lunedì 4 gennaio 2016

domenica 20 gennaio 2013

LA FAMIGLIA LA ROCCA (parte seconda)


La vicenda storica della famiglia La Rocca va ovviamente a balzelloni, a momenti di successo persino economico potevano subentrare pause di stanca. Non fu mai tanto prolifica da essere egemone sia pure entro gli angusti limiti di uno spazio vitale che appena appena superava i limiti dell’ordinaria sopravvivenza. Nelle nostre scorribande tra atti, scritture, diplomi, assemblee comunali al suono della campanella quando la Matrice era appena una angusta navata, e saremo più dettagliati appena ce ne capiterà l’occasione, un La Rocca qui, un La Rocca fanno timido capolino e con tanta ritrosia spariscono dalla scena sociale di una Racalmuto che i Galantuomini se li sceglie tra gli stranieri, salvo qualche piccola eccezione, di solito dei don Calogero Sedara che tra uno smercio agricolo riuscito ed un prestito usuraio andato a buon fine, specie se collocano un figlio in seminario che arriva alla fine senza “spogliarsi”, riescono a passare dalla categoria dei “mastri” a quella dei “don”. Di “don” i La Rocca non ne annoverano nessuno. Successo ebbe nell’Ottocento la maestra La Rocca (contro cui invero qualche strale velenoso ebbe a venir scoccato). Un mio bisnonno, prima riuscì a espandersi in buone terre alla Culma e poi si afflosciò per le mazzate economiche che si buscò tentando fortuna con miniere di zolfo, tutte andate a male. Agli eredi – mi si dice – un certo notaio che il cognome portava eguale al mancato protomedico a Napoli razziò parte di quelle terre (e le migliori) nellostendere un testamento sul letto di morte di mio bisnonno .. già morto.

Nel Cinquecento dunque, la famiglia La Rocca stava in una via selettiva tra il medico Pietro Alaymo e i potenti Catalano. Forse reduci da quella avara povertà di Catalogna, non dantesca ma sciasciana, codesti virgulti di una sicuramente nobiltà venuta dalla lontana Spagna, misero le tende nell’imbocco della odierna via Marco Antonio Alaimo. Una divisione episcopale del 1608 – se ben letta – lo conferma. Accanto sorgeva la chiesa di Santa Rosalia che di sicuro accoglieva fedeli e qualche cadavere prima della peste del 1624; quella chiesa custodì poi qualche ossicino della Santuzza e divenne il santuario della neo patrona di Racalmuto per volontà della parente del cardinale Doria, la vedova insomma di quel Girolamo del Carretto schioppettato, se crediamo a Tinebra Martorana, a E.N. Messana ed anche a Sciascia, morto invece nel suo letto ventiduenne per un “morbo” che nelle mistificazioni dei padri Carmelitani divenne “occisus a servo” da “occisus a morbo” qual era, se diamo credito al grande microstorico dottor Calogero Taverna.

Il palazzotto dei Catalano vistoso ed imponente – ed i La Rocca avevano disponibilità per abitarci vicino – si affacciava su una sorta di piazza ove oggi passa il corso Garibaldi che noi ci ostiniamo a chiamare San Pasquale; là bivaccano venditori che ostentavano la loro scarna mercanzia in cosiddette “potieddi”. Così dicono le Carte della Matrice. Ma altre carte a Palermo di natura impositiva, una sorta di raccolta delle moderne dichiarazione dei redditi , stanno belle e dormienti alla Gancia a Palermo. Nessuno ha voglia di andarle consultare. I soldi servono per festeggiare a tarallucci spumante pizzette  ed altre lecconerie scialbi snarnificatori di alabastrini.

E qui noi facciamo un bel salto: scavalchiamo ben due secoli di storia paesana e ci portiamo nell’anno 1795. La rivoluzione francese e quel che ne segue son cose lontanissime dal magro vivere a Racalmuto. E’ miseria nera. I preti manco più incassano le quarte parti dei funerali: seppelliscono “gratis et amore Dei”. Cose carucce che non saranno storia narrabile a seguire Sciascia che segue Castro ma sono lamenti che dopo secoli colpiscono e inducono alla pietà pure tipacci come chi scrive. Nostri antenati piansero e si umiliarono perché neppure il pane quotidiano avevano; il prete arrendatario Savatteri-Brutto, pure li cuppiliddi di li picciliddi si andava a prendere per “recupero crediti” ancora feudali.

La famiglia La Rocca si riduce ad un solo ceppo: Calogero La Rocca che il precetto pasquale l’aveva diligentemente assolto altrimenti finiva in quella “nota di quei che in quest’anno 1797 non hanno adempiuto il Precetto Pasquale”, parola del “molto illustre d. Gaetano Mantione”. Che dopo te le cantava anche in latino: “de quibus agitur ad iudicem laicalem”; in altri termini se la vedesse il giudice laicale!

Il nostro Calogero La Rocca è sposato con Calogera ed ha cinque figli: il dodicenne Giuseppe, Vincenza di 7 anni, ha sei anni Giovanni, Maria Anna ce ne ha cinque e infine Francesco un anno.

Controllate la foto del foglio 77, prima colonna al settimo nucleo familiare. Non è facile decifrare. La decadenza della famiglia in un certo senso viene attestata dalla svogliatezza calligrafica del prete amanuense. La famiglia La Rocca non sta più nella prestigiosa strada dei Catalano e del medico Alaimo. Finisce in periferia; crediamo a San Francesco, forse nell’attuale discesa ove i La Rocca vissero fino a qualche anni fa. Nel 1795 i preti numeravano 7620 anime.  

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