Racalmuto alla fine del Trecento
L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hano ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.
Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i supoi predecessori - Scrive il D’Alessandro - e certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli disponenva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale sin’allora erogate e confermate: un "impeto di giusto dispetto" come poi fu detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»
Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.
La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a curare i nuovi loro affarri in seno a compagnie marittime.
Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar copo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della "parzialità" catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.
Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Rma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per iltrasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.
Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia - punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche nella periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.»
Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno "Catalano", in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto "Catalano". Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico racalmutese.
Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e dà inizio al lungo periodo della sua baronià vera e storicamente documentata.
Si dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di Castronono in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti inziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccrediatare presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per "necessità" finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.
Gli eventi precitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritiva a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole del tratto del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgini e perché applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fini nei più minuti aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata direttamente dalla Spagna.»
Note e dettagli sull’avvento dei Del Carretto
Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita :
Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno.
Sirvio tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia del Rey ...
Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, senza dubbio, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non rirolvibile allo stato delle attuali conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intrensigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogatvi cui non siamo in grado di dare risposte certe.
LIUNI DI RACARMUTO GIUSTIZIA L’EBREO SADIA DI PALERMO
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti del protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474. E’ l’efferata esecuzione dell’ebreo locale Sadia di Palermo. In un documento del 7 luglio 1474 VII Ind., vengono narrate le circostanze raccapriccianti del crimine. Leggiamo: Il Vicere' Lop Ximen Durrea da' commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi a Racalmuto per punire coloro che uccisero il giudeo Sadia di Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti per la protezione di quei giudei.
Abbiamo sopra accennato ad alcuni interessanti atti dell’archivio di Stato di Palermo: vi dedichiamo ora una trattazione un po’ più lunga per l’interesse che rivestono., citati la volta scorsa, ci riportano un efferato fatto di cronaca avvenuto in Racalmuto nel XV secolo. Lasciamo la parola ai funzionari di polizia dell’epoca, che così rapportano, in vernacolo siciliano, sui criminosi eventi, di sapore antigiudaico:
diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati Sadia di Palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno Liuni figlastro di mastro Raneri; et dapoy alcuni altri di lu dictu casali quasi a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo, diabolico spiritu ducti, tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro li denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu gettaru in una fossa et copersilu di pagla et gictaru foco petri et terra. La qual cosa essendo di malo exemplo merita grande punicioni et nui tali commoturi di popolo et delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo provisto per sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et comandamo che vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et cum quilla discrepcioni lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. Et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti et partechipi a la dicta morti et delicto. Et de tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. Comandanduvi chi cum diligencia et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati prindiri de personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di Girgenti et carcerarili in lu castellu di la dicta chitati in modo chi non si pocza di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che a lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro, farriti di lo dicto gippuni e di tucta laltra roba libri et scripturi diligenti investigacioni et perquisicioni cui li prisi et in putiri di chi persuna sono.
Quel tesoro non fu più ritrovato. Non valsero neppure gli anatemi del sacerdote ad indurre alla restituzione dei 150 pezzi d’oro trafugati dallo "jppuni" del povero ebreo Sadia di Palermo, racalmutese di vecchia data. Lo spaccato della società racalmutese non appare molto esaltante. Non possono comunque da un singolo episodio trarsi valenze generali che sarebbero solo generiche e fuorvianti. Ma l’indignazione rimane e la tentazione alla condanna di tutta la comunità ecclesiale dell’epoca è piuttosto irrefrenabile. Alcuni tratti, un marchio, un DNA, riconducibili alle famiglie citate nel quattrocentesco dispaccio, qualcuno potrebbe ravvisarli ancora in taluni personaggi locali.
PARTE TERZA
PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata "DEL CARRETTO" si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli odierni araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, semplicemente non esiste.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è proprio così che è andata: dopo il Vespro la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri lontani. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali: erano forse solo possessi appena "burgensatici" - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era precario, forse del tutto inconsistente.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni in compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399.
Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di "Santu Paulu" civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus
qui faciunt summa unciarum quatringentarum».
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta»
posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, ....»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo arrampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammessa secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente cervellotica congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita (e portante il nome della nonna paterna), Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo "egregius vir dominus". Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come "magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone".
In un atto dell’anno prima () era tutto l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di "nobilis marchio Sahone familiaris et amicus noster carissimus"; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come "nobilis miles, consiliarius noster dilectus".
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà elevata a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Montblanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo () ne fornisce indubbia testimonianza.
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Montblanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappicifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) "l’avara povertà di Catalogna", riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Montblanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che questi finisse proprio male.
La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del Carretto.
Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino duca di Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma () del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio (): « Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel "castra" al plurale starebbe a dimostrare che sia "lu Cannuni" sia il "Castelluccio" erano appannaggio di Matteo del Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato Gibillini passa nelle mani di Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia. ()
Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana "nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e fedele". La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati "a domanda ed a risposta" così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem."
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di "maestro razionale", cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.
Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a Malta.
Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.
E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati pesantemente danneggiati ("guastati", alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.
La formula, dunque, fu assolutoria, ampia, faconda, onnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?
La chiosa finale fu ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena "descrivibile" per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il "tenace concetto" (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria () che ha modo di narrare:
«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...
Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.» ()
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto
GIOVANNI I DEL CARRETTO
Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto fosse feudo dei del Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e misto imperio. La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del Settecento e l’avranno vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.
Nel processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del Carretto, abbiamo vaghi dati biografici di questo barone di Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:
magnificus dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat verus dominus et baro dictorum casalis et castri Rayalmuti percipiendo fructus reditus et proventus paficice et quiete et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica et ..
dictus quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica et ..
ex dicto magnifico domino Johanne et magnifica domina Elsa jugalibus natus et procreatus fuit dominus magnificus dominus Federicus de Garrecto ad presens baro dictae baronie Rayalmuti et qui tamquam filius legitimus et naturalis subcessit in baronia predicta percipiendo fructus reditus et proventus et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica etc. ..
Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà il suo erede nella baronia, Federico del Carretto.
Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo lungo (dalla presunta morte di Giovanni I, attorno al 1420, sino alla data del processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) induce a dubitare, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni da un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore - secondo lo stesso Bresc - delle proprie fortune.
Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401 giungeva una lettera da Catania per la sistemazione delle pendenze fiscali.
Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis. Questa la situazione del giovane barone di Racalmuto: v’era la successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute, quella relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una quietanza attesta che la posizione era stata sistemata come segue: 30 once in contanti e dieci a compensazione di un mutuo a suo tempo approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.
Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e della classe feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.
Nella nuova opera, invece, "Un monde etc" altrove citata, vi è qualcosa in più: viene precisata la fonte.
Racalmuto viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La sua baronia a pag: 417 e 872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag. 880. La parte narrativa non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In francese, recita: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.» E qui la nota che non trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide catalan, pour "simplicitat ... fora de enteniment rahonable"». ()
Sarebbe da rintracciare il foglio 54 (in calce citato) al fine di ben ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto affidata a Gispert d’Isfar.
Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per sottrarre l’eredità e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami cadetti.
Non possiamo dubitare che sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è inequivocabile (come abbiamo visto dai passi in latino sopra riferiti).
"Filius legitimus et naturalis" di Elsa e Giovanni I del Carretto è, invero, dichiarato ma non si accenna neppure larvatamente al requisito (indispensabile nel diritto feudale dell’epoca) della primogenitura. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa - non ha però dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:
«E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » ()
Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenza della regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste condizioni:
- presti il cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;
- renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;
- restino salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;
- e del pari restino riservate alla Corona le miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;
- resti salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.
Per il resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio. Il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di outright in grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il "caricatore" di Siculiana. ()
Sempre il Bresc fornisce un'altra interessante notizia: secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un libro: «Luigi Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».
GIOVANNI II DEL CARRETTO
La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi d’investitura tacciono.
Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo di dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali fossero quelle gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e noi non ne abbiamo nessuna ... memoria.
Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore [natus maior] e che avesse partorito il successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte, e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto ().
Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli () che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando sia avvenuta quella vendita non ci è noto; il rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti anni si riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui "venne stipulato il contratto col quale il procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro del Campo la baronia di Mussomeli, col suo castello ..."). Le nostre successive indagini presso gli Archivi di Palermo (in particolare "Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc." e "Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536", di cui in Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto si sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello stesso "conto del segreto Bonfante del 1486" (di cui in Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte Ind. 6 Ind. E 7 Ind. Et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni primi poi di Pasqua.» ()
Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del Carretto - la fa a ridosso degli anni della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:
«E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale, come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l’investitura della detta terra.»
ERCOLE DEL CARRETTO
E subito dopo abbiamo Ercole del Carretto, quello che le saghe sulla venuta della Madonna del Monte chiamano "conte". Il Barberi annota su di lui:
«Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.»
Il Baronio, come si è visto, quasi non lo cita: un accenno trasversale, come si fosse trattato di un riflesso sbiadito del gran fulgore che era stato il padre.
Il Barberi ebbe a conoscerlo giacché è proprio sotto Ercole del Carretto che visita Racalmuto come lascia intravedere il passaggio : al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
Settecento once di reddito - a meno che non trattisi di esagerazioni fiscali alla stregua delle mirabolanti cifre dei moderni accertamenti degli agenti tributari - sono un’enormità. Sia quel che sia, Racalmuto dunque in esordio del ‘500 - e proprio sotto Ercole del Carretto - ha un salto quantitativo, un sussulto verso il grande centro. Nostri precedenti studi () hanno messo in evidenza questo significativo passaggio demografico e sociale. Dal rivelo del 1505 (un paio d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una popolazione aggirabile sui 1600 abitanti: un secolo prima (nel 1404) erano poco più di 750. Certo, la baronia dei del Carretto non era stata molto felice e varie strozzature demografiche e sociali si erano verificate. Le abbiamo notate in quello studio, ma tutto sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti.
La venuta della Madonna del Monte
Era persino sorto un clima messianico per cui era potuta allignare la saga della Madonna del Monte. Sciascia è caustico: «correva l’anno 1503, ed era signore di Regalpetra Ercole del Carretto ... C’è poi da dire che la statua è della scuola dei Gagini, e appare molto improbabile sia finita in Africa; ma di più di ogni altra è inquietante la considerazione sulla scelta della Madonna tra il Gioeni e il del Carretto, tra i castronovesi e i regalpetresi; inquietante come l’apparizione dell’immagine di Cristo su una parete al professor Pende, perché proprio al professore, perché al del Carretto, perché tra i regalpetresi la Madonna ha voluto fermarsi, la popolazione di Castronovo essendo in egual misura fatta di uomini onesti e di delinquenti, di intelligenti e di imbecilli.» () Ma è proprio lui che poi negli Amici della Noce se la prende con l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi occhi di avere cercato un po’ di luce (storica) su questa saga cui tutti i racalmutesi siamo legati.
Ma neppure, a ben vedere, riusciamo a concordare del tutto con il valente padre gesuita sui motivi che avrebbero spinto gli odiati Requisenz ad inventarsi la leggenda della Madonna del Monte «per fare apparire i Conti del passato, ma intenzionalmente quelli del presente, quali grandi benefattori del paese: così il barone Ercole del Carretto, e con lui tutta la sua famiglia, cominciò ad essere presentato nella leggenda come insigne benefattore del culto della Vergine del Monte, costruttore della sua prima chiesa nel 1503.» () Osta se non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio 1771 ed a quella data la saga era ben salda nei cuori e nella fede dei racalmutesi, come dimostra l’ex voto che si ammira al Monte. Precedente era anche lo scritto di Francesco Vinci (pubblicato secondo lo stesso padre Morreale, pag. 35) nel 1760 e forse anche quello di Nicolò Salvo. Ma soprattutto appare dirimente il fatto che già nel 1686 la curia vescovile di Agrigento considerava "miracolosissima imago" (immagine molto miracolosa) quella che si venerava nella chiesa di S. Maria del Monte di Racalmuto. () Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante delicatezza religiosa. Ci limitiamo a pensare che Ercole del Carretto ebbe davvero a costruire la prima chiesa del Monte (di una precedente chiesetta intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun documento probante) ed ebbe a corredarla facendo venire da Palermo una statua di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine marmorea, così somigliante alle giovani madri di Racalmuto, brevilinee e rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi dei contadini locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu semplice e coinvolgente. Già nel 1608, in una visita pastorale, quel simulacro era maestosamente eretto sull’altare maggiore della Chiesa del Monte: il vescovo - recita il testo episcopale - "Visitavit altare maius super quo est imago marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata".
Tratti anagrafici di Ercole del Carretto
Scarne sono le notizie che abbiamo su Ercole del Carretto. Non sappiamo quando nasce: la morte cade invece nel gennaio del 1517. Sposò tal Marchisa di cui ignoriamo il casato.
Dal processo d’investitura del figlio Giovanni III possiamo abbozzare questi altri dati: fu "signore e barone della terra di Racalmuto e tenne e possedette quella terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con tutti i suoi diritti e pertinenze". "Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le volte che gli piacque". "Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone". "Tenne il figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo trattava e come tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato dagli altri.". "In qualità di signore e padrone della predetta terra e padre del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere redatto solenne testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della città di Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire suo erede universale il detto magnifico signore Giovanni".
Nel suo processo d’investitura si legge che: a «Johanni de Carrectis» successe «quondam magnificus Hercules, unicus filius legitimus et naturalis.» ()
Crediamo che il noto giurista operante a Racalmuto, Artale de Tudisco, fosse già al servizio di Ercole del Carretto. Altro notabile del suo entourage fu il nobile Alonso de Calderone che così testimonia: «stando ipsu testimonio como uno degli domestichi di lo quondam magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayalmuto, vidia dicto magnifico regiri et governari la dicta terra et in quella permutari li officiali et rescotirisi et fachendosi rescotirj li renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri et patruni et canuxi lo dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto quondam signuri Erculi lu Garrecto a lu quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per figlio unico et primo genito et da tucti accussi era tenuto, trattato et reputato; lu quali dicto quondam magnifico Herculi baruni fu mortu in lo castello di dicta terra et lo presenti lo vitti sepelliri et secondo intisi dicto magnifico Herculi innanti sua morti fichi testamento.»
Testimoniò anche certo Francesco Maganero come intimo del defunto barone, così come il "nobile" Andrea de Milazzo. Personaggi egualmente di risalto furono i "nobili" Antonino Palumbo, Alfonso de Silvestro e Gaspare Sabia.
Il cennato processo include anche uno stralcio del testamento di Ercole del Carretto che qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino:
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché capo e principio di ogni testamento fu ed è l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e spettabile signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo erede universale il magnifico e spettabile signor D. Giovanni del Carretto, suo figlio legittimo e naturale, nato e procreato da lui e dalla quondam magnifica e spettabile donna Marchisa del Carretto, un tempo prima moglie dell’illustre e spettabile testatore sopraddetto.
«E tale eredità si estende sopra tutti i beni suoi, mobili e stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in ordine a tutti i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e designati, e principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori di Racalmuto, con tutti i suoi diritti, redditi, emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta baronia a giusto titolo spettanti e pertinenti, secondo la serie ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei suoi privilegi.
«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia agrigentino.
«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.»
Il testamento ci svela come Ercole del Carretto abbia sposato in prime nozze la citata Marchisa madre del primogenito Giovanni III. Ercole poté avere contratto altre nozze ma non ne sappiamo nulla.
Paolo del Carretto
Di quale madre fosse, ad esempio il terribile Paolo del Carretto, non è dato sapere. Abbiamo un inghippo che non è facile districare. Alcuni testi dichiarano Giovanni III del Carretto figlio unico di Ercole (vedi testimonianza del Tudisco così come del Calderone), ma nel testamento del Quaglia questo aspetto viene glissato. Supposizioni se ne possono fare tante, ma il dubbio resta. Ed allora va creduta la rutilante storia che il Di Giovanni ci fornisce, oltre un secolo dopo, nella rinomata Palermo restaurata? Siamo propensi ad avvalorare l’ipotesi affermativa. Va qui allora ricordato che nel 1630 circa quello strano personaggio che fu il cavaliere Di Giovanni scrisse per sé secentesche memorie che oggi sono una miniera di notizie. Discendente per via laterale dai del Carretto e addirittura dal padre di Ercole del Carretto - almeno a suo dire - confezionò un racconto truculento in cui non è facile distinguere il loglio dal grano. Investe la Racalmuto dei primi del ‘Cinquecento e noi non possiamo esimerci dal reiterare quel racconto, quanto bizzarro ed inventato Dio solo sa.
«Nel tempo che fu Lotrecco [Lautrec] a Napoli successe in Sicilia lo caso di Barresi, il qual si nota dopo quel di Sciacca. E fu il predetto caso, che essendo nella città di Castronovo D. Paolo Carretto, mio avo paterno, uomo di gran valore, e avendo differenza con uno di casa Barresi, gli diede il Carretto uno schiaffo; onde ne successe fra loro gravissima inimicizia, in modo che la città si ridusse a parte.
Un giorno volle il Carretto andar a visitare suo fratello D. Ercole, signor di Racalmuto, e vi andò con 25 cavalli. Ma saputo ciò per le spie da’ nemici, lo assaltâro alla piana di santo Pietro. Vide egli da lungi venire i nemici; e potendosi salvare nella chiesa di santo Pietro, gli parve viltà, e si risolse piuttosto morire, che far gesto di sé indegno. Si venne tra loro alle mani; ché animosamente il Carretto investì, e ne morsero dall’una e dall’altra parte.
Ma il Carretto, investendo il suo nemico, era con un pugnale a levargli la vita, avendolo preso per il petto, quando uno de’ compagni con una saetta lo percosse in fronte e lo mandò morto a terra.
Satisfatti perciò i nemici, attesero a salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco [Lautrec] a servire Sua Maestà, perché erano due fratelli; e gli successe in una giornata di adoperarsi valorosamente sotto la condotta del conte Borrello, figlio del viceré, perché mantennero un ponte tutti e due, tanto quanto gli arrivasse il soccorso; dal che si evitò gran danno, che poteva succedere agl’Imperiali.
Del che fattosene relazione a Sua Maestà, spedita la guerra, fûro i predetti due fratelli indultati in vita, e fûro fatti capitani d’armi per il regno.
Sentì gravemente il successo D. Giovanni Carretto, nepote del predetto D. Paolo; e più per vedersi i nemici, in quel momento favoriti, stargli innante gli occhi, e perché era di gran valore e chimera, procurò quello, che non avea procurato il padre D. Ercole.
In quel tempo era nella città di Naro Enrico Giacchetto, uomo valorosissimo e potente, consobrino di mia ava paterna, il quale, per avere inimicizia con il barone di Camastra, anco della città di Naro, manteneva a sue spese cento cavalli, ordinariamente di gente scelta e valorosa, con li quali faceva allo spesso gesti eroici e singolari. Di costui ne temeva tutto il regno.
D. Giovanni del Carretto, figlio del predetto D. Ercole, si fé chiamare il predetto Enrico, che gli era amicissimo, a cui conferì il suo pensiero, e lo richiese che si volesse adoperare per lui in satisfarlo di quell’oltraggio.
Gli promise buona opera Enrico; e perché si sentiva che i Barresi si volevano levar le mogli e le case da Castronovo, e portarsele alla città di Termine, li appostò Enrico con quaranta cavalli, e, venendo quelli a passare per il fundaco delle Fiaccate, per quel cammino assaltò i predetti fratelli con molta compagnia. I quali non prima si videro Enrico addosso, che sbigottiti si posero a fuggire, e furono finalmente giunti, presi ed uccisi.
E se ne presero le teste, che furono portate al predetto D. Giovanni, il quale, benché prevedesse gran travagli di giustizia, ne fu pure assai satisfatto e contento; tanto si estimava l’onore in quei tempi.
N’ebbe al fine gran travagli: ma col tempo ne riuscì con vittoria, grandissimo onore e reputazione.»
"Più solidità e più stabilità" Eugenio Napoleone Messana (op. cit. pag. 95) pensa che possa avere il suo congetturare sulla genesi della saga della Madonna del Monte, quale trasfigurazione dei fatti sopra narrati. Francamente non ce la sentiamo di seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è visto, che Paolo del Carretto fosse racalmutese e fosse davvero fratello del barone Ercole.
Probabile invece che una volta conosciuta la tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del Carretto, nelle prime decadi del Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la sublimazione della vetusta e pia memoria della "venuta" di quella adoratissima immagine marmorea della Madonna del Monte.
Il canto popolare che la prof.ssa Isabella Martorana ha saputo recuperare dalla viva voce delle locali vecchiette non è coevo certo alla venuta della Madonna del Monte, ma ha insiti spunti storici che sia pure postumi meglio rispecchiano la genesi della saga. Venuta da Trapani - più verosimile che si fosse parlato di Punta Piccola - , "intranno a Racarmuto pi la via/ vonzi ristari cca la gran Signura", sono scisti con qualche valenza storica. Ma visto che "a lu conti cci arrivà mmasciata", il riferimento è decisamente postumo, databile dopo il declinare del XVI secolo. Il carme dialettale, bello esteticamente, lascia nelle brume anch’esso l’origine della pia tradizione del miracoloso evento della Madonna del Monte che sceglie la sua dimora nel nostro paese, in cima alla panoramica altura della omonima chiesa.
GIOVANNI III DEL CARRETTO
Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco - di cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.
Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato della committenza di un delitto contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta il suo lontano pronipote Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo - un uomo religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva indulgenza verso gli eccessivi empiti di sperperatrice religiosità del suo assistito in punto di morte, abbiamo voglia di pensare noi.
Il Baronio ce lo descrive ovviamente in termini esageratamente elogiativi. Traducendo dal latino, per quello storico di casa del Carretto: «da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di tal che, sia per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e 76)
Processo d’investitura di Giovanni del Carretto, ultimo barone di Racalmuto
Sul citato Giovanni fornisce lumi il processo n. 1175: () abbiamo avuto già modo di citarlo. Siccome lo riteniamo basilare per la storia racalmutese del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo, quando occorre, dal latino.
«N.° 1175 - In Palermo nell’ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia, sotto la data del 28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
«Memoriale esibito e presentato nell’Ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia, dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore del magnifico signore don Giovanni del Carretto, figlio primogenito, legittimo e naturale, unico ed universale erede del quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della terra di Racalmuto (Rayalmuti), che teneva e possedeva la detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze a seguito della morte del prefato quondam magnifico Ercole, suo padre.
E tanto per prendere l’investitura della detta baronia con i suoi diritti e pertinenze sia per la morte del signor nostro Re Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle maestà cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi, quant’anche per la morte del prefato quondam magnifico Ercole del Carretto, suo padre.
«Innanzitutto, si afferma che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, padre del detto magnifico don Giovanni, al tempo della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e possedette la terra di Racalmuto, con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando tutti gli ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico barone Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e proventi da vero signore e padrone.
«Del pari, si testimonia che il prefato magnifico signore Giovanni del Carretto fu ed è figlio primogenito, legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole e come tale e per tale lo teneva, trattava e reputava, così come era dagli altri tenuto, trattato e reputato.
«Del pari, si afferma che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della detta terra e padre del detto magnifico signor Giovanni del Carretto, quando piacque al Signore, morì e defunse nel castello della predetta terra di Racalmuto, sotto la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517, lasciando superstite e successore in detta baronia il detto magnifico quondam Giovanni del Carretto, dello stesso quondam magnifico Ercole figlio unico, legittimo e naturale, ed avendo prima redatto testamento solenne in mano del notaio Antonio Quaglia del città di Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto mese di gennaio, testamento nel quale venne istituito suo universale erede il detto magnifico signor Giovanni.
«Del pari, si afferma che, morto e defunto il detto magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del Carretto, quale figlio legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole, e come successore legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo procuratore, prese e conseguì l’attuale, reale e corporale possesso della detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
«Del pari, si afferma che in questo regno di Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re Ferdinando, di gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno di vita cadde nel mese di gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima ed a lui successe in tutti i suoi dominî e regni la serenissima Regina donna Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché il cattolico ed invittissimo Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio primogenito e naturale. Così fu ed è la verità.
«Del pari, si afferma che al fine di prestare il debito giuramento e l’omaggio della dovuta fedeltà e del vassallaggio, nonché di ottenere l’investitura della predetta terra e castello, con tutti i suoi diritti e pertinenze - tanto per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del proprio padre - seriamente creò ed istituì suo procuratore il magnifico illustre Artale de Tudisco, come risulta dalla procura agli atti dell’egregio notaio Giovanni de Malta, in data 26 del presente mese di gennaio VII^ Ind. 1519.
«Testi ricevuti ed esaminati nell’ufficio del Protonotaro del Regno a richiesta ed istanza del magnifico don Giovanni del Carretto, figlio legittimo e naturale del quondam magnifico don Giovanni del Carretto, al fine di prendere l’investitura della baronia di Racalmuto, tanto per la morte del Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del magnifico Ercole del Carretto, suo padre e signore di detta terra.
[...]
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
[ ...]
«A tutti e singoli i chiamati ad ispezionare seriamente, vedere e leggere il presente atto pubblico, sia evidente e noto che esso fu redatto da me notaio, con i testimoni infrascritti, presso il castello della terra e baronia di Racalmuto nel Regno di Sicilia.
« Si è costituito il magnifico signor Cesare del Carretto quale procuratore del magnifico e spettabile signor don Giovanni del Carretto, signore e barone della predetta terra e baronia di Racalmuto, figlio primogenito, legittimo e naturale del magnifico e spettabile quondam signor Ercole del Carretto, morto di recente nella detta terra e dipartitosi da questa vita adempiendo tutte le formalità necessarie per conferire alle sue ultime volontà la totale validità.
«Peraltro, con pubblico strumento redatto in carta membrana, sono state espletate le conseguenti formalità in modo solenne presso la città di Napoli il primo marzo VI^ indizione 1518 per mano del nobile ed egregio Bartolo Carloni della stessa città di Napoli, abilitato notaio per tutto il regno di Napoli .
«Di tal che è stato preso, recepito e tenuto - così come si prende, si recepisce e si tiene - il naturale, reale e corporale possesso della predetta terra e baronia di Racalmuto per tatto e tocco delle chiavi del castello della stessa terra e baronia, nonché della porta e del cantone dello stesso castello, aprendo e chiudendo, entrando ed uscendo dal castello ad libitum senza l’opposizione di alcuno.
«Se ne attesta quindi il possesso con tutti i singoli relativi diritti e pertinenze. E se ne redige atto in segno di vera presa del possesso naturale, reale e corporale della predetta terra e baronia, con tutti i singoli suoi diritti e pertinenze, acquisendone l’integrità dello stato della stessa terra e baronia sotto il profilo del dominio, quale configuratosi con le sue spettanze e pertinenze giusta la forma, la serie ed il contenuto dei privilegi della ripetuta baronia.
«E continuando nella presa di possesso, fattane l’acquisizione, il procuratore mutò e depose nella detta terra gli ufficiali; in essa quindi nominò altri ufficiali e cioè: innanzitutto istituì e nominò capitano della medesima terra Nardu lu Nobili; giudice il nobile Scipione lu Carretto; giudice ordinario e militare, il magnifico signore don Paolo de Mistrectis.
«Del pari, nominò Giurati: Enrico lu Nobili; Pietro d’Acquisto, Vito Taibi e Andrea Gulpi. Come Castellano del predetto castello fu chiamato il magnifico signore don Giovanni Benigno de Tudisco; come Segreto, il magnifico Silvestro de Urso; come Maestro Notaro il magnifico Gilberto de Tudisco.
«E per segno di quanto precede, il predetto procuratore - a tal ultimo titolo - fece redigere il presente atto pubblico da valere per ogni luogo e tempo.
«Testi: il magnifico Matteo del Carretto, il magnifico Jo: Artale Tudisco, il magnifico Teseo de Torres ed il nobile Giacomo de Alletto.
«Dai miei atti, notaro Antonino Quaglia agrigentino»
«26 gennaio VII^ Ind. 1519
«Il magnifico don Giovanni del Carretto, barone e signore della terra di Racalmuto, presente innanzi a noi, spontaneamente - con ogni miglior modo e forma con cui più preclarmente può essere detto e fatto - costituì, scelse, creò e solennemente nominò come suo vero ed indubitato procuratore, attore, nunzio speciale il magnifico Giovanni Artale Todisco.
«Questi, presente ed accettando l’onere della infrascritta procura del tutto volontariamente, compare a nome e per conto e parte del predetto magnifico costituente dinanzi l’ill. signor Viceré per prendere l’investitura della terra e baronia con relativo castello di Racalmuto, nell’integrità del suo stato e nella pienezza dei suoi diritti e pertinenze, sia per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle invittissime cattoliche maestà, la regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi, e sia per la morte del quondam magnifico Ercole del Carretto, il di lui padre.
«Al contempo, il procuratore, in nome e per parte del predetto magnifico mandante, si presenta per prestare il giuramento e rendere l’omaggio di debita fedeltà e vassallaggio nelle mani dell’illustre e potente signore viceré, nonché per svolgere quant’altro occorra per prendere la predetta investitura, non mancando il detto magnifico mandante di obbligarsi sotto vincolo di ipoteca etc. Così giurò etc.
« Testi: nobile Pietro Pasta e magnifico Vito Paladello.»
Da questo processo, che - pur nella sua contorsione - è il meno complesso dei processi d’investitura dei del Carretto, emergono due o tre istituti molto peculiari del diritto feudale della nostra terra di Racalmuto:
- Diritto dei baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue vescovo di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi paladino di un omicida, il chierico Jacobo Vella.
- Diritto alla destituzione e nomina di tutte le cariche, civili e militari, di Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i Fanara, i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo possibilità di farsi apprezzare dagli stravaganti baroni di Racalmuto: ne diventano fiduciari; spesso si arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono nella fertile terra del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta tuttora, ma senza più il ruolo di profittatori del regime.
- Non emerge ancora un chiaro affermarsi del diritto al terraggio ed al terraggiolo [prestazioni in natura da parte dei coltivatori delle terre del barone, nel primo caso, e fuori la baronia, nel secondo - stando almeno alla volgarizzazione della fine del Settecento].
- Il mero e misto imperio dei baroni fa capolino nel Cinquecento, ma piuttosto tardivamente.
Giovanni III del Carretto eredita la boronia di Racalmuto qualche tempo prima dell’iniziale investitura; alla morte del padre Ercole e cioè il 27 gennaio (o un paio di giorni dopo) del 1517. Il 16 marzo di quell’anno il neo barone manda come suo procuratore Cesare del Carretto per la formale acquisizione della baronia. Il relativo atto viene stilato con rogito del notaio Bartolo Carloni di Napoli in data 1° marzo 1518. Il successivo 26 gennaio 1518 nomina procuratore il già detto Giovanni Artale Tudisco per gli adempimenti presso la curia vicereale di Palermo. L’investitura risulta definita il 31 gennaio del 1519. "Fiat investitura" la nota finale del processo. In una ricostruzione del 1558 si dice che Giovanni fu costretto all’investitura "per la morte del cattolico ed invittissimo re Ferdinando di gloriosa memoria e per la successione delle cattoliche maestà la regina Giovanna ed il re Carlo". Adempimenti che comportavano aggravi fiscali in prima battuta per il barone, ma per ricaduta sui malcapitati nostri compaesani del ‘500. E poi si vuol far credere che i grandi eventi della storia non avessero incidenza sulla villica popolazione racalmutese!
Secondo processo d’investitura di Giovanni III del Carretto
Ma non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è costretto a rifare il giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta un diploma rilasciato a Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita media di quel tempo.
Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel testamento.
Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni III: quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di "paraggio" che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Nel 1375 la terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui si possono attribuire non più di n.° 500 abitanti, elevabili a 600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du Mazel, inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in cambio della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due chiese, fragili e malandate.
In piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose erano notevolmente cambiate a Racalmuto: la popolazione si era enormemente accresciuta.
Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento racalmutese dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era barone già da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
|
Ceti paganti
|
ceti esenti
|
evasori
|
totali
|
N.° Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti (fuochi * 3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3.479
|
Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitanti del 1548 il salto era stato rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere del Monte o montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo (quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il particolare al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di Vita.
Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la "buona morte" che è come dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro "stuccarici li rini" beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. Tre anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte del vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino ("est etiam canonicus agrigentinus"). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione ("dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.").
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto ("ex disposictione"), il beneficio della "primizia". E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati ("primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno".)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi ("mortilitia et alia provenientia ex administratione cure").
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto "maior ecclesia", «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è "ecclesiola" e quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo". La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus" che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa "normanna" non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) "Ecclesiola" sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3) Chiesa di Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di Santa Margherita;
6) Chiesa di San Giuliano;
Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della "NUNTIATA"
2) Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di Santa Margherita;
4) Chiesa di "Santa Maria di lo Munti";
5) Chiesa di S. Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
|
Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
- la Nunziata, visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
- Santa Maria di Gesù
- col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
- Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano i "avantiletto" lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.
Il testamento di don Giovanni III del Carretto
Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento () steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in qualche modo abbozzato.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il "molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi". "Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri".
Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito, "lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo".
Ripete in dialetto, il morente barone: "legitimo e naturali, procreatu da me e dalla condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti".
Se si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e vi erano veri e propri schiavi ("scavi").
A don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
"Del pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli eredi don Federico e don Girolamo".
"Del pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia, con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri diritti quali il terraggiolo, le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro, frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti, nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che seguono".
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt, ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
"E così il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da chicchessia, e ciò per amore di nostro Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
"Del pari il testatore lascia il legato a carico di Girolamo di far dire tante messe nel convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once."
"Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini."
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina purtroppo tragica nella sua acre realtà storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto "della chiesa di Santa Maria di lu Carminu".
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
- donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da prelevare dalle casse del castello);
- donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;
- Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa Caterina della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis, et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias quinque, nec non relaxavit et relaxit mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma "riconciliato" nell’Atto di fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto [in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):
- 5 once al venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;
- 5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
- 10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
- 5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;
- 5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce ("calcaria") esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
- 5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);
- 5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi, et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era intensa).
Il processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.
GIROLAMO I DEL CARRETTO
Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro Girolamo fosse chiamato ed avesse in quel tempo il titolo di conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.
« Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte, sono da riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e recitano: "Filippo etc. A tutti quanti etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei marchesi di Savona documentato l’insigne virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai del Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo considerato l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non soltanto in questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso titolo resa celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri uomini della medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e altissime dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati verso il lodato D. Girolamo Carretto etc."
«Noto è per di più quanto l’imperatore Rodolfo fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera del padre, l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse Girolamo con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i suoi discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò in D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro, ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio 1580.»
Siffatto pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia "rachalmutana" di cui si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un grado e divenne contea, ma marchesato giammai. Diciotto anni dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono alla carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si diceva: "Antica e regale è la famiglia dei del Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc."
«Da quanto sopra è ben chiaro che Girolamo e la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli imperatori come le citate missive, altri documenti che non ho citato ed autorevoli testimoni ampiamente comprovano.»
Le note del Baronio rendono invece a noi chiaro che i del Carretto, giunti all’apice della ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero il largo e andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà aveva solo l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli immigrati del Carretto, il titolo di barone suonava stretto: si prodigarono in regalie, bussarono a varie corti regali, impetrarono favori, ma non riuscirono a superare la soglia del titolo comitale.
Il Villabianca lesse il Baronio e vi si ispira quando redige questo profilo sul nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per privilegio del serenissimo Rè Filippo Secondo, dato nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576, esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577. Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 , e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento. Presiedette altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel 1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p. 205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto di questo nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo nel 1600. di non minor merito di quello del genitore come vuole il citato DI GIOVANNI nell'istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu egli dotato di tanta prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol carriera di reggere gli affari pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e magnati suoi contemporanei.»
Sciascia dileggia questo nostro barone assurto al rango di conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande racalmutese - fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non sappiamo molto: fu pretore a Palermo, e non credo dovuta a "bizzarra opinione seu presunzione", come invece afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare che sia da ascrivere a sua gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito regalpetrese [alias il Tinebra, n.d.r.]». Tutto bene, salvo il fatto che nel 1600 Girolamo primo del Carretto era già morto da diciotto anni. L’abbaglio nasce da imprecise letture da parte del Tinebra dell’opera del Villabianca.
Dai processi ricaviamo questi dati biografici. Girolamo I del Carretto fu il primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento redatto dal notaio Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560 Girolamo s’insedia quale barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo procuratore, il magnifico Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita che il barone prese "l’attuale, vera, naturale, corporale baronia del castello, dei feudi e del territorio di Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero e misto imperio, con le giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato, risultato integro giusta la forma dei privilegi baronali". Il procuratore rispetta il meticoloso ed emblematico rituale: "esibisce la chiave del portone del castello; di propria mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si reca presso i feudi; ne prende alcune pietre in segno di libera disponibilità di quelle terre; revoca e rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano nella persona del nobile Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di Giovanni Piamontesi; il giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i giurati nelle persone di Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo Caravello; il maestro notaio nella persona del nobile Innocenzo de Puma". Viene redatto pubblico atto. I testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino de Averna, l’onorabile Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de Pitrozella. Il notaio è ancora il povero Jacopo Damiano che però si dichiara agrigentino.
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi nobili accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un ‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche battesimo. Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel 1622.
In altra parte del presente lavoro pubblichiamo il privilegio di Filippo II che erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue formule da cui non riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria locale. Non abbiamo qui note in proposito da proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei del Carretto è cosa che solo di striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della città di Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a seguito della concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone fra le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di rinvenire documenti di quel tempo, estremamente significativi per la riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostettero i nostri antenati racalmutesi del Cinquecento.
Peste e tasse a Racalmuto
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe pure a colpire l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel carteggio che «per lo contaggio del morbo che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279 abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le "tande" - o più graziosamente "donativi" - andavano pagate sino all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti per il Regno à Sua Maestà, come per le tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del morbo che in quella s’hanno ritrovato ... , à vostra Eccellenza l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta università deve alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un "non convenit" "non conviene". La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un localismo, il nostro, quello di Racalmuto, che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che isola nell’isola ..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] "per lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di poter fare eligere persona facultosa, poiché pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per consiglio si concluderà, acciò potersi sodisfare nullo preiudicio generato ad essa università circa detta diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta Terra per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra Eccellenza sia quello mezzo che si concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di mesi due, altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. .."»
La messa in mora della locale amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui "giornate" (le attuali diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali «con eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di dilazione per trovare un sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi, organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna. Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari, ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la giunta comunale: la giurazia.
Affascinano questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che debbiate in giorno di festa e sono di campana come è di costume congregare il vostro solito consiglio sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e quello che per detto conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et accordato, e sigillato lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò di quello fattone relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi 11. Martij 5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus ... conservatore [f. 229] Marianus Magister Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de Aurello Magister Notarius, ..
»
Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a Racalmuto - ed abbiamo anche il verbale consiliare che mi pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind. 1577.
Die festivo supradicti Martij in Ecclesia Sanctae Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea publica.=
Perche ritrovandosi l’università di questa Terra di Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte
è stato supplicato da parte di detta Università per li Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti debiti se li concedesse dilatione competente per potersi ritrovare il modo di quelle sodisfare, et in quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto offerta à Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone di tutte città, e terre del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino [f. 230] che per il ripartimento e numero di persone che allora vi erano in detta terra tocca à detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia detta Università non si vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra volta à Sua Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter eligere persone facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle di detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et interesse nullo prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni predette come si contiene per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et essendo stato provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real Patrimonio che si congregasse sopra le cose contente in detto memoriale consiglio, e quello si trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per ciò s’ha devenuto alla congregatione del presente consiglio come intesa la presente proposta habbiano sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo uno delli Magnifici Giurati di detta Terra, e locotenente del Magnifico Capitano di quella, è di voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta di rendita da pagarsi quolibet anno come meglio e per manco interesse di detta Università si potrà accordare con quelle persone che vorranno attendere à tal compra di rendita.
* * *
Per inciso, richiamiamo l’attenzione sul menzionato giurato racalmutese del 1577 Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un "burgisi" come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da quello del sorgere dello stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sonnecchiano i palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con quello che l’ex voto del Monte ci fa intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di Racalmuto dello scorso secolo di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle menti più elette del nostro paese come dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa vicenda fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento, tal Caputo, superriverito ed adulato dal pubblico notaio.
Popolazione racalmutese nel 1577
Sembra opportuno tracciare il grafico della popolazione di Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio del 1577.
La curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500 si avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576, e così si dispiega:
Il crollo demografico del 1576, come si vede, sembra irreversibile (anche se fu dovuto più alla fuga che alla morte dei racalmutesi: i superstiti quindi ebbero poi modo di ritornare nelle loro case di paese, lasciando - riteniamo - quelle di campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un secolo) per risalire a quota 5.165 e solo nel 1660 la popolazione supererà quella del 1570 assestandosi sui 5488 abitanti.
Quanto alle finanze locali, la crisi del 1577 fu in qualche modo tamponata; il bilancio comunale toccherà nel 1593 un disavanzo di appena 28 onze, un tarì e quattro grani (460 onze d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana quattro d’esito). La forte pressione fiscale - tutta basata sulle imposte indirette - finì di certo in una asfissiante strozzatura dei consumi da parte dei poveri. I proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché nulli: pane, foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e qualche altra voce diedero un gettito tributario che si volatilizzò essenzialmente per le spese militari e per oltre la metà per ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo imprecisato. Inoltre si pagavano sei onze annue per "tande".
* * *
Terraggio e terraggiolo sotto il primo conte di Racalmuto
In prossimità della morte, Girolamo primo del Carretto riusciva a raggiungere un accordo con i suoi vassalli di Racalmuto. Era l’anno 1580. Il 15 gennaio, a rogito del notaio Nicolò Monteleone di Racalmuto veniva stilata una transazione (transactio et accordium) tra il conte e l’università variamente articolata; tra l’altro i cittadini e gli abitanti di Racalmuto s’impegnavano per loro e per i propri successori di corrispondere al conte e suoi successori il terraggiolo (tirragiolum) in ragione di due salme di frumento per ogni salma di terra seminata dai racalmutesi fuori del territorio dello stato comitale.
Il carteggio relativo a tale transazione del 1580 è disponibile presso il Fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo. Per i riverberi sulla storia locale, ci si deve qui dilungare nello stralciare ampi passi.
Iniziamo dal testo della lettera inviata dai deputati racalmutesi eletti in un apposito consiglio del 1580:
«Illustrissimo et eccellentissimo Signore, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Giacomo Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonio Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella, Antonio Gulpi e Giacomo Morreale, li quali furo deputati eletti per consiglio congregato circa la questione e lite vertenti tra l’altri, e l’illustris.mo Conte di Racalmuto in la R.G.C. esponino a Vostra Eccellenza che sono più anni che in detta R.G.C. ha vertuto lite fra detto conte e suoi antecessori in detto contato ex una, e li Sindaci di detta terra ex altera sopra diversi pretenzioni, particularmente addutti nel libello, e processo fra loro compilato per li quali intendiano detti Sindaci essere esenti, e liberi di certi raggioni e pagamenti, come in detto processo si contiene, e poichè s’have trattato certo accordio fra esso conte ed essi esponenti come deputati eletti per detta università circa le pretentioni predetti, e circa il detto accordio s’hanno da publicare per mano di publico notaro per comuni cautela dell’uno, e l’altro, e stante che è notorio che detti capitoli s’habbiano da publicare con vocarsi per consiglio onde habbiano da intervenire li genti di detta università, e la maggior parte di quella per ciò supplicano a V. E. si degni restar servita provedere che s’abbia a destinare uno delegato dottore degente in la città di Girgenti per manco dispendio (o di spesa) dell’esponenti, e benvista a V.E. il quale s’abbia da conferire in detta università di Racalmuto,, ed in quella abbia da congregare consiglio si la detta università è contenta si o no di pubblicare il detto atto d’accordio, li quali si abbiano di fari leggiri per il detto delegato a tutte le persone che interverrano in detto consiglio per potersi stipulare il detto atto con lo consenso di tutta l’università, o maggior parte di quella - e restando l’esponenti d’accordio V.E. sia servita al detto delegato concederli autorità, e potestà di tutto quello e quanto sarrà concluso per detto accordio che possa interponere l’authorità, potestà, e decreto di V.E. e sopra questo possa interponere perpetuo silenzio, e decreto con tutte le clausole, e condizioni solite, e necessarie farsi in detti atti ut Altissimus. »
La curia viceregia acconsente ed impartisce le opportune istruzioni con lettera Data Panormi die vigesimo nono Februarij nonae Ind. 1580.
Il 3 gennaio 1581 si presenta a Racalmuto il magnifico ed esimio Ascanio de Barone della città di Agrigento con le sue credenziali. Il successivo giorno 5 si aprono i lavori del «Consilium congregatum » sotto la presidenza dell’esimio signor Ascanio de Barone "ad sonum campanae in maiori Ecclesia terrae Racalmuti die dominicae" chiamati e convocati i due terzi del popolo. I giurati Lorenzo Giustiniano, Giacomo Monteleone e Antonio Alaimo assicurano la regolarità della convocazione e certificano la presenza del numero legale. L’ordine del giorno consiste nell’approvazione dell’accordo fatto con l’illustre don Girolamo del Carretto.
Viene subito introdotto l’argomento:
Magnifici Nobili, et persone decorate [a.v.: honorati] et altri populani, siti congregati in questo loco; sapiti ch’avendosi tanto tempo ed anni litigato infra l’università di questa terra con li spettabili illustri ed illustrissimi signori Baroni e Conti di questa terra sopra alcuni pretenzioni ed esenzioni di tirraggi di fora [a.v.: supra alcuni pretenzioni et exemptioni di alcuni soluptioni di dupli terragi di fora] et altri esenzioni come più largamente si contiene per lo libello e processo contenti nella R.G.C. con detti spettabili ed illustri signori Baroni e Conti di questa sudetta terra, ed avendosi tant’anni litigato non s’have mai finito per tanto si congregao consiglio, e si elessero deputati lo magnifico Gio: Vito d’Amella, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino lo Brutto, Pietro d’Alaymo, Antonino Gulpi e Giacomo Morreale, li quali deputati esposiro a S.E. e R.G.C. che avendo più anni litigato in detta R.G.C. con li predecessori dell’illustre signor Conte di questa terra di Racalmuto ed anche con detto signor conte sopra diversi pretenzioni d’essere esenti e liberi di diversi raggioni e pagamenti in detto processo e libello addutti, e contenti, e che s’ave trattato accordio fra l’università e detto signor conte, e sopra ciò fatti certi capitoli li quali s’hanno da publicare per notaro publico per commune cautela ed era di publicarsi con la volontà della maggior parte del Popolo congregato per consiglio supplicando S.E. resti servita provedere e comandare che si destinasse un delegato in questa terra per congregare detto consiglio, ed essendo la maggior parte contenta dell’ accordio, farrà leggere li capitoli ed essendo contenti quelli detto delegato farrà publicare, e stipulare ed interponere l’authorità di S.E. e R.G.C. per ciò S.E. mi ha destinato delegato in questa terra, undechè personalmente mi conferisca a congregare detto consiglio, ed intendere la vostra volontà se volete accordio per questo siti convocati in questa maggior chiesa acciò ognuno di voi dasse il suo parere [a. v.: siti convocati in questa maggior Ecclesia a tal che ogn’uno di voi dugna lo suo pariri e vuci si vuliti accordio], se volete accordio con detto signor conte, perché volendo accordio si leggiranno li capitoli che mi sono stati presentati per detti deputati e notar publico, ed essendo contenti di detti capitoli per voi s’eligeranno dui Sindaci e procuratori per potere quelli publicare e fare instrumento pubblico con li soliti obligazioni, renunciationi, stipulazioni giuramento firmato in forma, alli quali Io come delegato di S.E. e R.G.C. interponissi l’autorità e decreto acciò omni futuro tempore s’habbiano inviolabilmente osservare siché ogn’uno venga, e dona la sua vuci, e pariri, lo magnifico Gio: Vito d’Amella capo di detta terra di Racalmuto dice che è di voto, e parere, e si contenta che si faccia accordio stante li lite e questioni che sono stati et su infiniti e sono immortali e non hanno mai diffinizioni e sono dubbij ed incerti e per evitarsi tante spese che s’hanno fatto e si potranno fare tanto più che s’ha visto la buona volontà dell’illustrissimo signor conte lo quale per li capituli ni ha fatto molte grazie ed esenzioni in favore di quest’Università di Racalmuto e non facendosi accordio interim esigirà come per il passato s’have fatto e perché in l’accordio e in mancari quelle raggioni che siamo obligati paghari per questo è contente come è detto di sopra che si faccia detto accordio e si leggano li capitoli e doppo si contratta in forma; lo magnifico Lorenzo Justiniano giurato contiene [a.v.: concurri] con il detto magnifico Gio: Vito d’Amella,
Già tutti voi esistenti in lo consiglio aviti inteso leggiri detti capitoli per notar Cola Monteleone si restati contenti di detti capituli ognuno dugna la sua vuci, e pariri, ed eliggia dui sindaci e procuraturi ad effetto di putiri publicare detti capituli e farsi istrumento publico con suoi patti renunciazioni cum juramento firmati in forma, lo magnifico Joan Vito d’Amella capitano di detta terra dici ed è di pariri che si contenta di detti capitoli letti nelli quali ci sù multi relasciti e gratij fatti per lo signuri Conti, e che si pubblicano ed eliggiasi per sindaci e procuratori ad Antonino Lo Brutto ed Antonuzzo Morreale, ad effetto di putiri fari publicari detti capitoli dictae universitatis con li soliti obligazioni stipulazioni juramento fitmati in forma; lo magnifico Lorenzo Justiniano concurri con detto d’Amella; lo magnifico Giacomo Monteleone ut proximus, lo nobile Antonino d’Alaymo ut proximus et sic omnes et singulae prenominatae personae concurrerunt cum dicto de Amella et de Monteleone de Justiniano et de Alaymo, capitaneus et jurati,
Capitoli dell’accordio si fà infra l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu
Capitoli dell’accordio si fà infra l’illustrissimo signor D. Hieronimo Carretto conte della terra di Racalmuto e per esso suoi figli utriusque sexus et suoi eredi e successori in dicto statu
per lo quali si havi di promittiri di rato iuxta formam ritus di ratificari lu presenti contrattu à prima linea usque ad ultimam, ita che li masculi d’età si habbiano da fari ratificari infra mesi due da contarsi d’oggi innanzi, e li minuri quam primum erunt maioris aetatis cum pacto et condictione che la persona che rathifichirà s’habbia d’obligare di rato per li suoi figli utriusque sexus, e cossì li figli di figli in infinitum intendo per quelli che haviranno di succediri in detto stato e terra di Racalmuto, e non altrimente ne per altro modo s’intenda detta promissione di rato ut supra di l’una parti, e Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzzo Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino Lo Brutto, Vito Bucculeri, Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella ed Antonio Gulpi eletto di nuovo per la morte dello quondam Jacobo Morreale, deputati eletti per consiglio circa la questione e liti vertenti tra lo detto illustre signor conti e l’università di detta terra in la R.G.C. ed altri differentij che tra loro sono stati, in lo quali accordio s’intenda e sia imposto perpetuo silentio:
Testes magnificus Marianus Catalano, magnificus dominus Antonutius Cirami Ar: et Med: doctor, magnificus Gaspar Lo Giudice, Mazziotta di Neri, Franciscus la Vecchia de civitate Agrigenti, reverendus d. Joseph de Averna, clericus Orlandus de Averna, reverendus pater Monserratus de Agrò et magnificus Hieronimus Riggio.
Ex actis quondam notarij Nicolai Monteleone extracta est presens copia per me notarium Michaelem Castrojoanne Racalmuti; dictorum actorum conservatorem collectione salva.
* * *
Nei 27 articoli dell’accordo tra l’università di Racalmuto e il conte del Carretto abbiamo uno spaccato della vita sociale e civile del nostro paese, nell’ultimo ventennio del Cinquecento.
All’art. 1 abbiamo la singolare angheria di una gallina o di un galletto che ogni allevatore di polli doveva al governatore del castello, anche se a prezzo prestabilito.
All’art. 2 scatta il divieto di andare a lavare i panni alla fontana. La fontana dei nove cannoli c’era dunque anche allora e doveva avere l’aspetto che si arguisce dall’ex voto del Monte.
All’art. 3 viene imposta la macina nei mulini del conte, anche se ne viene attenuato il rigore con una disciplina abbastanza elastica. Interessante il richiamo ai mulini del Raffo, di cui ancor oggi è possibile ammirare la perizia della realizzazione, una pregevole opera di ingegneria idraulica del ’500.
L’art. 4 disciplina l’istituto della "baglia", una magistratura feudale che giudicava dei piccoli forti e riscuoteva le multe per contravvenzioni ai locali regolamenti di polizia.
L’art. 5 compendia norme sulla gabella della carne bovina, vaccina, ovina.
L’art. 6 getta spiragli di luce sulle intollerabili angherie personali che massari, donne di servizio, lavoratori subivano da parte della corte feudale.
L’art. 7 è quello nodale: reimposta i diritti di terraggio e di terraggiolo al centro dell’annosa controversia con il conte. Emergono arretrati d’imposta che i racalmutesi non hanno alcuna voglia di estinguere.
L’art. 8 esonera dal terraggio sul lino, che non crediamo dovesse essere intensamente coltivato.
L’art. 11 impartisce disposizioni sulle modalità delle estirpazioni delle vigne e sulle licenze comitali occorrenti.
L’art. 10 concerne la nomina del "rabbicoto" il commissario per il grano.
L’art. 11 contiene giusti divieti ad esigere le contravvenzioni della baglia in natura come frumento, bestiame, etc.
L’art. 12 concerne le tasse feudali sui mosti.
Con l’art. 13 viene stilato un nuovo accordo sul terraggiolo.
L’art. 14 reimposta invece il diritto del terraggio.
L’art. 15 scende in dettaglio e disciplina i diritti dovuti quando gli abitanti di Racalmuto detengono campi di stoppie fuori dello stato o mantengono vacue le terre al di fuori del territorio feudale.
L’art. 16 ribadisce e approva la consuetudine circa il modo di tenere le bestie al tempo della mietitura nel territorio e nel feudo di Racalmuto e di Garamoli.
Con l’art. 17 viene disciplinato il diritto di portar seco animali quando si va a coltivare vigne o ‘chiuse’.
Con l’art. 18 si concede una sorta di sanatoria per le vendite abusive di abitazioni all’interno dell’abitato di Racalmuto.
L’art. 19 detta norme sui tempi e modi di addurre prove nei processi.
L’art. 20 stabilisce una transazione sulle spese processuali fin allora sostenute, una sorta di reciproca rinuncia alle rispettive pretese.
Con l’art. 21 si stabilisce un rinvio ricettizio delle norme e consuetudini per quanto non espressamente previsto e stabilito.
L’art. 22 contiene l’assicurazione da parte del conte che per l’avvenire non potranno essere imposti nuovi tributi, servitù, angherie e consuetudini se non nelle forme pattizie concertate con il consiglio dell’Università.
L’art. 23 attiene alle forme pubbliche da conferire all’accordo che si è raggiunto.
L’art 24 stabilisce il terraggio per le terre "strasattate".
L’art. 25 prevede la perpetuità degli obblighi contratti sia da parte del conte che da parte dell’Università.
L’art. 26 disciplina il terraggio in misura ridotta per le terre ingabellate inferiori a salme 50.
L’art. 27 stabilisce il numero massimo di bestie che possono tenersi nel territorio di Racalmuto, Garamoli e Culmitella, presumibilmente in esenzioni d’imposta.
L’organizzazione feudale del centro agrario di Racalmuto.
Sorprendentemente, i religiosi del Carmelo di fine ’500 detenevano tutta una documentazione sugli strani debiti di uno di tali rami cadetti. Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione feudale di un centro agrario qual era Racalmuto. Con una "polisa" il 15 febbraio del 1569 il barone di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita con Antonio Pistone. «Io don Fidirico del Carretto per la presente polisa mi fazzo debitori ad Antoni Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento forti et sunno li detti ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi prestao hora dui anni in lo fego di la Menta quali frumenti prometto darli per tutto lo misi di augusto proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la presenti polisa scripta di mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^ Ind. 1579, dico salme 40 e tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»
Quale il rapporto sottostante di questa transizione di frumento della Menta, non è dato di sapere. E’ da pensare ad una speculazione granaria. Il nobile agrigentino, un cadetto della celebre famiglia, ha entrature a Racalmuto. Qui pare che non manchino gli abbienti come questo Antonio Pistuni che può tranquillamente prestare ingenti quantità di frumento. Federico del Carretto cessò di vivere qualche anno dopo.
Si ricorda dei suoi debiti nel testamento: «E’ da sapere - si può volgere dal latino - come fra gli altri capitoli del testamento fatto a mio rogito il 9 novembre p.^ Ind. 1572 dal quondam spettabile signor don Federico del Carretto un tempo barone di Sciabica, sussista l’infrascritto capitolo del seguente tenore:
«Del pari lo stesso spettabile testatore volle e conferì mandato che qualsiasi persona dovesse ricevere od avere dal detto spettabile testatore qualsiasi somma di denaro o quantità di frumento, di orzo o di altro sia saldata dalla propria moglie secondo diritto a valere sui redditi del detto spettabile testatore, sempreché quei debiti appaiano in atti pubblici o con testi degni di fede o in scritture ricevute da qualsiasi curia. E ciò volle e non altrimenti né in altro modo.»
«Faccio fede, io notaio Giovan Battista Monteleone».
Vi è un atto esecutivo della Gran Corte del XV luglio 1573 dai toni pomposamente ultimativi ma che in definitiva non fanno altro che confermare i fatti suesposti.
La curialità cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo la forma della nuova Prammatica, si dovrà procedere con l’accesso ed il recesso e per la soddisfazione di cui sopra pignorando qualsiasi bene e vendendo quelli privilegiati ... carcerando e scarcerando ed operando l’estradizione da un luogo ad un altro o da un castello all’altro ...» Ma ci limitiamo agli atti formali della locale curia racalmutese, emergendone procedure, figure locali, personaggi pubblici.
«Racalmuto 28 gennaio 1572 - atti contro donna Eleonora del Carretto per Gaspare La Matina, baiulo.
«Testi ricevuti - alcuni passi sono in latino, ma qui ne diamo la traduzione - ed esaminati a cura dello spettabile baiulo della terra di Racalmuto ad istanza e richiesta di Antonuzzo Pistuni avverso e contro la spettabile donna Eleonora del Carretto tutrice testamentaria dei propri figli e figlie, eredi del quondam spettabile don Federico del Carretto suo marito, in ordine alla verifica dei documenti.»
Identica relazione fanno i sotto indicati personaggi:
- nob. Giovanni Antonio Piamontisi, Secreto della terra di Racalmuto, con don Federico ha avuto "pratica et canuxi la sua manu";
- magnifico Jo: Saguales di Racalmuto, «che canuxi essiri la manu propria del ditto quondam et che ni havj multi polisi de causa sua et interrogatus dixit scire premissa per modum ut supra ditta sunt..»;
- hon. Vincenzo Lo Perno di Racalmuto, «como pratico che era con lo ditto quondam don Fiderico ...»;
- Diacono Martino Rizzo di Racalmuto, il quale «vitti quando ditto quondam don Fiderico scrivia la ditta polisa et la vitti scriviri et la ditta polisa scripta che fui l’appi in potiri lo ditto di Pistuni ....»;
- Reverendo don Alerico Tudisco di Racalmuto, che sa «come quillo che a pueritia usque in diem obitus canuxi a ditto quondam del Carretto et canuxi essiri ditta polisa la sua propria manu modo quo supra...».
Risulta il tutto dagli atti della curia del baiulo della terra di Racalmuto, essendone stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de Ugone (gli Ugo del Rivelo).
Sotto Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere contadino: il conte è lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è tutto a favore del feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di aggirarlo; lo contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti di Racalmuto. Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e l’arciprete Campanella riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il terraggio ed il terraggiolo. Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale borbonico sentenziò: "ius terragii et terragiolii tam intra, quam extra territorrium declaratur non deberi".
Ecco perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia (sull’onda degli anatemi del Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena ventiquattrenne - Girolamo II del Carretto: ben altre erano le responsabilità dei predecessori; ancor più inique le pretese dei suoi successori e persino dei feudatari settecenteschi che non portavano più l’esecrato nome dei del Carretto.
Oltre ad una caterva di figlie femmine, Girolamo I del Carretto lasciò tre figli maschi: Giovanni IV, suo successore nella contea di Racalmuto, Aleramo, che diverrà conte di Gagliano e resterà famoso per gli abusi amministrativi, ed un tal Giuseppe, di cui si occuparono le cronache nere del tempo.
GIOVANNI IV DEL CARRETTO
Giovanni IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da legittimarla.
Tinebra Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
Ad onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo, Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I, questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di loro hanno patrimoni apprezzabili.
In un siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni, infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15 maggio 1591] successe che essendo riportato a D. Giovanni Carretto, conte di Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
Gli mandò dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non uscendo per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato genti per tal effetto.
Lo ingannro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano per salvarli, sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì] assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola ‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì per venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista , quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà, che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco. In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
Il Tinebra Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul testo - invero arduo - del Di Giovanni (che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione, sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione (v. pag. 105-107).
L’intrico (veritiero) del conte Giovanni del Carretto.
Il Sant’Offizio.
Ma dobbiamo al Garufi queste esplicative note.
«S’aspettava ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante] - scrive l’illustre storico - e chi sa per quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il 19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo, spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un altro rapporto con le copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su due nuovi fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La Valle. [...]
[E sono fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una riguardante il fatto di "Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille", e l’altra riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo l’Inquisitore "sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice il Franchina, ad esser gravemente vilipesa". [...]».
Ed il Garufi così illustra il caso che avrebbe coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto passa a parlare del fratello del conte di Racalmuto.
«Premetto che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del Carretto, tramutato per l’occasione in un misero commensale del fratello conte di Racalmuto "teniente de oficial" del S. Officio.
«Arrestato costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una regolare sentenza di magistrato.
«E giacché la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo: che "di pieno diritto spettasse loro di giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello".
«Affermato codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi reclami a Filippo II
«La moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto, condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del 19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che Gasparo la Cannita - un personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista - faceva al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale del S. Officio contro la G. Corte per salvare l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che "gravi danni" inferti ai domini del Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
Al conte Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608 cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via Maqueda a Palermo.
Il figlio Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne fatto fuori da un servo.
Morì il 1° ( e non il 6 maggio) del 1622 all’età di appena 24 anni, 7 mesi e 3 giorni.
Il nipote Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26 febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano), colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV, re di Spagna.
Ma qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel 1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A noi sembra, decisamente compromessa.
Un sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la famiglia del Carretto.
I documenti lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI. Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio, dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel processo n. 3542 del 1600 , appare che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di barone di Cerami.
La presa del possesso di Racalmuto.
Veniamo innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di Palermo.
Defunto l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente agrigentino don Cesare del Carretto.
Eccone, in traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e degli altri atti e scritture.
«In relazione a ciò, nel predetto giorno, lo spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio, presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti, contratti e scritture, con ogni miglior modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo, libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
«E per me infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome del delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione civile e criminale e nel mero e misto imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi ed altre scritture.
«E ciò per acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
«Così come si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
«E tanto si è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco; e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
«Per nuova elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina degli ufficiali in altra occasione o circostanza.
«Per la solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero, reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi registrato a suo tempo e luogo.
«Testi presenti: chierico Francesco Nicastro; m.° Pietro Romano; m.° Marino de Mulé e m.° Pietro Cacciatore.
«Nello stesso giorno, ai fini dell’estensione del possesso predetto, fu fatto accesso per me predetto infrascritto notaro e per il detto spettabile don Cesare del Carretto procuratore, con i testi infrascritti, fuori di Racalmuto presso il feudo detto di Racalmuto, e presso i feudi di Donnacale (Donnafala?), Garamoli e Culmitella, nonché presso i giardini, le sorgenti d’acqua, i vigneti della detta contea. Ne è stato preso possesso a nome del detto ill.mo don Giovanni, facendo l’entrata e l’uscita, visionando la concessione degli erbaggi, toccandone gli alberi, facendo il lancio di pietra, ispezionando il defluvio delle acque e compiendo gli altri riti atti a dimostrare la solenne presa di possesso.
«Testi: Nicolò di Mastrosimone, m.° Pietro de Pomis e m.° Pietro Buscemi.
Dagli atti miei notaio Antonino de Gagliano, di Cerami, regio pubblico notaio del Regno.
»
Il truce personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene due dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind. 1584 - prestitit juramentum [..]»
Giovanni del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di oneri, pesi e debiti.
Il "paragio".
Tra tutti primeggiavano gli obblighi di "paragio".
Il "paragio" fu un pernicioso istituto feudale siciliano in base al quale il feudatario era obbligato a dotare figlie, sorelle, zie, e nipoti femmine (ma per queste ultime solo nel caso che il genitore non vi potesse provvedere per indisponibilità economica) in misura adeguata al loro rango.
Simpatico o meno che sia il sanguigno Giovanni del Carretto di fine ’500, è certo che sul poveraccio cadde addosso una caterva di sorelle fameliche di ‘paragio’, due fratelli che non scherzavano in fatto di pretese economiche, una figlia ‘spuria’ da dotare bene per farla sposare dal nobile Russo - forse un parente della prima moglie -, un figlio infelice avuto tardivamente da una discendente della arrogante e burbanzosa famiglia Tagliavia-Aragona della vicina Favara.
E per di più le disgrazie giudiziarie: soldi per i crimini del fratello Giuseppe (‘multa di mille fiorini’) e per quelli suoi propri (condanna ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco).
Sbuca poi un Vincenzo del Carretto che le carte della curia agrigentina danno come arciprete di Racalmuto al tempo di Girolamo del Carretto nel primo trentennio del ‘600.
Risulta da vari documenti un fratello dell’infelice conte di Racalmuto, quello ‘ucciso dal servo’ nel 1622.
Se è così, fu un altro figlio di Giovanni del Carretto (e nel caso un figlio illegittimo) da dotare se non altro per costituire il debito ‘patrimonio’ voluto dal Concilio di Trento per gli ecclesiastici.
I ‘paragi’ delle sorelle e dei fratelli buttano il germe di un tracollo finanziario dei del Carretto che avrà il suo patetico epilogo nel ‘700 (assisteremo persino ad acrimonie giudiziarie tra padre e figlio e cioè tra l’ultimo Girolamo del Carretto e suo figlio Giuseppe - chiamato così anche se il nonno si chiamava Giovanni, e forse per la perdurante vergogna della esecuzione di quel Carretto per alto tradimento nel 1650).
Racalmuto - questo feudo dei del Carretto - ne subì i danni? Tutto lo fa pensare.
Donna Aldonza del Carretto
Un saggio della pretenziosità delle sorelle di Giovanni del Carretto ce lo fornisce la terribile virago Donna Aldonza del Carretto - sì, proprio quella che dota il convento di S. Chiara a Racalmuto - la quale pure sul letto di morte non resiste nel suo testamento dal dare sfogo al suo astio verso il fratello primogenito.
Lo esclude, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, che invece limita alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quemlibet competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Ma non tutte le sorelle erano eguali per la terribile donna Aldonza.
E solo dopo un paio di nipoti che si ricorda di avere un’altra sorella. A questa solo un legato di 200 once così condizionato:
«Item ipsa tetatrix legavit et legat D. Mariae Valguarnera comitissae Asari, eius sorori, uncias ducentas in pecunia semel tantum solvendas per supradictos heredes universales infra terminum annorum quatuor numerandorum a die mensis [mortis] ipsius testatricis et hoc pro bono amore».
Uguale trattamento per il fratello Aleramo:
«Item essa testatrice lassao e lassa à D. Aleramo del Carretto suo fratello, conte di Gagliano, onzi ducento della somma di quelle denari che essa testatrici pagao à Giuseppe Platamone per esso D. Aleramo delli quali detto D. Aleramo è debitori di essa testatrici et hoc pro bono amore et pro omni et quocumque jure eiusdem D. Aleramo competenti et competituro.
«Item essa testatrice declarao et declara che della legittima quale detto Don Aleramo divi pagando onsi secento tutto lo resto di detta legittima essa testatrice la lassao e lassa a detto D. Aleramo pro bono amore».
Nel testamento non troviamo alcunché che ricordi anche il fratello Giuseppe. Forse perché già morto?
Ma non basta. Se ci si addentra nei processi per investitura dei del Carretto, sbuca fuori un’altra sorella: Beatrice del Carretto, morta nel settembre del 1592.
I del Carretto a fine secolo XVI.
Tirando le somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di ‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.
Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’. Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto, all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.
Ma torniamo al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di sicuro nel suo castello racalmutese.
Una nota di cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593] - precisa un diarista - dì 19 di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200 persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta, Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a stare alla casa di Monetta.»
Che cosa vi stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di riguardo . Se è così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari
parlano del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e narrano che l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare la scala nova della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».
Giovanni del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16 dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D. Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è vero, ma ci sta.
Giovanni del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.
Nella seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il matrimonio sia stato celebrato nel 1596.
Il primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre 1597.
Dopo tante traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il 13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di liquidità?) e presta giuramento il 18 settembre 1600.
I del Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto, almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del padre, nel 1606, venne ricondotto, insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).
Il figlio, Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel 1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).
Finché i del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel "castro" racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti, repertus hic presens testes, juratus et interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali, et accussì tempore eius vitae lo vidio teneri, trattari et reputari per patri et figlio, et cussì da tutti quelli ca lu havino canuxuto et canuxino ... quia instituit vidit et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».
Dal 1564 comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto di matrimonio. Piuttosto rada all’inizio, verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono dirsi tutte documentate.
Quanto ai del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria del Carretto.»
Quattordici anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don Giuseppe del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia del magnifico "Arthali magn. Thodisco". Infatti, il documento recita: "I padrini: ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto".
Troppo poco, come si vede.
Ebbe ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito della figlia illegittima Elisabetta.
Recenti ricerche d’archivio in Vaticano ci hanno permesso di appurare il ruolo di questo personaggio.
I del Carretto ed il vorace vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva.
Nel 1599 il vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva si vedeva costretto a difendersi presso la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, avendo avuto sentore di un libello accusatorio contro di lui che non si è lungi dal vero ritenerlo ispirato, se non addirittura scritto, dalla potente famiglia locale dei Montaperto.
Il Presule agrigentino passa al contrattacco e descrive con toni acri le sopraffazioni dell’intera nobiltà dell’agrigentino, i del Carretto compresi.
La fosca storia del chierico Vella
Sulle vicende del chierico Vella fornisce notizie Mons. De Gregorio:
«Le controversie poi per la giurisdizione o esenzione ecclesiastica non erano infrequenti.
«A Racalmuto il chierico in minoribus Jacopu Vella fu "infamato" della morte di un vassallo del Conte il quale lo fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante monitori e censure, e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi in quelle di Agrigento.
«"In detta terra li preti e clerici non godono franchezza nixuna et per ordine del conte non si da la franchezza della gabella et mali imposti et comprano come li seculari denegandoli la franchezza.
«"In detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio, sollicitaturi fiscali, e Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro Oruntio Gualtieri, foro detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti giorni tenendoli a lassari exequiri l’ordini contra detto prosecuto".
«Nella stessa terra lungamente il conte contrastò con il vescovo e il capitolo per il diritto di spoglio alla morte dell’arciprete Michele Romano.»
* * *
Nei registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie sulla morte del detto arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota, ad esempio: «die 28 Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati dopo la morte del arciprete don Michele Romano.»
Il benefizio di Sant’Agata
Al Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni dell’arciprete racalmutese.
Rimane ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S. Agata.
Non si sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio di S. Agata una qualche omonima chiesa. In uno studio del 1908 , F. M. Mirabella illustrava la figura di «Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito del Sec. XVI». Vi si parla anche dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarrusias e Leyva di Toledo.
«Certo è che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in latino di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente compensato. Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa; aveva anche conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj di Santa Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S. Leonardo fuori le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa Girgenti col reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un guiderdone condegno.»
IL MERO E MISTO IMPERIO
Nel 1582, nel testamento di don Girolamo del Carretto primo conte di Racalmuto, il lascito a Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di equivoco, la contea di Racalmuto con il «..mero et misto imperio dicti comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito per dictum dom. testatorem ...».
Ma viste le successive contese, giocò forse il fatto che nel più importante privilegio di casa del Carretto - quello della sua erezione a contea con firma autografa di Filippo II di Spagna - latita un esplicito richiamo al mero e misto imperio, anche se non mancano le locuzioni equipollenti.
Tra le varie clausole scegliamo questa (che traduciamo dal latino):
«Concesse e concede a Don Giovanni del Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in detto stato, terra, titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto stato e contea di Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi, terraggioli, censi, servitù, giurisdizioni civile e criminale, mero e misto imperio, con il titolo e la dignità di conte.»
Concetto che ritorna subito dopo: « Del pari, doniamo tutti ed integralmente i beni stabili e mobili, allodiali e burgensatici, redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, .. nonché il detto stato di Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il "mero e misto imperio" con la dignità ed il titolo di conte...».
Nel Privilegium concessionis Comitatus Racalmuti in personam Don Hieronimi de Carretto, dopo la buriana dell’esecuzione per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del Carretto, il "mero e misto imperio" non si dubita neppure essere prerogativa della Contea di Racalmuto.
Il diploma regio è chiaro: «...il feudo, lo stato ed il titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con la nostra indulgenza, ed a te don Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo di nuovo e concediamo, investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con la sua terra, i suoi dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e territori, nonché la baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro confini, con le case, i mulini, i corsi d’acqua, i boschi, e con tutte le altre singole cose della detta Contea e Baronia e relative pertinenze, comunque e dovunque inerenti, unitamente all’integrità dello stato con ogni sua causa e modo, nonché alla giurisdizione, il mero e misto imperio, la ’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli universi singoli diritti a detta Contea e Baronia spettanti, con tutte le prerogative, dignità, preminenze e clausole come tuo padre e tuo nonno ed i tuoi antecessori legittimamente avevano avuto, tenuto e posseduto ... »
Resta ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in natura (come i termini "terraggio" e "terraggiolo" fanno pensare) o in contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Nessun commento:
Posta un commento