GIROLAMO II DEL CARRETTO
«Nella chiesa del Carmine c’è un massiccio sarcofago di
granito, due pantere rincagnate che lo sorreggono. Vi riposa "l’ill.mo don
Girolamo del Carretto, conte di questa terra di Regalpetra, che morì ucciso da
un servo a casa sua, il 6 maggio 1622.» Così esordisce Sciascia nelle sue
"parrocchie di Regalpetra". Con tali ricordi inizia la folgorante
carriera letteraria del più grande figlio di Racalmuto
A Leonardo Sciascia, Girolamo II del Carretto portò dunque
fortuna, lui che nella vita ne ebbe ben poca; lui che da morto resta ancora
vituperato, e non proprio a ragione.
Il famigerato padre, dopo una moglie sterile di Cerami, dopo
un’amante prolifica, ebbe a sposare, di là negli anni, la nobile Margherita
Tagliavia-Aragona attorno al 1596. Un solo figlio da questo matrimonio, appunto
Girolamo II, battezzato in Palermo il 28 ottobre 1597.
Giovanni IV del Carretto lasciò il figlioletto (l’unico
legittimo) di appena nove anni. Il ragazzino non riuscirà mai più a togliersi
di dosso l’anatema e l’ingiuria (cocu) di cui lo gratifica a distanza di oltre
tre secoli anche Sciascia. Girolamo II del Carretto viene raccolto fanciulletto
a Palermo e portato nel suo castello di Racalmuto, affidato alle cure (chissà
se affettuose) del fratellastro, il neo arciprete di Racalmuto don Vincenzo del
Carretto.
Non resistiamo neppure alla tentazione di spettegolare con
Sciascia (op. cit. pag. 16): «Il conte [Girolamo II del Carretto] stava
affacciato al balcone alto tra le due torri guardando le povere case
ammucchiate [invero non poteva, perché da lì le case non si vedono, n.d.r.] ai
piedi del castello quando il servo Antonio di Vita "facendoglisi da
presso, l’assassinò con un colpo d’armi da fuoco". Era un sicario, un
servo che si vendicava: o il suo gesto scaturiva da una più segreta e
sospettata vicenda? Donna Beatrice, vedova del conte, perdonò al servo Di Vita,
e lo nascose, affermando con più che cristiano buonsenso che "la morte del
servo non ritorna in vita il padrone". Comunque la sera di quel 6 maggio
1622, i regalpetresi certo mangiarono con la salvietta, come i contadini dicono
per esprimere solenne soddisfazione; appunto in casi come questi lo dicono,
quando violenta morte rovescia il loro nemico, o l’usuraio, o l’uomo investito
di ingiusta autorità.»
E nella Morte dell’Inquisitore (pag. 180): «Che un fondo di
verità sia in questa tradizione, riteniamo confermato dall’epilogo stesso del
racconto popolare, che dice il servo di Vita averla fatta franca grazie a donna
Beatrice, ventitreenne vedova del conte: la quale non solo perdonò al di Vita,
fermamente dicendo a chi voleva fare vendetta che la morte del servo non
ritorna in vita il padrone, ma lo liberò e lo nascose. Ora chiaramente traluce
ed arride, in questo epilogo, l’allusione a un conte del Carretto cornuto e
scoppettato...».
Purtroppo ci divertiamo meno, quando sacrilegamente lo
scrittore prosegue: «ma questa viene ad essere una specie di causa secondaria
della sua fine, principale restando quella del priore. Insomma: se non ci
fossero stati elementi reali a indicare il priore degli agostiniani come
mandante, volentieri il popolo avrebbe mosso il racconto dalle corna del conte.
Il priore non era certamente uno stinco di santo: ma quel colpo di scoppetta il
conte lo riceveva consacrato da un paese intero. Una memoria della fine del
’600 (oggi introvabile, [ma ora trovata dal Nalbone, n.d.r.], autore di una
buona storia del paese) dice della vessatoria pressione fiscale esercitata dal
del Carretto, e da don Girolamo II in modo particolarmente crudele e
brigantesco. Il terraggio ed il terraggiolo, che erano canoni e tasse
enfiteutiche, venivano applicati con pesantezza ed arbitrio...»
E’ ora disponibile una documentazione - quella del Fondo
Palagonia - che restituisce alla verità la faccenda del terraggio e del
terraggiolo pretesi dai del Carretto. Crediamo che queste non siano tasse enfiteutiche
o che sia inesatto definirle così. Erano diritti feudali spettanti al
baronaggio siciliano e legati al semplice fatto che contadini abitassero nella
terra del barone: dovevano al feudatario (di solito al suo arrendatario o
esattore delle imposte cui queste venivano concesse in soggiogazione) una certa
misura di frumento per ogni salma di terra coltivata nel feudo (terraggio) ed
un’altra (di solito doppia) per quella coltivata fuori dal feudo (terraggiolo).
A preti e conventi racalmutesi codesti gravami feudali non andavano giù ed essi
fecero cause memorabile (e secolari) per sottrarsi e sottrarre agli odiati
terraggio e terraggiolo. La spuntarono, come si disse, solo il 27 settembre
1787.
Invero il Tinebra Martorana ebbe tra le mani le carte feudali
del terraggio e del terraggiolo: gliele misero a disposizione i suoi protettori
i Tulumello, già baroni e maggiorenti del paese. Quel che il giovane vi capì è
riportato fideisticamente da Sciascia e cioè:
«Oltre alle numerose tasse e donativi e imposizioni feudali,
che gravavano sui poveri vassalli di Regalpetra, i suoi signori erano soliti
esigere, sin dal secolo XV, due tasse dette del terraggio e del terraggiolo
dagli abitanti delle campagne e dai borgesi. Questi balzelli i del Carretto
solevano esigere non solo da coloro che seminavano terre nel loro stato, benché
le possedessero come enfiteuti, e ne pagassero l'annuale censo, ma anche da
coloro che coltivassero terre non appartenenti alla contea, ma che avessero
loro abitazioni in Regalpetra. Ne avveniva dunque, che questi ultimi ne
dovevano pagare il censo, il terraggio e il terraggiolo a quel signore a cui
s'appartenevano le terre, ed inoltre il terraggio e il terraggiolo ai signori
del nostro comune... Già i borgesi di Regalpetra, forti nei loro diritti,
avevano intentata una lite contro quel signore feudale per ottenere
l'abolizione delle tasse arbitrarie. Il conte si adoperò presso alcuni di essi,
e finalmente si venne all'accordo, che i vassalli di Regalpetra dovevano
pagargli scudi trentaquattromila, e sarebbero stati in perpetuo liberi da quei
balzelli. Per autorizzazione del regio Tribunale, si riunirono allora in
consiglio i borgesi di Regalpetra, con facoltà di imporre al paese tutte le
tasse necessarie alla prelevazione di quella ingente somma. Le tasse furono
imposte, e ogni cosa andava per la buona via. Ma, allorché i regalpetresi
credevano redenta, pretio sanguinis, la loro libertà, ecco don Girolamo del
Carretto getta nella bilancia la spada di Brenno ... e trasgredendo ogni
accordo, calpestando ogni promessa e giuramento, continua ad esigere il
terraggio e il terraggiolo, e s'impadronisce inoltre di quelle nuove tasse».
Sciascia commenta: «Il documento riassunto dal Tinebra dice
che appunto durante la signoria di Girolamo II i borgesi di Racalmuto, che già
avevano mosso ricorso per l'abolizione delle tasse arbitrarie, subirono
gravissimo inganno: ché il conte simulò condiscendenza, si disse disposto ad
abolire quei balzelli per sempre; ma dietro versamento di una grossa somma,
esattamente trentaquattromila scudi. L'entità della somma, però, a noi fa
pensare che non si trattasse di un riscatto da certe tasse, ma del definitivo
riscatto del comune dal dominio baronale; del passaggio da terra baronale a
terra demaniale, reale.»
La ricostruzione sciasciana non ci convince molto. Un fatto
singolare si verificava frattanto a Racalmuto. Era diventato arciprete un
illegittimo, sia pure figlio di Giovanni IV del Carretto. Era quel don Vincenzo
del Carretto su cui si è già avuto modo di fornire taluni ragguagli. Anche lui
venne colpito dalla violenta morte del padre (5 di maggio 1608) e così aveva
raccolto il fratellastro novenne Girolamo II che per diritto ereditario era
divenuto novello conte di Racalmuto (la legge contemplava il maggiorascato, e
sarebbe toccato quindi a don Vincenzo essere conte, ma escludeva i figli
illegittimi. Non sappiamo come abbia accolta quell’infamante esclusione, quello
scorno a la faccia di lu munnu).
Don Vincenzo diviene comunque il tutore del conte minorenne:
nel 1609 pasticcia quell’infame accordo sul terraggio e terraggiolo che Tinebra
Martorana e Sciascia affibbiano al "vorace e brigantesco don Girolamo II
del Carretto", all’epoca uno smarrito bambino. Lo desumiamo da un diploma:
Sotto le quali convenzioni ed accordio detta università ed
il conte di detto stato hanno campato ed osservato per insino all’anno settima
indizione prox: pass: 1609, nel qual tempo detta università, e per essa li suoi
deputati eletti per publico consiglio a quest’effetto, ed il dottor Don
Vincenzo del Carretto Balio e Tutore di detto Don Geronimo, moderno conte
allora pupillo, con intervento e consenso del reverendissimo don Giovanni de
Torres Osorio, giudice della Regia Monarchia protettore sopraintendente di
detto pupillo e con la sua promissione di rato, devennero à novo accordio e
transazione in virtù di nuovo consiglio confirmato per il signor Vicerè e Regio
Patrimonio, per il quale promisero detti deputati à nome di detta università
pagare al detto conte don Geronimo scuti trentaquattromila infra quattro mesi,
e quelli depositarli nella tavola di Palermo per comprarne feghi ò rendite tuti
e sicuri, con l’intervento e consenso di detta Università, con diversi patti e
condizioni in cambio per l’integra soluzione e satisfazione di detti terraggi e
terraggioli dentro e fuora di detta terra e suo territorio, e per contra detto
tutore cessi lite alla detta exazione di detti terraggi, quali ci relasciò e
renunciò, essendoli prima pagata detta somma di scuti trentaquattromila,
promettendo non molestare più detti cittadini ed abitatori di detta università
di detti terraggi e terraggioli come più diffusamente appare per detto
contratto all’atti di notar Geronimo Liozzi [a.v.: Liezi] à 17 luglio settima
indizione 1609., confirmato per Sua Eccellenza e Regio Patrimonio
A porre una qualche attenzione alle date, abbiamo che Die 22
Junii VI Ind.is 1608 Don Vincenzo viene riconosciuto Arciprete (sia pure a metà
con quella specie di mitateri quale appare il vassallo don Paulino d’Asaro); il
successivo 17 luglio si sbilancia nella gestione delle sopraffazioni
feudatarie.
Investigando i processi d’investitura emerge che don
Vincenzo del Carretto esercita questa funzione tutoria sino al luglio del 1610.
Ma da questa data, quando il bambinello Girolamo II viene d’autorità - pare -
fidanzato a Beatrice figlia bambina del Ventimiglia, il tutore diviene il
futuro suocero del conte.
Beatrice del Carretto
Il Tinebra Martorana (pag. 125) vorrebbe Girolamo II sposato
ad una "certa Beatrice, di cui s’ignora il cognome". Niente di più
falso: di donna Beatrice sappiamo tanto. Non crediamo che finché si protrasse
il breve legame matrimoniale si sia indotta all’adulterio, come maliziosamente
insinua lo Sciascia. Da vedova, qualche leggerezza può averla commessa (ma noi
non lo diremo dinanzi a voi stelle pudiche.)
Sembra che dopo la morte del conte avvenuta il primo ( e non
il 6) maggio 1622, una rivolta popolare sia esplosa a Racalmuto: vi sarebbe
stato l’assalto al munito castello ed il popolino rivoltoso abbia fatto man
bassa di tutto. La giustizia - che pure era mera espressione dei del Carretto -
non fu in grado di far nulla e così alla giovane vedova ed a suo cognato,
tutore, non rimase nient’altro da fare che chiedere la comminatoria delle
canoniche sanzioni da parte della sede vacante del vescovado di Agrigento. Ne
avesse avuto sentore Leonardo Sciascia, crediamo che avrebbe più
succulentamente imbandita la tavola della "mangiata cu la salvietta"
dei racalmutesi nell’estate del 1622.
Poi, con gli anni, il terrore della morte ebbe a
sorprenderlo: si costruì una chiesetta (Itria) tutta per lui e la dotò. I suoi
eredi - nobili - dovettero corrispondere le rendite al cappellano di quella
chiesetta perlomeno sino 1902.
GLI ARCIPRETI DI RACALMUTO SOTTO GIROLAMO II DEL CARRETTO
Don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o
volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale
Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. () Secondo il prof.
Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro
paese:
1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber in quo a f. 1, n°. 11 come «D.
Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano
ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il
7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con
Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura,
fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f.
2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili a Racalmuto,
tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del
Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a
prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a nuovo
splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato
dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel
1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni;
finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per
eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete
della importante comunità ecclesiale di Racalmuto. Non ci sembra un prete molto
degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto,
dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta
intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno
giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima,
alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesetta dell’Itria,
può far sospettare ancor di più come può farlo assolvere: dipende dai punti di
vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto "balio
e tutore" dell’illustre conte, vede vedersela con le procedure della
successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da
approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa.
I processi di investitura che qui pubblichiamo mostrano una sfilza di rinvii a
richiesta appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è del 2 maggio 1609;
un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra
l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di
Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a
Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre
proroghe del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di
battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa
parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo
figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona
conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et
excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna
Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo
pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha
appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel
noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque
attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida
Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621,
la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del
terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi
alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato
sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609,
l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e
circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di
Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione
generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose
controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio
allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più
di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però
che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto
mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini
(Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che non vollero
essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora
di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via
fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di
ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto.
Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni
sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria
se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza
spumeggiamenti anticlericali.
In una memoria del 1738 , quando lo stato di Racalmuto era
stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e
del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto
avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del
territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra
coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di
ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa
tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la
misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di
terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima
specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si
ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano
sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre
1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal
terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di
Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo
studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del
terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il
giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra
Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e
separate: non interrelazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto
ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un
segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei
racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli
agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non
mancarono certo a Racalmuto.
Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia
pur superficiale lettura dei documenti rende incontrovertibili.
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