PROFILI DEI PRIMI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL
CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di
lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del
magniloquente titolo di Machesi di Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e
quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma
erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche
storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del
Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del
’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese, evidentemente
spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di un Barone è tale
che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio
nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi, sia pure in
corsivo, mostrando di non esserne certi.
Diciamolo subito: un
marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure
per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II
Chiaramonte, semplicemente non esiste.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia
potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia
Chiaramonte. Ed è proprio così che forse è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu
meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là
con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la
altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il
mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio
del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il tempo
necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il
vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che
questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio
nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia
siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un
qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti
genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre
interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che
circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL
CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia storica di sé: di
lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della
sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e
l’irrequieto Matteo.
In quel documento - che trova ampio spazio in questo lavoro
- emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno
che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in
casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il
destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a
Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a
Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era fasullo,
comunque inconsistente, in ogni caso obsoleto.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due
figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre
che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino
strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era
Racalmuto.
Non sappiamo dove sposa una tale Salvagia di cui ignoriamo
ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data
di un importante documento del 12 marzo 1399.
Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii
ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile
pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella
compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini
pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II
aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a
Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per
lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario
completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli
Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona
feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, ....»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo
primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e
Giacomino (Jacobinus) morto in giovane età.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del
Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro
d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse
alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto, solo per
consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con
la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i
termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e
cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due
fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo,
a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che
sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non
ammessa secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un
concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative
giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che
ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli
storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del
Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni
araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando Acquista, padre
Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è
semplicemente inverosimile congettura. Invero anche il Surita incorre in un
errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e
Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da cui ebbe una
caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome della nonna
paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il
titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il
titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come
“magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima ([43]) era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero
capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse
un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà
sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo
(alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel
diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in
modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e sembra averne
avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e
consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la
presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto
barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro
Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo ([44]) ne fornisce indubbia
testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis
etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu
pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri
fideli quelli di lu dictu locu qui
tutti generalmente defrodaru e
fichiruli assai dispiachiri; per la
quali cosa si ita est la nostra
maiestati haviva causa di meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu
manifestu ki pocu bisogna affannu di chircarisi che cumandamu ki con omni diligencia duviti fari
constringiri quelli di lu dictu locu ki incontinenti divun restituiri tutti li
cosi predicti a lu procuraturi di la
presente per parte di li altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla
e non sia bisognu ki la nostra maiestati cesaria [si occupi] plui di questa cosa [...] per
modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki vulissi operari mali maxime
quam li fideli e homini di la nostra persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV
ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben
complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova
impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato
dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non
sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni
scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del
Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc
è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un
conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia
rigorosi - è alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha momenti
sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di
riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto
ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura
(evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di
Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone
di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica
che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta
incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il martello del vicino
Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.
La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e
noi qui vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del
Carretto.
Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea
Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei
Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario
Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e
organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe spagnole.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronovo nel
1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo
(1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato
dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con
sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona
al suo destino, trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti venuti
dalla Spagna. Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo
cadetto della famiglia sedicente originaria di Savona, destinata nel
Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare
sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici
nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare
esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai
più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento
ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del
Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente
incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il
potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello
delle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che
investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime
e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza
Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi
dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse
trattato di benefattori.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un
diploma ([45]) del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro
dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([46]): « Matheus
de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino -
ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel
“castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il
“Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Poi, il Castelluccio,
quale sede di un diverso feudo denominato Gibillini passò nelle mani di Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del
Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il
de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello
pseudo Muscia. ([47])
Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato
diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andiriviene opportunistico
del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto
si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo
ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma
per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è
pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere
l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di
Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed
egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo
quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che
strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia
fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto
lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de
sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali
per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu
Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit
ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato
nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere
l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da
altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di
Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li
beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.
Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la
quale condivideva proprietà a Malta.
Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi,
perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi fussero
guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda supra chilli
chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.
E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era
stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e
distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati oltremodo danneggiati
(“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli
agrigentini.
Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu
so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi constringiri a
farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti
villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma
drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà.
Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e
ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.
La formula, dunque, fu assolutoria, ampia, faconda,
omnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è
costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?
La chiosa finale fu ulteriormente munifica per
l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei
nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del
nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di
riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i
sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace
concetto” (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi
sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo
trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del
Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura
francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397).
Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria ([48]) che
ha modo di narrare:
«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e
Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro
paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in
Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare
Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag.
17] ...
Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da
Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di
Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo
di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.»
[Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5 giugno 1397.]
Dirigitur matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi motaro furtugno.
(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. -
Archivio Stato Palermo)
* * *
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della
curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo
momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello
Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente
le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la
morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto
del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22
agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto
GIOVANNI I DEL CARRETTO
Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420:
eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi
inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi
sono più dubbi che Racalmuto è feudo dei del Carretto: manca però un tassello;
non è certo se spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e
misto impero. La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a
favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e
l’arciprete Campanella che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del
Settecento e l’avranno vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista
del viceré Caracciolo.
Nel processo d’investitura del successore di Giovanni,
Federico del Carretto, abbiamo dati biografici di questo barone di Racalmuto.
Vi si legge tra l’altro:
magnificus dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat
verus dominus et baro dictorum casalis et castri Rayalmuti percipiendo fructus
reditus et proventus paficice et quiete et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica et ..
dictus quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica
domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus
natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui
subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et
naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de
hoc fuit vox notoria et fama publica et ..
ex dicto magnifico domino Johanne et magnifica domina Elsa
jugalibus natus et procreatus fuit dominus magnificus dominus Federicus de
Garrecto ad presens baro dictae baronie Rayalmuti et qui tamquam filius
legitimus et naturalis subcessit in baronia predicta percipiendo fructus
reditus et proventus et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica etc. ..
Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del
Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà il erede nella baronia
Federico del Carretto.
Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non
lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo
troppo lungo (dalla presunta morte di Giovanni I attorno al 1420 alla data del
processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) lascia
adito a dubbi, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia
passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni
da un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore delle
proprie fortune.
Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di
Giovanni I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17
agosto 1401 giungeva una lettera da
Catania per la sistemazione delle pendenze fiscali.
Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta
tributaria relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de
Benedictis. Questa la situazione del giovane barone di Racalmuto: v’era la successione della baronia da Matteo
al medesimo Giovanni I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute,
quella relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava
(1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once
d’oro. Il diploma che ha il sapore di una quietanza attesta che la posizione è
stata sistemata come segue: 30 once in
contanti e dieci a compensazione di un
mutuo a suo tempo approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.
Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag.
503-543 Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata)
: «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi medi dei
feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento sempre più pesante ed
ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia
all’intervento della monarchia e della classe feudale nell’amministrazione dei
domini fondiari e delle signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422
della sua baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert
Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la fonte, per cui la
notizia va presa con le molle.
Nella nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi
è qualcosa in più: viene precisata la fonte: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon
baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux
de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment rahonable”». [Per
ACA Canc. s’intende: “Archivio de la
Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria.
Il fondo 2808 riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op.
cit. pag. 29]. Sarebbe da rintracciare quel foglio 54 al fine di ben
ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto affidata a Gispert d’Isfar.
Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è
molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di
vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar,
l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per
sottrarre l’eredità e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti
tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc).
Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio
dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote della
figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una
sola volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico
del Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei
vari rami cadetti.
Non possiamo revocare in dubbio che sia il figlio legittimo
e naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi
palermitani dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi
a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è indubitabile (come abbiamo
visto dai passi in latino sopra riferiti).
“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del
Carretto è, invero, dichiarato ma non si accenna neppure larvatamente al
requisito (indispensabile nel diritto feudale dell’epoca) della primogenitura.
Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa - non ha però dubbi ed avalla
l’investitura nei seguenti termini:
«E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo
figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam
Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi
eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti
della regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri
predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande
dell’anno 1453 nelle carte 565. » ([49])
Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere
determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i
traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenza della regina
Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben
42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto
s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di
Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste
condizioni:
n presti il cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda
20 once ogni anno;
n renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;
n restino salvi i diritti di legnatico dei cittadini
racalmutesi;
n e del pari restino riservate alla Corona le miniere, le saline, le foreste
e le antiche difese;
n resti salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e
nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.
Per il resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente
insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da
Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di
Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 a Mariano Agliata per uno
scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo
Lomellino consegnabile a luglio. E il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce
qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini moderni si
parlerebbe di forward in grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita presso
il "Caricatore" di Siculiana. Fonte citata: ASP ND G.Comito;
18.1.1451, cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito
(1427-1460) - n.° 843 a 850
Sempre il Bresc fornisce nella citata opera un'altra
interessante notizia. Secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag.
893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta antifeudale
estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un libro: «Luigi
Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in
Sicilia, Palermo, 1921».
GIOVANNI II DEL
CARRETTO
La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi
dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi
d’investitura tacciono.
Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è
motivo per dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non
sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del
1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis
aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus
dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole
di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali siano quelle
gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e
noi non ne abbiamo nessuna ... memoria.
Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore [natus maior] e che avesse partorito il
successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte,
e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche
dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto ([50]).
Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli
([51]) che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni di Regalmuto per anni
... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi trentacincho, uno
vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando sia avvenuta quella compravendita non sappiamo; il
rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti
anni si riferisca la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge
nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno
all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il contratto col quale il
procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro Del Campo la baronia di
Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini presso gli
Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose
notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et
investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non ci hanno sinora
consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e specificatamente a chi
si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il
nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato che dal 1459 al 1489 la
famiglia del Carretto di Racalmuto si sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed
abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo Rabiuni di
Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo,
Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello stesso “conto del
segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386) si accenna al possesso
feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu
teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte
Ind. 6 Ind. E 7 Ind. Et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro
di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a
menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici
anni primi poi di Pasqua.» ([52])
Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del
Carretto - la fa a ridosso degli anni
della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:
«E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del
Carretto, suo figlio, il quale, come appare dall’ufficio della regia
cancelleria, non prese giammai l’investitura della detta terra.»
ERCOLE DEL CARRETTO
E subito dopo abbiamo Ercole del Carretto, quello che le
saghe sulla venuta della Madonna del Monte chiamano “Conte”. Il Barberi annota
su di lui:
«Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto
figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari
non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo
stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.»
Il Baronio, come si è visto, quasi non lo cita: un accenno
trasversale, come si fosse trattato di un riflesso sbiadito del gran fulgore
che era stato il padre.
Il Barberi ebbe a conoscerlo giacché è proprio sotto Ercole del
Carretto che visita Racalmuto come lascia intravedere il passaggio : al
presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un
reddito annuo superiore ad once 700.
Settecento once di
reddito - a meno che non trattisi di esagerazioni fiscali alla stregua delle
mirabolanti cifre dei moderni accertamenti degli agenti tributari - sono
un’enormità. Sia quel che sia, Racalmuto dunque in esordio del ’500 - e proprio
sotto Ercole del Carretto - ha un salto quantitativo, un empito verso il grande
centro. Nostri precedenti studi ([53]) hanno messo in evidenza questo
significativo passaggio demografico e sociale. Dal rivelo del 1505 (un paio
d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una popolazione aggirabile sui 1600
abitanti: un secolo prima (nel 1404) erano poco più di 750. Certo, la baronia
dei del Carretto non era stata molto felice e varie strozzature demografiche e
sociali si erano verificate. Le abbiamo notato in quello studio, ma tutto
sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti.
La venuta della Madonna del Monte
Era persino sorto un clima messianico per cui era potuta
allignare la saga della Madonna del Monte. Sciascia è caustico: «correva l’anno 1503, ed era signore di
Regalpetra Ercole del Carretto ... C’è poi da dire che la statua è della scuola
dei Gagini, e appare molto improbabile sia finita in Africa; ma di più di ogni
altra è inquietante la considerazione sulla scelta della Madonna tra il Gioeni
e il del Carretto, tra i castronovesi e i regalpetresi; inquietante come
l’apparizione dell’immagine di Cristo su una parete al professor Pende, perché
proprio al professore, perché al del Carretto,
perché tra i regalpetresi la Madonna ha voluto fermarsi, la popolazione
di Castronovo essendo in egual misura fatta di uomini onesti e di delinquenti,
di intelligenti e di imbecilli.» ([54]) Ma è proprio lui che poi negli Amici
della Noce se la prende con l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi occhi di
avere cercato un po’ di luce (storica) su questa saga cui tutti i racalmutesi
siamo legati.
Neppure, a ben vedere, riusciamo a concordare del tutto con
il valente padre gesuita sui motivi che avrebbero spinto gli odiati Requisenz
ad inventarsi la leggenda della Madonna del Monte «per fare apparire i Conti
del passato, ma intenzionalmente quelli del presente, quali grandi benefattori
del paese: così il barone Ercole Del Carretto, e con lui tutta la sua famiglia,
cominciò ad essere presentato nella leggenda come insigne benefattore del culto
della Vergine del Monte, costruttore della sua prima chiesa nel 1503.» ([55])
Osta se non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di Racalmuto il 28
gennaio 1771 ed a quella data la saga
era ben salda nei cuori e nella fede dei racalmutesi, come dimostra l’ex voto
che si ammira al Monte. Precedente era anche lo scritto di Francesco Vinci
(pubblicato secondo lo stesso padre Morreale, pag. 35) nel 1760 e forse anche
quello di Nicolò Salvo. Ma soprattutto appare dirimente il fatto che già nel
1686 la curia vescovile di Agrigento considerava “miracolosissima imago”
(imagime molto miracolosa) quella che si venerava nella chiesa di S. Maria del
Monte di Racalmuto. ([56]) Il nostro
spirito laico ci è d’intralcio nel chiarire questioni come questa, che coinvolgono
aspetti di sì rilevante complessità religiosa. Umilmente riteniamo che Ercole
del Carretto ebbe davvero a costruire la prima chiesa del Monte (di una
precedente chiesetta intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun documento
probante) ed ebbe a corredarla facendo venire da Palermo una statua di marmo.
Fu evento memorabile: quella Vergine marmorea, così somigliante alle giovani
madri di Racalmuto, brevilinee e rotondette, dovette impressionare e sbalordire
gli ingenui occhi dei contadini locali. Legarvi il senso del portento, del
miracolo, fu semplice e coinvolgente. Già nel 1608, in una visita pastorale,
quel simulacro era maestosamente eretto sull’altare maggiore della Chiesa del
Monte: il vescovo - recita il testo episcopale - “Visitavit altare maius super
quo est imago marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata”.
Tratti anagrafici di Ercole del Carretto
Scarne sono le notizie che abbiamo su Ercole del Carretto.
Non sappiamo quando nasce: la morte cade invece nel gennaio del 1517. Sposò
tale Marchisa di cui ignoriamo il casato.
Dal processo d’investitura del figlio Giovanni III possiamo
abbozzare questi altri dati: fu “signore e barone della terra di Racalmuto e
tenne e possedette quella terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio,
nonché con tutti i suoi diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali
tutte le volte che gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti,
redditi e proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”.
“Tenne il figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e naturale e per
tale lo trattava e come tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e
reputato dagli altri.”. “In qualità di signore e padrone della predetta terra e
padre del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello
della terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere
redatto solenne testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della
città di Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire
suo erede universale il detto magnifico signore Giovanni”.
Nel suo processo d’investitura si legge che: a «Johanni de Carrectis» successe «quondam
magnificus Hercules, unicus filius legitimus et naturalis.» ([57])
Crediamo che il noto giurista operante a Racalmuto Artale de
Tudisco fosse già al servizio di Ercole del Carretto. Altro notabile dell’
entourage carrettesco fu il nobile Alonso de Calderone che così testimonia:
«stando ipsu testimonio como uno degli domestichi di lo quondam magnifico
Herculi lu Garretto baruni di Rayalmuto, vidia dicto magnifico regiri et
governari la dicta terra et in quella permutari li officiali et rescotirisi et
fachendosi rescotirj li renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri et
patruni et canuxi lo dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et
unico di dicto quondam signuri Erculi lu Garrecto a lu quali lo dicto quondam
magnifico Herculi tenia et reputava per figlio unico et primo genito et da
tucti accussi era tenuto, trattato et reputato; lu quali dicto quondam
magnifico Herculi baruni fu mortu in lo castello di dicta terra et lo presenti
lo vitti sepelliri et secondo intisi dicto magnifico Herculi innanti sua morti
fichi testamento.»
Testimoniò anche certo Francesco Maganero come intimo del
defunto barone, così come il “nobile” Andrea de Milazzo. Personaggi egualmente
di risalto furono i “nobili” Antonino Palumbo, Alfonso de Silvestro e Gaspare
Sabia.
Il cennato processo include anche uno stralcio del
testamento di Ercole del Carretto che qui riportiamo in una nostra traduzione
dal latino:
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del testamento del
quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è
l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno
dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in
Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto
[si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre candele verso la
quinta ora della notte.
«E poiché capo e principio di ogni testamento fu ed è
l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e spettabile
signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo erede universale il
magnifico e spettabile signor D. Giovanni del Carretto, suo figlio legittimo e
naturale, nato e procreato da lui e dalla quondam magnifica e spettabile donna
Marchisa del Carretto, un tempo prima moglie dell’illustre e spettabile
testatore sopraddetto.
«E tale eredità si estende sopra tutti i beni suoi, mobili e
stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in ordine a tutti
i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e designati, e
principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori di Racalmuto, con tutti
i suoi diritti, redditi, emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta
baronia a giusto titolo spettanti e pertinenti,
secondo la serie ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e
concessioni, in una con l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei
suoi privilegi.
«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia agrigentino.
«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.»
Il testamento ci svela come Ercole del Carretto abbia
sposato in prime nozze la citata Marchisa madre del primogenito Giovanni III.
Ercole contrasse sicuramente altre nozze ma non ne sappiamo nulla.
Paolo del Carretto
Di quale madre fosse, ad esempio il terribile Paolo del
Carretto, non è dato sapere. Abbiamo un inghippo che non è facile districare.
Alcuni testi dichiarano Giovanni III del Carretto figlio unico di Ercole (vedi
testimonianza del Tudisco così come del Calderone), ma nel testamento del
Quaglia questo aspetto viene glissato. Supposizioni se ne possono fare tante,
ma il dubbio resta. Ed allora va creduta la rutilante storia che il Di Giovanni
ci fornisce, oltre un secolo dopo, nella rinomata Palermo restaurata? Siamo
propensi per l’ipotesi affermativa. Va qui allora ricordato che nel 1630 circa
quello strano personaggio che fu il cavaliere Di Giovanni scrisse per sé secentesche memorie che oggi
sono una miniera di notizie. Discendente per via laterale dai del Carretto e
addirittura da Ercole del Carretto - almeno a suo dire - confezionò un racconto
truculento in cui non è facile distinguere il loglio dal grano. Investe la
Racalmuto dei primi del ’Cinquecento e noi non possiamo esimerci dal reiterare
quel racconto, quanto bizzarro ed inventato Dio solo sa.
«Nel tempo che fu Lotrecco [Lautrec] a Napoli successe in
Sicilia lo caso di Barresi, il qual si nota dopo quel di Sciacca. E fu il
predetto caso, che essendo nella città di Castronovo D. Paolo Carretto, mio avo
paterno, uomo di gran valore, e avendo differenza con uno di casa Barresi, gli
diede il Carretto uno schiaffo; onde ne successe fra loro gravissima
inimicizia, in modo che la città si ridusse a parte.
Un giorno volle il Carretto andar a visitare suo fratello D.
Ercole, signor di Racalmuto, e vi andò con 25 cavalli. Ma saputo ciò per le
spie da’ nemici, lo assaltâro alla piana di santo Pietro. Vide egli da lungi
venire i nemici; e potendosi salvare nella chiesa di santo Pietro, gli parve
viltà, e si risolse piuttosto morire, che far gesto di sé indegno. Si venne tra
loro alle mani; ché animosamente il Carretto investì, e ne morsero dall’una e
dall’altra parte.
Ma il Carretto, investendo il suo nemico, era con un pugnale
a levargli la vita, avendolo preso per il petto, quando uno de’ compagni con
una saetta lo percosse in fronte e lo mandò morto a terra.
Satisfatti perciò i nemici, attesero a salvarsi, e se ne
andâro alle guerre del Trecco [Lautrec] a servire Sua Maestà, perché erano due
fratelli; e gli successe in una giornata di adoperarsi valorosamente sotto la
condotta del conte Borrello, figlio del viceré, perché mantennero un ponte
tutti e due, tanto quanto gli arrivasse il soccorso; dal che si evitò gran
danno, che poteva succedere agl’Imperiali.
Del che fattosene relazione a Sua Maestà, spedita la guerra,
fûro i predetti due fratelli indultati in vita, e fûro fatti capitani d’armi
per il regno.
Sentì gravemente il successo D. Giovanni Carretto, nepote
del predetto D. Paolo; e più per vedersi i nemici, in quel momento favoriti,
stargli innante gli occhi, e perché era di gran valore e chimera, procurò
quello, che non avea procurato il padre D. Ercole.
In quel tempo era nella città di Naro Enrico Giacchetto,
uomo valorosissimo e potente, consobrino di mia ava paterna, il quale, per
avere inimicizia con il barone di Camastra, anco della città di Naro, manteneva
a sue spese cento cavalli, ordinariamente di gente scelta e valorosa, con li
quali faceva allo spesso gesti eroici e
singolari. Di costui ne temeva tutto il regno.
D. Giovanni del Carretto, figlio del predetto D. Ercole, si
fé chiamare il predetto Enrico, che gli era amicissimo, a cui conferì il suo
pensiero, e lo richiese che si volesse adoperare per lui in satisfarlo di
quell’oltraggio.
Gli promise buona opera Enrico; e perché si sentiva che i
Barresi si volevano levar le mogli e le case da Castronovo, e portarsele alla
città di Termine, li appostò Enrico con quaranta cavalli, e, venendo quelli a
passare per il fundaco delle Fiaccate, per quel cammino assaltò i predetti
fratelli con molta compagnia. I quali non prima si videro Enrico addosso, che
sbigottiti si posero a fuggire, e furono finalmente giunti, presi ed uccisi.
E se ne presero le teste, che furono portate al predetto D.
Giovanni, il quale, benché prevedesse gran travagli di giustizia, ne fu pure
assai satisfatto e contento; tanto si estimava l’onore in quei tempi.
N’ebbe al fine gran travagli: ma col tempo ne riuscì con
vittoria, grandissimo onore e reputazione.»
“Più solidità e più stabilità” Eugenio Napoleone Messana
(op. cit. pag. 95) pensa che possa avera il suo congetturare sulla genesi della
saga della Madonna del Monte, quale trasfigurazione dei fatti sopra narrati.
Francamente non ce la sentiamo di seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è
visto, che Paolo del Carretto fosse racalmutese e fosse davvero figlio del
barone Ercole.
Probabile invece che
una volta conosciuta la tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del Carretto, nelle
prime decadi del Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la sublimazione della
vetusta e pia memoria della “venuta” di
quella adoratissima immagine marmorea della Madonna del Monte.
Il canto popolare che la prof.ssa Isabella Martorana ha
saputo recuperare dalla viva voce delle locali vecchiette non è coevo certo
alla venuta della Madonna del Monte, ma ha insiti spunti storici che sia pure
postumi meglio rispecchiano la genesi della saga. Venuta da Trapani - più
verosimile che si fosse parlato di Punta Piccola - , “intranno a Racarmuto pi
la via/ vonzi ristari cca la gran Signura”, sono scisti con qualche valenza
storica. Ma visto che “a lu conti cci arrivà mmasciata”, il riferimento è
decisamente postumo, databile dopo il declinare del XVI secolo. Il carme
dialettale, bello esteticamente, lascia nelle brume anch’esso l’origine della
pia tradizione del miracoloso evento della Madonna del Monte che sceglie la sua
dimora nel nostro paese, in cima alla panoramica altura della omonima chiesa.
GIOVANNI III DEL CARRETTO
Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu
anche colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra
terra. Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso
rispetto della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il
magnifico Artale Tudisco - di cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la
rituale investitura.
Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe
macchiato della committenza di un delitto contro i Barresi di Castronovo. Così
racconta il suo lontano pronipote Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero?
Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo
- un uomo religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e
chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura
nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva
indulgenza verso gli eccessivi empiti di prodiga religiosità del suo assistito
in punto di morte, abbiamo voglia di pensare noi.
Il Baronio ce lo descrive ovviamente in termini
esageratamente elogiativi. Traducendo dal latino, per quello storico di casa
del Carretto «Da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e
per intemerata virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori.
Di tal che, sia per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con
grande onore tra i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed
il glorioso Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e
76)
Processo d’investitura
Sul citato Giovanni fornisce lumi il processo n. 1175.([58]) Ne abbiamo fatto già qualche
richiamo. Siccome lo riteniamo basilare per la storia racalmutese del secolo
XVI, lo trascriviamo, traducendo, quando occorre, dal latino.
«N.° 1175 - In Palermo nell’ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia, sotto
la data del 28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
«Memoriale esibito e presentato nell’Ufficio del Protonotaro
del Regno di Sicilia, dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore del magnifico
signore don Giovanni del Carretto, figlio primogenito, legittimo e naturale,
unico ed universale erede del quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo
signore e barone della terra di Racalmuto (Rayalmuti), che teneva e possedeva
la detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi
diritti e pertinenze a seguito della morte del prefato quondam magnifico
Ercole, suo padre.
E tanto per prendere l’investitura della detta baronia con i
suoi diritti e pertinenze tanto per la morte del signor nostro Re Ferdinando,
di gloriosa memoria, quanto per la successione delle maestà cattoliche, la
Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi, quant’anche per la
morte del prefato quondam magnifico Ercole del Carretto, suo padre.
«Innanzitutto, si afferma che il detto quondam magnifico
Ercole del Carretto, padre del detto magnifico don Giovanni, al tempo della sua
vita, e fino alla sua morte, tenne e possedette la terra di Racalmuto, con il suo castello e
fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando tutti gli
ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico barone
Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e proventi
da vero signore e padrone.
«Del pari, si testimonia che il prefato magnifico signore
Giovanni del Carretto fu ed è figlio primogenito, legittimo e naturale del
detto quondam magnifico Ercole e come tale e per tale lo teneva, trattava e
reputava, così come era dagli altri tenuto, trattato e reputato.
«Del pari, si afferma che il detto quondam magnifico Ercole
del Carretto, un tempo signore e barone della detta terra e padre del detto
magnifico signor Giovanni del Carretto, quando piacque al Signore, morì e
defunse nel castello della predetta terra di Racalmuto, sotto la data del mese
di gennaio, VI^ Ind., 1517, lasciando superstite e successore in detta baronia
il detto magnifico quondam Giovanni del Carretto, dello stesso quondam
magnifico Ercole figlio unico, legittimo e naturale, ed avendo prima redatto
testamento solenne in mano del notaio Antonio Quaglia del città di Agrigento,
sotto il giorno 27 del predetto mese di gennaio, testamento nel quale venne
istituito suo universale erede il detto magnifico signor Giovanni.
«Del pari, si afferma che, morto e defunto il detto
magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del Carretto, quale figlio
legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole, e come successore
legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo procuratore, prese e conseguì l’attuale, reale e corporale possesso della
detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi
diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e
nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in
data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
«Del pari, si afferma che in questo regno di Sicilia fu ed è
fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re Ferdinando, di
gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno di vita cadde nel mese di
gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima ed a lui successe in tutti
i suoi dominî e regni la serenissima
Regina donna Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché il cattolico ed
invittissimo Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio primogenito e
naturale. Così fu ed è la verità.
«Del pari, si afferma che al fine di prestare il debito
giuramento e l’omaggio della dovuta
fedeltà e del vassallaggio, nonché di ottenere l’investitura della
predetta terra e castello, con tutti i suoi diritti e pertinenze - tanto per la
morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del proprio
padre - seriamente creò ed istituì suo procuratore il magnifico illustre Artale
de Tudisco, come risulta dalla procura agli atti dell’egregio notaio Giovanni
de Malta, in data 26 del presente mese di gennaio VII^ Ind. 1519.
«Testi ricevuti ed esaminati nell’ufficio del Protonotaro
del Regno a richiesta ed istanza del magnifico don Giovanni del Carretto,
figlio legittimo e naturale del quondam magnifico don Giovanni del Carretto, al
fine di prendere l’investitura della baronia di Racalmuto, tanto per la morte
del Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del magnifico
Ercole del Carretto, suo padre e signore di detta terra.
«Il Nobile Alonsio de Calderone giura solennemente per
testimoniare che: “stando ipsu testimonio como uno degli domestichi di lo
quondam magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayhalmuto vidia dicto
magnifico regiri et governari la dicta terra et in quella permutari li officiali et rescotiri et fachendosi rescotirj li
renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri et patruni; et canuxi lo
dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto
quondam signuri Erculi lu Garrecto, a lo
quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per figlo unico et
primo genito et da tucti accussì era tenuto, trattato et reputato; lo
quali dicto quondam magnifico Herculi
baruni fu mortu in lo castello di dicta terra et lo presenti testimonio lo vitti
sepelliri et secondo intisi dicto testimonio dicto magnifico Herculi innanti
sua morti fichi testamento ...”
«Francesco Maganero giura solennemente per testimoniare in
modo del tutto conforme alla
testimonianza resa prima.
«Il nobile Andrea de Milazzo giura solennemente per
testimoniare in modo del tutto conforme
alle testimonianze rese prima.
«I nobili Antonino Palumbo, Alonso de Silvestro e Gaspare
Sabia giurano solennemente per testimoniare che: “in questo Regno di Sicilia fu
ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re Ferdinando, di
religiosa memoria, haviri passato de
questa vita in sancta gloria in lo misi di ginnaro anni IIIJ Ind. proximae
decursae a lu quali successiru in tutti soj reamj et segnurij la serenissima regina
dop.na Johanna sua figla legittima et naturali et lo catholico et invictissimo
re Carlo della stessa Giovanna figlio primogenito, legittimo e naturale
... “
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del testamento del
quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è
l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno
dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in
Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto
[si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre candele verso la
quinta ora della notte.
«E poiché capo e principio di ogni testamento fu ed è
l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e spettabile
signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo erede universale il
magnifico e spettabile signor D. Giovanni del Carretto, suo figlio legittimo e
naturale, nato e procreato da lui e dalla quondam magnifica e spettabile donna
Marchisa del Carretto, un tempo prima moglie dell’illustre e spettabile
testatore sopraddetto.
«E tale eredità si estende sopra tutti i beni suoi, mobili e
stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in ordine a tutti
i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e designati, e
principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori di Racalmuto, con tutti
i suoi diritti, redditi, emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta
baronia a giusto titolo spettanti e pertinenti,
secondo la serie ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e
concessioni, in una con l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei
suoi privilegi.
«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia agrigentino.
«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.
«A tutti e singoli i chiamati ad ispezionare seriamente,
vedere e leggere il presente atto pubblico, sia evidente e noto che esso fu
redatto da me notaio, con i testimoni
infrascritti, presso il castello della
terra e baronia di Racalmuto nel Regno di Sicilia.
« Si è costituito il magnifico signor Cesare del Carretto
quale procuratore del magnifico e
spettabile signor don Giovanni del Carretto, signore e barone della predetta terra
e baronia di Racalmuto, figlio primogenito, legittimo e naturale del magnifico
e spettabile quondam signor Ercole del
Carretto, morto di recente nella detta terra e dipartitosi da questa vita
adempiendo tutte le formalità necessarie per conferire alle sue ultime volontà
la totale validità.
«Peraltro, con pubblico strumento redatto in carta membrana,
sono state espletate le conseguenti formalità
in modo solenne presso la città di Napoli il primo marzo VI^ indizione
1518 per mano del nobile ed egregio Bartolo Carloni della stessa città di Napoli,
abilitato notaio per tutto il regno di Napoli .
«Di tal che è stato preso, recepito e tenuto - così come si prende, si recepisce e si
tiene - il naturale, reale e corporale possesso della predetta terra e baronia
di Racalmuto per tatto e tocco delle chiavi del castello della stessa terra e
baronia, nonché della porta e del cantone
dello stesso castello, aprendo e chiudendo, entrando ed uscendo dal
castello ad libitum senza l’opposizione di alcuno.
«Se ne attesta quindi il possesso con tutti i singoli
relativi diritti e pertinenze. E se ne redige atto in segno di vera presa del
possesso naturale, reale e corporale della predetta terra e baronia, con tutti
i singoli suoi diritti e pertinenze, acquisendone l’integrità dello stato della
stessa terra e baronia sotto il profilo del dominio, quale configuratosi con le
sue spettanze e pertinenze giusta la forma, la serie ed il contenuto dei
privilegi della ripetuta baronia.
«E continuando nella presa di possesso, fattane
l’acquisizione, il procuratore mutò e depose nella detta terra gli ufficiali;
in essa quindi nominò altri ufficiali e cioè: innanzitutto istituì e nominò
capitano della medesima terra Nardu lu Nobili; giudice il nobile Scipione lu
Carretto; giudice ordinario e militare,
il magnifico signore don Paolo de Mistrectis.
«Del pari, nominò Giurati: Enrico lu Nobili; Pietro
d’Acquisto, Vito Taibi e Andrea Gulpi. Come Castellano del predetto castello fu
chiamato il magnifico signore don Giovanni Benigno de Tudisco; come
Segreto, il magnifico Silvestro de Urso;
come Maestro Notaro il magnifico Gilberto de Tudisco.
«E per segno di quanto precede, il predetto procuratore - a
tal ultimo titolo - fece redigere il presente atto pubblico da valere per ogni
luogo e tempo.
«Testi: il magnifico Matteo del Carretto, il magnifico Jo:
Artale Tudisco, il magnifico Teseo de Torres ed il nobile Giacomo de Alletto.
«Dai miei atti, notaro Antonino Quaglia agrigentino»
«26 gennaio VII^ Ind. 1519
«Il magnifico don Giovanni del Carretto, barone e signore
della terra di Racalmuto, presente innanzi a noi, spontaneamente - con ogni miglior modo e forma con cui più
preclarmente può essere detto e fatto - costituì, scelse, creò e solennemente
nominò come suo vero ed indubitato procuratore, attore, nuncio speciale il
magnifico Giovanni Artale Todisco.
«Questi, presente ed accettando l’onere della infrascritta
procura del tutto volontariamente, compare a nome e per conto e parte del predetto magnifico costituente
dinanzi l’ill. signor Viceré per
prendere l’investitura della terra e baronia con relativo castello di
Racalmuto, nell’integrità del suo stato e nella pienezza dei suoi diritti e
pertinenze, sia per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la
successione delle invittissime cattoliche maestà, la regina Giovanna ed il Re
Carlo, signori nostri invittissimi, e sia per la morte del quondam magnifico
Ercole del Carretto, il di lui padre.
«Al contempo, il procuratore, in nome e per parte del
predetto magnifico mandante, si presenta per prestare il giuramento e rendere
l’omaggio di debita fedeltà e vassallaggio nelle mani dell’illustre e potente
signore viceré, nonché per svolgere quant’altro occorra per prendere la
predetta investitura, non mancando il detto magnifico mandante di
obbligarsi sotto vincolo di ipoteca
etc. Così giurò etc.
« Testi: nobile Pietro Pasta e magnifico Vito Paladello.
«Ex actis meis no. Joannis de Malta de Panhormo, extratta est praesens copia manu
aliena. - Collatione salva.»
«Pro Magnifici don Joannis
de Carrectis baronis Rayhalmuti investitura
VII^ Ind. 1519 - 1518-19 -
p.° februarii VII^ ind. [1519] : fiat investitura solemnibus adimpletis
processibus».
Da questo processo, che - pur nella sua contorsione - è il
meno complesso dei processi d’investitura dei Del Carretto, emergono due o tre
istituti molto peculiari del diritto feudale della nostra terra di Racalmuto:
1. Diritto dei
baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue vescovo
di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi
paladino di un omicida, il chierico
Jacobo Vella.
2. Diritto alla
destituzione e nomina di tutte le cariche, civili e militari, di Racalmuto. I
Tudisco, i Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto,
i Taibi, i Fanara, i La Licata, i Gulpi,
i Rizzo, i Morreali, i Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI
secolo possibilità di farsi apprezzare dagli stravaganti baroni di Racalmuto:
ne diventano fiduciari; spesso si arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso
attecchiscono nella fertile terra del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla.
Qualcuno resta tuttora, ma senza più il ruolo di profittatori del regime.
3. Non emerge ancora
un chiaro affermarsi del diritto al terraggio ed al terraggiolo [prestazioni in
natura da parte dei coltivatori delle terre del barone, nel primo caso, e fuori
la baronia, nel secondo - stando almeno alla volgarizzazione della fine del
Settecento].
4. Il mero e misto
impero dei baroni fa capolino nel
Cinquecento, ma piuttosto tardivamente.
Giovanni III del Carretto eredita la boronia di Racalmuto
qualche tempo prima dell’iniziale investitura; alla morte del padre Ercole e
cioè il 27 gennaio (o un paio di giorni dopo) del 1517. Il 16 marzo di
quell’anno il neo barone manda come suo procuratore Cesare del Carretto per la
formale acquisizione della baronia. Il relativo atto viene stilato con rogito
del notaio Bartolo Carloni di Napoli in data 1° marzo 1518. Il successivo 26
gennaio 1518 nomina procuratore il già detto Giovanni Artale Tudico per gli
adempimenti presso la curia vicereale di Palermo. L’investitura risulta
definita il 31 gennaio del 1519. “Fiat investitura” la nota finale del
processo. In una ricostruzione del 1558 si dice che Giovanni fu costretto
all’investitura “per la morte del cattolico ed invittissimo re Ferdinando di
gloriosa memoria e per la successione delle cattoliche maestà la regina Giovanna
ed il re Carlo”. Adempimenti che comportavano aggravi fiscali in prima battuta
per il barone, ma per ricaduta sui malcapitati nostri compaesani del ’500. E
poi si vuol far credere che i grandi eventi della storia non avessero incidenza
sulla villica popolazione racalmutese!
Secondo processo d’investitura
Ma non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è
costretto a rifare il giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta
un diploma rilasciato a Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere:
aveva tenuto saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré
anni, un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita
media di quel tempo.
Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome
spagnoleggiante, di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era
già deceduta: quoddam spectabilis Domina
Aldonsia, la si indica nel testamento.
Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto,
questa moglie di Giovanni III: quella era solo la nipote; lascerà un legato per
la costruzione della badia di Racalmuto, ed al contempo inguaierà fratello,
nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di “paraggio” che le
spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Nel 1375 la terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui
si possono attribuire non più di n.° 500
abitanti, elevabili a 600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono
Bertrando du Mazel, inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli
fuochi in cambio della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano
più di due chiese, fragili e malandate.
In piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose
erano notevolmente cambiate: la popolazione si era enormemente accresciuta.
Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento
racalmutese dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era
barone già da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
Ceti paganti
ceti esenti
evasori
totali
N.° Fuochi
896
0
90
986
Abitanti (fuochi * 3,53)
3.163
0
316
3479
Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitati del 1548 il salto
era stato rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale crescita
demografica; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate
condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti;
contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro
quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra
l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia,
tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c)
Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra la Fontana, il
castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere del Monte o
montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente
anche allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva
pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si
andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto)
scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti
(Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il
tributo raddoppiava: terraggio (quello infrafeudo) e terraggiolo (quello
extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli che
pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il particolare
al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte angherie comitali
cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello ucciso dal servo
arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di Vita.
Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni
III del Carretto
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì
eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò
suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso.
Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il
barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra
fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto
diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico
e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite
cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona
morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è
stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso
di disponibilità finanziaria e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta
economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali
banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure
relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro
guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare,
e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono
essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente
religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto
racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i
preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo
bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che
ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in
assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano ingerirsi nella gestione
economica, tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici
deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di
irreggimentare il tutto, ma con evidente scarso successo.
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