LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni
del Carretto, figlio di Matteo, di quell’avventuriero, cioè che si era
arrabattato alla fine del secolo
precedente. Henri Bresc vorrebbe questo Giovanni del Carretto come un
disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi risulta il
contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale. Appare come creditore
dei Martino, acquirente di quote di feudi in quel di Mussomeli, ma lo storico
francese è perentorio: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la
courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse oblige
à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du
patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et
de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des
seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie
de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de
Siculiana.»
Di questa espoliazione della baronia di Racalmuto a favore
di Gispert d’Isfar, non trovasi riscontro alcuno nell’altra pubblicistica di
nostra conoscenza. Il Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ([16]) sembra
escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non spregevole latinista,
addentro di sicuro alle segrete cose dei del Carretto, è smaccatamente
elogiativo per dargli eccessivo credito. Comunque, l’interruzione della baronia
dal 1422 al 1453 non viene neppure sospettata. Così è anche in una lunga
comparsa giudiziale della fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo
del Carretto.
Gibert Isfar avrebbe sposato una figlia di Giovanni I del
Carretto nel 1418 ([17]); il personaggio è arrogante, intraprendente, si dà
all’usura, sa farsi nominare mastro portolano. Il Bresc è prodigo di notizie
sul suo conto. Tra l’altro, compra per 10.000 fiorini la castellanìa e la
“secrezia” di Sciacca (Bresc, op. cit. pag. 857); opera a tassi usurari del 7%
(ibidem pag. 859); è bene insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto
riesce a farsi nominare feudatario di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per
ripopolarlo (ibidem pag. 895; ASO Canc. 65, f. 42).
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di
Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata
l’investitura stando agli atti del
protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza
religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune
criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno
1474.
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della
Madonna del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto.
Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere
venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della
potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul
concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole
Del Carretto. Gli contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di
Racalmuto è costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli
nobiliari presso la corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta -
oggi si direbbe: traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette
essere espoliativa. In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo
gastrico delle opere di religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una
statua di marmo della Madonna fu certamente fatta venire da Palermo -
genericamente si dice dalla scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un
altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva.
Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne
scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire
sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere,
intenda.
PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in un paio di pagine sono godibili le riflessioni
terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([18]) su tutta la storia racalmutese.
Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora
vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese,
'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ...
dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che
Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un
prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore,
di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli,
vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni
altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace
'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e
a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere
un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e
rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche
traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi ci accingiamo ugualmente a
scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo
negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano;
da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte,
documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la
proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a
superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli
eruditi locali con topiche ed errori, spesso con “visionarietà romantica”:
correggerli alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure
rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli:
consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo
dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla:
è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
* * *
Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta
letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia
(vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il
vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella signoria
feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine
dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce,
così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono
da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
1. Il
'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una
congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([19]) è
inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo
era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello
che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui
il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V,
la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo III. Costui, finché
subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte
di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu prossimo
ai cinquant'anni, forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero
di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone
Giovanni III Del Carretto ed intentando
contro di lui, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva
costargli una scottante scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del
Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori,
facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto
il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con
la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV
([20]), dunque, non è mai esistito.
2. Giovanni V Del Carretto non "contrasse parentado con
Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come
vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([21]) - il Tinebra-Martorana,
riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era la madre ed era
proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio del 1622 sarebbe stato perpetrato insieme "al
priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([22]).
3. Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile
della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del terraggiolo, «canoni e
tasse enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo
particolarmente crudele e brigantesco» ([23]) dal conte in parola, è forzatura
storica. Il terraggiolo fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di
Racalmuto osteggiata sin dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel
1580 il neo-conte Girolamo I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per
i titoli altisonanti - quello di conte riesce a conseguirlo, quello di
marchese, no -, trova giurati compiacenti ed ordisce una 'transazione
consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo II è appena dodicenne, il suo tutore
architetta con i maggiorenti di Racalmuto una furbata che verrà poi del tutto
cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con una donazione una
tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli
effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I
fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo del
7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non dovessero
il terraggiolo (e cioè due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata
in feudi diversi da quello di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la
fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si
ritornò all'antico regime sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di
Polizzi fondava il convento degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San
Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive il Pirro. Che ragione avesse
poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa gratitudine in rancore
omicida non può spiegarsi con la stravagante tradizione riportata dal Tinebra.
A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla primissima fase. Passò
quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta probabilità non mise più
piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente puntuali per quel periodo,
giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si
chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del
Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di vita 'appena descrivibile', si tratta pur
sempre della storia di Racalmuto.
* * *
Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è
reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI, il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce
in una maligna stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto
in capo alla rampante famiglia d'origine ligure.
Solo in una circostanza ha ragione da vendere il
Barberi e cioè quando contesta
l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del
Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito,
peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né
vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del Carretto né
del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente
annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive,
dopo il 1519, quel diligente burocrate sull'origine e sui primi sviluppi
dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo
che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una
terra feudale racalmutese in mano a Federico II
Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato
che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto,
il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi
al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de
communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore
Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo
per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento,
nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana
(Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la
ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di
striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([24]) aveva così ricostruito,
sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento ed il
consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo
castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era
un tempo posseduta dal condam Antonio del Carretto.
Morto costui, doveva
succedere nella stessa terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che
però vendette definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra
e su tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti che
aveva e poteva avere per ragione di
successione e di eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché
quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna
Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo
suo fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ...
al condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del
predetto Gerardo.
Il condam Matteo del
Carretto, marchese di Savona, acquista i predetti beni e diritti dal fratello Gerardo, per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel
pubblico strumento celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in
data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato
dal signor Re Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi
eredi e successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tale conferma
dato in Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto
anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma
della detta terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli
cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti
che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o
diritto, ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71.
Sennonché il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore.
Furono così devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine,
nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e
l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con
revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui
emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel
libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
E morto Matteo, gli
successe nella detta terra Giovanni del Carretto [I], suo figlio ed erede, che
ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta terra in un diploma ove risultano inseriti i
predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto condam Matteo
per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto re dato in
Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria nel
medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni,
successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale,
il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano
l'investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del
consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle
costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui
beni demaniali, come risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato
Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo figlio, il quale, come
appare dall'ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura
della detta terra.
Morto il detto
Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e
maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna
ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con
un reddito annuo superiore ad once 700.
E morto il detto
Ercole successe nella detta terra Giovanni del Carretto [III], suo figlio,
primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta terra
tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re
Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518
VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il padre non avesse preso l'investitura e reso
l'omaggio entro l'anno della morte del
proprio genitore. ([25])
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare
come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a
Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei,
nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come dante
causa per ragione di successione e di
eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene
rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di
constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel
dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo
marchese di Savona Matteo Del Carretto, titolo che la cancelleria di Martino
riserba a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo che in ogni caso era una mera
millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei veri marchesi di
Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono preziosi per la ricognizione critica
dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi, lungo il
secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un punto, poi,
l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa abbiamo la
ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra Federico e
Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che meno fonti
coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo per
tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di
padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino
de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925,
aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre
quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di
Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo
fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi
Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).» ([26])
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627.
Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni
II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente
rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI
secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a
Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni;
a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D.
Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([27]) Il Di Giovanni, invero, uno
svarione l'aveva commesso a proposito della successione di Matteo Del Carretto,
quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il nipote Federico. Tanto non
doveva essere bastevole per indurre il San Martino De Spucches alla topica
dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque, anche qui provvidenziale,
consentendoci di non lasciarci disorientare da pur eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a
questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è
consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette di
seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso
Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519
che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad
Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il
vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche
ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito
dire e Dio sa quanto menzogneri fossero
quei nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come
l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon
conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale fede.
Il Fazello, restando nell'ambito della storiografia feudale
del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero
apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto.
Il colto storico è involontario protagonista (in negativo) nella ricostruzione
della storia di Racalmuto per avere
ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita
Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto
costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse
accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il
Fazello, però, è del tutto incolpevole.
Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito Amico([28]) ed il
Villabianca, quello della Sicilia Nobile([29])
- su un'evidente distorsione di
un passo dell'opera dello storico di Sciacca. ([30]) Questi, parlando dei
Barresi, aveva scritto ([31]): Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva
ricevuto da Re Ruggero l'investitura di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando,
Castania e molti altri "oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra
quegli oppidula doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati
eruditi del Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora
dagli storici locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto
le vicende di quella famiglia. Ma di ciò a suo tempo e luogo.
Allo spirare di quel secolo, il vescovo di Agrigento
Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente
famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a
capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che vessa tutto
l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i sacri diritti
della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo Padre -
esordisce il prelato - l'Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B.
che l'è pervenuto notitia che alcune persone maligne [si sono messe a]
calunniare la bona vita et amministration che l'ha fatto et fa esso
supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto, il Principe di
Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana, il Conte di
Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron
di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di
esso exponente, la magior parte delli quali son parenti [.....]
Il detto Conte di
Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto
di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et
litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual
causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse
partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come
se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di
detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece
destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far
privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto
ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione
ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che la medesme
giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse restituta ad
esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello
che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti a
detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati per
esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che fanno
li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della giustitia
secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver
giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et
vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli
carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto
con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra mortis,
con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto
ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perché il vicario generale d'esso exponente impedio a
don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua terra, che
non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et essendo
stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il detto
Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece
congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et
al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in
detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia
di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili per
causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il suo
favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale di
Girgente, et perché ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([32])
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti
contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli encomiastici
o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti,
processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque rispettose
testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa
nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene,
nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il
Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il
secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto.
Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero
cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia,
è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel
fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata,
senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia
stata la base di un libro scritto poi,
nel 1630, proprio dal Baronio. ([33])
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni
che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo.
Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come leggesi nel risvolto
della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11), il
gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica della
città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo uno
scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca
Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo
manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana, che,
qua e là, non manca di citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di
Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del
Pirro: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno
riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di
Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S.
Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il
rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto
- tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel
1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse
la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in località
che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza successoria da
Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato Antonio Del
Carretto figlio del marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311
(sic) Arelamus de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra
storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle
cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di
Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine
237-240 ([34]) alla famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si
diffonde nella inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era
inventate fra Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa
testimonianza di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima
metà del Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La
ricostruzione genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche
certe spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore
(sempreché di effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo
al passo riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto:
sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto
siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo
sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote,
confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano dei Del Carretto anche per quelle omonimie
ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave topica
attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e non
Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I -
sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta
successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è
Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo
del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e
la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei
feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della
trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente
don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data
della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di
lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due
lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges:
il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei
Del Carretto; il secondo, La Cartagine Siciliana, è datato 1661 ([35]) e può dirsi che dopo l'esecuzione di
Giovanni V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino.
Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova molto sui Del Carretto.
Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i feudatari di Racalmuto di origine
ligure vi entrano solo per i legami trecenteschi con Federico II e Costanza
Chiaramonte. Gli studiosi moderni non sono propensi ad accreditare troppo
l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio, mette in dubbio persino l'autenticità
degli atti notarili trascritti dal sacerdote di Sciacca, e considera quel libro
nient'altro che un testo di piaggeria araldica. ([36]) Si dà il caso che
l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la indubitabile
fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai
Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag.
18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende
chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono inficiate da falsificazioni
di atti notarili, la storia racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in
passaggi molti salienti. Il testamento di Federico II Chiaramonte ([37]) è il
fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo
aliunde essere davvero la nonna di Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul
testamento di Costanza fornisce elementi il lavoro dell'Inveges ([38]), ma sono
elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma noi
non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del
Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro,
di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie,
quando sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali
segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è
molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare cronaca
del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case da strani diaristi.
Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della famiglia Del Carretto
nell'ultimo scorcio del Cinquecento. ([39]) Valerio Rosso accenna allo scampato
pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a Castellamare del 19 agosto
1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. ([40])
Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni
IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo
diarista palermitano. ([41]) Quando, ai primi di gennaio del 1650 e
precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu arrestato D. Giovanni del
Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il
conte fu imputato del delitto di lesa maestà, come uno dei capi principali di
una congiura andata del tutto fallita. Nel suo diario ne fece diligente
annotazione il dottor Vincenzo Auria ([42]) che poi seguì passo passo lo
sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento"
«privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di quell'anno,
giorno di sabato.
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