Nicola Samorì, quando sfregiare le opere diventa arte

«Per ridare vita a un presunto maestro, talvolta lo si deve saccheggiare». Così spiega il suo stile l’artista di Forlì, sempre a metà strada tra provocazione e originalità. Le sue opere segnano un punto di rottura con la storia delle forme. Il suo obiettivo? Far parlare l’arte dopo secoli di sile...

12 Gennaio Gen 2013 2021 12 gennaio 2013 12 Gennaio 2013 - 20:21
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Nicola Samorì dipinge dall’età di quattro anni, da quando non ha scelto di fare arte, bensì di assecondare l’urgenza di muoversi verso di essa. Diplomato in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, il suo è un percorso di affinamento che attinge dai maestri rinascimentali e dal chiaroscuro barocco, con l’enigma finale di un segno che decostruisce, scalfisce, scortica la presunta intangibilità di volti e icone celebri.
Dall’esordio in una galleria storica di Bologna fino alla recente esposizione nello spazio prestigioso della Kunsthalle di Tubingen, che gli ha dedicato la prima retrospettiva museale, la ricerca di Nicola Samorì non ha mai cessato di avere paura: paura della caducità del corpo e della morte. Concetti e spirali simboliche che negli anni si sono ritagliati uno spazio nel circuito dell’arte internazionale, raggiungendo valori medi di quotazione tra i 2mila euro, per lavori di piccole dimensioni, fino ai 25mila per le tele maggiori.
Nel 2009 presenta il progetto «Lo spopolatore» al Museo di Riva del Garda e al Forte di Nago, seguito da un’ampia monografica ai Magazzini del Sale di Cervia e negli spazi dell’Antico Convento di San Francesco di Bagnacavallo, dove attualmente vive e lavora. Ma è con La dialettica del mostro, presso la milanese Galleria Marcorossi Artecontemporanea, che nel 2010 precisa un percorso per “incorporazioni”, vale a dire mutazioni del passato di opere su cui interviene per riscritture progressive. Docente presso la Tafe Gallery di Perth e l’Università di Kalgoorlie nella Western Australia in occasione di due workshop sulle tecniche dell’affresco, Samorì affronta anche l’incisione per cui consegue nel 2002 il Premio Giorgio Morandi e indaga la plasticità della scultura lignea presso l’Accademia di Belle Arti di Berlino.
Non è poi un caso che a quest’artista trentacinquenne originario di Forlì sia stata affidata anche la realizzazione di una dozzina di tavole tra le 73 del Nuovo evangeliario ambrosiano, in mostra fino allo scorso 11 dicembre a Milano sotto il titolo di La bellezza nella parola.
IreneIrene scopre l’informale, 2012, olio su lino, 200x150 cm
Quello che si sprigiona dalle sue opere è uno spirito, un’origine da temi e stilemi universalmente e anticamente sacri, ma proprio la loro cerimonia si traduce in una trasfigurazione che segna un punto di rottura, un attrito o divaricazione in cui la storia delle forme viene riscritta e per molti sfregiata, se non addirittura derisa e deturpata. Uno spartiacque che, tuttavia, nell’intento di Nicola Samorì non si identifica mai con una provocazione vuota o una molestia dimostrativa, ma intende far parlare un rapporto personale con le immagini che hanno segnato i repertori più canonici.
«La Chiesa ha riempito non solo gli edifici di culto, ma anche il nostro inconscio di forme violente, di sangue e terrore», sostiene l’artista in un colloquio con Linkiesta, «non ci si deve perciò meravigliare se in Occidente si continua a lavorare in questo solco, anzi, è proprio questo il mio legame con il rito, con la materia dolorosa di cui sono fatti i suoi segni. Segni che hanno sempre cercato di farsi monito attraverso un calvario».
LeiblLeibl, 2011, olio su tavola, 27x19 cm   
La critica più frequente mossa a Samorì è l’oltraggio a geni indiscussi - due anni fa gli è stata negata da Rosella Vodret, ex direttrice dei Musei Romani, l’esposizione di due tele di rivisitazione caravaggesca - ma a essere davvero in discussione è l’idea di integrità dell’arte. È in gioco la necessità di «tornare a parlare dopo secoli di silenzio» e di farlo con un linguaggio che renda “discutibile” anche il nome più assoluto, perché non muoia l’interesse, ma soprattutto non cali sopra capolavori sempiterni un’invisibilità, un’aura protettiva che ne congeli pericolosamente lo slancio.
Ecco che allora il discredito di cui Samorì è spesso accusato nel ripercorrere i maestri - attraverso un’energia dei sensi e un rapporto diretto con la cupezza del memento mori, della vanitas barocca attorno a ritratti di santi, crocifissioni e nature morte - non tiene conto della spinta inesauribile a distorcere le loro sagome per rompere con l’omologazione delle copie, con la certezza che «per ridare vita a un presunto maestro talvolta lo si deve saccheggiare». Può sembrare un’idea sinistra del fare arte quella che ne abbraccia proprio la pulsione più cannibale, un’usanza fatta di «cura e collera» verso i padri da licenziare per trovare un posto.
MaddalenaMaddalena, 2012, olio su tavola, 70x50 cm
La pratica contempla un esercizio costante, quasi di tortura ben lontana però dall’accademismo e vicina piuttosto alla riscoperta di riti naturali con cui Samorì è stato allevato e che, da sempre, l’inconscio rimuove a stento. Riti di campagna che chiamano in causa luoghi dell’infanzia, isole simboliche, come l’atto crudele di un coniglio scuoiato cui più tardi il supplizio di Maria farà da «mito guida» lungo tutto il percorso di scardinamento dei confini tra lecito e illecito, sacro e profano, citazione e capovolgimento. Una vera e propria «materia prima da riversare nelle forme» che, soprattutto in Italia, possono innescare repulsione.
Se infatti il tratto decostruzionista di questo artista ha incontrato all’estero un’accoglienza non preconcetta, si potrebbe sostenere che il Bel Paese affezionato alla buona ritrattistica abbia invece faticosamente recepito l’urto delle sue citazioni, tese a meditare con studio e corrosione su limiti: «Il tempo che passa mi terrorizza e mi costringe a lasciare una scia ingombrante per sentirmi vivo. C’è chi si moltiplica assecondando una pulsione naturale, chi costruisce opere e chi fa entrambe le cose. Il terrore più grande consiste nell’avere un’acuta percezione di sé, della propria finitudine e abitare una carne che si corrompe».
Non è dunque incoraggiando suggestioni rassicuranti e facile intrattenimento che l’impulso stilistico di Samorì si scava un terreno facile, ma sposando una visione dell’arte come strumento vigile che allerta nervi e ragione, sapienza antica e suo ferimento a morte per fare di una prima incomprensione un’opportunità di confronto. Resta da ammettere che proprio quell’anonimato con cui l’artista si è presentato in paesi come la Germania, il Belgio, la Danimarca, l’Olanda, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, gli ha consentito di accedere ad alcune tra le più importanti collezioni nel giro di un paio d’anni. E se è altrettanto unanimemente condivisibile che, come dice, esistono analogie stringenti tra la povertà di linguaggi e dejà-vu nel mondo dell’arte e in quello della politica, ancora di più serve portare lo sguardo lontano nel tempo per una trasformazione creatrice del nuovo.
NativitaNatività della beata Vergine Maria
«È il nostro corpo a morire, non le nostre opere o il nostro pensiero. Opere e pensiero sono atti presenti» replica sempre Samorì a chi santifica la classicizzazione di maestri come Picasso o Warhol. Ma con una consapevolezza ulteriore: «Alla mia età, si dovrebbe avere un quadro piuttosto chiaro della propria condizione nel contesto nel quale si è deciso di agire. Ho raccolto autorevoli pareri positivi e autorevoli pareri negativi, il mio lavoro è spesso oggetto di dibattito e analisi in paesi profondamente diversi fra loro dal punto di vista culturale, di conseguenza, credo abbia senso alimentare la mia ricerca».
Del resto, nemmeno il Rinascimento ha affidato alla pace dei consensi la propria superiorità in termini di rivoluzione dei metodi e delle idee. E laddove si parla per Samorì di dissacrazione non conforme, per il modellato di un Cristo poco realistico o per «l’espulsione di una ramificazione dalla bocca della Vergine», va sottintesa una comprensione più fluida delle forme e del loro senso che, «anche se incrostato di cronaca e spirito del tempo, ci arriva come testimone presente