sabato 30 gennaio 2016


sempre buone notizie aveva.


 

Nel 1943 mio zio l’aveva scampata per miracolo in Africa sotto un bombardamento a tappeto: volle che si portassero due buchè alla Madonna del Monte, due buchè con fiori, erano alti filiformi vitrei. Nicu Lu Sardu, il barbiere fotografo, venne a casa mia, a tutti i nipoti ci fece mettere a scala per altezza e ci fece la fotografia con avanti i due buchè. Non erano ancora nati mio fratello Angelo e Lina la figlia di mio zio paterno Calogero. Non eravamo allegri, non sorridevamo, specie io che assumevo l’area pretesca ad appena nove anni. Questo non significa che eravamo tristi, solo compunti, dignitosi come possono essere sette bambini il più anziano di soli nove anni. Non capivamo che stavamo vivendo un periodo tragico della storia d’Italia, stavamo perdendo la guerra che aveva voluto Mussolini.

 


Ricordo il giorno in cui quello lì di Roma, da Piazza Venezia sfidò le maggiori potenze del mondo. Scesi con mia nonna materna a San Franciscu: vi era il raduno delle cinque sorelle (i cinque fratelli, uno faceva il “dirigibile”, l’altro stava accanto a mia nonna in un dammusu tentando impossibile fortuna da “scarparu” ed era sordastro, l’altro ancora stava facendo invece fortuna con una salumeria avviatissima a Palermo -  dopo dovette scappare per i bombardamenti, e finì a Racalmuto con una bellissima figlia e due masculi non disprezzabili, ma finì, se non in miseria, col disperdere i suoi risparmi); due fratelli in America. Erano in dieci figli.


 A San Franciscu, donne e giovinette (la zza Lillina, Teresina, etc.) si trasformarono nelle ancestrali prefiche e piansero, e imprecarono, e chiamavano Mussolini con improperi che non ricordo, forse oltre la decenza. Disertò per prima la ‘zza Mariù: aveva il figlio cadetto ed era fanatico. Sembrava che avesse il fascismo nel sangue; aveva però appena diciassette o diciotto anni e sotto Giuggiu Agrò e con a lato l’autoritario ingegnere Falletti i calci nel culo che ebbe a dare nel raduno fascista del sabato alle scuole nuove restarono proverbiali. Balilla e avanguardisti, militarescamente bardati e con fucili di legno,   dovevano marciare impeccabilmente . Di statura meschinella, mal nutriti, per natura ribelli, non erano uno spettacolo, finivano fuori schiera e il calcio nel culo se lo meritavano. Con tanti di loro ho parlato, tutti a parlar bene del cadetto Luigi Di M. Arrivava tronfio Giuggiu Agrò e sembrava l’avvento del Duce a Racalmuto.

 

 


 

Sciascia, pare, non partecipasse perché aveva in odio il “giummo” della divisa fascista: forse lo zio il prof. Farrauto sapeva ben proteggerlo ed esonerarlo. Ex avanguardista se  non erano in età di leva, potevano benissimo servire lo Stato fascista con l’arruolamento volontario: se ne guardarono bene. La retorica tanta, i fatti pochi. Tartufescamente, tra il dire (in sproloqui patriottardi) ed il fare ( al fonte si moriva) si disse ma non si andò al fronte. Armiamoci e partite, si ironizzava a Racalmuto. Le piccole italiane, ora giovincelle appetite dai guerreschi  in calore, le addestrava la maestra Taibi, maschia ma non insensibile.

Il “cadetto” aveva una sorella  che si affacciava alla giovinezza: longilinea, soave, alquanto francesizzante. Se dò adito ai miei molto tardivi vagheggiamenti cinematografici, dovrei dichiararla emula di  Anouk Aimée. La ormai ineludibile entrata degli americani, metteva in apprensione. Non per i baldi yenkee  ché quelli composti se ne dovevano stare vuoi per i figli militari dei nostri vuoi perché si sapeva che risorta era la vecchia mafia (quella vera) e già accordi c’erano per una tranquilla conquista della Sicilia, vigilata, indirizzata e protetta dai tanti rispettabilissimi capimafia di ogni centro abitato siciliano. Si vociferava che potessero seguirli i marocchini e costoro si diceva essere famelici di giovani donne, specie se minorenni o meglio vergini. Era propaganda fascista, d’accordo. E Moravia con la sua “ciociara” era molto di là a venire. Un po’ si sapeva un po’ no: un accordo di ferro era stato concertato: niente squadre marocchine in Sicilia. La diffidenza sicula in materia di salvaguardia della giovinezza intemerata delle proprie figlie in età da marito era acuminata ed angosciante. Già di giovani in paese c’erano pochi per via della guerra voluta da quel “cornutazzu” di Mussolini.


 

 

 

 Aveva in bel da fare Giuggiu Agrò ad impedire discorsi disfattisti al Circolo del mutuo soccorso tra i sedentari che qualcosa dovevano avere per le loro interminabili discussioni. Qualcuno lo prese e se lo portò in gattabuia. Brav’uomo in definitiva Giuggiu Agrò – lo dice anche Sciascia. Aveva comunque un fanatismo  fascista in corpo che se lo portò sino alla tomba. Prematuramente, purtroppo. Quando ritornò dalla deportazione in Algeria, cercò una sistemazione. Tutto il suo servizio come segretario del fascio ora non solo non serviva a niente, ma era da ostacolo ad un impieguccio al municipio. Allora non c’era l’attuale scorciatoia dei LSU o dei posticini a contratto. Bisognava essere di intemerata fede “democratica”. Giuggiu Agrò l’attestato di intemerata fede democratica ovviamente non poteva esibirlo, neanche con carte false. Cercò allora di farsi dare una dichiarazione di civile convivenza dal Mutuo Soccorso. Lì, però insorsero pingui maldicenti, usi al male e l’attestato gli si doveva negare per la faccenda dell’incarcerazione di un socio reo di mormorazioni disfattiste. Giuggiu Agrò altezzosamente prevenne lo smacco, ritirò la richiesta: a dire il vero ci aveva pensato un astro nascente della politica di sinistra, piissimo e neo comunista per dissidio da un compagno di letto omo. Giuggiu Agrò fu regolarmente assunto. Pensate un po’, da un “comunista”. A Racalmuto sappiamo tutto sommato essere ilari.

Ragazza già donna all’Anouk Aimée (per mia palese mistificazione), era prima cugina di mia madre. Soprattutto era nipote di mia nonna materna, scheletrica per troppa vedovanza. C’era pure mia zia monaca, venuta dal trapanese per sfuggire ai terrificanti bombardamenti americani. La monaca, allora caruccia anche se traccagnotta con le  sue sei o sette cinquine, portava un nero integrale e si diceva che gli americani dove vedevano nero vedevano fascisti e sparavano ed ammazzavano, Ma c’era soprattutto l’apprensione marocchina. Mia zia monaca il saio nero non volle assolutamente levarselo. Quanto all’altra faccenda, non era Claudia Cardinale del Gattopardo per farsi quella sconcia risata. Noi nipotini in fin dei conti la consideravamo asessuata, come asessuate consideravamo tutte quelle vedove di vecchia data che a Racalmuto (ed altrove, penso) brulicavano.

In un primo tempo, alla fine di giugno, ci radunammo tutti in casa mia vecchia casa che mio padre aveva fatto aggiustare dal Mussumulisi sperperando tanti suoi risparmi sudati, letteralmente parlando, con i suoi viaggi a Palermo per rifornirsi di “roba” che poi forniva lucrosamente a tanti venditori ambulanti. Un altro mio zio faceva quel mestiere, aveva la “bardanella” che un aiutante, quando non faceva il facchino, portava a tracollo girovagando per i paesi vicini: Milocca, lu Naduri, Castrufllippu e soprattutto Montedoro. Aveva purtroppo scarsa fortuna. Bellissimo quel mio zio, vestiva “allicchittatu”, lo ricordo in eterno lucidarsi le scarpe. Le donne, sedicenti zie, venivano anche da Palermo per corteggiarlo. Salivano in un terrificante solaio della casa paterna di mia nonna. La quale aveva di che strillare. Lassù figlio e  “parente” palermitana facevano i loro comodi. Così pensava mia nonna ed io penso che pensasse giusto. Mio zio giovanissimo cominciò ad avere disturbi di stomaco: Vomitava tanto. Non voleva, però, curarsi; aveva terrore dei ferri. Morì di cancro nel ’50 a soli trent’anni. Era mio “pipino”. Gli volevo un bene dell’anima. Me ne voleva di più. Ave, carissimo zio, ovunque tu sia!

 

Mia zia monaca sembrava l’esperta di bombardamenti. All’improvviso a Racalmuto, sul cielo di Racalmuto, cominciarono a volteggiare aerei, pareva che giostrassero: in picchiata e poi s’inerpicavano, rumori assordanti. Le sirene che preannunciavano aerei già in sorvolo, che dovevano segnare la fine  ed invece gli apparecchi militari americani ancora lì stavano, dal Castelluzzo alla montagna, da dietro il Serrone sino al mare e dal mare in paese. Luccichii, lampi in cielo. Mitraglie che dannatamente crepitavano lassù in alto, senza senso … fortunatamente.  Veramente non ce ne davamo più apprensione, tutto divenne consueto, insenso ma non preoccupante. Mia zia sosteneva che quando suonava la sirena nel rifugio dovevamo andare … ma rifugio a Racalmuto non c’era. Almeno di notte, disse mia zia sotto in cantina dovevamo dormire. Scendemmo tutti i parenti stretti nella nostra cantina che era ampia ed aveva archi di supporto che secondo mia zia ben potevano proteggerci da improvvisi lanci di bombe. Cunzarunu letti. Per noi bambini era più un divertimento che un rifugiarsi. La novità appariva gradevole, spezzava la monotonia dei giorni a scuola chiusa. Mia nonna paterna, però, non volle venire: nella sua alcova, quella antica alla siciliana si sentiva più al sicuro. Mio zio Pietro la seguì. Mia nonna Concetta venne un paio di notti, non si trovava a suo agio. Se ne tornò nel suo catoio. Mia zia monaca non poté lasciare la mamma sola e melanconicamente andò a dormire nel mono ambiente della mamma.  La festa evaporava. Giunti così ai primi di luglio mio padre decise che il tempo orami era caldo e ben si poteva andare “ fori” a la Curma. Si prese il solito carretto; il carrettiere, il solito, sistemò tanta di quella roba su quei pochi metri quadrati del tavolato del carro che sembrava un miracolo. Le lunghe tavole del letto matrimoniale di mia nonna – che su quello ancora dormiva con me bambino accanto a farle compagnia - fuoriuscivano dietro, con i trispa a cavalcione. Il marito le era morto da oltre trent’anni. E lei vedova rimase con il nero del lutto perennemente addosso. Jppuni nero, falletta nera, calze nere, scarpe – ineleganti tappini – nere; il fazzoletto largo in testa come soggolo, però, era bianco, candido. Aveva la dentiera ed ogni sera se la levava. Io bambino non capivo  e ormai vi avevo fatto l’abitudine. Quando a tarda età mi sono messo a rimembrare ed  a cercare di capire mi sono chiesto che tipo di femminilità vivevano tutte queste vedove in giovane età; e di allegria la retriva società siciliana poco gliene concedeva; divenivano proprio asessuate, neppure discorsi alacri si concedeva. Tante, quasi tutte assurgevano però a matriarche, il dominio dell’intera famiglia avevano e le maggiori vittime erano le altre donne del clan; i maschietti ci guadagnavano, un occhio di riguardo veniva loro elargito; qualcuno diveniva il cocco di nonna ed in famiglia conseguiva scandalosi ed invidiati privilegi. Sciascia ebbe a dire una volta che in Sicilia vigeva il matriarcato; la Maraini lo fulminò.


Fu così che ai primi caldi di luglio 1943 ci trovammo a la Curma. Mia nonna aveva ereditato una piccola proprietà, manco due tumoli di terra, bonificati, però, con alberi di pero, di pesco, di fico. Grande il castello di fichidindia che faceva da pudica cortina alla “robba”. C’era un casolare siciliano con feritoie per scrutare e se del caso sparare. Era dell’Ottocento. Tre ambienti si direbbe oggi: la cammara, tre metri per tre metri, l’ingresso giù con scala d’accesso e sotto la scala la mangiatoia; di fronte, la cucina all’antica; adiacente una stalla grande. L’ingresso era parte su pietra gessosa – la chiamavamo balata – e parte sulla nuda terra, battuta comunque e con sopra residui di paglia da tempo immemorabile; frammisti rami secchi di pruni.  Amplissima la mangiatoia. Proveniva dall’ampia proprietà di mio bisnonno. Questi nell’ottocento si era dato alla speculazione zolfifera. Non aveva avuto molta fortuna. Bucava la terra, cercava zolfo. Quasi mai lo trovava, debiti contraeva. Sul letto di morte fece testamento, lo dettò al notaio che riservò per se stesso una buona fetta della nostra terra alla Curma. Una parte comunque pervenne a mia nonna. A quella casa non piccola, non grande, ero affezionato. Pervenuta a mia madre, fu venduta in un momento di nostre difficoltà economiche. Non sono riuscito a recuperarla. Ora, spalla; i proprietari attuali sparsi per il mondo non hanno tempo e voglia di buttar l’acqua fuori, come si dice.

Appena si arrivava si faceva subito la “ittena”, una rudimentale panca in pietra; v’era dentro una sorta di nicchia grande e vi si affiggeva una immagine sacra grande; di solito il sacro cuore di Gesù. Il miracolo avveniva nella “cammara”. In quei pochi metri quadri mia nonna faceva disporre il suo grande letto matrimoniale. Nell’angolo di fronte si apparecchiava il lettino per mia zia monaca che aveva per paravento due lenzuola legate ad un filo ad L  che partiva da un chiodo alla parente di fronte, si attorcigliava ad un bastone che faceva da angolo e si fissava ad un altro chiodo alla parete di lato. Un lettino a terra nel mezzo ci usciva. Vi si coricava la sorella del cadetto di cui abbiamo parlato. Nel letto grande dormivano mia nonna due nipoti accanto e due altri ai piedi del letto. Mia nonna il suo materasso lo voleva di lana, per gli altri il materasso era un ripieno di paglia che si andava a prendere dalle aie fresche della tradizionale trebbiatura con le bestie. La raccolta era già alle spalle.


Fu così che nella notte del 10 luglio 1943 facemmo la tremenda esperienza di una bomba americana esplosa là vicino, a Piru. Si disse che a tarda notte avevano acceso il fuoco per cuocere i pomodori nel grande pentolone di rame e farne poi l’ “astratto”.  Non morì nessuno per quell’incauto richiamo del volteggiante aereo americano, pronto a sganciare una bomba su innocui contadini alle prese con le conserve di pomodoro. Dopo guerra, a dignità nazionale ripresa, una denuncia penale occorreva fare contro quei nostri liberatori, figli o imparentati di emigranti compaesani.

Svegliati di soprassalto, nulla capendo, stropicciandoci gli occhi impauriti, non avemmo neppure il tempo di farci dire da mia zia monaca cosa era successo. Subito, subito, iusu, intimò con voce strozzata mia zia monaca. Bummi ittaru, bummi ittaru, soggiunse la zia che dicemmo essere esperta.

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