L’umano pellegrinaggio, spesso scorata stasi, ispira ad Enrico di Puma ineffabili moti dell’anima che vanno a camuffarsi in superficie cromatiche, pudiche quanto accattivanti.
Non è menzogna quella di un
olio o di un acquarello di Enrico ma non è neppure decifrabile confessione:
Enrico nel suo vivere ha interne, desolate censure; può solo permettersi un
riposo, una stasi appunto, per un gioco di colori, per un guardare ilare un
fiore, un cespuglio, un arbusto, un segno, insomma un vago simbolo di quello che tutti dicono gioia
creativa di un dio abitatore di nuvole, lontanissimo, non umano, in sintesi
fattore della bella ed impalpabile natura, secondo il pretenzioso topos dei
saccenti di ogni tempo.
Nacque
furente la pittura di Enrico: le frustrate rabbie del vivere, quelle umiliate
nella giovanile competizione, nelle inani intraprese del primo eros, esplosero
davvero irruenti nel brandire spatole
pittoriche; si frantumarono misterici equini, gallinacei pennuti e
sbuffanti, immagini mostruose, ittiche allusioni, ferinità improbabili. Fu
pittura somma. Peccato che si sia esaurita.
Fu esordio
di falsi preannunci; Van Gogh avresti detto; Ligabue, avresti contraddetto. Ma
di Puma non era né l’uno né l’altro: solo arcane coincidenze come capita agli
artisti indotti; e se v’è un pennello, un cavalletto, una tela, una tavolozza
ed il genio pittorico erompe, eccoti il miracolo dei colori ora in arditi
accostamenti, ora in contrasti loquaci, oppure in armonie suadenti, o in
improperi esistenziali, ed eccoti l’arte, il bello, senza regole, ingenuo; naif
diresti e sbagli.
Enrico patì
sconquassi dell’animo, del cuore, dell’eros ma subito li seppellì e la sua
pittura cambiò: divenne lirica, soave, serafica; non è però leziosa, gli
sarebbe impraticabile, gli è negata da un dolore sommerso, da un deludersi
senza speme.
Pateticamente,
con ingenuità sconcertanti, oggi il Nostro ama il melodramma, ma il melodramma
più italico, il più lirico, il meno tedesco: suoi idoli, adorati con giulivo
candore, sono un Caruso pregno della raucedine della primordiale arte
discografica, un Gigli rutilante di note a commento di un incomprensibile gergo
librettistico, il compaesano tenore Infantino, giammai sommo, pingue quanto
sdolcinato. Non ama l’altro paesano, quel Puma tenore di robusta ascendenza
contadina, maschio, aggressivo che pure eccelle in talune opere di Mascagni o
di Giordano.
Orripilanti
«tu il mertasti» o simili ripugnanti
invettive del più decadente melodramma italico, quelle profanazioni
linguistiche causticamente infilzate da un Savinio passano inosservate
all’incantato Enrico e forse per questo il Pavarotti dalla limpida dizione non
rientra nell’empireo dei suoi dei canori.
Il
contraltare, un dipingere ormai dissennatamente floreale, con cromatismi tenui,
occidui, non più confliggenti, davvero iridati. Se vuoi, puoi anche dilettare
l’occhio, acquietare l’anima, sognare o almeno contemplare, seraficamente,
senza gli eccitamenti dei sensi, senza eros. Ma stai attento: ciò è soltanto
superficie, forse anche maniera: devi però addentrarti e scorgerai il sottosulo
dello spirito, esulcerato, avvilito, persino stanco, ora irrimediabilmente
disperato. C’è tutto l’inganno dell’arte.
L’uomo
piccolo, schiacciato, annichilito che pur si veste elegante, ricercato e, se
fotografato con vescovi o con i sommi del momento letterario, si rimpicciolisce
ancor più, timidamente, in estasi contemplativa, in sottomissione allusiva, si
è ormai rassegnato e dipinge per il tuo diletto e per il suo dissolvente
rinnegare la vita, bozzetti del topos del bello degli umani, nature né vive né
morte, floreali perché così piacciono ai “grandi” o in veste talare rossa o con
l’immancabile sigaretta della letteraria blasfema ironia.
Non
lasciarti ingannare: Enrico di Puma non è manieristico, non è floreale, non è
idilliaco, non è neppure melodrammatico. Guardalo in faccia, guarda soprattutto
dentro la sua pittura: è un grande dell’arte; è un poeta d’intensa intima
sofferenza dannato al sorriso giulivo, serafico, francescano. «L’uomo son io che ride; ei quel che spegne»,
ci va di citare a memoria, irriguardosamente per ogni melodrammatico rigoletto
verdiano.
Una pausa
eppure Enrico se l’è permessa: ha riguardato il suo paese; Racalmuto viene
visto da una prospettiva innaturale ed ecco il casale, agglomerato informe di
casupole pur ravvivate dalla mediterranea tavolozza a rombi, a triangoli, a
geometriche inframmettenze, rovinare dal Castelluccio in giù, allusivamente in
equivoca diversità, contro natura appunto. Ora la roccia della salvezza
sciasciana non è più quella del Monte della Vergine Maria; è là ad oriente,
collima con il cocuzzolo coronato da un castello diruto, negletto, corroborato
dai nostri atavici negrieri chiaramontani, posto in terra detta dagli
arabi-normanni Al Minsciar, dai berberi Gibillini e lasciata senza nome dai
bizantini che se ne servirono come «frourion».
La vicenda
storica è insensa per di Puma: l’emblema topografico invece è pregnante ed
ispira accenti di lirica contemplazione del “dolore” di un Racalmuto senza
tempo “abbarbicato alla vita … come erba alla roccia”, direbbe Sciascia. E
questa fortuita coincidenza tra il dire ed il pensare dell’unico scrittore che
il paese vanta e questo indotto eppure soave pittore dei fiori sorprende e
sgomenta.
Finito con
il tramontato millennio il maestro racalmutese della penna, approdato ancor
operoso e creativo a questo nuovo millennio il nostro ingenuo pittore, le due
identiche testimonianze del vero conformarsi della più schietta dimora
racalmutese dispiegano intera la immutabilità che pur muta di pelle, ma giammai
d’animo, un animo da odiare perché spesso infido, supponente, ingeneroso,
mediocre.
Noi che
quell’animo tutto ce l’abbiamo dentro, restiamo legittimati ad esecrarlo, a
bestemmiarlo, a rimuoverlo almeno: un poeta ed un pittore di questa terra a
luci spente tutto redimono, tutti ci redimono.
Pasqua 2001
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