Noi pubblichiamo qui
per intero la sentenza del processo Casarrubea Giallombardo-
La querela parte
dell’alto ufficiale dei Carabinieri Giallombardo- Noi non abbiamo né elementi, né
voglia, né interesse ad entrare nel merito di questa complessa vertenza giudiziaria.
Solo vogliamo dire che sia pure sulla base della documentazione disponibile nel
1977, Casarrubea non solo non riesce a provare le gravi accuse a Giallombardo –
che per tanti versi coinvolgono il nostro Ettore Messana - ma viene assolto per il reato di cui al capo
A9 solo per prescrizione di termini.
Riportiamo sotto il
capo A)
Mi dispiace per Malgrado
Tutto, Casarrubea può avere tutti i meriti di questo mondo, essere lo storico
che esercita il diritto costituzionale di critica, ma resta dubbio quando
trincia giudizi e confeziona gravi accuse.
Venire a Racalmuto per
censurarmi perché ho sollevato il caso se dedicare o meno una strada a Ettore
Messana, depone piuttosto male verso chi se non condannato per diffamazione ciò
si deve solo a una questione formale quale la prescrizione. Non certo perché il
fatto non sussiste o formula assolutoria simile. E Malgrado Tutto, forte di
soci addirittura avvocati cassazionisti dovrebbe cogliere intus et in cute la
differenza. Calogero Taverna
occorre conoscere il passato per dare risposte al
futuro
REPUBBLICA ITALIANA
TRIBUNALE DI PALERMO
SEZIONE DISTACCATA DI PARTINICO
In nome del Popolo Italiano
Il Giudice di
Partinico, dott. Salvatore Flaccovio, ha pronunziato la seguente
SENTENZA
Nella causa in materia
penale
CONTRO
Casarrubea Giuseppe
nato a Partinico il 04.03.1946 ed ivi domiciliato in contrada Raccuglia, n. 1
LIBERO PRESENTE
IMPUTATO
a) del delitto p. e p. dagli articoli 595, I, II e III comma c.p. art. 13
L. 8/2/1948 n. 47, per avere, quale autore delle interviste rilasciate
dall’emittente privata TV7 di Partinico in data 30.4.1997 e 5.5.1997, offeso la
reputazione di Giallombardo Roberto con il mezzo della televisione affermando
“Ferreri venne eliminato a freddo, unitamente a suo padre Vito, a Vito Corace
ed ai fratelli Pianelli in un agguato teso da parte del colonnello Roberto
Giallombardo la notte del 26 giugno 1947. Naturalmente un’esecuzione di questo
genere, in piena Repubblica, non dimentichiamo che siamo nel secondo anno della
Repubblica, é un fatto assolutamente criminale”. COMMESSO IN PARTINICO IL
30.4.1997 e il 05. 55.1997. (pag.1)
b) del delitto p. e p. degli artt. 595, I, II e III comma c.p. art.13
L.8.2.1948 n..47, per avere, quale autore del libro “Portella di Ginestra,
microstoria di una strage di Stato”, offeso la reputazione di Roberto
Giallombardo con il mezzo della stampa, scrivendo “L’episodio in realtà
accadeva in circostanze piuttosto strane. perché nel ‘imboscata cadevano,oltre
al Ferreri, il padre di questi Vito, Antonio Coraci e i fratelli Salvatore e
Fedele Pianelli,confidenti di Paolantonio, tanto più che, stando alle
affermazioni di Terranova ”Cacaova”, prima dell’uccisione di Fra Diavolo che
era rimasto ferito vi era stata una conversazione telefonica con Palermo, di
cui era stato informato lo stesso Giuliano. Ferreri venne ucciso in quello
strano conflitto a fuoco dal Giallombardo nonostante questi fosse stato
avvertito dal Paolantonio della funzione di questo confidente per la cattura di
Giuliano. Infine attribuendo a Giallombardo l’esecuzione a freddo di Ferreri.
Reati da considerarsi unificati dal vincolo della continuazione. Commesso in
Milano nel 1997.
Con l’intervento del
Pubblico Ministero Cali Leonardo delega n. 30 del 2.1.2006 e dell’Avv. Vincenzo
Gervasi e Fabio Gaetano Lanfranca di fiducia del foro di Palermo il primo anche
in sostituzione del secondo. E’assente la parte civile rappresentata dall’avvocato
Giovanni Di Trapani del foro di Palermo presente. All’ udienza del 27.1.2006 le
parti concludevano come segue:
Il Pubblico Ministero:
-(all’udienza del
5.12.2005)
Unificati i reati
sotto il vincolo della continuazione-previa concessione delle attenuanti
generiche equivalenti alla contestata aggravante – N.D.P. per prescrizione. Il
Pubblico Ministero produce memoria (pag.2)
Il difensore di Parte
civile:
conclude come da
comparsa conclusionale e nota spese che deposita.
Il difensore:
Assoluzione del
proprio assistito sia per il primo capo che per il secondo capo di imputazione
perché il fatto non sussiste e deposita memoria difensiva. (pag. 3)
Giuseppe Casarrubea,
in un momento del processo, difeso dall’avvocato Vincenzo Gervasi (Foro di
Palermo)
IN FATTO ED IN DIRITTO
Con decreto che
dispone il giudizio emesso in data 24.09.2003 da giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Palermo Casarrubea Giuseppe veniva tratto a
giudizio innanzi al tribunale di Palermo in composizione monocratico, sezione
distaccata di Partinico, per rispondere dei reati a lui ascritti come in
epigrafe.
Nel corso delle
udienze del 02. 07. 04, 16.09.04 e 14. 06. 04 venivano escussi i testi
Giallombardo Roberto ( parte civile) e Lo Cicero Baldassare e veniva acquisita
documentazione prodotta nell’interesse della parte civile.
All’udienza del
20.05.2005 questo giudice, subentrato nella conduzione del dibattimento e
seguito dal tramutamento in sede centrale del magistrato precedentemente
addetto alla trattazione degli affari penali presso la sezione distaccata di
Partinico, disponeva la rinnovazione del dibattimento: le parti insistevano sui
mezzi di prova precedentemente richiesti e consentivano all’utilizzazione delle
prove già assunte.
Nel corso delle
udienze del 06.06.05, 04.07.05, 17. 10. 05, 07. 11. 2005, venivano escussi i
testi della dipesa Lupo Salvatore, Barrese Orazio, Spanò Aristide, Ruta Carlo,
Blindano Pia, Tranfaglia Nicola, Vasile Vincenzo, il CTP Milone Livio, veniva
acquisita la relazione di consulenza redatta da quest’ultimo e altra
documentazione prodotta nell’interesse dell’imputato e della parte civile e
veniva revocata l’ordinanza ammissiva delle prove nella parte relativa ai testi
della difesa oggetto di rinuncia.
Nel corso delle
udienze 05.12.05 e 27.01.06 – rigettate le richieste istruttorie ex art.507
c.p.p. come da ordinanza allegata a verbale ed emessa ulteriore produzione
della difesa di parte civile – il PM, il difensore di parte civile e il
difensore dell’imputato formulavano ed illustravano le rispettive conclusioni
in epigrafe riportate.
Ciò posto, ritiene il
decidente che il reato di cui al capo a) della rubrica sia estinto per
sopravvenuta prescrizione; ritiene inoltre che, ai sensi dell’art. 129 co. 2°
c.p.p., ( pag. 4) dall’istruttoria dibattimentale effettuata non siano emersi
elementi per dichiarare la penale responsabilità dell’odierno imputato in
ordine al reato di diffamazione, al lui ascritto al capo b) essendo stato
provato che il reato fu commesso nell’esercizio del diritto di critica storica.
Ed invero la parte
civile Giallombardo, generale dei Carabinieri in pensione, ha riferito di avere
appreso dal nipote che l’emittente televisiva locale “TV7” aveva più volte
mandato in onda un programma, nel corso del quale il prof. Casarrubea, aveva
accusato il generale di avere ucciso delle persone (cfr. trascrizione del
verbale di udienza del 02.07.04, pagg. 32,33, 35,36).
Come si desume dal
prosieguo della deposizione del teste, l’episodio narrato in televisione
riguardava l’uccisione in data 27 giugno 1947 del bandito Ferreri Salvatore,
detto “Fra’ Diavolo”, da parte dell’allora capitano Giallombardo (cfr.
trascrizione del verbale di udienza del 02.07.04, pagg. 34, 41 e ss.).
Il Giallombardo,
sempre da una trasmissione televisiva dell’emittente citata, apprendeva che il
prof. Casarrubea aveva anche scritto il libro “Portella della Ginestra –
Microstoria di una strage di Stato”, in cui lo scrittore riportava questa sua
tesi dell’uccisione freddo del bandito da parte dell’allora capitano dei
carabinieri.
Pertanto il
Giallombardo, ritenendo di essere stato offeso, tanto dalle frasi pronunziate
dal Casarrubea durante le trasmissioni televisive che da quelle contenute nel
libro di costui, in data 25.07.1997 sporgeva querela nei confronti dello
scrittore.
Dalle visione delle
videocassette acquisite nel corso dell’udienza del 02.07.04, si evince che la
trasmissione televisiva, in cui furono pronunziate le frasi riportate nel capo
a), andò in onda in data 30.04.’97. Infatti nella successiva trasmissione del
05.05.’97, il Casarrubea, invitato negli studi dell’emittente, provò ad
attenuare il peso delle dichiarazioni rese durante l’intervista del 30.04.’97,
affermando che il Giallombardo era stato in realtà solo uno strumento “a
livello esecutivo” del col. Paolantonio. La successiva registrazione del
05.05.’97 mostra infine un giornalista dell’emittente mentre legge una
dichiarazione fornita dal generale Giallombardo. (pag. 5)
Nessun dubbio può
sussistere in ordine alla piena utilizzabilità dei documenti in questione: le
videocassette sono infatti contenute in un involucro, allegato alla CNR dei
carabinieri della Compagnia di Partinico n. 397/1 del 25.07.1997, sul quale gli
stessi carabinieri ne attestano il contenuto e la provenienza.
Tali documenti hanno
quindi fatto parte del fascicolo del PM, non essendo necessario a tal fine il
consenso del difensore dall’imputato, in quanto corpo del reato in tutto
equivalenti a quelli cartacei e certamente rilevanti.
In particolare,
durante la trasmissione del 30.04.97. CASARRUBEA, intervistato sul contenuto
del suo nuovo libro, affermava che FERRERI, confidente dell’Isp. MESSANA, aveva
informato quest’ultimo di cosa sarebbe successo l’1 maggio a Portella della
Ginestra. Aggiungeva che lo stesso FERRERI era stato eliminato a freddo,
unitamente a suo padre Vito, a Vito CORACE ed ai fratelli PIANELLI nella notte
tra il 26 ed il 27 giugno 1947, in un agguato teso da parte del colonnello
GIALLOMBARDI e che un’esecuzione del genere in piena Repubblica e da
qualificarsi come un fatto assolutamente criminale. Lo scrittore concludeva che
la banda FERRERI andava catturata e processata ; con la loro fine MESSANA aveva
invece evitato che fossero sentiti come testimoni dai giudici della Corte di
Assise di Viterbo.
Dalla lettura del
libro emerge quanto riportato nel secondo capo di imputazione, come modificato
all’udienza del 17 .10.’05, ma nell’ambito di un contesto storico più ampio:
Ferreri, detto “Fra’ Diavolo”, “dopo avere fatto il bandito, era andato a
vivere a Firenze, da cui era rientrato ad Alcamo per diventare confidente
dell’ispettore generale di P.S., Ettore Messana. Morirà, assieme ad altri
quattro uomini della sua squadra, quando, già catturato, avrebbe dovuto essere
al sicuro in una caserma. Il suo rientro in Sicilia, il suo nuovo status di
confidente, la strage di Portella e la sua morte, sono strettamente legati.”
(Portella della Ginestra – Microstoria di una (pag. 6) strage di Stato, p. 69).
Segue la narrazione di come il bandito venne in contatto con l’ispettore e
diventò confidente, secondo la ricostruzione resa dal colonnello Paolantonio al
Consiglio di Presidenza della Commissione e al Comitato di indagine (vedi libro
citato, p. 69, nota 81).
Lo scrittore aggiunge
che il fatto “accadeva in circostanze piuttosto strane perché nell’imboscata
cadevano oltre a Ferreri, il padre di questi, Vito, Antonino Coraci e i
fratelli Salvatore e Fedele Pianelli, confidenti di Paolantonio…. Tanto più
che, stando alle affermazioni di Terranova Cacaova, prima dell’uccisione di
Fra’ Diavolo, che era rimasto ferito, vi era stata una conversazione telefonica
con Palermo, di cui era stato informato lo stesso Giuliano.” (vedi libro
citato, p. 69).
Nella pagina
successiva lo scrittore, riassume brevemente il rapporto del capitano dei
carabinieri Giallombardo (cfr. libro cit. pag. 70) e poi ne evidenzia una serie
di incongruenze: “com’è possibile che, decorso tutto quel tempo, tra la
consegna del detenuto e il rientro del capitano, il Ferreri non fosse già al
sicuro e in manette….? E come era possibile che un ferito, in condizioni di
totale svantaggio, avesse potuto provocare una colluttazione? E come mai non fu
prestato alcuno soccorso al ferito?”.
CASARRUBEA,
quindi,dopo aver sottolineato che l’operazione aveva fruttato al capitano una
medaglia d’argento al valor militare, spiega che con l’uccisione dei componenti
della banda erano stati raggiunti gli obiettivi di eliminare tre testimoni (i
Pianelli e Ferreri) della strage di Portella della Ginestra e, quindi, di
privare l’istruttoria di elementi decisivi, nonché di eliminare anelli di
connessione tra forze dell’ordine e i banditi.
In ordine alla
consapevolezza del Giallombardo di trovarsi di fronte a un confidente
l’imputato scrive: “Ferreri viene ucciso in quello strano conflitto a fuoco dal
Giallombardo, nonostante questi fosse stato avvertito dal Paolantonio della
funzione di questo confidente per la cattura di Giuliano.” ( vedi libro citato,
pag. 71 e nota 83 che rinvia al testo delle dichiarazioni (pag.7) rese dal
generale PAOLANTONIO al consiglio di Presidenza della Commissione e al Comitato
d’Indagine).
Lo scrittore aggiunge
che il bandito Terranova “Cacaova”, “al momento del suo interrogatorio,
ritenendo che fosse ancora operante il Sicilia l’Ispettorato di PS, non fece i
nomi dei mandanti per il timore che avrebbe fatto la stessa fine di Ferreri”,
così indicando nell’Ispettorato il mandante dell’omicidio Ferreri. Anche
PISCIOTTA confermò: “i Pianelli e Ferreri furono uccisi perché non facessero i
nomi dei mandanti.” (vedi libro citato, pag. 171 e nota 166).
CASARRUBEA infine, nel
suo libro, ritorna sull’argomento relativo alla morte del Ferreri e degli altri
della sua banda, con degli interrogativi e delle considerazioni: “Giallombardo
era stato avvertito dalla mafia di Alcamo, sul punto esatto da dove sarebbero
transitati i banditi…chi aveva informato la mafia che Ferreri era diventato un
confidente? E quale era il motivo della sua eliminazione? E quando il bandito,
ferito, nella caserma di Alcamo, chiese di essere portato a Palermo e spiegò
che era un “agente segreto” al servizio dell’ispettore Messana, perché venne
ugualmente ucciso, con una “esecuzione a freddo?” Appare improbabile che il
motivo possa essere stato una colluttazione avviata da Fra’ Diavolo. Questi era
ferito e si sarebbe dovuto trovare dentro la camera di sicurezza… Due ore
prima… si era appreso di un incontro avvenuto tra il MESSANA ed il FERRERI…
Addosso al bandito furono trovati… un regolare porto d’armi che l’ispettore si
affrettò a ritirare, nonostante fosse stato repertato, e una tessera di
riconoscimento… intestata a Salvatore Rossi, un carabiniere, autista di
Paolantonio.”.
Il Gen. GIALLOMBARDO
ha, con la sua deposizione, mirato a dimostrare la falsità delle affermazioni
dell’imputato.
Egli ha riferito che
nel 1947 era comandante della compagnia CC di Alcamo. In quel periodo era
impegnato nella ricerca di un pericoloso bandito, Salvatore Ferreri, detto “Fra
Diavolo”, indagato per l’omicidio di tale Monticciolo, al quale aveva, per
altro, tagliato la testa, nonché di una rapina ad una autocisterna (pag. 8)
piena di alcool, avvenuta nei pressi di Castellammare del Golfo.
Un confidente lo
avvisò che verso la mezzanotte, tra il 26 e il 27 giugno, il Ferreri avrebbe
partecipato ad una riunione con alcuni delinquenti della zona, nel territorio
di Alcamo.
Il capitano pertanto
aveva predisposto il servizio, costituendo due squadriglie di carabinieri
armati di fucili da caccia, pistole, moschetti e bombe; la prima sotto il suo
comando con il compito di affrontare direttamente i banditi e l’altra,
comandata dal brigadiere Colantoni, con il compito di chiudere ogni via di fuga
ai criminali.
L’ufficiale inoltre
individuò la località Canapè come zona ideale per accerchiare la banda. Quindi,
dopo aver individuato i ricercati a seguito di una perlustrazione, si diresse
nella zona prescelta insieme alla sua squadriglia. Giunto sul posto intimò
l’alt ai banditi, ma questi risposero aprendo il fuoco. Ne seguì un violento
conflitto a fuoco, durante il quale persero la vita FERRERI VITO, padre di Salvatore,
i due fratelli PIANELLI, e CORACE ANOTNINO, mentre alcuni carabinieri rimasero
feriti.
Il capitano, per
comprendere meglio l’esisto del conflitto e procedere ad un primo
riconoscimento dei banditi deceduti, si recò in caserma a prendere un’autovettura
di servizio e successivamente procedette ad illuminare l’area con i fari della
stessa. Durante tale ultima operazione, dai gradini di un magazzino si alzava
un soggetto, gridando: “Non mi toccate. Io sono un agente segreto
dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza. Portatemi subito a Palermo”.
GIOALLOMBARDO decise
quindi di accompagnare in caserma tale soggetto ed affidarlo al maresciallo LO
BELLO, con l’ordine di metterlo in camera di sicurezza. Egli sospettava
trattarsi di Fra’ Diavolo, ma non essendo sicuro decideva di tornare sul posto
del conflitto e verificare le caratteristiche fisiche dei deceduti. A seguito
di tale accertamento si rafforzava nell’ufficiale l’idea che SALVATORE FERRERI
fosse proprio quel soggetto qualificatosi come agente segreto.
Tornato in caserma
affrontò il bandito, ancora fuori dalle camere di sicurezza, dicendogli di
averlo riconosciuto; questi (pag. 9) allora gli sfilò una pistola tenuta tra la
cinta e la pancia e provò a sparare, con esito negativo, poiché l’arma era in
sicura. Seguì una colluttazione, all’esito della quale il capitano sparò due
volte in testa al FERRERI con una pistola di calibro 6,35.
Infine, giunto sul
posto il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani, il
capitano GIALLOMBARDO, venne convocato presso l’ufficio del gen. Dei CC.
CALABRO’, per una riunione insieme all’ispett. di Pubblica Sicurezza MESSANA E
al colonnello PAOLANTONIO. Quest’ultimo, però, su richiesta espressa del
GIALLOMBARDO, non partecipò alla riunione.
Nel corso di tale incontro
l’ispett. MESSANA accusò il GIALLOMBARDO di avere ucciso FERRERI nonostante
avesse saputo dal col. PAOLANTONIO che il bandito era un loro confidente ed
anzi proprio per tale motivo. Seguì una lite durante la quale il capitano
contestò la veridicità di tale affermazione.
Successivamente, nel
corso dell’autopsia, alla quale assistette anche il GIALLOMBARDO, questi ebbe
modo di verificare che il FERRERI era stato attinto anche all’addome da un
pallettone del fucile da caccia sparato dal brig. CALANTONI nel corso del
conflitto a fuoco. I medici legali gli riferirono che il FERRERI sarebbe morto
comunque di peritonite a causa di questa prima ferita, come del resto annotato
anche nel processo verbale di descrizione di cadavere del 28.06.1947, redatto
dal G.I. dott. G. MACALUSO.
Nel corso del suo
esame da parte del PM e del difensore di parte civile, il gen. GIALLOMBARDO ha
fatto inoltre più volte riferimento ad una serie di documenti, prodotti dalla
difesa di parte civile all’udienza del 02.07.04. In particolare il teste ha
ricordato l’attestato di conferimento della medaglia d’argento da parte del
Presidente della Repubblica, l’elogio della giunta di Alcamo, la lettera di
compiacimento del generale dei CC, il Rapporto Giudiziario da lui steso in data
01.07.47, in ordine al conflitto a fuoco, l’archiviazione in data 30.12.1948
del procedimento penale cui il GIALLOMBARDO fu sottoposto per la morte dei
banditi. (pag. 10)
Ma rilevanti nuove
circostanze, precisazioni ed anche contraddizioni, emergono in sede di
controesame del teste da parte del difensore dell’imputato.
In primo luogo è
infatti risultato che il confidente che avvertì GIALLOMBARDO dell’incontro, cui
doveva partecipare il FERRERI nei pressi di Alcamo, era un appartenente alla
mafia locale (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.’04, pag. 35).
In secondo luogo il
teste ha chiarito che il Rapporto Giudiziario del 01.07.’47, da lui
sottoscritto, era stato in realtà redatto dal suo superiore, maggiore Marinesi
Vincenzo (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.’04, pag. 50).
Rilevante è inoltre la
contraddizione emersa in ordine alle condizioni fisiche del Ferreri, al momento
in cui questi si fece notare dai gradini del magazzino: il GIALLOMBARDO ha
insistito nell’affermare che il bandito appariva perfettamente sano (“era un
grillo…un felino”) e che non sanguinava; ma nel Rapporto Giudiziario è invece
riportato che il FERRERI disse subito: “Non mi toccate, sono ferito…” (cfr.
trascrizione dell’udienza del 16.09.04, pagg. 93, 94, 95 e del 14.10.04, pagg.
6, 33, 34).
Altro particolare
importante riguarda il momento in cui i carabinieri trovano FERRERI e la
consapevolezza del capitano GIALLOMBARDO, già da quel momento, di trovarsi
proprio di fronte al bandito. A tal proposito il teste dice: “Io coscientemente
sapevo di affrontare Fra’ Diavolo, perché sapevo di affrontare Fra’ Diavolo.”
(cfr. trascrizione dell’udienza del 14. 10. 04, pag. 7). Nonostante ciò il
FERRERI non venne ammanettato durante il trasporto né dentro la caserma, perché
l’ufficiale aveva dato credito all’affermazione del bandito di essere un agente
segreto ( cfr. trascrizione dell’udienza del 14. 10. 04, pagg. 24-25).
Elemento di assoluto
rilievo emerso nel corso del dibattimento è che il Rapporto Giudiziario del
01.07.1947, non solo è stato in realtà redatto dal maggiore MARINESI VINCENZO e
non dal firmatario dell’atto, ma riporta delle circostanze false, relative
proprio al momento critico dell’uccisione del bandito FERRERI. (pag. 11)
In particolare il gen.
GIALLOMBARDO ha riferito che durante la colluttazione né il maresciallo LO
BELLO né il carabiniere GUERCIO gli diedero l’aiuto descritto nel rapporto, ma
anzi lo lasciarono solo: “Il maresciallo LO BELLO soffriva di stomaco. Se l’era
fatta addosso. Ed è andato via. E mi ha lasciato solo. Il carabiniere GUERCIO
dichiara che con il moschetto cercava di… Ma non è vero…non poteva esserre
armato in caserma…il moschetto si usa nelle perlustrazioni… scappò pure lui”.
Ne deriva che i due carabinieri non furono testimoni dell’uccisione del FERRERI,
contrariamente a quanto da costoro sostenuto nel corso dell’indagine che seguì
a tale fatto (cfr. trascrizione dell’udienza del 14.10.04, pagg. 55,59,60,61).
Del resto il testre aggiunge che in realtà solo sua moglie fu presente alla
fase finale del confronto con il bandito (cfr. trascrizione dell’udienza del 14
.10.04, pag. 63).
Infine il
GIALLOMBARDO, ricordando la sua convocazione alla riunione presso l’ufficio del
generale CALABRO’, precisa di aver espressamente richiesto che il col.
PAOLANTONIO non partecipasse a tale incontro, proprio perché sapeva che questi
avrebbe sostenuto di averlo per tempo informato dei rapporti esistenti tra
FERRERI e l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza (cfr. trascrizione dell’udienza
del 14.10.04, pag. 95).
Gli elementi probatori
introdotti dalla difesa dell’imputato, mediante escussione di diversi testi e
produzioni documentali, hanno fatto luce sullo stato della conoscenza del fatto
storico al momento della stesura del libro “Portella della Ginestra-
Microstoria di una strage di Stato” e sul metodo scientifico d’indagine seguito
dall’imputato, con particolare riferimento alla raccolta del materiale
utilizzato e alla verifica delle fonti, dalle quali esso è stato prelevato.
Il teste LUPO
SALVATORE, professore ordinario di storia contemporanea presso la Facoltà di
Lettere dell’Università di Palermo e autore del libro “Storia della mafia dalle
origini ai nostri giorni”, ha affermato che FERRERI, secondo le acquisizioni
universalmente note ed accertate da atti giudiziari, era stato un confidente
dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza ed aveva (pag. 12) promesso
all’ispettore MESSANA di consegnargli GIULIANO (trascrizione dell’udienza del
06.05.05, pag. 12) .
Il teste ha precisato
che fonte molto autorevole sull’argomento è l’archivio documentale lasciato da
FRANCESCO SPANO’, capo dell’ispettorato interprovinciale dopo MESSANA e
maggiore collaboratore del prefetto MORI. L’ispettore, in particolare sostenne,
in documenti poi pervenuti al figlio ARISTIDE, che FERRERI era uomo nelle mani
della cosca alcamese dei RIMI, i quali indicarono all’Ispettorato il FERRERI,
come possibile tramite per arrivare a GIULIANO. SPANO’ riteneva che VINCENZO
RIMI era fiduciario per l’uccisione di FERRERI da parte dei carabinieri, perché
temeva che il bandito, arrestato, parlasse.
Il prof. LUPO ha
inoltre spiegato che per la gran parte degli storici la fine del FERRERI è da
ritenersi “misteriosa” sia per le modalità della stessa sia perché il bandito
era un possibile testimone della strage di Portella della Ginestra e forse
addirittura conosceva i mandanti della stessa. FERRERI, infatti, aveva riferito
al colonnello PAOLANTONIO di una lettera ricevuta da GIULIANO, il quale, dopo
averla letta, disse: “Domani dobbiamo andare ad uccidere i comunisti a Portella”
(trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 17, 21, 33).
Il teste, infine,
nella sua qualità di professore universitario e di esperto della materia
trattata, ha detto di ritenere che nel libro in questione siano stati esaustivi
la raccolta del materiale utilizzabile e lo studio delle fonti dalle quali esso
è stato prelevato e che lo scrittore abbia riportato una versione dei fatti
largamente condivisa nella comunità degli studiosi (trascrizione dell’udienza
del 06.06.05, pag. 23, 24).
Il teste Barrese
Orazio, giornalista ed autore del libro “La guerra dei sette anni” sul bandito
Giuliano ha riferito di aver seguito, negli anni Settanta, tutti i lavori della
Commissione parlamentare di Inchiesta sulla mafia, ed in particolare, della
sottocommissione Mafia e banditismo.
Egli ha in particolare
affermato che, in base ai suoi studi FERRERI era stato presente il giorno in
cui GIULIANO, tra il 27 e il 28 aprile 1947, aveva deciso la strage di
Portella, annunciando al resto della banda: “E’ venuta l’ora della nostra
liberazione”(pag. 13). Il particolare della sua presenza in tale occasione, é
infatti suffragata da diverse testimonianze rese durante il processo di Viterbo
e davanti alla Commissione Antimafia ( trascrizione dell’udienza del 06.06.05,
pag. 47, 48,68,69,70).
Il bandito GIOVANNI
GENOVESE, deponendo davanti al giudice istruttore del tribunale di Roma, su
tale circostanza aveva rivelato: “Il 27 o il 28 aprile 1947,…..sono venuti a
trovarmi GIULIANO con i fratelli PIANELLI ed il FERRERI SALVATORE… verso le ore
quindici è sopraggiunto SCIORTINO PASQUALE, il quale portava una lettera….Hanno
letto il contenuto della lettera….Dopo averla letta, la bruciarono con un
cerino… Egli allora mi ha detto: ‘E’ venuta la nostra ora della liberazione…
bisogna fare un’azione contro i comunisti: bisogna andare a sparare contro di
loro, il primo maggio a Portella della Ginestra…. Presenti alla nostra
discussione erano i fratelli PIANELLI ed il FERRERI” (vedi documentazione
allegata alla relazione conclusiva della Commissione parlamentare di Inchiesta
sul fenomeno della mafia in Sicilia, doc. n. XXIII, n.2, vol. IV, deposizione
di GENOVESE GIOVANNI, prodotta in copia all’udienza del 07.11.05).
Barrese ha aggiunto
che, dalle stesse fonti, testimonianze rese durante il processo di Viterbo e
davanti alla Commissione Antimafia, si evince anche la presenza del bandito
FERRERI a Portella, il giorno della strage.
La circostanza è per
altro affermata nella sentenza pronunciata dalla Corte d’ Assise di Viterbo:
“Della presenza di costui fra i roccioni della Pizzuta al momento della
consumazione del delitto, non può davvero dubitarsi ”. ( Sentenza del 3 maggio
1952 emessa dalla Corte di Assise di Viterbo contro Salvatore Giuliano ed
altri, pubblicata nell’ambito dei lavori della Commissione Cattanei, Relazione
approvata il 10.02.1972, prodotta in copia all’udienza del 07.11.05).
Venne invece negata
dal generale PAOLANTONIO, durante le sue deposizioni nelle citate sedi
istituzionali; questi sostenne infatti che il FERRERI in quel periodo stava
male, tanto che nei giorni successivi alla strage il bandito venne operato di
appendicite grazie a interessamento del PAOLANTONIO (trascrizione dell’udienza
del 06.06.05, pagg. 68, 69, 70 e testo delle dichiarazioni (pag. 14) rese dal
generale GIACINTO PAOLANTONIO al Comitato di indagine sui rapporti tra mafia e
banditismo, seduta del 25.03.’69, prodotto il copia all’udienza del 07.11.05).
Il teste BARRESE
quindi ha precisato che ciò che veramente rileva è che FERRERI era stato a
conoscenza della decisione di GIULIANO di compiere la strage: avendo, come pare
probabile, il bandito fornito tale informazione all’ispettore MESSANA,
quest’ultimo si era trovato nella difficile situazione di chi sapeva e non
aveva fatto nulla per evitare la strage, con tutte le conseguenti
responsabilità. A quel punto per l’ispettore sarebbe stato inevitabile decidere
di eliminare il suo informatore, il quale se arrestato, avrebbe potuto riferire
di avere avvisato il MESSANA del progetto di strage, potendo anzi vantare tale
informazione come titolo di merito (trascrizione dell’udienza del 06.06.05,
pagg. 55, 73, 74, 75).
La deduzione in ordine
al fatto che FERRERI avesse informato MESSANA dei preparativi per la strage è
fondata anche su quanto riferito dal senatore GIROLAMO LI CAUSI. Questi, poche
ore dopo l’eccidio si recò in prefettura, ove era presente l’ispettore MESSANA,
il quale ebbe a dire: “Per me la strage è stata consumata da GIULIANO”. Alla
richiesta di chiarimenti (“Come fa lei a saperlo”?), lui non rispose (vedi
copia del libro “Banditi, mandanti e governo nella strage di Portella della
Ginestra”, pag. 63, prodotta all’udienza del 0711.05). Il senatore per altro
aveva sostenuto tale sua tesi anche nella seduta parlamentare del 23.06.1949
(vedi stralcio della seduta, pubblicato durante i lavori della Commissione
parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni
criminali similari, doc. XXIII, n. 6 del 28.04.1998, parte prima, prodotto
all’udienza del 0711.05).
Il giornalista BARRESE
ha anche confermato quanto scritto nel suo libro e da lui appreso dalla lettura
delle deposizioni di PAOLANTONIO alla Corte di Assise di Viterbo ed alla
Commissione Antimafia: PAOLANTONIO “qualche tempo prima dei fatti DI Alcamo…si
era recato presso l’allora capitano GIALLOMBARDO per informarlo dei rapporti
che c’erano tra MESSANA…e Fra’ Diavolo” (trascrizione dell’udienza del
06.06.05, pagg. 50, 57, 58). (pag. 15)
In effetti il
PAOLANTONIO sul punto aveva affermato: “FERRERI ci interessava ed appunto per
questo l’ispettore MESSANA disse: “Senti, FERRERI è ad Alcamo; può darsi che
GIALLOMBARDO lo peschi. Se ritieni sia il caso, avverti GIALLOMBARDO che noi
abbiamo questi contatti e quindi che, per lo meno, ci informi…”. Io andai…. Il
capitano GIALLOMBARDO, preoccupato di sue responsabilità poi ha negato a
qualcuno che gli ho parlato ed ho avuto contatti con lui…Io sono andato e gli
ho detto: “Capisci che se per te FERRERI è un merito, tanto per farti dare un
encomio, per noi è una pedina che ci deve portare a un obiettivo molto più
importante?” (testo delle dichiarazioni rese dal generale GIACINTO PAOLANTONIO
al Consiglio di Presidenza ed al Comitato di Indagine sui rapporti tra mafia e
banditismo, seduta del 22.10.1969, prodotto in copia all’udienza del 07.11.05).
Il teste ARISTIDE
SPANO’ , figlio del citato capo dell’ispettorato di Pubblica sicurezza, ha
confermato che in un documento del padre è scritto che VINCENZO RIMI “fu il
fiduciario per l’uccisione di FERRERI, perché temeva che FERRERI arrestato
potesse parlare” (trascrizione dell’udienza del 04.07.05, p. 13).
Egli ha aggiunto che
le ipotesi sulla fine del FERRERI erano tante, ma in ogni caso il bandito
doveva essere eliminato perché a conoscenza di segreti. La versione ufficiale
non pare al teste credibile.
RUTA CARLO, autore del
libro “Il binomio Giuliano-Scelba”, in merito alla fine del FERRERI, ha
ribadito quanto scritto nel suo libro e cioè che “in realtà si trattò di
un’esecuzione a freddo. Si parlò, in particolare, di un ordine perentorio,
pervenuto via telefono, dal Comando Regionale Carabinieri di Palermo, che a sua
volta dovette ricevere precise direttive da altre sedi. Fra’ Diavolo fu insomma
il primo testimone di troppo ad essere stato soppresso dentro un edificio dello
Stato”.
Egli ha spiegato di
avere fondato il suo ragionamento sugli atti ufficiali, su testi di altri
autori ed anche sulla stampa dell’epoca (BESOZZI, ADELFI); in relazione al
presunto ordine telefonico, ha tenuto a precisare che non essendoci prove certe
(pag. 16) egli ha solo scritto “si parla di un ordine” (trascrizione
dell’udienza del 04.07.05, pagg. da 56a 60).
La tesi dell’uccisione
a seguito di una telefonata è riportata anche da Giuseppe Mazzola, nel suo
libro “Banditismo, mafia e politica”. L’autore infatti scrive: “Ritengo,
invece, che, dall’altro capo del telefono, siano arrivati ordini perentori di
chiudere per sempre una bocca che avrebbe dovuto svelare inquietanti intrighi
di Stato” (vedi copia del libro citato, pag. 34, prodotta all’udienza del
07.11.05).
Del resto è GASPARE
PISCIOTTA, davanti alla Corte di Assise di Viterbo, a sostenere: “Il capitano
GIALLOMBARDO uccise Fra Diavolo in questo modo: prima sparò una raffica di
mitra all’auto su cui stavano Fra’ Diavolo, suo padre e i due fratelli PIANELLI
che tornavano da un incontro segreto con la polizia di Alcamo. Solo Fra’
Diavolo rimase vivo e il capitano lo portò in caserma. Da lì telefonò a Palermo
e quando ebbe finita la telefonata, completò il suo lavoro”vedi copia del libro
“Storia di Salvatore Giuliano di Montelepre” di SANDRO ATTANASIO E PASQUALE
PINO SCIORTINO, pag. 134, copia del libro “L’impero del mitra di SALVATORE
NICOLOSI, pag. 507, nonché il libro “Portella della Ginestra” di ANGELO LA
BELLA e ROSA MECAROLO, pag. 97, prodotti all’udienza del 07.11.05).
Anche TERRANOVA
ANTONINO, nel corso del processo di Viterbo, sostenne che “prima dell’uccisione
del Ferreri vi fu una conversazione telefonica con Palermo ed io seppi che di
questa telefonata GIULIANO tutto aveva saputo. Con precisione come pervenne
tale notizia a GIULIANO può dirlo GASPARE PISCIOTTA”. (verbale delle
dichiarazioni rese da TERRANOVA ANTONINO al processo di Viterbo, prodotto
all’udienza del 07.11.05).
La teste PIA BLANDANO
HA RIFERITO CHE NEL 1995, PRESSO IL Tribunale di Roma, ha aiutato il prof.
CASARRUBEA a selezionare e fotocopiare documentazione relativa al processo di
Viterbo ed in particolare la sentenza, le deposizioni e i documenti presenti
nel fascicolo. Ha così confermato quanto in realtà si evince facilmente dalla
lettura del libro dell’imputato e delle relative note e cioè che una delle
fonti principali di tale testo è stata (pag. 17) la documentazione afferente al
processo di Viterbo sulla strage di Portella della Ginestra.
NICOLA TRANFAGLIA,
professore di storia contemporanea all’Università di Torino e autore del libro
“Mafia, politica e affari: 1943-1992”, si è occupato anche dei rapporti tra
mafia e banditismo, utilizzando come fonti la relazione conclusiva della
commissione parlamentare antimafia presieduta da CATTANEI, in particolare la
relazione specifica del commissario BERNARDINETTI sul caso GIULIANO e sui
rapporti mafia e banditismo, nonché gli atti del processo di Viterbo ed in
generale tutti gli atti delle varie commissioni antimafia.
Il teste, consultando
anche documenti dei servizi segreti americani, desecretati dal governo CLINTON,
ha potuto comprendere che il bandito FERRERI aveva un rapporto riservato con
alcuni esponenti delle forze dell’ordine italiane e morì perché sapeva troppe
cose riguardanti la strage di Portella della Ginestra (trascrizione
dell’udienza del 17.10.05, pagg. 23, 24).
Rilevanti a tal
proposito appaiono alcuni stralci, riportati nel libro sopra citato del teste,
della Relazione della Commissione CATTANEI sui rapporti tra mafia e banditismo
in Sicilia, firmata dal senatore MARZIO BERNARDINETTI: “La morte del bandito
FERRERI, uno degli informatori e uno dei protagonisti della strage di Portella
della Ginestra, già catturato e al sicuro in una caserma, per mano di un
ufficiale dei Carabinieri; la stessa morte di GIULIANO, colto nel sonno e
quindi inerme e innocuo per mano di un altro bandito: sono fatti questi che
sconcertano profondamente e danno adito alle considerazioni più severe e
financo al sospetto di collusione tra le forze di polizia ed i banditi… Certo
si è che anche la non chiara fine di FERRERI e lo stesso mistero che avvolge la
morte di PISCIOTTA non contribuiscono a chiarire quell’ultimo periodo di vita
della banda GIULIANO”. (vedi copia del libro “Mafia, politica ed
affari:1943-1991”, pagg. 20 e 42, prodotta all’udienza del 07.11.05, nonché
trascrizione dell’udienza del 17.10.05, pagg. 33, 34, 35).
Il consulente tecnico
di parte, dott. LIVIO MILONE, esaminati i documenti e le foto dell’epoca,
nonché gli atti del presente procedimento, ha ritenuto incompatibile la
versione del Generale (pag. 18) GIALLOMBARDO in ordine all’uccisione del
FERRERI con i dati medici e balistici emersi dagli atti ufficiali e dalle
notizie fornite dal Generale (vedi relazione di consulenza del 16.10.05, agli
atti e trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 64 e ss.).
In particolare il
consulente ha evidenziato alcune palesi incongruenze:
1) il Gen. GIALLOMBARDO ha dichiarato di aver esploso al capo del FERRERI
due colpi di pistola cal. 6,35, ma il medico intervenuto per la visita esterna
del cadavere descrisse “una ferita d’arma da fuoco alla regione sopraciliare
destra”. I medici legali che effettuarono l’autopsia rilevarono due ferite al
lobo frontale destro, sneza però indicare alcun elemento balistico repertato; ma
i proiettili, a causa del loro piccolo calibro, avrebbero dovuto trovarsi
all’interno della scatola cranica. I dubbi sulle ferite alla testa sono
rafforzati dalla fotografia del cadavere del bandito.
2) Il teste GIALLOMBARDO ha riferito che il FERRERI era stato attinto allo
stomaco da un pallettone sparato dal fucile da caccia del brigadiere CALANTONI.
Ma dal processo verbale di descrizione di cadavere del 28.06.1947 (vedi anche
verbale prodotto all’udienza del 07.11.05) risulta che anche la ferita all’epigastrio
era stata prodotta da proiettile d’arma da fuoco di piccolo calibro esploso a
breve distanza (vedi relazione di consulenza del 16.10.05, agli atti e
trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 64 e sgg.).
3) Il generale ha affermato che il bandito, al momento in cui fu scoperto,
non appariva in alcun modo ferito e di avere appreso solo al momento
dell’autopsia che quest’ultimo era stato attinto allo stomaco da un pallettone
del fucile da caccia del brigadiere CALANTONI. Ma il tipo di ferite all’epigastrio,
evidenziate nel processo verbale di descrizione del 28.06.1947, avrebbe dovuto
comportare una emorragia addominale di una certa intensità, una fuoriuscita di
materiale gastrico, di materiale ileale e fecale, tali da comportare il decesso
del FERRERI per peritonite (trascrizione udienza del 17.10.05, pag. 108).
4) In ordine alla più volte riferita colluttazione tra il GIALLOMBARDO ed
il FERRERI, il consulente osserva che dai documenti (pag. 19) medico-legali
dell’epoca non si evincono escoriazioni e lesioni compatibili con tale
racconto; in ogni caso la grave ferita allo stomaco riportata dal bandito non
avrebbe consentito a questi di aggredire il capitano dei carabinieri
(trascrizione udienza del 17.10.05), pagg. 88,90, 107, 108).
5) Il dott. MILONE ha anche confutato la tesi che il GIALLOMBARDO riferisce
di avere appreso dai medici legali dell’epoca e cioè che il pallettone sarebbe
stato fermato dal contenuto gastrico (una grossa quantità di pastasciutta) e
che quindi all’apparenza era come se il bandito avesse ricevuto un forte pugno;
il consulente esclude la rilevanza di un qualsiasi contenuto gastrico, ma in
particolare in questo caso le stesse lesioni indicate nel processo verbale di
descrizione di cadavere indicano che il pallettone (o proiettile) non è stato
trattenuto a livello gastrico (trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 104.
105).
Del resto lo stesso
GIALLOMBARDO, al processo di Viterbo, riguardo alle condizioni fisiche di
FERRERI al momento in cui fu scoperto dai carabinieri, aveva dato una versione
differente da quella fornita nel presente processo: “Quando fu fermato da me il
FERRERI ferito, egli mi disse di essere ferito…” (verbale della deposizione di
GIALLOMBARDO ROBERTO, pag. 2, prodotto all’udienza del 07.11.05).
Il giornalista VINCENZO
VASILE, autore del libro “Salvatore Giuliano un bandito a stelle e strisce”, ha
confermato quanto riferito dagli altri testi della difesa in merito ai rapporti
di FERRERI con l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza e con i carabinieri, alla
presenza del bandito durante la strage di Portella e durante i preparativi
della stessa, alla inverosimiglianza della versione ufficiale sulla fine del
FERRERI.
Anche lo scrittore
GIUSEPPE CARLO AMRINO, nel suo libro “La Repubblica della forza”, evidenzia:
“Sta di fatto che uno dei possibili e più informati testimoni, il bandito
SALVATORE FERRERI…un confidente dell’ispettore MESSANA che aveva partecipato
alla riunione nel corso della quale era stata organizzata la strage del 1°
maggio, era stato eliminato dalla polizia con procedure analoghe a quelle che
sarebbero costate la vita (pag. 20) al povero anarchico PINELLI al tempo della
vicenda VALPREDA” (vedi libro citato, p. 91, prodotto all’udienza del
04.07.05).
Le dichiarazioni
dell’imputato indicate nei capi di imputazione, sia quelle dallo stesso
profferite nel corso della trasmissione televisiva del 30.04.1997 che quelle
riportate nel libro “Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di
Stato”, appaiono oggettivamente lesive dell’onore del querelante. Per entrambi
i reati ricorre la causa di estinzione della prescrizione ma, ai sensi
dell’art. 129 co.2° c.p.p., risulta evidente da quanto emerso dall’istruttoria
dibattimentale che il fatto di cui al capo b) non costituisce reato, in quanto
l’imputato ha agito nell’esercizio del diritto di critica storica e nei limiti
dello stesso.
Giurisprudenza
consolidata della Suprema Corte, ai fini della configurabilità dell’esimente di
cui all’art. 51 c.p. per i reati di diffamazione a mezzo stampa, individua i
limiti all’esercizio dei diritti di cronaca e di critica, che discendono
dall’art. 21 della Costituzione: “l’interesse che i fatti narrati rivestano per
l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; la correttezza
dell’esposizione di tali fatti, in modo che siano evitate gratuite aggressioni
all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; la
corrispondenza rigorosa tra i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il
principio della verità, principio comportante l’obbligo del giornalista di accertare
la verità della notizia e il rigoroso controllo della attendibilità della
fonte” (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 5941 del 05.04.2000).
Ma la Corte di
Cassazione, con giurisprudenza ormai costante in tema di diffamazione a mezzo
stampa, distingue il diritto di critica da quello di cronaca “in quanto, a
differenza di quest’ultimo non si concretizza nella narrazione di fatti, bensì
nell’espressione di un giudizio e, più in generale, di un’opinione che, come
tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica non può
che essere fondata su un’interpretazione necessariamente soggettiva dei fatti.
Ne deriva che quando il discorso giornalistico ha una funzione prevalentemente
valutativa, non si pone un problema di veridicità delle proposizioni (pag. 21)
assertive ed i limiti scriminanti del diritto di critica, garantito dall’art.
21 Cost., sono solo quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e
dalla correttezza di espressione, con la conseguenza che detti limiti sono
superati ove l’agente trascenda in attacchi personali, diretti a colpire su un
piano individuale la sfera morale del soggetto criticato, penalmente protetta”.
(Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 2247 del 02.07.’04).
Per altro per la
Suprema Corte è “giudizio di mero fatto quello avente ad oggetto la
qualificabilità di una data manifestazione del pensiero come cronaca o come
critica, fermo restando che nella seconda di tali ipotesi il limite del diritto
di critica è segnato solo dal rispetto dei criteri della rilevanza sociale
della notizia e dalla correttezza delle espressioni usate”. (Cass. Pen. Sez. 5,
Sentenza n. 20474 del 14.02.2002).
La Corte è inoltre
intervenuta più volte nell’individuare i confini del corretto esercizio del
diritto di critica storica, riconoscendo una più ampia tutela alle affermazioni
contenute in un’opera storica, in virtù del principio della libertà dell’arte e
della scienza, sancito dall’art. 33 Cost.: infatti “in tema di diffamazione a
mezzo stampa (art. 595 cod. pen.), l’esercizio del diritto di critica storica
postula l’uso del metodo scientifico che implica l’esaustiva ricerca del
materiale utilizzabile, lo studio delle fonti di provenienza e il ricorso ad un
linguaggio corretto e scevro da polemiche personali. Ne deriva che il giudice,
al fine di stabilire il carattere storico dell’opera, oggetto di contestazione,
deve accertare l’esistenza – quanto meno sotto forma di indizi certi, precisi e
concordanti – delle fonti indicate e utilizzate dall’autore per esprimere i
propri giudizi, con la conseguenza che è illegittima la decisione con cui il
giudice di perito pervenga alla affermazione di responsabilità il ordine al
delitto di cui all’art. 595 cod. pen., da un canto, limitando il diritto della
difesa alla controprova e, in particolare, impedendole di pervenire alla prova
storica dei fatti posti a fondamento della tesi sviluppata nell’opera suddetta
e, dall’altro, pervenendo ad una valutazione di offensività di alcune frasi
estrapolandole dal contesto, il cui vaglio è (pag. 22) necessario per pervenire
ad un giudizio obiettivo e completo e, quindi, per stabilire se l’opera in
contestazione ricada sotto la tutela dell’art. 21 Cost. o sotto quella più
ampia dell’art. 33 Cost.” (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 34821 del
11.05.2005).
Anche condivisibile
giurisprudenza di merito ha individuato “i limiti scriminanti del diritto di
critica, che si fonda non solo sull’art. 21 Cost. che tutela la libertà di
manifestazione del pensiero, ma anche sull’art. 33 Cost. che garantisce la
libertà di creazione artistica e di ricerca scientifica, non coincidono con
quelli del diritto di cronaca, non potendosi pretendere il requisito della
verità richiesto per la sussistenza di quest’ultima scriminante, proprio perché
ogni ricostruzione di fatti passati è necessariamente soggettiva” (Tribunale di
Milano, 29 marzo 1999).
Nella fattispecie,
quindi, appare in primo luogo necessario che le frasi di cui al capo b) della
rubrica siano valutate non estrapolandole dal contesto di un’opera di oltre
trecento pagine, ma vagliando l’opera nel suo complesso.
In tal modo è
possibile valutare se l’opera di Casarrubea debba essere considerata solamente
sotto l’aspetto della libera manifestazione del pensiero ovvero trovi tutela
anche nel più ampio ambito della tutela della libertà della ricerca scientifica
di cui all’art. 33 della Costituzione.
Ed invero, nel libro
di Giuseppe Casarrubea “Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di
Stato” sono sicuramente ravvisabili il metodo scientifico di indagine, la
esaustiva raccolta del materiale utilizzabile, l’autorevolezza delle fonti,
diverse ed esattamente individuate, nonché la correttezza di linguaggio e
l’assenza di attacchi personale i polemici.
Dalle lettura del
libro si evince agevolmente inoltre che oggetto di studio è un evento passato,
esaminato nella sua ampiezza e sotto varie sfaccettature.
Il libro in esame ha
ad oggetto la strage avvenuta l’1 maggio 1947 a Portella della Ginestra.
L’accadimento è affrontato, nel testo dell’imputato, in tutta la sua
complessità e cioè avendo riguardo al periodo storico in cui si verificò, al
contesto sociale e politico, ai fenomeni della mafia e del banditismo (pag. 23)
dell’epoca, agli eventi che seguirono alla strage, alle indagini di polizia ed
alle vicende giudiziarie del fatto principale e di quelli in qualche modo
connessi.
L’istruttoria
dibattimentale ha fatto emergere che l’autore ha seguito senz’altro un metodo
scientifico, basato su una indagine complessa, in cui persone, avvenimenti e
rapporti sociali sono divenuti oggetto di un esame articolato, che ha condotto,
su base di dichiarazioni e di elementi di fatto espressamente individuati e
puntualmente richiamati nelle note, alla formulazione di tesi, per altro
condivise da gran parte della comunità scientifica (trascrizione dell’udienza
del 06.06.05, teste LUPO SALVATORE, pag. da 17 a 24).
L’attività di ricerca,
raccolta e selezione del materiale utilizzato per realizzare l’opera in
questione, è stata La più completa possibile ( vedi le deposizioni dei testi
LUPO SALVATORE E BLANDANO PIA). Dalla lettura del libro emerge con chiarezza
che le fonti, da cui è stato tratto il materiale, sono essenzialmente atti
giudiziari di vari processi, che hanno avuto ad oggetto l’accertamento dei
fatti narrati, in particolare gli atti del processo svoltosi presso la Corte di
Assise di Viterbo nei confronti di SASLVATORE GIULIANO ed altri e la relativa
sentenza del 3 maggio 1952, gli atti del procedimento per l’uccisione di
FERRERI SALVATORE e degli altri quattro banditi, nonché atti di varie
commissioni parlamentari di inchiesta sulla mafia e sul banditismo e testi di
altri autori che hanno studiato la meteria.
Tutte le fonti sono
esattamente individuabili, in particolare mediante lettura delle note in calce
ad ogni singola pagina.
Il linguaggio
adoperato dallo scrittore appare sereno, pacato, scevro da astio personale e
mirato esclusivamente a favorire la migliore comprensione del fenomeno
descritto.
Il testo in esame
infine racchiude in sé aspetti anche solamente informativi, ma essi sono
funzionali alla successiva valutazione, nella quale gli avvenimenti descritti
vengono riletti in chiave critica, sulla base delle intuizioni logiche e dei
collegamenti che l’autore effettua tra i vari fatti (pag. 24).
L’opera del CASARRUBEA
può pertanto definirsi “libro di storia” e, in presenza dell’offesa dell’altrui
reputazione, può configurarsi operante la scriminante del diritto di critica
storica.
Occorre tuttavia
verificare se l’imputato, nell’usare le espressioni evidenziate nel capo b)
della rubrica, abbia rispettato i limiti del diritto in esame.
Sostenere infatti che
in tali casi non si può pretendere il diritto della verità, “non comporta
affatto che il diritto di critica, anche nell’ambito della ricerca storica,
possa diventare strumento di aggressione dell’altrui reputazione. E’
sicuramente consentito, all’esito di una ricostruzione storica, formulare
conclusioni negative che suonino riprovazione morale dell’individuo, purché le
intuizioni storiche siano fondate su accadimenti dimostrati, tanto più
rigorosamente quanto più squalificante sia il giudizio espresso. Esulano
infatti dall’opera storica, proprio per l’imparzialità e l’obiettività che
devono caratterizzarla, mistificazioni e ricostruzioni della realtà mutilate e
deformate ad arte, o asserzioni e giudizi privi del necessario supporto
motivazionale, che presuppone la leale rappresentazione dei fatti riportati e
il controllo della corrispondenza alla realtà degli elementi addotti a
fondamento della propria opinione” (Tribunale di Milano, 29 marzo 1999).
Nel caso di specie
appaiono rispettati i limiti del corretto esercizio del diritto di critica
storica.
In merito ai fatti
descritti nel capo b) della rubrica, l’imputato affettivamente ha scritto:
“L’episodio in realtà accadeva in circostanze piuttosto strane perché
nell’imboscata cadevano oltre a FERRERI, il padre di questi,VITO, ANTONIO
CORACI e i fratelli SALVATORE E FEDELE PIANELLI, confidenti di PAOLANTONIO…
tanto più che, stando alle affermazioni di TERRANOVA Cacaova, prima
dell’uccisione di FRA DIAVOLO, che era rimasto ferito, vi era stata una
conversazione telefonica con Palermo, di cui era stato informato lo stesso
GIULIANO. FERRERI viene ucciso in quello strano conflitto a fuoco dal
GIALLOMBARDO, nonostante questi fosse stato avvertito dal (pag. 25) PAOLANTONIO
della funzione di questo confidente per la cattura di Giuliano… e quando il
bandito ferito, nella caserma di Alcamo, chiese di essere portato a Palermo, e
spiegò che era un “agente segreto” al servizio dell’ispettore MESSANA, perché
venne ugualmente ucciso, con una “esecuzione a freddo?”.
Tale ricostruzione
storica ed il conseguente giudizio sulla condotta tenuta nella circostanza dal
cap. GIALLOMBARDO, appaiono fondate su accadimenti dimostrati. Si tratta per
altro di intuizioni storiche largamente condivise dalla comunità scientifica
(vedi le deposizioni dei testi della difesa e le opere storiche prodotte anche
in copia) e di giudizi negativi espressi anche da organi dello Stato (vedi
sopra, pag. 15,Relazione della Commissione parlamentare Cattanei sui rapporti
tra mafia e banditismo in Sicilia, firmata dal senatore MAURIZIO
BERNARDINETTI).
Occorre sottolineare
che lo scrittore ha offerto una ricostruzione completa della morte del FERRERI,
riportando, anche se per confutarla, la versione ufficiale, citando il Rapporto
giudiziario redatto dall’allora capitano GIALLOMBARDO e indicando persino
l’onorificenza ricevuta da quest’ultimo a seguito dell’uccisione del FERRERI (
vedi sopra, pag. 3,4,5).
Analizzando i singoli
punti della contestazione si deve osservare, in primo luogo, che il termine
“imboscata”, adoperato dallo scrittore per indicare l’operazione che condusse
al conflitto a fuoco con i banditi appare di per sé privo di una connotazione
negativa, indicando il fatto pacifico che i carabinieri si erano appostati in
attesa dei banditi, facendoli così cadere in una trappola.
In secondo luogo
risulta dimostrato che TERRANOVA ANTONINO, durante il processo di Viterbo,
abbia riferito che, prima dell’uccisione di FERRERI, vi era stata una
conversazione telefonica, di cui era stato informato lo stesso GIULIANO.
L’episodio della telefonata è per altro confermato dallo stesso GASPARE
PISCIOTTA, davanti alla Corte di Assise di Viterbo (vedi sopra pag. 14).
La circostanza che il
PAOLANTONIO avesse per tempo informato GIALLOMBARDO dei rapporti esistenti tra
FERRERI e l’ispettorato di (pag. 26) Pubblica Sicurezza emerge dalle
deposizioni del primo davanti alla Corte d’Assise di Viterbo ed al comitato
d’indagine sui rapporti tra mafia e banditismo, seduta del 22.10.69 (vedi
sopra, pag. 13).
Lo stesso
GIALLOMBARDO, ricordando la sua convocazione alla riunione presso l’ufficio del
Gen. CALABRO’, subito dopo la morte DEL FERRERI, ha precisato di aver
espressamente richiesto al Gen. che il Col. Paolantonio non partecipasse a tale
incontro, proprio perché già sapeva che questi avrebbe sostenuto di averlo
tempestivamente informato dei rapporti esistenti tra FERRERI e MESSANA (vedi
sopra, pag. 9) .
Mentre e pacifico che
FERRERI si fosse subito qualificato quale “agente segreto “, per quanto attiene
alla condizioni fisiche del bandito al momento del arresto, il Gen.
GIALLOMBARDO ha in udienza affermato di non essersi accorto che il bandito
fosse stato ferito gia nel primo conflitto a fuoco. Lo stesso generale però
aveva firmato il Rapporto Giudiziario in cui si dava atto che il FERRERI disse
subito di essere ferito; inoltre GIALLOMBARDO ribadì tale informazione
deponendo al processo di Viterbo (vedi supra, pag. 17).
Su tale aspetto il CTP
ha dichiarato che le ferite all’epigrastrio, evidenziate nel processo verbale
di descrizione del 28.06.1947, avrebbe dovuto comportare una evidente emorragia
addominale e una fuoriuscita di materiale gastrico, di materiale ileale e
fecale (vedi supra, pag. 16).
Infine lo scrittore si
chiede perché FERRERI, nonostante si fosse qualificato come agente segreto, fu
ucciso con una “esecuzione a freddo”.
Innanzitutto l’autore
riporta tale espressione tra virgolette, proprio per segnalare la non
originalità della stessa. Tale espressione era stata infatti già usata da Carlo
Ruta, nel suo libro “Il binomio Giuliano- Scelba” e da SALVATORE NICOLOSI, nel
libro “L’impero del mitra”. Lo stesso concetto è espresso anche da Giuseppe
Mazzola, nel suo libro “Banditismo, mafia e politica” (vedi supra, pag. 13-14).
La tesi secondo cui
FRA DIAVOLO fu ucciso dal GIALLOMBARDO, non a seguito di una colluttazione
provocata dal primo, (pag. 27), ma “a freddo” in seguito ad un ordine
telefonico, emerge, come detto, dalle dichiarazioni rese da TERRANOVA e
PISCIOTTA al processo di Viterbo.
Si tratta di una
intuizione storica che però è in contrasto con quanto narrato dal querelante
sul punto e con gli atti giudiziari relativi al procedimento penale subito dal
GIALLOMBARDO conclusosi con la sua archiviazione.
Tuttavia il teste
GIALLOMBARDO, nel corso della sua deposizione, è caduto in numerose
contraddizioni ed in inspiegabili incongruenze con atti ufficiali e
considerazioni logiche e medico-legali.
Egli infatti sembra
avere mentito in ordine alle condizioni fisiche del FERRERI al moamento
dell’arresto, forse per rispondere ai dubbi sulla possibilità di una
colluttazione provocata da un soggetto gravemente ferito; così invece
giustificando tali dubbi. Del resto o il bandito era gravemente ferito, ed
allora non poteva certo scatenare una lite dall’esito scontato, ovvero non lo
era, ed allora si trattava di un feroce e pericoloso bandito che non poteva non
essere ammanettato e chiuso in una camera di sicurezza ed anche in questo caso
non avrebbe potuto avventarsi contro il capitano. Inoltre in quest’ultimo caso
resterebbe il mistero su chi e quando avesse procurato al FERRERI la ferita
allo stomaco, in effetti descritta nel verbale di autopsia come procurata da
proiettile di piccolo calibro da distanza ravvicinata.
Il generale ha inoltre
affermato che non era stato informato dal PAOLANTONIO del ruolo di FERRERI come
confidente di MESSANA; ma, oltre alle contrarie dichiarazioni rese dal
PAOLANTONIO al processo di Viterbo, egli stesso è caduto in contraddizione
affermando di avere espressamente richiesto al generale CALABRO’ che il
PAOLANTONIO non partecipasse all’incontro previsto, perché sapeva che questi
avrebbe sostenuto di averlo informato di tale ruolo del FERRERI.
Nel corso della
deposizione del querelante, come detto, è emersa anche la falsità del suo
Rapporto Giudiziario del 01.07.’47, non solo da un punto di vista formale, in
quanto in realtà redatto da un soggetto diverso dal firmatario e comunque (pag.
28) non presente ai fatti, ma da un punto di vista sostanziale, nella parte in
cui attesta la presenza del mar. LO BELLO e del car. GUERCIO durante la
colluttazione con il FERRERI.
Come conseguenza non
sembra più utilizzabile dal GIALLOMBARDO, a sostegno della propria versione, il
provvedimento di archiviazione emesso dal Giudice Istruttore di Trapani in data
30.12.1948, basato evidentemente proprio su tale rapporto e sulle deposizioni
dei due falsi testimoni.
Inoltre tutte le sopra
riportate considerazioni del consulente di parte non possono alimentare i dubbi
sul reale svolgimento dei fatti che portarono il bandito FERRERI alla morte.
Del resto accettando
un’informazione da un confidente appartenente alla mafia, si accetta il rischio
di essere strumentalizzati dalla stessa.
In conclusione, a
fronte di una poco chiara versione dei fatti offerta dal querelante, la tesi
del querelante sulla fine del bandito FERRERI, impossibile da documentare
oggettivamente (poiché opinioni e giudizi possono essere condivisibili o meno,
ma non certamente essere veri o falsi), trova fondamento in fonti certe ed
appare plausibile e sostenibile.
In assenza di
testimoni degli ultimi momenti di vita del bandito, in considerazione delle
molteplici contraddizioni e falsità evidenziate, nonché del lungo lasso di
tempo intercorso dal fatto, non sembra oggi possibile ricostruire una verità
processuale sull’uccisione di SALVATORE FERRERI: la vicenda pertanto rimane
affidata al giudizio della storia e dei suoi studiosi.
Casarrubea Giuseppe
DEVE QUINDI ESSERE ASSOLTO DAL REATO ASCRITTOGLI AL CAPO B) perché IL FATTO NON
COSTITUISCE REATO, IN QUANTO COMMESSO NELL’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI CRITICA
STORICA.
Diversamente, in
ordine al reato contestato al capo a), non risulta dagli atti evidente, ai
sensi dell’art. 129, secondo comma c.p.p. che il fatto non costituisce reato.
In primo luogo si
osserva infatti che le dichiarazioni contestate non sono contenute in un libro
di storia, ma sono state pronunciate dall’imputato nel corso di un’intervista
televisiva che non può certo essere qualificata come opera letteraria tutelata
dall’art. 33 della Costituzione. (pag. 29).
Le gravi parole
profferite, “eliminato a freddo”, “esecuzione”, “fatto assolutamente
criminale”, non hanno trovato adeguata spiegazione nel corso della breve
intervista.
In sostanza, mentre il
lettore del testo del CASARRUBEA ha la possibilità di apprendere tutto il
contesto storico ivi descritto, compresa la versione ufficiale della vicenda,
di conoscere le fonti su cui lo storico basa il suo ragionamento, ed
eventualmente di giungere a conclusioni diverse da quelle dello scrittore, lo
spettatore della trasmissione televisiva del 30.04.1997 ha potuto solo ascoltare
la tesi dello scrittore, presentata come unica possibile versione dei fatti: in
tal modo non sembrano essere stati rispettati i limiti del diritto di cronaca o
di critica, poiché appunto la te3si dello scrittore è stata esposta come unica
verità e poiché l’espressione “fatto assolutamente criminale”, peraltro
pronunciata al di fuori di un contesto più ampio, viola il sopra descritto
principio di continenza.
Ciò posto, il reato
ascritto all’imputato al capo a) della rubrica deve essere dichiarato estinto
per essere decorso il ternine di prescrizione previsto dalla legge (artt.
157-160 c.p.), rilevato che si tratta di reato commesso in data 30.04.1997 e
ritenute concedibili le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle
contestate aggravanti, in considerazione dell’incensuratezza dell’imputato e
della sua personalità.
P.Q.M.
Visti gli artt. 157 e
ss. C.p., 531 c.p.p.
DICHIARA
Non doversi procedere
nei confronti di CASARRUBEA GIUSEPPE in ordine al reato di cui al capo A),
essendo lo stesso estinto per sopravvenuta prescrizione;
Visto l’art. 530 primo
e terzo comma s.p.p. (pag.30)
ASSOLVE
CASARRUBEA GIUSEPPE
dal reato ascrittogli al capo b) perché il fatto non costituisce reato, in
quanto commesso nell’esercizio del diritto di critica storica;
indica in giorni
novanta il termine per il deposito della motivazione.
Partinico, lì 27
gennaio 2006-06-29
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