Dai rapporti episcopali emerge questo interessantissimo
quadro delle caratteristiche istituzioni e affiorano, sia pure con una fioca
luce, questi nostri antenati ([59]) :
· Luminaria del
Santissimo Corpo di Cristo, istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che
però essendo pressoché distrutta [v. op. cit. pag. 210] non era praticabile ed
al suo posto operava provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della
Gloriosa Vergine Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava
la detta luminaria sopra alcune case di Racalmuto, che erano costituite in 17
corpi di fabbricati, e che si solevano locare per circa otto once, con affitti
peraltro crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere
e curava i legati.
· Nella detta
ecclesiola vi era anche la confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1. Montana mastro
Paolo;
2. Cacciatore mastro
Paolo;
3. Santa Lucia
Cesare;
4. Vaccari Giovanni.
Avevano dodici once di reddito sopra diverse case che
appartenevano alla detta Confraternita, che si solevano locare per le stesse
dodici once.
*
Confraternita della chiesa di Santa Maria del Monte: ne erano rettori:
1. Cacciatore mastro
Pietro;
2. Vaccari Pietro;
3. de Agrò Mirardo;
4. Fanara Addario.
Erano al contempo
Governatori ed avevano quattro
once e venti tarì di reddito sopra diversi possedimenti terrieri.
· Confraternita di
Santa Maria di Gesù: ne erano rettori:
1. de Agrò Natale;
2. Vurchillino
(Borsellino) Antonino;
3. Murriali
Giuliano;
4. de Alaimo
Michele.
Erano al contempo
Governatori ed avevano dodici
corpi di case in Racalmuto che solevano locare per dieci once all’anno.
· Confraternita di
S. Giuliano: ne erano rettori:
1. Curto Angelo;
2. Lauricella
Andrea;
3. Curto Stefano;
4. Picuni Antonino.
Avevano una certa rendita. Fu loro imposto di esibire il
legittimo inventario, sotto pena d’interdetto.
Gli aridi inventari
episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione
critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle
chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di
S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla
prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è
fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla
fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il
culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu
vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel
1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta
in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei
beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù,
Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [60] Tre anni dopo, il
paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte del vescovo in persona, che vi si recò il giorno
11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene
fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse. ([61])
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don
Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco,
diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus
agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà
delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il
sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano
tutti i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet
dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata
quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo
ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo
arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio
della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco
(famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un
altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di
frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus
archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam
solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei,
exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto
percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22
di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui
48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente sarebbe ascesa
quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per
quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890
fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di
indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto
elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel
1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di
Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha
decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e
fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme
sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e
tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una
popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata
dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le
analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in
entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza
dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i
proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i
proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi
(“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata
dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della
Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per
prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia
di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle
primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25
frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius
misse quotidie» Ma tre anni dopo, il
vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e
quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum
pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa
sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene
ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia
[maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta,
ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.»
Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561
la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di
Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un
qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté
essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani
che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete
Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del
Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra
di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da
rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti
esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia
penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più
dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio
ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di
cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete
Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del
canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita.
Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi
racalmutesi senza interessarsi neppure alla chiesa che sorgeva accanto a quella
di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era
incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel
1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il
merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de
Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo
null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che
fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se
è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur
sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere
care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita,
era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia
Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che
al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano
corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non
risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di
giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi
diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di
Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi
edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e
completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il
vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione della
Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione.
Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i
confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che
vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto
vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino
della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale
tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è
ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle
primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543
si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2)
“Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo
sede di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa
adibita ormai al posto di quella Maggiore, a quanto pare fatiscente;
3) Chiesa di
Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di
santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di
Santa Margherita;
6) Chiesa di
San Giuliano;
Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa
della “NUNTIATA”
2) Chiesa di
Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di
Santa Margherita;
4) Chiesa di
“Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di
S. Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali
del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
· la Nunziata,
visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno
paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et
l’altra di damasco turchino vechia);
· Santa Maria di
Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
· Santa Margherita
sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano i
“avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S.
Giuliano non v’era nulla di vecchio.
Il testamento di don Giovanni III del Carretto
Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([62])
dettato flebilmente quando era già prossimo alla morte: a raccoglierlo è il
notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio.
L’inventario della vita del barone viene in qualche modo stilato.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto
spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di
Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello
della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio
ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo,
è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale
non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto),
ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di
Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso
spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del
medesimo”.
Ripete in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali,
procreatu da me e dalla condam Aldonsa
mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e
futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi
raggiuni e pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni,
frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri
animali, et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo
detto Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio
apparenti”.
Se si è avuta la pazienza di scorrere questa specie
d’inventario, si ha un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il Castello;
vi era una frotta di servitù e vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla
definitiva proprietà di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote
assegnata nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del pari il prefato signor testatore volle e diede mandato
che lo stesso spettabile D. Federico erede universale abbia e debba sopra la
restante eredità versare al signor don Girolamo del Carretto la somma
occorrente per le spese del funerale quale dovrà essere celebrato in relazione
alla qualità della persona dello stesso spettabile testatore sino alla somma di
once 100 da prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella cassaforte (in Arca)
del medesimo testatore ed essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare
communiter da entrambi gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del pari il prefato testatore istituisce suo erede
particolare il molto spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio
dilettissimo primogenito, legittimo e naturale nato dal medesimo Testatore e
dalla spettabile quondam Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la baronia
nonché i feudi della terra di Racalmuto con tutti ed ogni giusto diritto, con
le giurisdizioni civili e criminali, il mero e misto impero giusta la forma dei
privilegi ottenuti nella regia curia, con le prerogative sui feudi, sul Castello,
sugli stabili e con tutti gli altri diritti quali il terraggiolo, le gabelle ed
ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo del Carretto
suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta Baronia ogni
pretesa, azione, ed imposizione: gli competono altresì denaro, frumento, orzo,
servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti, nonché gli
animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento
esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che
seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel
castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et
mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro
dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt,
ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri
pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò
e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio
primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia affinché
voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo
vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da
chicchessia, e ciò per amore di nostro Signore Gesù Cristo e per quanto abbia
cara la salute dell’anima del testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo
peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e
Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità
liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla
corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di
Girolamo di far dire tante messe nel
convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una
Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito annuale
cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere:
crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per
spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto.
Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato
artefice ed ispiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I
del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne
un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del
sanbenito. Leggere il commento di Sciascia per la letteraria rievocazione
storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella
compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro
Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la
costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa
di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
1. donna Beatrice
del Carretto, moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello e di
Santo Stefano (150 once in contanti da prelevare dalle casse del castello);
2. donna Porzia del
Carretto, moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina con i
Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;
3. Suor Maria del
Carretto, dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa Caterina della felice città di Palermo. Oltre alla
dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello
venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente
alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed
ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis
Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis,
et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias
quinque, nec non relaxavit et relaxit
mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum
omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae inditionis pro Deo,
et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato buono Vassallo, et
Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le cinque once di parcella:
cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai censi, no. Francamente era
troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno
veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni
luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si celebrò in Palermo il 13 di
aprile del 1563 (tre anni dopo la morte ed il testamento di Giovanni III del
Carretto). Ebbe salva la vita, ma non i beni né l’onore. Impetra accoratamente:
«... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma nixuna
di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto [in
effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini
d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo
recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et
necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui,
o il ‘luterano’ notaio inventava?):
· 5 once al
venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;
· 5 once alla
venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
· 10 once al
venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
· 5 once alla
venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;
· 5 once alla
venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa
quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in
territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme
per la chiesa di San Giuliano
· 5 once alla
chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);
· 5 once in onore
del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i
tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico.
Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae
Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi,
et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis
spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis,
granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum,
et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali
come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una
sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà
feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone ha due consanguinee nel convento di Santo Spirito
di Agrigento: suor Scolastica e suor Giovanna Nudizzo. Se ne ricorda in punto
di morte stabilisce un legato di 5 once per ognuna di loro. Ne avrà avuto
preghiere ardenti.
Il barone ha un obbligo di coscienza: deve chiarire le
dubbie ascendenze di don Matteo del Carretto. «Item praefatus dominus Testator
- ha voglia di dichiarare - ad
instantiam Magnifici Domini Matthei de Carrectis, et Dominae Antoninae eius
filiae dixit et declaravit qualiter tempore vitae condam spectabilis Cesaris de
Carrectis audivit ab eodem domino Cesare, qualiter ipse dominus Cesar erat
filius Dominae condam Contissae de Valguarnera, cuius pater erat olim filius
dominorum Sigismondi, et Valentini de Valguarnera condam Cesaris [...]Unde ad instantiam dictorum Magnificorum Matthei et Antoninae Patris, et filiae pro
eis stipulantibus me notario publico, factum est praesens capitulum pro
exoneratione conscientiae jacens in lecto infirmus, confessus et contritus ut
dixit etc.»
Il barone resta, comunque, legato alla sua terra; vuole
essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San
Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede
era fervida): «Item elegit eius corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae
Terrae indutus ordinis ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.»
Ancora un ritorno alla beneficenza: «Item dictus dominus
Testator dixit et declaravit quod super bonis praedictis Petri de Cachertone
habet uncias duas censuales, annuales, et rendales. Ideo de eis legavit, et
legat Venerabili Conventui di lu Carmino unciam unam. et tt. sex [f. 56] pro
illis uncia una et tt. sex quos restabunt super eius bonis Sanctae La Lomia
quae bona voluit quod intelligantur, et sint de cetero dissobligata, restans
supradictorum reddituum ad complementum dictarum unciarum duarum relaxavit, et
relaxat heredibus dicti condam de Cachertone, quia fuerunt male impositae et
ita voluit, et mandavit.» Sembra una resipiscenza; un volere riparare nel
terrore della morte a malefatte, o almeno a qualcuna delle malefatte, delle
vessatorie imposizioni, degli arbitrii predatori.
Fiducia al prete De Leo, di cui abbiamo detto sopra: «Item
instituit in eius fideicommissarium et praesentis testamenti exequutorem
Reverendum D, Franciscum Deleo, Vicarium praedictae Terrae Racalmuti cum pacto
intradicto.» Come si vede, l’arciprete non è neppure considerato: era un
burocrate in abito talare; a Racalmuto era presente solo per riscuotere.
La chiusa del testamento è rituale, con i testi e la firma,
con l’indicazione del notaio redigente: Testes sunt hij Videlicet Ego frater
Sigismundus de Agrigento testor; Ego Antoninus de Russis U.J. Doctor interfui
et testor; Ego Sacerdos de Leo interfui, et testor; Ego Marcus Piemontisius
interfui, et testor; Ego Vincentius Damianus interfui, et testor; Ego Mattheus
Damianus interfui, et testor.
Ex actis condam Jacobi Damiano copia per me notarium
Michaelem Angelum Vaccaro notario Racalmuti dictorum et aliorum act.
conservatorem generalem. - Coll. Salv. .
Il processo d’investitura del successore Girolamo I del
Carretto ci attesta che in gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò
effettivamente di vivere; morì in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa
di San Francesco.
GIROLAMO I DEL CARRETTO
Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive
quello che fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op.
cit.):
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni,
dunque ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a
Filippo II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che
la famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di
Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro
Girolamo fosse chiamato ed avesse in
quel tempo il titolo di conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire
avrebbe amplificato la gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior
risalto.
« Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il
titolo di conte, sono da riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28
giugno 5 ind. 1577 e recitano: “Filippo etc. A tutti quanti etc. Avendo lo
spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei marchesi di Savona
documentato l’insigne virtù non
disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato i tanti
servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai del
Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo considerato
l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non soltanto in
questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso titolo resa
celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri uomini della
medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e altissime
dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati verso il
lodato D. Girolamo Carretto etc.”
«Noto è per di più
quanto l’imperatore Rodolfo fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la
lettera del padre, l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si
gratificasse Girolamo con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della
lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che negli anni
scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro colendissimo di
augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere in favore del
fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto barone in Racalmuto
dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente si pregava la
Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i suoi
discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero
fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la
detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella
baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò in D. Girolamo la
speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il titolo di marchese.
Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte in Rachalmuto
umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto che egli
discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha origini
antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per cui così alla fine egregiamente concluse
l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la Serenità vostra
affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite prerogative,
rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la nostra
intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro, ci
tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio
1580.»
Siffatto pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La
baronia “rachalmutana” di cui si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di
un grado e divenne contea, ma marchesato giammai. Diociotto anni dopo, nel
1598, i del Carretto tornarono alla carica, ma invano. Il Baronio infatti
prosegue:
«Esiste un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra
l’altro vi si diceva: “Antica e regale è la famiglia dei del Carretto che è
stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta ai nostri
Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte di
Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di nostro
padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra benevolenza e
volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che possa
accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da quanto sopra è
ben chiaro che Girolamo e la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto
dagli imperatori come le citate missive, altri documenti che non ho citato ed
autorevoli testimoni ampiamente
comprovano.»
Le note del Baronio rendono invece a noi chiaro che i del
Carretto, giunti all’apice della ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero
il largo e andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà
aveva solo l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli immigrati del
Carretto, il titolo di barone suonava stretto: si prodigarono in regalie,
bussarono a varie porte regali, impetrarono favori, ma non riuscirono a
superare la soglia del titolo comitale.
Il Villabianca lesse il Baronio e vi si ispirò quando
redisse questo profilo sul nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte di
Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per privilegio del
serenissimo Rè Filippo Secondo, dato
nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576,( [63]) esecutoriato in
Palermo a 28 Giugno 1577. ( [64]) Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 ( [65]),
e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente
l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il lodevolissimo
governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento. Presiedette
altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel 1549., e adorno
videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con le sue
Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per
extensum da BARONE loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu
dato al mondo [p. 205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto di questo nome. il quale
fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo nel 1600. ( [66]) di non
minor merito di quello del genitore come vuole il citato DI GIOVANNI
nell’istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu egli dotato di tanta
prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol carriera di reggere gli affari
pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e magnati suoi
contemporanei.»
Sciascia dileggia questo nostro barone assurto al rango di
conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande racalmutese ( [67]) - fu
invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui Filippo II
datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un privilegio che
elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non sappiamo
molto: fu pretore a Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione seu
presunzione”, come invece afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani
contro la sua autorità. Né mi pare che sia da ascrivere a sua gloria il fatto
che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento,
trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza
commento offre il già ricordato erudito regalpetrese [alias il Tinebra,
n.d.r.]». Tutto bene, salvo il fatto che nel 1600 Girolamo primo del Carretto
era già morto da diciotto anni. L’abbaglio nasce da imprecise letture da parte
del Tinebra dell’opera del Villabianca.
Dai processi ricaviamo questi dati biografici. Girolamo I
del Carretto fu il primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento
redatto dal notaio Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560
Girolamo s’insedia quale barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo
procuratore, il magnifico Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita che il
barone prese “l’attuale, vera, naturale, corporale baronia del castello, dei
feudi e del territorio di Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero
e misto impero, con le giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato,
risultato integro giusta la forma dei privilegi baronali”. Il procuratore
rispetta il meticoloso ed emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone
del castello; di propria mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si
reca presso i feudi; ne prende alcune pietre in segno di libera disponibilità
di quelle terre; revoca e rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano
nella persona del nobile Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di
Giovanni Piamontesi; il giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i
giurati nelle persone di Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo
Caravello; il maestro notaio nella persona del nobile Innocenzo de Puma”. Viene
redatto pubblico atto. I testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino
de Averna, l’onorabile Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de
Pitrozella. Il notaio è ancora il povero Jacopo Damiano che però si dichiara
agrigentino.
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono
ancora i processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime volontà
dinanzi il notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il
testamento fu aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella
chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella
data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina
del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto
casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno più a
Racalmuto: quella lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per
approvvigionare di fondi questi nobili accasatisi a Palermo. Nel castello
racalmutese siede e dispone un ‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato
neppure un atto che attesti la presenza del barone ora conte di Racalmuto,
magari come padrino in un qualche battesimo. Qualche membro dei rami cadetti,
sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo Girolamo II del Carretto per
venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel 1622.
In altra parte del presente lavoro pubblichiamo il
privilegio di Filippo II che erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue
formule da cui non riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria
locale. Non abbiamo qui note in
proposito da proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei del Carretto è
cosa che solo di striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della
città di Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su
Racalmuto a seguito della concessione dell’onore di farne una contea da parte
di Filippo II a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci
furono e gravi. Una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone fra le carte del fondo
Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di rinvenire
documenti di quel tempo, estremamente significativi per la riesumazione delle
vicende vessatorie cui sottostarono i nostri antenati racalmutesi del
Cinquecento.
Peste e tasse a Racalmuto
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai
danni dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità
viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto quella immane
pestilenza che colpì l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo scenario
racalmutese: leggiamo nel carteggio che «per lo contaggio del morbo che in
quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a
Racalmuto] restano solamente ... due
mila e quattrocento delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e
rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279 abitanti;
ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che sinora nessuno
era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del
terraggiolo [Morte dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo crollo
demografico di Racalmuto prima della consultazione dei documenti del Fondo
Palagonia. Ancor oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu
un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della
peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri antichi
progenitori parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano intento di
intenerire gli agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del viceré don
Carlo d’Aragona e della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non
se ne diedero per intesi. Le “tande” - o più graziosamente “donativi” -
andavano pagate sino all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna.
Ed andavano pagate anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente
perorazione dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della terra di
Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di quella
Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per donativi
ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti per il
Regno à Sua Maestà, come per le tande
della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del morbo
che in quella s’hanno ritrovato ...
, à vostra Eccellenza l’esponenti hanno
supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta università deve
alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università fossero devenute
[condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione
(provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non conviene”.
La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una gretta
questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene alle
esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un
localismo, il nostro, quello di Racalmuto,
che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che
isola nell’isola ..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il
loro fato e fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] “per lo chi attendo
[attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra Eccellenza
provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti
per li Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città
per l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo
alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et
interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di
poter fare eligere persona facultosa, poiche pochi vi sono in detta Terra di
poter vedere augumentare, e raddoppiare alcune delle gabelle di detta
università, e fare quel tanto che per consiglio si concluderà, acciò potersi
sodisfare nullo preiudicio generato ad essa università circa detta
diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta Terra
per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra
Eccellenza sia quello mezzo che si
concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli
dilattione almeno di mesi due, altrimente stando assentati non potriano
effettuare cosa alcuna e detta Regia Corte non verria ad esser sodisfatta ne
tenendo detta università modo alcuno di sodisfare, ne tener altro patrimonio ut
Altissimus. ..”»
La messa in mora
della locale amministrazione per ritardo nel versamento delle tande
sulla macina scatena dunque la cupidigia di commissari palermitani
sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad esigere, oltre alle imposte,
pingui “giornate” (le attuali diarie per missioni) e ad aggravare le esauste
finanze locali «con eccessivi danni ed
interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di
dilazione per trovare un sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il
cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente
autorità viceregia detta una serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo
delle procedure per un nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza
racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando
istituti, costumi, organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo
dell’epoca moderna. Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente
messa in luce dalla cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che
non può ridursi al mero dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri
fiscali) ma che fa trasparire una vocazione democratica impensata. Per
sopperire alle necessità tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune
libero, democraticamente organato, con una sua assise plebiscitaria, avente
poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale,
ma è ordine volto ad attivare le istituzioni democratiche comunali. Con
aperture sociali che gli attuali consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è
il popolo che viene chiamato a raccolta, è il popolo che decide sui propri
ineludibili gravami tributari, ovviamente sotto la guida e la direzione di
quella che oggi chiameremmo la giunta comunale: la giurazia.
Affascinano questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che debbiate in giorno di festa e
sono di campana come è di costume congregare il vostro solito consiglio sopra
le cose contenute nel preinserto memoriale, e quello che per detto conseglio
seù maggior parte di quello sarà concluso, et accordato, e sigillato lo
trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò di quello fattone
relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi 11. Martij 5^ ind.
1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus ... conservatore [f. 229] Marianus Magister
Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de Aurello Magister
Notarius, ..»
Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata
- che anche allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene
operante a Racalmuto - ed abbiamo anche
il verbale consiliare che mi pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti
essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind. 1577.
Die festivo Supradicti Martij in Ecclesia Sanctae Mariae
Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea publica.=
Perche ritrovandosi l’università di questa Terra di
Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte
è stato supplicato da parte di detta Università per li
Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti debiti se li concedesse
dilatione competente per potersi ritrovare il modo di quelle sodisfare, et in
quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto offerta à Sua Maestà, et
ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone di tutte città, e terre
del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino [f. 230] che per il
ripartimento e numero di persone che allora vi erano in detta terra tocca à
detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia detta Università non si vederà
libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra volta à Sua Eccellenza
che resti servita concederli potestà di poter eligere persone facultose, ò
vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle di detta Università,
e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere acciò si potesse
detta Università liberare di tal debito et interesse nullo prejudicio generato
à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che se li deve fare per
detta Regia Corte stante le raggioni predette come si contiene per memoriale
alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et essendo stato provisto per la
prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real Patrimonio che si congregasse sopra
le cose contente in detto memoriale consiglio, e quello si trasmettesse per
poter provvedere come convenisse, per ciò s’ha devenuto alla congregatione del
presente consiglio come intesa la presente proposta habbiano sopra le cose
prenominate ogn’uno possi liberamente dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo uno delli Magnifici Giurati
di detta Terra, e locotenente del Magnifico Capitano di quella, è di voto, e parere
che s’aggiongano onze quaranta di rendita da pagarsi quolibet anno come meglio
e per manco interesse di detta Università si potrà accordare con quelle persone
che vorranno attendere à tal compra di rendita,
E pertanto
le gabelle ... averanno da raddoppiare, et accrescere
sopra le quali s’haverà d’imponere il novo imposto il quale
sarà per il corpo, e capitale della detta rendita
E prima sopra la gabella del vino
[f. 233] Sopra la gabella dello Pani, fogli, fiori, e frutti
virdi, e sicchi,
Sopra la gabella delli panni, arbascie, cannavazzi, e cordi
Sopra la gabella dello linu cànnavu (canapo), ferro, e ramo
rustico, e lavorato, e legname d’ogni sorte rustica, e lavorata
Sopra la gabella delli Pisci, e Salsizzi,
Sopra la gabella delli Pani, formaggi, cascavalli, Meli, e
cera
.
Per le quali gabelle, e loro pagamenti s’haveranno da fare
li capitoli per li Magnifici Jurati, e con l’impositione delle pene solite come
sono l’altri capitoli.
Il Magnifico Jacobo Piamontese Giurato è del sopra parere.
Il Magnifico Jacobo Sciurtino ut supra.
Il Magnifico Signor Giovanni Artale Tudisco ut supra.
Il Magnifico Giuseppe d’Ugo ut supra.
Petro Barberi ut supra.
Martino Rizzo ut supra.
Magistro Antonio Vulpi ut supra.
Il Mastro Notaro Giovan Vito d’Amella è di parere come di
sopra, et si, et quatenus lo raddoppiamento raccrescimento che si farà alli
gabelli predette non bastassero per la sodisfatione di quello che si deve alla
Regia Corte quolibet anno, e per la soggiugatione che si farà quod utique dette
gabelle s’habbiano da aggumentare, e raddoppiare, et accrescere, tante volte,
quante sarà f. 235] di bisogno in modo
che si complisca il pagamento predetto, e che s’habbiano d’imporre altre
gabelle essendo di bisogno in modo che detta Università non venghi a pagare al
minuto, e per tassa, e che si debbia fare thesaureri persona sicura, d’eligersi
per li giurati quolibet anno per li
pagamenti predetti e suoi spisi, con salario d’onze vinti l’anno il quale
s’habbia d’obligare nomine proprio et à fare li pagamenti predetti con li
debiti cauteli per atto publico come à detti Giurati parerà.
* *
*
Per inciso, richiamiamo l’attenzione sul menzionato giurato
racalmutese del 1577 Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente della
giurazia. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse
appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe
oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa
genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo era invece
figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando al nostro tema del carteggio del 1577, resta
evidente che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio
democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da
quello del sorgere dello stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare
alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il
ricorso al voto cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta
nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita
nel centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si
allargava nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si
riversava nell’attuale Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sorgono i
palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con quello che l’ex voto del Monte ci fa
intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di
Racalmuto dello secolo XX di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati sulle
case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza
dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle
menti più elette del nostro paese come
dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa
vicenda fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè
che oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora
per Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di
Agrigento, tal Caputo, superriverito ed adulato dal pubblico notaio.
Popolazione racalmutese nel 1577
Sembra opportuno tracciare il grafico della popolazione di
Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio del 1577.
La curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500
si avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576, e così
si dispiega:
Il crollo demografico del 1576, come si vede, sembra
irreversibile (anche se fu dovuto
più alla fuga che alla morte dei racalmutesi: i superstiti quindi ebbero
poi modo di ritornare nelle loro case di paese, lasciando - riteniamo - quelle
di campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un secolo) per risalire a quota
5.165 e solo nel 1660 la popolazione supererà quella del 1570 assestandosi a
quota 5488.
Quanto alle finanze locali, la crisi del 1577 fu in qualche
modo tamponata; il bilancio comunale toccherà nel 1593 un disavanzo di appena
28 onze, un tarì e quattro grani (460 onze
d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana quattro d’esito). La forte
pressione fiscale - tutta basata sulle imposte indirette - portarono ad una
asfissiante strozzatura dei consumi da parte dei poveri. I proventi dalle
rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché nulli: pane, foglie, pilo, vino,
formaggio, legname, pesci e qualche altra voce diedero un gettito tributario
che si volatizzò essenzialmente per le spese militari e per oltre la metà per
ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo imprecisato. Per di più si pagavano sei onze annue per “tande”.
--------------------------------------------------------------------------------
[1] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al
XIX secolo, Bari 1977, pag. 10 e segg.
[2] ) ibidem, pag. 18.
[3] ) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio
della dominazione spagnola - Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[4] ) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia -
Appunti e documenti - Palermo 1891, pag. 14.
[5] ) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit.,
pag. 176.
[6] ) I. Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag.
235.
[7] ) J. Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano
relativi alla collettoria di Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della
Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246
e ss.
[8]) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella
Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[9] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella
Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[10] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella
Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121.
[11] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e
moderna - Bari 1972, vol. I pag. 115.
[12] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e
moderna - Bari 1972, vol. I pag. 116.
[13]) Il toponimo è presente negli atti notarili per lo meno
dal 1714: non può quindi riferirsi a nessuna Baronessa Tulumello.
[14]) Archivio Parrocchiale della Matrice di Racalmuto - LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per
conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto, incominciando dalli 29
di novembre 8a Ind. 1654 et infra -D. Lucio Sferrazza - Vol. I “Esito n.° 7
dell’11/12/1658”.
[15] ) ÇURITA
GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO REYNO:
ANALES DE LA CORONA DE ARAGON - ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales -
Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
[16]) D. Francisci Baronii ac Manfredi - De Maiestate
Panormitana libi IV - Panormi apud Alphonsum de Isola - MDCXXX.
[17] ) Henri Bresc, Un monde, op. cit. pag. 869.
[18]) Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in
Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto
1991, pag. 21 e segg.
[19]) Leonardo Sciascia, Morte dell'inquisitore - Bari 1982,
pag. 182.
[20]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[21]) F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - PARTE
II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA]
[22]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[23]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 181.
[24]) Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei
feudi maggiori - op. cit. - pag. 526 e segg.
[25]) G.L. Barberi aveva conseguito la nomina a Maestro Notaro
della Cancelleria nel 1491.
[26]) Francesco San Martino de Spucches, La storia dei feudi
e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1925).
Lavoro compilato su documenti ed atti ufficiali e legali. - Volume sesto, Palermo
1929 - quadro 783 - Conte di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[27]) Vincenzo di Giovanni, Palermo restaurato. Citiamo
dalla edizione di Sellerio editore Palermo - 1989 - pag. 191. Evidentemente
questa parte del manoscritto che viene datato 1627 era stata scritta prima del
maggio 1622, epoca della morte (o omicidio) di Girolamo II Del Carretto.
[28]) Vito Maria
Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi secundi pars altera,
Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma pos. 1.24.C. 19/24]
[29]) F. M. Emanueli e Gaetani - Della Sicilia Nobile -
parte IV - Forni Editore [copia anastatica dell'edizione Palermo 1759 - Parte
II, libro IV, pag. 199 e segg.]
[30]) Anche se non l'artefice primo della fantasiosa baronia
racalmutese dei Barrese, il Villabianca è responsabile degli abbagli storici
degli ereduti di Racalmuto - a cominciare dal padre Bonaventura Caruselli da
Lucca [Sicula], non proprio indigeno, dunque, ma pur sempre autore principe del
racconto della 'venuta' della Madonna del Monte.
[31]) F. TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS
SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS
INDEX LOCUPLETISSIMUS - Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione.
Typis excudebant, Ioannes Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta
via, quae ducis ad Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense
iunio. [Biblioteca Nazionale - manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese
(origine e genealogia) pag. 592 - De rebus .. posterioris decadis liber nonus -
cap. Nonum.
[32]) Archivio Segreto
Vaticano - SACRA CONGREGAZIONE VESCOVI E REGOLARI - Anno 1599 - pos. C-L
[33]) D. Francisci Baronii ac Manfredis - De Majestate
Panormitana libri IV - Panormi apud Alphonsum de Isola - MDCXXX - [Biblioteca
Nazionale V.E. - Roma - 7.4.L.31.]
[34]) Filadelfio Mugnos, Teatro genealogico delle famiglie
nobili, titolate, feudatarie ed antiche del fedelissimo regno di Sicilia,
viventi ed estinte, 3 volumi, Palermo 1647, 1655; Messina 1670. [Dalla ristampa
anastatica di Arnoldo Forni editore, pagg. 237-240 del Libro I].
[35]) D. Agostino Inveges - Palermo antico - Palermo 1649 e
D. Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da Sciacca - Anno 1660. - La
Cartagine Siciliana, historia in due libri, pubblicata in Palermo, nella
typograph. di Giuseppi Bisagni. 1661.
[36]) Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e
del commercio nel medio evo - Girgenti porto del sale e del grano - in
Antichità ed alto Medioevo, Studi in onore di A. Fanfani, I - Giuffrè Editore
Milano 1962, pag. 607.
[37]) L'Inveges ci informa a pag. 159 che Marchisia Prefolio
«si morì carica d'anni ... nella stessa Città di Giorgenti circa l'anno 1300,
si sepellì nella Maggior Chiesa della medesima città con pompa di marmorea
urna; ove in terra piana anche fù sepellito Federico Chiaramonte suo figlio
loco depositi con ordine; che ivi si fabricasse una Cappella; & ogni dì si
celebrasse una Messa; come appare per lo [pag. 160] testamento 1 [nota 1: In
Tab. Conventus S. Dominici Agrig.] celebrato in Girgenti anno Dominicae Incarnationis
1311, Mense Decembris 27. Indict. 10. regnante Serenissimo Domino N. Domino
Friderico III. Rege anno sui regiminis 16.
[38]) Citiamo sempre da La Cartagine Siciliana (pag. 228 e
ss.): Venne Costanza per la morte di
Federico padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e dal
suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò libera
e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229]
atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale
insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto possede.
[39]) Diario della città di Palermo dai mss. di Filippo
Paruta e Niccolò Palmerino - in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al
XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag.
136.
[40]) Varie cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia,
copiate da un libro scritto da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari della città di
Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I -
Palermo 1869 pag. 283.
[41]) Aggiunte al diario di Filippo Paruta e di Nicolò
Palmerino, da un manoscritto miscellanio segn. Qq C 28 in Diari della città di
Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. II -
Palermo 1869, pag. 24 e ss.
[42]) Diario delle cose occorse nella città di Palermo e nel
regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto dal dottor D.
Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della Biblioteca Comunale ai segni
Qq C 64 a e Qq A 6, 7 e 8, in Diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo,
Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
[43] ) Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo
trecentesimo XCVIIII die primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex
mandat m. Jacobo de Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO - PALERMO -
RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[44] ) ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA -
BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[45] ) Noi utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo
Palagonia volume 630.
[46] ) Rosario Gregorio fu storico e paleografo di grandi
meriti: non si riesce a capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune
denigrazioni contenute nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico
Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale a parte, fisicamente antipatico:
gracile ma con una faccia da uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un
bitorzolo sulla giancia sinistra, i capelli radi che gli scendevano sul collo,
sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una freddezza, una quiete, da cui
raramente usciva con un gesto reciso
delle mani spesse e corte. Trasudava sicurezza, rigore, metodo,
pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano tutti soggezione.» (Op. cit. edizione
Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[47] ) MUSCIA, Sicilia Nobile, pag. 72
[48] ) Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di
Re Martino in Sicilia - Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[49]) vedi anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO
REGNO - SERIE INVESTITURE N. 1482 -
PROC. 21 - ANNO 1452.
[50] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Libro dei Vescovi
1512-20 - f. 284v 285r
[51] ) Giuseppe Sorge - Mussomeli, dall’origine
all’abolizione della feudalità, edizioni ristampe siciliane Palermo 1982 - vol
I - pag. 386 e segg.
[52] ) Il conto venne presentato in Palermo il 18 maggio
1502. “Presentete Pan. 18: Maij 1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta
p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[53] ) Giuseppe Nalbone e Calogero Taverna, Racalmuto in
Microsoft - dattiloscritto 1995 c/o Biblioteca Comunale di Racalmuto.
[54]) Leonardo Sciascia, Le parrocchie di regalpetra - Morte dell’Inquisitore - Laterza Bari 1982
pag. 82 e pag. 83.
[55]) Girolamo M.
Morreale, S.J. - Maria SS. del Monte di Racalmuto - Racalmuto 1986, pag. 35.
[56] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Registro Vescovi
1686 - f. 785.
[57]) Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro Regno -
Investiture - busta 1487 processo n.° 1175 - anno 1518-21 (Foto 13/b del retro
infra pubblicata).
[58] ) Archivio di Stato di Palermo: PROTONOTARO REGNO
INVESTITURE - BUSTA 1487 - PROCESSO n.°
1175 - ANNO 1518-21
[59]) Fontana Rosa (tesi di laurea) - Relatore: prof. Paolo
Collura - La visita pastorale di Mons. Pietro di Tagliavia e d’Aragona - Parte
II (A. 1542-43) - Università degli Studi di Palermo - facoltà di Lettere e
Filosofia - Anno Accademico 1981-82 - pag. 206-218.
[60]) ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO -
"GIULIANA" - VISITA- DEL 1540
- f. 196 v - 198v.
[61]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA
E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana,
relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di
lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato
nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO -
"GIULIANA" - VISITA 1542-43 -
colonne 190v-193v.
[62] ) Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti
privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r - 56v.
[63] ) (a) [Pirri, Sic. Sacr. Agrig. f. 758, c. 1]
[64] ) (b)
[R. Cancell. ann. 1577. f. 476]
[65] ) (a) [DI GIOVANNI, Palermo Ristor. lib. 4. f. 242
retr.]
[66] ) (a) [Lapidi Senatorie che si veggono a porta di
VICARI, e porta di MACQUEDA]
[67] ) Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra -
Morte dell’Inquisitore, Bari 1982, pag. 17
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