GLI ARCIPRETI DI RACALMUTO SOTTO GIROLAMO II DEL CARRETTO
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da die compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d. “donativo”. [19]
Dobbiamo però alla penna dell’Algozini un preciso inventario delle ricche suppellettili che ormai dotavano la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo della locale arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
Don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ([7]) Secondo il prof. Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro paese:
1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili a Racalmuto, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale di Racalmuto. Non ci sembra un prete molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa dell’Itria, può far sospettare ancor di più, ma può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che non vollero essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto. Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza un anticlericale spumeggiare.
In una memoria del 1738 [8], quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto.
Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei documenti rende incontrovertibili.
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si continua a scrivere).
Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ([9]) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ([10]).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ([11]) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([12]).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella data dallo scrittore.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ([13])
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ([14])
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [15]
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.
Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente letto:
Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, - come si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le pretenziose note [16] di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero inverosimili.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque anni.
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia.
Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia.
Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli dell’infelice Giovanni V del Carretto.
La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del recupero dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:
1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie
Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia Apostolica).
Se, un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria diocesi). Là [17] troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali (Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
- dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
- dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;
- una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per costringerli a rinunciare ai proventi o a lasciare i locali del convento.
Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.
Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)
Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario - che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano studiare da medico a spese dell’Amministrazione comunale.
Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi pur troppo soverchiati.»
Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere anticlericali. Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo Sciascia [18]:
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di Napoli, che è quanto dire.
D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri della confraternita.
Abbiamo prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci pare opportuno riportare alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice.
1713 (Morti dal 1714 al 1724)
Dopo il 28 agosto 1719:
L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic. Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII Ind.)
Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti.
Battesimi 1711-1716 - pag. 450.
Ad perpetuam rei memoriam Die tertio septembris septimae inditionis 1713 Vigilia Sanctae Rosaliae nostrae Patronae hora vigesima, fuit affixum interdictum in Civitate Agrigenti et in eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et rev.mo D.no D. Francisco Remirens Episcopo dictorum
Archipresbitero D.re D. Frabritio Signorino 1713.
Il Lo Brutto fu personaggio di spicco; arciprete, in simpatia delle varie autorità vescovili, di famiglia presso l’ultimo conte Del Carretto, dispensatore di benefici e di mozzette clericali, finì – come si disse – sepolto in Matrice, osannato da una lapide a spese del nipote dottor Antonio Pistone:
Matrice ex Cappella dell’Annunziata.
Monumentum hoc mortalitatis, quod jure sacelli propriis sibi facultatibus ascito, ante aram Virginis huius templi patronae, familia Brutto paraverat, doctor don Antonius Pistone, hic situs, velu optimus heres, honorifico lapide, qui suos suorumque cineres decentius conderet, exornatum curavit, votumque expletum est. -
Kalendis Septembris MDCC - Post eius obitum anno sexto.
(Stemma - Pampini - leone alato ... elmo chiomato del milite)
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso periodo: l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che cadde il 7 agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo chiudono sotto un duplice profilo: quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto rilassata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come “economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura di Antonio Scaglione - sino ai nostri giorni.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da die compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d. “donativo”. [19]
Col passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento della morsa militare e l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso[20] del bandito Raimondo Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30 aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da Prizzi arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio Signorino: don Filippo Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia lasciato un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro si limitano ad annotarne la morte sul LIBER, al n° 220 seccamente, senza alcuna sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto energico e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un tariffario che illustra ad abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora: veramente tassava dalla culla alla tomba come abbiamo avuto modo di rappresentare una volta in una nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione Sciascia. I balzelli venivano pudicamente denominati diritti di stola; il maggior peso si aveva per i matrimoni per i quali vi è una casistica tanto puntigliosa quanto invereconda; ecco, infatti, l’ampia gamma di aliquote per tasse matrimoniali dovute alla locale Matrice.
1731
Tariffario dei diritti di stola per il matrimonio celebrato in chiesa, a Racalmuto, sotto l’arciprete Algozzini, originario di Prizzi:
Sponsali 1731 al 1738
LIBER PROCLAMARUM
PRO NUPTURIENTIBUS ET ORDINIS SACRIS INSIGNIRI CUPIENTIBUS
E ANNO 1731 QUO FUI IMMISSUS
IN HAC MATRICI RACALMUTI
EGO PHILIPPUS ALGOZINI PRITIENSIS
S.T.D. ARCHIPRESBITER USQUE AD ANNUM 1770
TASSA PER L'INCARTAMENTI
se la sposa esiste in questa terra
LE SPESE SONO CIOE'
PER LETTA REGOLARE AL PARROCO DELLA TERRA DOVE
ABITA IL SPOSO-------- T. 1
SEDE DI DENUNCIE---------- T. 2 10 GRANI
ORDINE PER IL COPIARI TESTES T. 1
LETTERE ALLA G.C. : T. 1
P. SOVRATASSA DI DETTA LETTERA
NELLA QUALE DONA LICENZA
DI SPOSARSI T. 1
TASSA T. 3 10 GRANI
----------- --------------------- -----------
T. 10 0
..
LETTERA REG.RE AL PARROCO T. 0 10 GRANI
TESTI T . 2
?? T. 1
LIC. REGOLARE T. 2 10 GRANI
TASSA DELLA LETTERA DI GI.GNTI T. 10 GRANI
// 15 GRANI
----------- --------------------- -----------
T. 7 5 GRANI
SE PERO' LA SPOSA E' FUORI PARROCCHIA
ORD. DEL COPIARE LI TESTES T. 1
SEDE DI DENUNCIA T. 2 10
Dobbiamo però alla penna dell’Algozini un preciso inventario delle ricche suppellettili che ormai dotavano la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo della locale arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini lascia, comunque, in sospeso la questione del quadro della Maddalena che si continua ad attribuire a Pietro d’Asaro; l’arciprete si limita ad annotare: “Altare di S. Maria Maddalena: item il quadro con la figura di detta Santa” e non ne indica l’autore; per lui – come per noi – l’autore è anonimo. Se una congettura personale è permessa, tendo a credere che il quadro sia stato commissionato dall’Agrò in prossimità del 1637 (molto dopo dunque dalla datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo del 1985), in nome e per conto di qualche confraternita della Matrice o della Fabbrica; consegnato agli eredi, costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano a sistemarlo nella già operante Cappella della Maddalena, il cui spazio antistante viene acquisito per la “carnalia” del sacerdote defunto e dei suoi eredi, previa destinazione alla “Fabbrica” di un censo annuo di un’oncia, prescelto tra i legati del sac. Santo Agrò. Singolare è il fatto che nel 1731 si è perso il ricordo della tomba del sacerdote benefattore e l’Algozini si limita ad annotare che «non sono sepolture sotto le predelle dell’altari” e che in tutta la chiesa le gentilizie di specifici “patronati” sono solo quattro ed appartengono ai « fratelli del SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654 non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il cennato censo di un’oncia dell’eredità Agrò[21].
L’elaborato algoziniano che si conserva presso l’archivio vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato della comunità racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev. Dr. Filippo Algozini archipresbitere di detta terra, alle dimande nelle istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo Gioeni, vescovo di Girgenti per la visita pastorale.» Quel celebre vescovo era di recente nomina (con bolla pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata in Palermo il 5 gennaio 1731) e all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un controllo ficcante e pignolo. Fornisce un questionario dettagliatissimo cui l’arciprete deve dare esaustive risposte. Una fatica improba per lui, ma buon per noi che siamo così in grado di disporre di una stratigrafica ricognizione della comunità di Racalmuto a quasi un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il paese:
1. la Matrice chiesa sotto titolo della SS.ma Annunciata ; il Rettore ed Amministratore il M.to Rdo Archipresbitere Dr D. Filippo Algozini;
2. Oratorio del SS.mo Sacramento sotto titolo di S. Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o Dr D. Filippo Algozini Archiprete, ed i congionti Mo Scibetta e Mo Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria del Monte, il Rettore clerico coniugato Agostino Carlino, Rdo Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito congionti, che l’amministrano;
4. Chiesa sotto titolo di S. Rosalia, amministrata dalli Giurati di questa terra come Padroni;
5. Chiesa sotto titolo di S. Anna, il Rettore clerico coniugato D. Calogero Sferrazza congionto a Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele che l’amministrano;
6. Chiesa sotto titolo di S. Micheli Arcangelo, il Rettore e Amministratore il Rev. Sac. D. Francesco Pistone;
7. Oratorio sotto titolo di S. Giuseppe, il Rettore Dr. D. Giuseppe Grillo , notaio Nicolò Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
8. Chiesa sotto titolo di S. Maria dell’Itria amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro Signorino Beneficiale;
Chiesa sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata dal R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò mansionario della Catredale di Girgenti, e per esso dal R.do Sac. Dn Isidoro Amella procuratore.
Queste le annotazioni che riguardano le chiese di campagna, denominate “chiese fora le Mura”:
1. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Rocca, il Retttore o amministratore Sac. D. Vincenzo Avarello;
2. Chiesa sotto titolo di S. Maria di Monteserrato, in cui si celebra la povera festa dalli pij devoti;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Providenza amministrata da D. Paolo Baeri Patrono;
4. Chiesa sotto titolo di S. Marta amministrata da Pietro Mulè Paruzzo procuratore;
5. Chiesa sotto titolo di S. Gaetano amministrata dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come Padrone;
6. Chiesa sotto titolo del SS.mo Crocifisso, amministrata dal Rev. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed oratori domestico” (queste saranno di moda alla fine del Settecento e si protrarranno sino alla seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
1. Convento di S. Maria del Carmine;
2. Convento di S. Francesco de Padri Minori Conventuali;
3. Convento di S. Maria de Padri Minori osservanti;
4. Convento di S. Giovanni di Dio de’ PP. Fateben fratelli;
5. Ospizio di S. Giuliano de’ PP. di S. Agostino della Congregazione di Sicilia;
6. Monastero de Monache dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano conventi soppressi.
A Racalmuto operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei Padri fatebenfratelli giusta li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di pegno.
In compenso operavano due confraternite e cinque “compagnie”.
1. Confraternità di S. Maria di Giesù, li Rettori sono Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo Missana e Giovanne Farrauto; si fanno ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
2. Confraternità di S. Giuliano, li Rettori sono Giovanne d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe Savarino e Vito Mantione, il loro governo dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
3. Compagnia del SS. Sacramento, Governatore il Mo R.do D. Filippo Algozini, congionti Mo Giacinto Scibetta e Mo Giuseppe Di Rosa, il loro governo dura tre mesi, incominciando dalla domenica infra “octavam Corporis”;
4. Compagnia del Thaù fondata nella Chiesa di S. Anna, Governatore D. Calogero Sferrazza, congionti Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele; dura il loro officio tre mesi, incominciando dalla Domenica più prossima all’otto che ch’incide del mese, li presenti furono fatti all’8 Giugno 1731;
5. Compagnia dell’Anime del Purgatorio fondata nella Chiesa di S. Micheli Arcangelo, Governatore Raimondo Borcellino minore, congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto e Santo La Matina Calello; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
6. Compagnia di S. Maria del Monte, Governatore Clerico Coniugato Agostino Carlino, congionti R.do Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito; il loro officio dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Settembre;
7. Compagnia di S. Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed Ignazio Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda domenica di Gennaro.
8.
Ci viene fornito un dato anagrafico di notevolissima importanza: sapendo quanto precisi erano gli uomini della Chiesa, possiamo essere certi che davvero a Racalmuto, nel giugno del 1731, c’erano 1200 famiglie con 5.134 anime o abitanti che dir si voglia (in media 4,28 componenti per ogni nucleo familiare). Nutritissima la compagine ecclesiastica: 28 sacerdoti, di cui però ammalati cronici 24. In ogni modo un sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183 abitanti. Ecco l’elenco:
1. Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D. Filippo Algozini;
2. Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario Foraneo;
3. Sac. D. Filippo Cino;
4. Sac. D. Francesco Pistone;
5. Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
6. Sac. D. MichalAngelo Rao;
7. Sac. D. Ignazio Laudito;
8. Sac. D. Paulo Spagnolo;
9. Sac. D. Gerlando Carlino;
10. Sac. D. Antonino Macaluso;
11. Sac. D. Francesco Torretta;
12. Sac. D. Gaspare Casucci;
13. Sac. D. Vincenzo Casucci;
14. Sac. D. Leonardo La Matina;
15. Sac. D. Calogero Pumo;
16. Sac. D. Giovan Battista Pumo;
17. Sac. D. Antonino Mantione;
18. Sac. D. MichalAngelo Savatteri;
19. Sac. D. Isidoro Amella;
20. Sac. D. Vincenzo Avararello;
21. Sac. D. Francesco De Maria;
22. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano;
23. Sac. D. Baldassare Biondi;
24. Sac. D. Pietro Signorino;
25. Sac. D. Orazio Bartolotta;
26. Sac. D. Antonino d’Amico minore;
27. Sac. D. Ignazio Pumo;
28. Sac. D. Santo Farrauto.
Ma le vocanzioni non mancavano; erano già diaconi: Melchiore Grillo ed il nostro Servo di Dio padre Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva ricevuto l’ordine minore del suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco Grillo; Vito Gagliano; Vincenzo Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi; Ludovico Amico; Diego Martorana; semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino Tirone; giovani lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro; Calogero Vinci; Leonardo Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio Picone; i chierici tonsurati erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e Nicolò Milano. Tutti gli ottimati racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano ad esserli nel secolo dei lumi ma anche dell'irrompere di una nuova classe, quella borghese, vi sono rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di riguardo. Tra queste i Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché ancora non scesi a Racalmuto.
Alcuni signori amano essere chierici “coniugati”, forse per i benefici del Santo Offizio: D. Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D. Paulo Baeri. Ad un livello inferiore troviamo i chierici “coniugati” Agostino Carlino, Francesco Farrauto e Giuseppe Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci: Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina.
E passiamo ora ai conventi. Iniziamo dai Carmelitani.
Il priore era un racalmutese DOC: il sacerdote padre Carlo Maria Casucci, assistito dal sac. D. Pietro Paolo Roccella. Il padre lettore, il sac. Antonio Monticcioli era in trasferta a Trapani. Stavano al Carmine, a beneficiare delle laute rendite i fratelli – i “fratacchiuna” – fra Elia Salemi, Fra Angelo La Rosa e fra Gerlando Montagna.
I francescani conventuali erano quelli del convento di S. Francesco; dovevano essere in quel momento in crisi: un solo sacerdote, padre Giuseppe Cimino – che giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo Surci (semplice “fratello”).
Non così invece a S. Maria di Gesù: quattro sacerdoti, venuti tutti da lontana via a godersi le tante rendite (P. Michelangelo da Lentini, P. Ludovico da Licata, P. Giovan Battista da Mussomeli e P. Bonaventura da Canicattì) e quattro “fratacchiuna” (fra Pasquale da Racalmuto, fra Gaetano da Cammarata, fra Giiovanni Battista da Racalmuto e fra Geronimo da Racalmuto). Stavano al convento attiguo alla chiesa; appartenevano all’ordine francescano dei Minori Osservanti; coltivavano le feraci terre ove ora c’è il cimitero e sino al 1866 riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure con alterna fortuna.
A S. Giovanni di Dio, adibito soprattutto ad ospedale, non c’erano sacerdoti ma solo due “fratelli”: fra Bernardo Sassi e fra Vincenzo Mercante, decisamente forestieri. Le lamentele fatte al Papa da parte del vescovo Ramirez non erano poi infondate.
Il convento di S. Giuliano doveva essere chiuso da almeno mezzo secolo ed invece eccocelo vivo e vitale – sia pure ora inquadrato nell’ordine di S. Agostino della Congregazione di Sicilia. Quanto sia ricco lo vedremo quando commenteremo una dichiarazione dei redditi, con annesso stato patrimoniale, del 1754. Qui dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto, P. Ignazio da Geraci e P. Anselmo da Adriano) e tre “fratelli” (fra Giuseppe da Racalmuto, fra Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I fratelli laici dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la “ricerca”, le elemosine in natura, ad onta delle cospicue rendite.
Ed ora è il turno del convento delle monache di S. Chiara. Vi pullulano ben 22 recluso, in uno spazio che per quanto ampio costituiva una specie di carcere per donne di diversa estrazione, di diversa età e persino di diversa cultura. Venivano sepolte nella graziosa chiesa della Batia. Ora, il pavimento della vecchia chiesa è ridotto a sala di conferenza. I loro resti umani vengono calpestati senza rispetto alcuno, senza un ricorso, senza un fiore. Almeno quelle derelitte del 1731 ricordiamole qui, con come e cognome.
L’abbadessa era suor Domenica Rizzo ed è dubbio che fosse di Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor Rosa Renda. Provenivano da famiglie di spicco: suor Gesua Maria Lo Brutto, suor Maria Stella Sferrazza, suor Maria Lanciata Di Benedetto, suor Maria Grazia Casucci, suor Maria Crocifissa Signorino, suor Claradia Amella, suor Maria Gioacchina Brutto, suor Angelica Maria Signorino, suor Francesca Maria Biondi, suor Maria Scolastica Signorino; da forestieri o da famiglie non altolocate che riuscivano a sistemare le figlie superflue tra le cosiddette clarisse, ove il pane quotidiano era almeno assicurato: Suor Giuseppa Maria Caramella, suor Pietra Margherita Zambito, suor Maria Serafica Zambito, suor Carla Maria Provenzano, suor Antonia Maria Raspini.
E con loro, le novizie Vita Vinci e Orsola Guadagnino. Tre “converse” – all’ultimo gradino di quella opprimente gerarchica monastica – erano tutte del luogo: soro Geronima Martorana, soro Elisabetta La Licata e soro Angela Rizzo. Un tratto di penna dell’Algozini e poi più nulla per queste vite umane, per queste vittime di una condizione femminile settecentesca, echeggiata appena dalla Maraini quando ebbe a raccontare la lunga vita di Marianna Ucria. Ma qui non c’è neppure il benessere del dominio aristocratico.
I benefizi ecclesiastici sono appena quattro: uno è in possesso dell’arciprete e gli altri sono semplici: quello di S. Antonio viene goduto da d. Gaspare Casucci; l’altro di S. Maria dell’Itria da don Pietro Signorino, quello che lascerà tanto alla chiesa del Monte; ed infine quello di S. Nicolò di Bari assegnato a don Gaspare d’Agrò.
I mansionari, i preti salmodianti a pagamento in Matrice, sono ancora dodici, come aveva voluto il fondatore, l’arciprete Lo Brutto e, a scorrere la lista, ci si sorprende che autorizzati a ricevere le confessioni sono solo d. Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e d. Francesco Torretta; gli altri (don Filippo Cino, don Francesco Pistone, don Vincenzo Casucci, don Giambattista Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino, don santo Farrauto, don Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e Morreale) sono bravi a cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti all’altezza delle confessioni, specie delle donne. Per converso don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina vengono ritenuti idonei ad impartire l’assoluzione dai peccati, ma sono per il momento tenuti lontano dai benefici economici che il cantare Vespro e Compieta fa conseguire. Don Nardu Matina non sarà mai beneficiale venendo a decedere nel 1733 (LIBER, n° 216); Baldassare Biondi (+ 29 ottobre 1771) farà carriera, diverrà vicario foraneo e raggiungerà la ragguardevole età di 82 anni (LIBER, n° 284).
Racalmuto non ospita eretici o scomunicati; è tutto sommato morigerato e rispettoso della religione e dei precetti della chiesa. L’Algozini può così rispondere all’apposito paragrafo del questionario:
1. Non vi sono scomunicati, , né sospesi, interdetti o che non abbiano adempito la communione paschale, o non osservato le feste, né publici usurarij, concubinarij, adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso da sua moglie che ostinatamente abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua moglie che pure ostinatamente non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di Gaetana d’Anna sua moglie; né pure vi sono giocatori scandalosi né inimici;
2. Vi sono due maestri di scuola, rev.do sac. D. Calogero Pumo ed il Diacono D. Melchiorre Grillo;
3. Quattro medici fisici dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D. Giuseppe Amelli, rev. Sac. D. Ignazio Pumo, ed il clerico coniugato D. Calogero Sferrazza;
4. Chirurghi dui il clerico coniugato D. Giuseppe Sferrazza e D. Antonino Amelle;
5. Due levatrici, Angela Rini e Maria Schillaci, ambi di buoni costumi e sanno la forma del Battesimo.
Seguiamo ora, passo passo, come l’arciprete Algozini descrive la Matrice:
1. Il titolo della chiesa è Maria SS.ma dell’Annunciazione ;
2. Si celebra la festa nel giorno proprio;
3. Non vi sono abusi;
4. La chiesa non è consecrata;
5. Il Padrone è il vescovo;
6. Fu eretta alli 20 giugno 4a Ind. 1621;
7. Nella Cappella di S. Maria del Suffraggiov’è la Liberazione dell’Anime ogni lunedì e nell’ottava de morti ad septemnium per breve concesso dalla Stà di Benedetto XIII di fel. mem. a 17 settembre 1728 e nessuno altare ha Padrone.
Della struttura della Chiesa
1. Questa Chiesa Matrice è construita con due ordini di colonne, con che si forma la nave e due ali;
2. Ha semplice tetto;
3. Non dona umidità;
4. Vi sono sei finestre, cioè tre con vitriate e tre senza;
5. delle quali entra vento;
6. le pareti della chiesa in alcune parti sono di piedre quadrati, in alcune con incrostatura in alcune incolte;
7. senz’erbe;
8. La fabrica da pertutto ben soda;
9. senza veruna servitù;
10. v’è choro situato nell’altare maggiore dell’istesso sito della Cappella;
11. senza sedili o stalli distinti, ma fra breve vi si faranno ad eccitazione del detto rev. Archiprete;
12. non v’è separazione di luoco per le donne;
13. il pavimento è di gisso intiero.
Disponibili anche notizie sullo stato dell’edificio e sul suo assetto interno:
1. Tocca alla Maramma la reparazione che ha onze 3.15.6 di rendite annue e cioè: dal sac. Isidoro Amella onze 2; dal rev.do sacerdote don Vincenzo Casucci e consorti tarì 13.19; da Antonino di Salvo Ruggeri tarì 4.10; dagli eredi di Giovan Battista Petruzzella e consorti tarì 10.10; da Giovanne d’Alaymo Trombetta tarì 8.5; dall’erede di Salvatore Corbo tari 8.2.
2. S’amministrano dalli quattro deputati della chiesa che sono il rev. Archip. Dr. D. Filippo Algozini, il rev. Vicario Foraneo D. Salvatore Lo brutto, don Francesco Pistone e don Gaspare Casucci.
L’Algozini ci informa che «v’è dentro la Cappella del SS.mo Sacramento di questa Chiesa Madre la compagnia del Santissomo Sacramento; l’officiali sono l’antedetto rev.do arciprete dr. D. Filippo Algozini, M° Giacinto Scibetta e M° Giuseppe di Rosa.» Aggiunge: «Dentro questa Matrice chiesa non vi sono cappellanie se non le sacramentali che adesso sono il rev.do sacerdote D. Francesco Torretta ed il rev.do sacerdote D. Leonardo La Matina.»
Abbiamo peraltro «un beneficio di S. Antonio Abbate posesso come sopra dal rev.do sac. Don Gaspare Casucci.» Al servizio della Matrice sono i chierici Pietro Santo Maura e Santo di Naro: il loro stipendio e di 8 onze, quattro pagari dal rev. Arciprete, due dalla Cappella del SS.mo Sacramento, onze 1.10 dalla Cappella di Maria del Suffraggio e tarì 20 «d’altre tre Cappelle in ragione di tarì 6 per una, oltre tarì 10: incirca di venti.»
Ed ecco, di estremo interesse storico, la descrizione e la disposizione degli altari:
1. Vi sono quattordeci Altari, il Maggiore;
2. quel del venerabile;
3. della SS.ma Annunciata;
4. di S. Maria del Suffraggio;
5. del SS.mo Crocifisso;
6. di S. Vito;
7. di S. Giovan Battista;
8. di S. Leonardo;
9. di S. Antonio Abbate;
10. di S. Ignazio;
11. della Ss.ma Assunzione;
12. delli S.ti tré Reggi;
13. di S. Giuseppe;
14. di S. Maria Maddalena.
«Per quante diligenze s’abbiano fatto – soggiunge l’arciprete – non si sa dell’erezione di ciascheduna.» Nel dettaglio: «Sono l’altaretti conservati nello stipite e non ve ni sono portatili; sono intieri nelli sigilli delle Reliquie; ve n’è uno [altare] privilegiato di S. Maria del Suffraggio; nessun altare ha padrone; non hanno rendite per suppellettili e manutenimento, se non quelli che si devono contribuire dalli celebranti secondo la tassa e reduzione ultimamente fatta. L’altare però di S. Ignazio ha tarì 19 annui dovuti cioè: tarì 12 da Pietro Mulè paruzzo in virtù di contratto per l’atti di not. Michelangelo Vaccaro a 10 settembre 7a 1713, e tarì 7 dal notaio Michelangelo Vaccaro in virtù del contratto per l’atti del quondam notaio Francesco Pumo a 11 gennaio X a ind. 1717.»
Gravano sugli altari vari pesi per messe:
1. La cappella del SS.mo Sacramento messe n° 163;
2. Cappella della SS.ma Annunciata messe n° 58;
3. Cappella di S. Giuseppe messe n° 144;
4. Cappella delli S. Tré Reggi messe 3;
5. Cappella di S. Maria del Suffraggio messe n° 914.
«Oltre d’altri sei Cappellanie cotidiane trattenute dalla detta Cappella del Suffraggio, secondo denota la Tabella in Sacrestia.»
L’inventario del Casucci.
Questo l’arredo della chiesa e degli altari secondo l’inventario del tempo:
«Questo è l’inventario di tutti i beni mobili e stabili semoventi, frutti, rendite, raggioni azzioni e spese di qualsiviglia sorte della chiesa Matrice di Racalmuto, sotto il di Primo Aprile 1731, fatto per me D. Gaspare Casucci Economo di detta Chiesa con la presenza e l’assistenza delli Rev.di Sac. D. Filippo Cino e D. Gerlando Carlino previamente informati dei beni, frutti e rendite, e sono l’infrascritte:
La sudetta chiesa Matrice è posta nella strada del Castello a frontespizio della Piazza; ha d’un lato le case di M° Giuseppe Di Rosa e dall’altro le case della ven.le Compagnia si S. Giuseppe.»
Qui il Casucci si addentra in una ricostruzione storica che non sembra avvalorata dai documenti da noi investigati. Ad ogni buon fine, quella ricostruzione casucciana la riportiamo egualmente:
«Fu finita di fabriche l’anno 1620: benedetta con licenza di Monsignor Vescovo di Girgenti sotto li 20 Giugno di detto anno.» A nostro avviso, c’è qui l’abbaglio della strana ripartizione della parrocchia tra don Vincenzo del Carretto e don Paolino d’Asaro del 1608 ed il successivo ricongiungimento delle due parti in capo alla chiesa dell’Annunciata sotto un unico arciprete che a noi risulta essere don Filippo Sconduto. Il Casucci non ci pare molto ferrato nella storia della sua chiesa.
Attendibile invece quando parla delle Cappelle, di cui curava in definitiva l’amministrazione:
La Cappella della SS.ma Annunciata fu fondata e dotata da D. Gaspare Lo Brutto e Leonora d’Asaro con obbligo di 58 messe. [..] Li superlettili di detto Altare, come di tutti gli altri altari e chiese sono li seguenti:
In primis una Cappella bianca di lama, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipoli e palio;
Item una Cappella violacea di lama, con suoi Tunicelle, casubula, cappa, stole, manipoli e palio d’altare;
Item una cappella virde, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipoli e palio d’altare;
Item una Cappella rossa, con sue Tunicelle, casubula, cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item una Cappella nigra di felba [22] con scuti ricamati, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item una casubula di stolfo russa , con sue stola e manipole;
Item una casubula bianca d’asprino con manipola e stola;
Item dui casubuli nigri, con suoi stole e manipoli;
Item dui casuboli violaci usati con stole e manipoli;
Item trè casubuli russi usati con stoli e manipoli;
Item una casubula bianca raccamata di seta usata con stola e manipole;
Item una casubula verde usata con stola e manipole;
Item sei cammisi boni, cioè tre di tela d’Olanda e tre di tela sottile, con suoi cingoli ed ammitti;
Item altri tre cammisi usuali per la giornata, con suoi cingoli ed ammitti.
Altare maggiore
In primis un quadro di S. Pietro e Paulo di Pittura, con cornice scartocciata indorata d’oro;
Item n° sei candilieri con suoi vasi e rami usati;
Item n° sei tabole per ornamento dell’altare, indorate di mostura;
Item una cornice dell’altare indorata di mostura;
Item la carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovagli d’altare;
Item un tappito vecchio per detto altare.
L’ulteriore precisazione che abbiamo dall’Algozini, datata 1° giugno 1731, parla anche di un dischio foderato di damasco verde usato.
Altare della SS.ma Annunciata
Item la statua della SS.ma Annunciata con l’Angelo, di ligname indorati di mistura;
Item un Reliquario di Ligname indorato di mistura con sue reliquie dentro;
Item due candilieri con sua croce usati;
Item una carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovaglie usate per l’altare;
Item una cornice indorata di mistura per detto Altare;
Item tré pialli d’altare usati;
Item un lampero di ramo.
In più, stando all’integrazione dell’inventario da parte dell’Algozini: sei candileri con suoi vasi novi indorati di mistura con sei rami di talco novi.
Altare di S. Maria del Suffraggio
Item un quadro di pittura con sua cornice indorata;
Item sei candileri con la croce e sei vasi;
Item sei rami usati;
Item quattro candileri piccoli;
Item una carta di gloria col’imprincipio e lavabo con le cornici indorate di mistura;
Item Item due tovaglie d’altare;
Item un palio di seta violaceo e bianco con cornice indorata di mistura per detto Altare;
Item un lamperi di ramo novo.
Altare del SS.mo Crocifisso
Item l’Immagine del SS.mo Crocifisso con la croce indorata;
Item un quedretto di Maria delli Setti Dolori con sua cornice;
Item quattro candileri con sua croce usati;
Item una carta di gloria con l’Imprincipio e lavabo; con “concice indorata” (v. Algozini);
Item un palio d’altare di pittura con cornice indorata, che è “di stolfo violetto e rosso con gallone d’oro, novo” (vedi inventario del 1° giugno 1731).
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