Il nostro
galantuomo compila una lista di duecento nomi – tutti quelli che odiava o di
cui si voleva vendicare o per un motivo o per un altro - e lo porta a Canicattì per il confino in
Africa. Tra questi vi era Nardu
Sciascia e don Pino Matina; vi era pure
un altro giovane che mi pare fosse Fofu
la Gadda. Ne ebbe sentore il neo sindaco, il celeberrimo – per i
racalmutesi, e celebrato da Tanu Savatteri – don Ballassaru Tinebra. Questi si precipitò a Canicattì e bloccò
arrabbiatissimo il provvedimento. Sarà stato quello che si dice (e si scrive),
sarà stato ammazzato da ignoti, o da C. come credo, il mandante sarà stato
ignoto oppure - e pare – certo, sarà
stato l’ex affittuario di Gibillini, sarà stato quel che volete, ma Sciascia,
don Pino Matina ed altre centinaia di Racalmutesi si risparmiarono un paio di
anni di confino in Africa per la solerzia e l’umanità di questo primo sindaco
imposto dagli americani, tramite il solito Guarino Amella di Canicattì. Questa
era allora mafia; questa era allora infiltrazione mafiosa, ma non risulta che
si avesse voglia di inviare a Racalmuto prefette
in gonnella per sbaragliare le nostre cosche mafiose.
”La trasuta di li miricani” a Racalmuto, Sciascia
ce la racconta, molto sapidamente, in Kermesse. In quel tempo avevo pur io età per ricordare
qualcosa. In tante parti del racconto del Racalmutese i ricordi combaciano, in
altre no. Per il seguito credo di sapere ciò che Sciascia non volle confessare.
L’esordio è frutto di erudita ricerca storica. Sfracella il generale Roatta; un
tempo mi era sembrato eccessivo, ma un bel giorno del marzo 2012 Enzo Macaluso
mi trascina nel museo di Catania e lì quel proclama ironizzato da Sciascia c’è
esposto e mostra davvero la marronata di quel generale: davvero – ho pensato –
la guerra è una cosa molto seria per farla fare ai generali.
Dopo, lo scrittore fa una cronaca di guerra
diversa dai miei ricordi e dalle versioni che pur bambino riuscivo a
decriptare. Io racconto la mia versione.
Da San Giuliano, nel primo pomeriggio del 14 o 15
o 16 luglio del 1943 affacciato nell’ “astracu” della mia vecchia casa natia di
Via Fontis dei documenti (divenuta
poi via Fontana ed ora Via Gramsci), vedo scendere una ronda di tre soldatoni,
marziale il passo. Martellante l’incedere, armatissimi, casco in testa. Fucili
in pugno. “ I tedeschi .. i tedeschi” gridavano alcuni. A Racalmuto i tedeschi
non c’erano. Soldati italiani tanti, a lu
cannuni, davanti a “ma mamma Cuncittì”. A frotte. Mangiavano nelle loro
gavette. Molti seduti sul marciapiede lungo tutta la facciata del fortilizio;
altri appoggiati alle inferriate di “lu Cannuni”. Un pacioso in divisa
grigio-verde prese in braccio mio fratello Luigi, allora belloccio e
biondiccio, e cominciò a baciarlo. Mia nonna terrorizzata voleva levaglielo di
mano ma quel pacioso militare gli disse in dialetto nordico: me lo lasci
baciare un po’: ho un bambino come questo che non vedo da mesi. E’ bello come
questo qui. Mio fratello aveva manco tre anni.
“ Che tedeschi e tedeschi” risposero altri.
“Questi, americani sono”. Sgomento, prima, perplessità, dopo. Infine come una
folgorazione: “viva gli americani”. Figli
di taliani sunnu. Abbasso il duce,
stu’ gran curnutazzu, ca nni rruvinà. E giù battimano , tutti a batter le
mani. La ronda si rasserenò, sorrise persino. Gli americani “eranu trasuti a
Racalmuto”.
Sciascia sapidamente irride al noto proclama
Roatta. Come ho precisato, lo ebbi a leggere in una gita fatta con Enzo
Macaluso visitando il museo sullo sbarco di Catania, un museo molto agghindato.
Ne vale la pena visitarlo, anche se forse molto esuberante per una sola decina
di giorni di storia siciliana. Ma trattasi di inquietanti vicende a raggio
planetario. Altre priorità della tanto incalzante Sicilia, se aspettano, non è
poi malanno esiziale.
A leggere le invocazioni roattiane non si può non
dare ragione a Sciascia. Quando Sciascia scriveva, non credo che si soppesasse
ancora a pieno il movimento di Bossi, considerato a torto o a ragione
antisiciliano. Poi quel movimento crebbe e per reazione il sentire siciliano
divenne nazionalista e gli empiti separatisti del primo dopoguerra si
afflosciarono. Un tantinello anche i miei. Solo che ora mi sento cittadino del
mondo nato a Racalmuto. Se ho bisogno di una patria fisica, mi rifugio a
Racalmuto, se mi si parla di valori nazionali ne rifuggo reputandomi uomo alla
pari di quei sei o sette miliardi di esseri umani sparsi per l’intero mondo. Ce
l’ho con l’Italia intera dopo che ho ben capito che cosa significò
l’essere stato mio nonno disperso di
guerra. Della guerra del 15-18, per intenderci. Mio nonno aveva soltanto 37
anni nel ’17. La strategia militare dei generali del tempo rimase terribilmente
nota per usare gli esseri umani in grigio-verde come muraglia all’avanzare del
nemico: che avanzava e sparava e falcidiava. Mio nonno aveva comprato una mula;
stava salendo di grado nella scala sociale dell’era giolittiana: da mezzadro a
coltivatore diretto. Aveva già cinque figli. La moglie ancor più giovane
divenne subito vedova per la faccenda di Caporetto. Mio nonno sparì e nella
burocrazia militare fu segnato come disperso. Ancor oggi non si sa ove fu
sepolto. Sinceramente non gliene importava nulla a mio nonno di liberare Trento
e Trieste. Non capiva neppure una parola di quel dialetto veneto, lui
analfabeta che le lettere alla moglie se le faceva scrivere da qualcuno lì al
fronte che lu cuocciu di la littra ce
l’aveva.
Dal fronte mio nonno urgeva: che si recasse mia nonna
a supplicare la suocera. Mio nonno padre di cinque figli era; ben tre altri
suoi fratelli erano sotto le armi. Lui aveva diritto a venire congedato, gli
avevano detto. Bastava che la madre ne facesse istanza. Mia bisnonna, mamma
Pippina – matriarca vera e dispotica e tutta la famiglia, maschi e femmine
teneva sotto di sé – non se ne dava per intesa: “sì, fazzu turnari Caliddu .. e
cchi bbeni intra nni mia; intra nni tia ssi nni va … va … va, vattinni va” . Mia nonna la odiò
per tutta la vita. A noi nipoti, ci fuorviava con quelle invettive contro la
suocera. Noi nipoti finimmo col crederle … e la bisnonna divenne una odiosa
“mamma Pippina” come se non fossimo sangue del suo sangue.
Sarà! I miei ricordi stridono. Una mia zia monaca
che mi sembrava tanto vecchia ed invece aveva appena 33 anni, aveva dovuto
lasciare il convento per i tremendi bombardamenti americani ed era venuta a
dimorare a casa nostra. Tutta nera di vestito, destava preoccupazione. Si
diceva che gli americani scambiassero chi andava vestito di nero per fascista e
lo mitragliavano di colpo. Un carrettiere racalmutese ebbe a morire per le mitraglie americane sol
perché – si diceva – aveva la camicia nera per un lutto strettissimo:
altrettanto si disse per un contadino racalmutese trucidato dagli
anglo-americani. Brava gente si vorrebbe
oggi.
A far levare l’abito monacale e farla vestire da
cristiana qualunque, non c’era verso e la monaca, provvisoriamente di casa, non
si sapeva come nasconderla. Fu così che anzitempo andammo “fori”, nella
casettina di la Curma, mia nonna, la
figlia monaca, una nipote cresciutella, mio fratello Giacomo, ed anche Giovanni
e Luigi.
Questo avvenne nei primissimi di Luglio. Si
sussurrava dappertutto che la guerra era persa e francamente questo non
interessava ad alcuno: sia pure
vagamente si pensava che i disagi potessero diminuire. Va detto che a
Racalmuto, fame vera e propria non ve ne fu. Si coltivava la terra e l‘arriconta bastava per tutti; il pane –
non quello della tessera che era immangiabile e serviva ai bambini per
appallottolare la mollica e farne palline da gioco – che si mangiava veniva
accompagnato dalla pasta, dal sugo di pomodoro maturato al sole o dall’astrattu nel periodo invernale.
Racalmuto ha sempre prodotto vino, non di eccelsa qualità, ma sempre vino
genuino era; nutriente. Favi, ciciri,
piseddi, cacuocciuli, puma, piruna, ficu, e fucudinii, in abbondanza. Chi
non aveva terra comprava al mercato nero da chi ce l’aveva. V’era l’obbligo
dell’ammasso. Sciascia, che per via dello zio gerarca era privilegiato, ebbe
subito un posticino negli uffici comunali dell’ammasso. Credo che dopo se ne
vergognasse un po’. In FUOCO ALL’ANIMA qualcosa dice, molto nasconde.
Quella storiellina del contadino e dell’arciprete
va un tantinello rettificata: a Racalmuto tutti in quel tempo facevano il
mercato nero con il grano, cercando di non darlo per nulla all’ammasso, ove
bivaccavano due baldi giovanotti raccomandati. Sciascia dice di non essere
andato militare perché gracilino. Se non avesse avuto un paio di zii quasi
federali, ci sarebbe andato e come. I due – il contadino e l’arciprete –
finirono nei guai il primo per testardaggine, il secondo per astiosa vendetta.
La storia del contadino, che contadino non era ma un buon burgisi con figlie femmine che non tutte sposarono e con tre figli
maschi divenuti professionisti di tutto rilievo, quando me la raccontarono
molto mi son divertito. Ora non la ricordo più bene. Aveva un figlio ufficiale
il contadino e si credeva una parte dello stato; come potevano molestarlo per
una sciocchezza che, se reato era, tutti i racalmutesi erano colpevoli, anche
l’arciprete. L’arciprete subì anch’egli l’onta del processo, ma più accorto ne
uscì assolto, l’altro, invece, cominciò a sbraitare, ad insolentire e forse
aveva ragione: appunto per questo indispettì oltre misura i giudici, che la
coscienza pulita al riguardo non ce l’avevano neppure loro, ed ecco una bella
condanna a dispetto.
I due giovanottoni, per essersi acquistata una
buona dose di malevolenza da parte di un dottore non medico, alquanto irritabile, dovevano finire dopo tra
i berberi in Africa. Il famiglio del grande mafioso Calogero Vizzini – già
quando come dice Sciascia in fuoco
all’anima, “la mafia era la mafia” ed è frase se non elogiativa almeno
lievemente ammiccante – evitò a Canicattì presso il comando alleato la
deportazione, come si disse, e così Sciascia poté dopo persino vincere il
concorso a maestro elementare. Insegnò a Racalmuto, svogliatamente, se vogliamo
esser sinceri. I suoi meriti sono letterari, non didattici, né storici (almeno
nel campo della microstoria locale) e per quel che mi riguarda nemmeno
politici. Né con lo Stato né con le Brigate rosse non fu frase molto felice. La
cena con Berlinguer, Guttuso e lo
scrittore finì in tribunale ma ancora non c’è sentenza. Io sono per Berlinguer
e per Guttuso. Il giornalista
racalmutese, molto bravo, Macaluso è rissosamente per Sciascia: si vede
che ne sa più di me.
In NERO SU NERO di Sciascia, a pag. 118, trovo
questa chicca: «Ho vivo il ricordo di quel che è successo quando, nel ’43,
l’amministrazione militare alleata nei territori occupati AMGOT: ne ripeto la
sigla assaporando l’amarezza di un tempo, (più che perduto, deluso) mostrò di
avercela coi fascisti e di gradire denuncie contro i più pericolosi e
disonesti. Non uno ne fu denunciato e subì deportazione in Algeria che non
fosse degli onesti, degli innocui, dei ‘fessi’ (e cioè di quelli che dal regime
in articulo mortis avevano accettato
quelle cariche da cui i furbi ormai si defilavano). I facinorosi , i
profittatori, i ladri furono non solo risparmiati, con una selezione a rovescio
che si può dire senz’altro perfetta, ma furono segnalati alla fiducia degli
ufficiali americani ed inglesi, che gliene accordarono.»
Certo quella ‘i’ in più nelle denunce, lascia un po’ stupiti. Il quadro è
dilettevole. A voler fare le pulci al grandissimo Sciascia, diciamo che tra
quei “fessi” vi fu a Racalmuto solo don Bardiddu,
che maresciallo e segretario politico, chi per devozione fanatica e chi per il
pane quotidiano che insieme al companatico elargiva la benemerita, non potevano
passare tra i “furbi” tra i quali Sciascia qualche suo parente stretto (meglio
affine, forse) sapeva vi annidasse. E meno male che tra i “facinorosi, i profittatori e i ladri”,
vi fu qualcuno che, dopo, impedì la
deportazione in Africa del Nostro. Il quale, ora lassù, mentre col profittatore
(fulminato dalla lupara davanti Danieli) sta a rimembrare “questo pianeta”, un
qualche “ingrato” se lo becca. Queste vicende mi sono state narrate da don Pinu Matina, per me un gran signore, un
“galantuomo”, uno di quelli di cui si sono perse le tracce al Circolo Unione.
Anche lui prossimo alla deportazione. Lui sempre grato ed obiettivo anche.
D’altronde poteva urtare la suscettibilità di chi talora gli stava vicino impettito nella signorile poltrona del
Circolo.
Nella sua primavera letteraria Sciascia scrisse
KERMESSE. Quattro o cinque pagine sapide, deliziose, ironiche, veritiere. Solo
un po’ pudiche nella parte finale.
Prende
subito di mira ROATTA e il suo proclama: lo lessi al museo dello sbarco di Gela
a Catania. I generali, non solo non sanno fare la guerra ma se si cimentano nelle cose della storia,
sanno anche, loro malgrado, divertire. A Roatta attribuisce il merito di essere
stato il «primo ad avvertire i siciliani che italiani proprio non potevano
considerarsi e che gli italiani si proponevano di difendere i siciliani allo
stesso modo e nello stesso sentimento dei “camerati” tedeschi.»
Che i miei compaesani di Racalmuto avessero il
complesso del “cambiar bandiera” non ha riscontro nella mia memoria.
Preoccupazione, invece, tanta, perché non si sapeva che fine potessero fare i
loro cari che – poco raccomandati – erano finiti in Grecia; quelli d’Algeria, come mio zio Luigi,
presi prigionieri dagli inglesi, abbiamo saputo dopo, finirono in Inghilterra,
stivati per giorni in navi, sotto tiro di aerei e a rischio di siluramento dai
sottomarini tedeschi, quando non italiani. Mio zio Luigi, classe ’14, nel 1939
parte per la leva; non fa tempo a concluderla e su un trabiccolo sorvola il
Mediterraneo per finire in Africa a fare il meccanico. Preso prigioniero dagli
inglesi approda nella grande isola britannica, si rifiuta di collaborare e
viene sfruttato come uomo della terra: un ritorno coatto al mestiere del
padre. Ritornerà in Italia il 29 giugno
1945. Parte ventunenne, ritorna
trentunenne: non ebbe giovinezza. Era un grande affabulatore, ma appena settantaquattrenne muore di cancro,
dopo ampie metastasi alla gola e per quasi dieci anni non poté parlare, privo
dell’unico suo piacere, quello della loquacità. Che strano mondo questo qui! A
mio nonno non importava nulla di Trento e Trieste e lo spogliano della vita a 37
anni. A mio zio gli piaceva tanto vivere e parlare e per un quinquennio lo
costringono a coltivar patate in terra di Albione, terra a lui del tutto
estranea e che non amava di certo. Mia nonna paterna, sempre vestita di nero,
col fazzoletto bianco in testa non so se a trent’anni piangesse il marito che
per cinque volte l’aveva resa madre in manco nove anni; sembrò uscir di mente
per il figlio disperso, per oltre un anno. Poi tramite vaticano ebbe notizia
della prigionia in Inghilterra. In quell’anno, mia nonna andava dalle
cartomanti che pullularono a Racalmuto. Maria la Billizza la più rinomata. Mia
nonna però preferiva quella della straduzza
di ‘gnura Annidda. Non era facoltosa, eppure i soldi per sapere se il
figlio era vivo dall’arcano linguaggio delle carte della “maga” se li faceva
uscire. Per la chiesa faceva peccato; mia nonna non se ne dava per intesa;
credo che non ne parlasse nel confessionale e si faceva egualmente la
comunione. Subito dopo magari passava per la “maga” che sempre buone notizie
aveva.
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