una serva:
1.
AFFLITTO (D')
CARLO MAGNIFICO
2.
AGRO'(DI) PETRO
3.
ALAIMO (DI) LU M.co PETRO
4.
BALDUNI M.co FRANCESCO
5.
CATHALANO MICHELI
6.
CHICCARANO ANTONINO
7.
GUELI (DI) JOSEPPI
8.
GUELI (DE) GIUSEPPE DI JORLANDO DI ANNI 29
9.
LA LOMIA JOSEPPI
10.
MACALUSO NICOLAO
11.
MACALUSO PETRO
12.
MONTILIUNI Not. Mco COLA
13.
PAXUTA (LA) MATTHEO
14.
PROMONTORO BALDASSARE LO S.r
15.
SALERNO JO:
16.
TODISCO Sp. ARTALI
17.
TODISCO Sra SALVAGIA
Sul finire del secolo piuttosto diffuse sono le maestranze:
abbiamo contato 52 mastri (il % dei
fuochi). Non sono tantissimi ma rappresentano sempre una discreta forza
sociale, anche se “li jurnatara” e li “burgisi” (per la gran parte contadini
poveri) costituiscono la massa della popolazione, a sfondo quindi proletario e
spesso miserabile. I cinquantadue “mastri” sono:
1.
ALAIMO (DI) M.° ANTONINO
2.
ALLIGRIZZA M° CARLO
3.
AMICO (D') MASTRO PAOLO
4.
ARRIGO M° HYERONIMO
5.
BARBERI M° JOSEPPI
6.
BARUNI M° FRANCESCO
7.
BLUNDO MASTRO GRIGOLI
8.
BOCCULERI M° FILIPPO
9.
BONOANNO HYRONIMO M°
10.
BUFALINO M.° BENEDITTO
11.
CACHIATURI M.° FRANC.
12.
CACHIATURI M° PAULO
13.
CANSUNERI M° GERLANDO
14.
CAPOBLANCO NICOLO M°
15.
CATHALANO M° FRANCESCO
16.
DAIDUNI M° PETRO
17.
DI NOLFO M° HYERONIMO
18.
DILIBRICI MASTRO GIUSEPPE
19.
FACHIPONTI M° PAOLO
20.
GENTILE M.° LUCIANO
21.
GIGLIA (DI) M.° PIETRO
22.
GIGLIA (DI) MASTRO ANTONINO
23.
GIGLIA M.° ANTONINO
24.
GIGLIA (DE) M.° MARCO
25.
GISULFO M° SILVESTRO
26.
GUELI (di) M° ANT.no
27.
GULPI ANTONINO MASTRO
28.
JACONA (LA) M° MASI
29.
LA SCALIA M° ROGERI
30.
LO PILATO M° BARTHULO
31.
MANGIA M° JOANNI
32.
MANGIAMELI
Mastro HETTARO
33.
MEDIORA ? M° ANGILO
34.
MILACZO (DI) M° MATTEO
35.
MONASTERI M° BASTIANO
36.
MONTANA (DI) M° XANDRO
37.
MORREALI
M° MARIANO
38.
NOBILI (LO) M° FRANC.°
39.
NOBILI (LO) M° GIULIO
40.
NOBILI (LO) M° HORATIO
41.
NOBILI (LO) M° MASI
42.
NOBILI (LU) M.° PETRO
43.
PUMA (DI) M° FILIPPO
44.
PUMA (DI) M° LISI
45.
RAGUSA (DI) M° JULIO
46.
RIZZO M°
FRANCESCO
47.
SALVO (DI)
M° PETRO
48.
SANGUINEO M° MASI
49.
SPATAFORA M° PETRO
50.
TAIBI M°
FRANCESCO
51.
VILARDO ANTONI M.°
52.
XANDRA M° HYERONIMO
* * *
Fine di Giovanni IV del Carretto
Giovanni IV del Carretto fu trucidato in Palermo nel 1608:
tanti diaristi annotarono quel fosco delitto.
La
cronaca, fra l’altro, la troviamo nei Diari della Città di Palermo, pubblicati
nel 1869 da Gioacchino di Marzo. Eccola:
«A 5 di
maggio 1608, Lunedì sera, a ora una di notte. In questa città di
Palermo, nella strada Macheda, alla calata a mano dritta dove si va alli
Ferrari, successi uno orrendo caso, che venendo in cocchio lu ill.e conte di
Racalmuto, chiamato D. Ioanni del Carretto, insemi con un altro gentilomo
nominato D. Ioanni Bonaiuto (quali sempre era solito di andare con lui), come
fu alla detta strata, ci accostorno dui omini, li quali non si conoscro, allo
palafango [parafango]di detto; e ci tirarono dui scopettonate nel petto a detto
conti, chi a mala pena potti invocare il nome di Jesù, con gran spavento di
quello che era con detto conti, e con gran maraviglia di tutti li agenti; e
finìo.
« A 7 detto, mercori, ad uri 22. Si gittao un bando
arduissimo della morti del ditto conti di Racalmuto: chi cui sapissi o
rivilassi cui avissi occiso a detto conti, S.E. li donava scuti cincocento,
dudici spatati, quattro testi, sei destinati [nota del di Marzo: .. non è
agevole intendere il significato di spatati e testi, che davansi
in premio a chi rivelasse.
«De’ sei destinati però (qual voce in siciliano vale
esuli, relegati) intendo facilmente, che accordavasi facoltà al
denunziante di ottenere per sei di loro la grazia del ritorno], purché non sia
lu principali ci avissi fatto detto
delitto, et anco la grazia di S. M.».
Ci
dispiace per il nostro Tinebra Martorana: è del tutto destituita di fondamento
la notizia che riporta a pag. 123 e cioè: «..il conte di Racalmuto tornava al
suo castello, seguendo con la sua carrozza la via che attraversa la contrada
Ferraro, sita nel nostro territorio ed a quattro chilometri dal Comune.»
Nello
stesso Diario, pubblicato dal di Marzo (pag. 30-31), leggesi che successivamente:
«A 20
ottobre 1608. Fu martoriato il sig. Baruni dello Summatino. Lo primo iorno
happi quattro tratti di corda, e lo secundo tre, ed il terzo dui, e li sùccari
[Sùccari in sic. canape o fune, con cui si collava, ed era proprio per
uso della tortura. Colla ] soliti; e tinni [intendi che tenne forte
a non confessare]: avendo stato carcerato del mese di agusto passato.
«E fu perché il giorno che sindi andli galeri di Franza,
andando Scagliuni a vidiri cui era supra detti galeri, trovao uno calabrisi
quali era di Paula, e travovauci certi faldetti che avia arrubati allo Casali.
«E pigliandolo, ci disse, che non ci facissero nenti, ché
isso volìa mettiri in chiaro uno grandissimo caso.
«E cussì Scagliuni ci lo promisi; et isso dissi, che isso
con il sig. D. Petro Migliazzo aviano tirato li scupittunati al conti di
Racalmuto, essendoci ancora in loro compagnia
alli cantoneri il sig. D. Petro e il sig. D. Vincenzo Settimo; e che il
detto di Migliazzo avia tirato il primo; e che il baroni del Summatino ci avea
promesso onzi cento per fari detto caso. E chiamao ancora diversi personi».
In
una pubblicazione dell’Archivio di Stato di Palermo vengono fornite notizie sulla dovizia di
documenti relativi al processo del presunto mandante dell’omicidio del conte
Giovanni del Carretto.
Sono
documenti che si trovano nell’ «Archivo
General» di Simancas e precisamente:
- nel legajo n.° 254 è contenuta la copia del "PROCESSO CAUSADO EN LA GRAN CORTE SOB RE LA MUERTE DEL CONTE DE
RECALMUTO" CC. 123 - ANNO 1608 -
VISITAS DE ITALIA 1) SICILIA.
Riportiamo
integralmente quanto si legge nella pubblicazione dell’A.S.P.:
«Si
tratta degli accertamenti disposti dal visitatore ad istanza di don BLASCO
ISFAR e CRUILLAS, barone di Siculiana, e don GASPARE LO PORTO, barone di
SOMMATINO, suo nipote, nel processo subito da quest'ultimo, come presunto
mandante dell'assassinio di Giovanni DEL CARRETTO, conte di Racalmuto. I due
baroni sostengono che il processo fu messo su in base a false testimonianze dal
procuratore fiscale della Corte capitanale di Palermo, GIACOMO SCAGLIONE, con
la complicità del Presidente della Gran Corte RAO.
Il successivo Leg. 255.1. 1579-1611 contiene i
discarichi di Giacomo Scaglione e vi sono le difese del funzionario in ordine
alle accuse mossegli a proposito del processo contro i presunti mandanti
dell'omicidio del conte Giovanni del Carretto.»
In quei “legajo” di Simancas v’è dunque il seguito della
storia. Sembrerebbe un delitto in famiglia: gli Isfar sono poi gli eredi di
quel genero di Giovanni I del Carretto che a dire del Bresc lo avrebbe
depredato dei feudi racalmutesi; a distanza di due secoli un altro Isfar
avrebbe trucidato Giovanni IV del Carretto, evidentemente per interessi.
Ma è storia di famiglia che a noi non importa gran che. E’
in definitiva storia della nobiltà palermitana, verso cui nutriamo altrettanta
indifferenza.
La
comunità ecclesiale di Racalmuto nei primi anni del Seicento.
Il nuovo secolo, il XVII, si apre a Racalmuto con un vuoto:
non c’è ancora il nuovo arciprete. Questi viene solo dopo alcuni mesi e si
tratta di
Andrea
d’Argomento.
Questo nuovo arciprete di Racalmuto è comunque esaminatore
sinodale ad Agrigento, ed è dottore in utroque
iure; giunge nel marzo del 1600, il giorno della festività di San Tommaso
dottore della chiesa, prende possesso della chiesa arcipretale di S. Antonio,
anche se forse anche lui preferisce la più centrale chiesa suffraganea della
Nunziata. Questo pozzo di scienza immigra a Racalmuto, oriundo da non si sa
quale parte della Sicilia. Forestiero, di sicuro, ma almeno in paese ci viene e
rispetta le novelle costituzioni tridentine. Non muore però come arciprete del
paese; si trasferisce o viene mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2
lo ritroviamo annotato qua e là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti
del 1601 rimangono rivelatrici annotazioni come “detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete;
all’arciprete; palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che
trattarsi del regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri
termini la quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di
chiesa, 5 tarì e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le
“glorie”, i bambini). Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture
avvengono “a lo Carmino” (ed ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo
Fanara, di cui abbiamo fornito cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu) - e vi viene tumulato un
pargoletto della racalmutesissima famiglia Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata
da tutto il clero vi è sepolta una tale Angela Turano, ceppo poi emigrato da
Racalmuto). Sia però chiaro che non abbiamo elementi di sorta per sospettare di
questo arciprete dottore in utroque.
Crediamo, anzi, che sia stato bene accetto e rispettato: un “signore
arciprete”, dice il chiosatore dell’archivio parrocchiale.
Dopo il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie
giudiziarie, contese con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per
questo meno ostile - vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato
dai nobili, è costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di
obbrobri giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi,
canonico percettore della prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la
Sacra Congregazione dei Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i
canonici cammaratesi don Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera,
e don Raimondo Vitali: il primo era accusato di pederastia; il secondo di
relazione peccaminosa con la vecchia madre del primo.
La diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio
parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si
insedia il 25 giugno 1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette
mettersi di buzzo buono per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18 giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si
porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione
minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e
misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte per la storia di
Racalmuto, e non solo quella religiosa.
L’anno successivo, il Bonincontro ritorna a Racalmuto e
completa la vista..
Il Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva
essere anomala sotto il profilo del codice canonico del tempo. Il figlio
legittimato - era stato concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto
Giovanni IV del Carretto - don Vincenzo del Carretto si era insediato nella
chiesa di S. Giuliano, elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse
stato consacrato sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene
dall’indagare. Il potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non
consente insolenze del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione
di San Giuliano hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola:
ratifica il fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti
approssimativamente uguali: la bisettrice parte dal Carmino ed arriva a la
Funtana lungo un percosso che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo
riusciti a tratteggiare con sicurezza. Non passava di certo per la discesa
Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni
pressoché impraticabile, ma lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la chiesa
di Santa Rosalia, posta al centro del paese, ma dalla parte di S. Giuliano, per
irrompere nella parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete;
quella a nord-ovest, in mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene
assegnata al giovane - è appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro
d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è
già affermato ed una sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta - viene
apprezzata, come abbiamo visto, in occasione della visita a Santa Margherita,
la chiesa congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S.
Margaritae depictum in tila manu
pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del vescovo).
Giovanni IV del Carretto, familiare del Santo Ufficio, ma
per interessi e per sottrarsi a tribunali laici molto meno accomodanti, non
dovette essere molto religioso. Quel figlio legittimato che faceva il prete nel
suo lontano feudo di Racalmuto doveva apparirgli come un povero diavolo che si
arrabattava per superare le umiliazioni del suo essere stato concepito in toro
non benedetto. Gli echi della vita religiosa della sede della sua contea gli
saranno pervenuti, ma molto affievoliti, lasciandolo nella totale indifferenza.
Non vi è documento che comprovi la sua presenza, anche saltuaria, a Racalmuto.
Ma appena seppellito quel truculento conte, il figlioletto deve raggiungere la
lontana dimora di Racalmuto, così diversa dai fasti di Palermo.
GIROLAMO
II DEL CARRETTO
«Nella chiesa del Carmine c’è un massiccio sarcofago di
granito, due pantere rincagnate che lo sorreggono. Vi riposa “l’ill.mo don
Girolamo del Carretto, conte di questa terra di Regalpetra, che morì ucciso da
un servo a casa sua, il 6 maggio 1622.» Così esordisce Sciascia nelle sue
“parrocchie di Regalpetra”. Con tali ricordi inizia la folgorante carriera
letteraria del più grande figlio di Racalmuto
A Leonardo Sciascia, Girolamo II del Carretto portò dunque
fortuna, lui che nella vita ne ebbe ben poca; lui che da morto resta ancora
vituperato, e non proprio a ragione.
Il famigerato padre, dopo una moglie sterile di Cerami, dopo
un’amante prolifica, ebbe a sposare, di là negli anni, la nobile Margherita
Tagliavia-Aragona attorno al 1596. Un solo figlio da questo matrimonio, appunto
Girolamo II, battezzato in Palermo il 28 ottobre 1597.
Giovanni IV del Carretto lasciò il figlioletto (l’unico legittimo) di appena
nove anni. Il ragazzino non riuscirà mai più a togliersi di dosso l’anatema e
l’ingiuria (cocu) di cui lo gratifica
a distanza di oltre tre secoli anche Sciascia. Girolamo II del Carretto viene
raccolto fanciulletto a Palermo e portato nel suo castello di Racalmuto,
affidato alle cure (chissà se affettuose) del fratellastro, il neo arciprete di
Racalmuto don Vincenzo del Carretto.
Non resistiamo neppure alla tentazione di spettegolare con
Sciascia (op. cit. pag. 16): «Il conte [Girolamo II del Carretto] stava
affacciato al balcone alto tra le due torri guardando le povere case
ammucchiate [invero non poteva, perché da lì le case non si vedono, n.d.r.] ai
piedi del castello quando il servo Antonio di Vita “facendoglisi da presso,
l’assassinò con un colpo d’armi da fuoco”. Era un sicario, un servo che si
vendicava: o il suo gesto scaturiva da una più segreta e sospettata vicenda?
Donna Beatrice, vedova del conte, perdonò al servo Di Vita, e lo nascose,
affermando con più che cristiano buonsenso che “la morte del servo non ritorna
in vita il padrone”. Comunque la sera di quel 6 maggio 1622, i regalpetresi certo mangiarono con la salvietta, come
i contadini dicono per esprimere solenne soddisfazione; appunto in casi come
questi lo dicono, quando violenta morte rovescia il loro nemico, o l’usuraio, o
l’uomo investito di ingiusta autorità.»
E nella Morte
dell’Inquisitore (pag. 180): «Che un fondo di verità sia in questa
tradizione, riteniamo confermato dall’epilogo stesso del racconto popolare, che
dice il servo di Vita averla fatta franca grazie a donna Beatrice, ventitreenne
vedova del conte: la quale non solo perdonò al di Vita, fermamente dicendo a
chi voleva fare vendetta che la morte del
servo non ritorna in vita il padrone, ma lo liberò e lo nascose. Ora
chiaramente traluce ed arride, in questo epilogo, l’allusione a un conte del
Carretto cornuto e scoppettato...».
Purtroppo ci divertiamo meno, quando sacrilegamente lo
scrittore prosegue: «ma questa viene ad essere una specie di causa secondaria
della sua fine, principale restando quella del priore. Insomma: se non ci
fossero stati elementi reali a indicare il priore degli agostiniani come
mandante, volentieri il popolo avrebbe mosso il racconto dalle corna del conte.
Il priore non era certamente uno stinco di santo: ma quel colpo di scoppetta il
conte lo riceveva consacrato da un paese intero. Una memoria della fine del
’600 (oggi introvabile, [ma ora trovata dal Nalbone, n.d.r.], autore di una
buona storia del paese) dice della vessatoria pressione fiscale esercitata dal
del Carretto, e da don Girolamo II in modo particolarmente crudele e
brigantesco. Il terraggio ed il terraggiolo, che erano canoni e tasse
enfiteutiche, venivano applicati con pesantezza ed arbitrio...»
E’ ora disponibile una documentazione - quella del Fondo
Palagonia - che restituisce alla verità
la faccenda del terraggio e del terraggiolo pretesi dai del Carretto.
Crediamo che queste non siano tasse enfiteutiche o che sia inesatto definirle
così. Erano diritti feudali spettanti al baronaggio siciliano e legati al
semplice fatto che contadini abitassero nella terra del barone: dovevano al feudatario (di solito al suo
arrendatario o esattore delle imposte cui queste venivano concesse in
soggiogazione) una certa misura di frumento per ogni salma di terra coltivata
nel feudo (terraggio) ed un’altra (di
solito doppia) per quella coltivata fuori dal feudo (terraggiolo). A preti e conventi racalmutesi codesti gravami
feudali non andavano giù ed essi fecero cause memorabile (e secolari) per
sottrarsi e sottrarre agli odiati terraggio
e terraggiolo. La spuntarono, come si disse, solo il 27
settembre 1787.
Invero il Tinebra Martorana ebbe tra le mani le carte
feudali del terraggio e del terraggiolo: gliele misero a
disposizione i suoi protettori i Tulumello, già baroni e maggiorenti del paese.
Quel che il giovane vi capì è riportato fideisticamente da Sciascia e cioè:
«Oltre alle numerose
tasse e donativi e imposizioni feudali, che gravavano sui poveri
vassalli di Regalpetra, i suoi signori erano soliti esigere, sin dal secolo XV,
due tasse dette del terraggio e del terraggiolo dagli abitanti delle
campagne e dai borgesi. Questi balzelli i del Carretto solevano esigere non
solo da coloro che seminavano terre nel loro stato, benché le possedessero come
enfiteuti, e ne pagassero l'annuale censo, ma anche da coloro che coltivassero
terre non appartenenti alla contea, ma che avessero loro abitazioni in
Regalpetra. Ne avveniva dunque, che questi ultimi ne dovevano pagare il censo,
il terraggio e il terraggiolo a quel signore a cui s'appartenevano le terre, ed
inoltre il terraggio e il terraggiolo ai signori del nostro comune... Già i
borgesi di Regalpetra, forti nei loro diritti, avevano intentata una lite
contro quel signore feudale per ottenere l'abolizione delle tasse arbitrarie.
Il conte si adoperò presso alcuni di essi, e finalmente si venne all'accordo,
che i vassalli di Regalpetra dovevano pagargli scudi trentaquattromila, e
sarebbero stati in perpetuo liberi da quei balzelli. Per autorizzazione del
regio Tribunale, si riunirono allora in consiglio i borgesi di Regalpetra, con
facoltà di imporre al paese tutte le tasse necessarie alla prelevazione di quella ingente somma. Le tasse furono
imposte, e ogni cosa andava per la buona via. Ma, allorché i regalpetresi
credevano redenta, pretio sanguinis,
la loro libertà, ecco don Girolamo del Carretto getta nella bilancia la spada
di Brenno ... e trasgredendo ogni
accordo, calpestando ogni promessa e giuramento, continua ad esigere il
terraggio e il terraggiolo, e
s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse».
Sciascia commenta: «Il documento riassunto dal Tinebra dice
che appunto durante la signoria di Girolamo II i borgesi di Racalmuto, che già avevano mosso ricorso per
l'abolizione delle tasse arbitrarie, subirono gravissimo inganno: ché il conte
simulò condiscendenza, si disse disposto ad abolire quei balzelli per sempre;
ma dietro versamento di una grossa somma, esattamente trentaquattromila scudi.
L'entità della somma, però, a noi fa pensare che non si trattasse di un
riscatto da certe tasse, ma del definitivo riscatto del comune dal dominio
baronale; del passaggio da terra baronale a terra demaniale, reale.»
La ricostruzione sciasciana non ci convince molto. Un fatto
singolare si verificava frattanto a Racalmuto. Era diventato arciprete un
illegittimo, sia pure figlio di Giovanni IV del Carretto. Era quel don Vincenzo
del Carretto su cui si è già avuto modo
di fornire taluni ragguagli. Anche lui venne colpito dalla violenta morte del
padre (5 di maggio 1608) e così aveva
raccolto il fratellastro novenne Girolamo II che per diritto ereditario era
divenuto novello conte di Racalmuto (la legge contemplava il maggiorascato, e
sarebbe toccato quindi a don Vincenzo essere conte, ma escludeva i figli
illegittimi. Non sappiamo come abbia accolta quell’infamante esclusione, quello
scorno a la faccia di lu munnu).
Don Vincenzo diviene comunque il tutore del conte minorenne:
nel 1609 pasticcia quell’infame accordo sul terraggio e terraggiolo che Tinebra
Martorana e Sciascia affibbiano al “vorace e brigantesco don Girolamo II del
Carretto”, all’epoca uno smarrito bambino. Lo desumiamo da un diploma:
Sotto le
quali convenzioni ed accordio detta università ed il conte di detto stato hanno
campato ed osservato per insino all’anno settima indizione prox: pass: 1609,
nel qual tempo detta università, e per essa li suoi deputati eletti per publico
consiglio a quest’effetto, ed il dottor Don Vincenzo del Carretto Balio e
Tutore di detto Don Geronimo, moderno conte allora pupillo, con intervento e
consenso del reverendissimo don Giovanni de Torres Osorio, giudice della Regia
Monarchia protettore sopraintendente di detto pupillo e con la sua promissione
di rato, devennero à novo accordio e transazione in virtù di nuovo consiglio
confirmato per il signor Vicerè e Regio Patrimonio, per il quale promisero
detti deputati à nome di detta università pagare al detto conte don Geronimo
scuti trentaquattromila infra quattro
mesi, e quelli depositarli nella tavola di Palermo per comprarne feghi ò
rendite tuti e sicuri, con l’intervento e consenso di detta Università, con
diversi patti e condizioni in cambio per l’integra soluzione e satisfazione di
detti terraggi e terraggioli dentro e fuora di detta terra e suo territorio, e
per contra detto tutore cessi lite alla detta exazione di detti terraggi, quali
ci relasciò e renunciò, essendoli prima pagata detta somma di scuti
trentaquattromila, promettendo non molestare più detti cittadini ed abitatori di
detta università di detti terraggi e terraggioli come più diffusamente appare
per detto contratto all’atti di notar Geronimo Liozzi [a.v.: Liezi] à 17 luglio
settima indizione 1609., confirmato per Sua Eccellenza e Regio Patrimonio
A porre una qualche attenzione alle date, abbiamo che Die 22 Junii VI Ind.is 1608 Don Vincenzo
viene riconosciuto Arciprete (sia pure a metà con quella specie di mitateri quale appare il vassallo don Paulino d’Asaro); il
successivo 17 luglio si sbilancia nella gestione delle sopraffazioni
feudatarie.
Investigando i processi d’investitura emerge che don
Vincenzo del Carretto esercita questa funzione tutoria sino al luglio del 1610.
Ma da questa data, quando il bambinello Girolamo II viene d’autorità - pare -
fidanzato a Beatrice figlia bambina del Ventimiglia, il tutore diviene il
futuro suocero del conte.
Beatrice
del Carretto
Il Tinebra Martorana (pag. 125) vorrebbe Girolamo II sposato
ad una ”certa Beatrice, di cui s’ignora il cognome”. Niente di più falso: di
donna Beatrice sappiamo tanto. Non crediamo che finché si protrasse il breve
legame matrimoniale si sia indotta all’adulterio, come maliziosamente insinua
lo Sciascia. Da vedova, qualche leggerezza può averla commessa (ma noi non lo
diremo dinanzi a voi stelle pudiche.)
Sembra che dopo la morte del conte avvenuta il primo ( e non
il 6) maggio 1622, una rivolta popolare
sia esplosa a Racalmuto: vi sarebbe stato l’assalto al munito castello ed il
popolino rivoltoso abbia fatto man bassa di tutto. La giustizia - che pure era
mera espressione dei del Carretto - non fu in grado di far nulla e così alla
giovane vedova ed a suo cognato, tutore, non rimase nient’altro da fare che
chiedere la comminatoria delle canoniche sanzioni da parte della sede vacante
del vescovado di Agrigento. Ne avesse avuto sentore Leonardo Sciascia, crediamo
che avrebbe più succulentamente imbandita la tavola della “mangiata cu la salvietta” dei racalmutesi nell’estate del 1622.
Poi, con gli anni, il terrore della morte ebbe a
sorprenderlo: si costruì una chiesetta (Itria) tutta per lui e la dotò. I suoi
eredi - nobili - dovettero corrispondere le rendite al cappellano di quella
chiesetta perlomeno sino 1902.
GLI ARCIPRETI DI RACALMUTO SOTTO
GIROLAMO II DEL CARRETTO
Don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o
volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale
Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. () Secondo il prof.
Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro
paese:
1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e
poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber
in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli
atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete
è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna
Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura,
fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato
avvengono fatti memorabili a Racalmuto, tristi, lieti e rissosi: la famigerata
peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia
e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a
nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del
paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice
Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito
dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce
sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva
benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale di Racalmuto.
Non ci sembra un prete molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma
come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo
II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice
del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto,
chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione
della minuscola chiesetta dell’Itria, può far sospettare ancor di più come può
farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e
tutore” dell’illustre conte, vede vedersela con le procedure della successione
comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare.
Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi
di investitura che qui pubblichiamo mostrano una sfilza di rinvii a richiesta
appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra
del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2
settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di
Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio
risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia.
Ha potere e lo dispiega per altre proroghe del suo nuovo protetto, il nostro
Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di
battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa
parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don
Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita
del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo;
lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la
ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo
pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha
appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel
noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque
attorno al 1616, quando il giovane conte
era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del
1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea
aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del
Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi
alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato
sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609,
l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e
circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di
Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione
generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose
controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio
allora corrente del 7% potevano fruttare
2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa
tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però
che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto
mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini
(Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che non vollero essere tartassati. Anziché
l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora di ripartire i soli frutti
pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile
tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai
patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto. Altro che frate Evodio o
Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci
ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta
con il debito rispetto della verità, senza spumeggiamenti anticlericali.
In una memoria del 1738 , quando lo stato di Racalmuto era
stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e
del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto
avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del
territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra
coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di
ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa
tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la
misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di
terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima
specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si
ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano
sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre
1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal
terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di
Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo
studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del
terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il
giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra
Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e
separate: non interrelazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto
ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un
segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore
dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli
agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non
mancarono certo a Racalmuto.
Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia
pur superficiale lettura dei documenti rende incontrovertibili.
Fra Diego
La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce
fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come
disinvoltamente si continua a scrivere).
Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei
sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe
la sventura di finire in un convento che già nel 1667 () si tentava di
scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da
brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di
rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più
pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre
mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo
indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di
battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una
imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621
(ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente
si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione
corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni
assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine
raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che
in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre
Matranga ().
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di
fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore
Matranga dice circa i vagabondaggi ed i ladroneschi del monaco agostiniano:
scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve
definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli
si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a
qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel
retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’
Sagramenti .. superstizioso ... empio
... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime
innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più
consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da
‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo
‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un
individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le
campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia
ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal
Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano
alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco
Cavarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta
in latino, ove malaccortamente il
presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et
proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del
Porto del capoluogo agrigentino. () Da un contesto di canonici libertini e
concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e
dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della
lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del
suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia -
doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione
sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono
molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro
ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più,
et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e
quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e
laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei
sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino,
e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che
sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ().
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al
quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto
opposta a quella data dallo scrittore.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego,
il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo
segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli
inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il
beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però,
tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto
sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione
essendogli stato trovato nelle “sacchette”
“un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal
crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per
Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il
fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe
tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi
arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del
Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la
vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe
dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego
scrisse di sua mano con mille spropositi
ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli
atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come
corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri,
il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse
stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra
Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di
passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al
secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal
sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile
traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla
macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito
secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S.
Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del
convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto
appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al
terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta
scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una
bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del
contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che
si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di
religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le
campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi
qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si
imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero
della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri,
in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva
la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di
pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e
proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza
indugio giustiziati sul posto. ()
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E
tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione
cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato
Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto
di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio
Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre
1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di
42 anni - «susceptis sacramentis
penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae
Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis
capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis,
in fovea Communi», come a dire che il “povero
disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato
alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul
patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo
corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in
Matrice, nella fossa comune.” ()
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi
conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le
sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo
già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo
stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo
elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto
plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del
Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti
subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P.
Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate
agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà
di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E
Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel
linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza
dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte
dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di
quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la
religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza
(l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente
ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto.
L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo
scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione
era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure
peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle
corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato”
così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del
Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece
franca da un irridente assassinio.
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio:
del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del
taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma
parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro
la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana.
Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto
attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì,
il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico
martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di
testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura
ostica.
Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La
Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo
nelle tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata»
pare addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con
il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia
agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era
una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La
Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera
identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al
condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15
marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente letto:
Eodem [nello stesso
giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.°
[Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug.
[giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don
Paolino d’Asaro] p./ni [patrini]
iac.° [
illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna]
di Ger.do [Gerlando] di
Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal
tenace concetto la presenza a
Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime
della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza
dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego -
di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso
che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina
ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo
scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e
prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore
di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo
Sciascia. A noi risulta, invece, - come
si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente
assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle
Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi,
è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a
Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo
una polisa con il diavolo per
risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla
nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia
irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento
fraticello di Racalmuto.
*
* *
L’atto di donazione della contea di
Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto in favore del figlio Giovanni V
del Carretto
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni,
Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi
figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4
luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie
“governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo
preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario
di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le
imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla
nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche
qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara
al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla
trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel
sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto
acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come
quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad
un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti,
vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna
della Catena» (le pretenziose note di
coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del
Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero forsennate.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai
gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile -
resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era
stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto
sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato
alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per
ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla
Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.°
d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto
fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si
aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di
questo conte ucciso a soli venticinque anni.
Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che
sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese,
eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice
Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come
unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano
principessa di Ventimiglia.
Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito,
ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel
grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le
dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue
preferenze.
Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un
qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva
vedova.
I tempi
dell’interregno di Beatrice del Carretto Ventimiglia.
Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane
conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per
compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo
precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di
api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice
dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che
invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli
incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. La curia invia il provvedimento al rev.do
arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia.
Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana,
robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da
un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere
che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della
popolazione racalmutese del Seicento.
Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura
l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci
ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello.
Il 3 settembre 1622 altra missiva al
locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che
peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di donna Beatrice
del Carretto et Ventimiglia - recita il diploma vescovile - contissa di detta
terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li
figli et heredi di del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra
qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta quantità di oro,
argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi
lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati debiti
et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari
stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.
Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del
fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non
ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di
un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in
tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del
Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del
1621 sotto la data del primo settembre 1621
). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio
al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto
seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro
secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice
del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che l’ingombrante
marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di
corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce
l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.
La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni
netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare
al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a
debellare il flagello a Racalmuto.
Il culto di Santa Rosalia è ben provato in
Racalmuto, sin dal primo decennio del 1600, un quarto di secolo almeno
anteriore alla discutibile invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino
da parte del cardinale Doria.
In un appunto manoscritto del 15 ottobre del
1922 rinvenibile in Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che
Santa Rosalia sarebbe nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove
documentali le avrebbe avute il canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per
dispetto al vescovo riluttante a finanziargli la pubblicazione di un suo libro.
Tra l'altro, in quell’appunto manoscritto leggesi che «fui il 13 ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi
il piacere di leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In
quel libro si parla di antiche
iscrizioni e di chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa "quella di Rahalmuto,
della quale non appare altro millesimo. che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato
dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di
costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive
lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'.
II mio spirito laico mi spinge ad essere
alquanto scettico sull'attendibilità di tante notizie contenute nel
manoscritto: è certo, comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre
gesuita Girolamo Morreale nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto"
, stando a quel che si legge nelle pagine
23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.
Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica
ed accreditata è quella del PIRRI. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia).
Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta
[aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si
poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e portante
una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta per incuria di alcuni, ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata
alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro
costituita una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa
ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia
sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608,
collocavasi nel mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che travavasi
dalla parte della parrocchia di S. Giuliano.
Per il prof. Giuseppe Nalbone non vi sono dubbi: «la chiesa
di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno
dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione
dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»
Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un
rudere (ampiamente fotografato) nei
pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che
respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di
via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso
Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da
interpretare l’aggettivo “nuova” usato
dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato
altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che
non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere
venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel
recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di
culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il Prof. Nalbone trova, però,
molte inesattezze nell’opera dell’Acquista.
Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta
ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della
Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna:
tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo
sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a
Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo -
dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non
avevano - grande efficacia.
Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del
1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le
reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano
traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa
Rosalia.
Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la
tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si
fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata
dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e
Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente
vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte Rosalie
detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata Reliquia
sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non aliter nec
alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente ad hec
ill.me D. Beatrice del Carretto et Xxliis comitissa dictae terre Racalmuti
tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre Racalmuti”,
soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno giurazio:
diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene “quoniam
predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et est”, giacché
essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è contenta.
Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione
che nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia,
graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi
figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa
esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed
opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta
festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede
incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché
siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor
Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire
da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto
feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata
contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che
testimonia la sua presenza a Racalmuto.
Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al
diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i
documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota
comprovante i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna
Eumilia del Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra
l’altro: «Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XXlijs ...
concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae
Racalmuti et Principissae XXlijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7
maggio 1636.
GIOVANNI V DEL
CARRETTO
Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a
Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi:
Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo
Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il
battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II
ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è
già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra
a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo aveva
un tempo comprato dai Vernagallo .
La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere
davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai
non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via
che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad
un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se
la squaglia in tempo.
Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando
scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti
era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una
congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere
si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di
Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria
Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia.
Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il
conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e
protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più
grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto
erano dediti.»
Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi
a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso:
«Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte
del Mazzarino (il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato
successore del principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo
del regno e di capo del braccio militare,
potea con l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere
riconosciuto per principe di tutto il regno, e così li persuase facilmente a
scuoter dal collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima
successione degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la
monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria della
nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al comune vantaggio.
Di tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più
di ogni altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e
pensarono davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la
falsa notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice
e Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di
maggiore importanza e che con più simulazione
aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo
confidente, i dubbi promossi per la
successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso
Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto
cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che
alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima
destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale,
che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima
qualità, fra le quali il conte di
RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello
del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del
Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe
Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de'
principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e
molti altri.
[p.118]
Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre
SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il trattato,
lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con
un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era
allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina,
di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai
congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed
il Requesens ... prima che don Gi
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