sempre buone notizie aveva.
Nel 1943 mio zio l’aveva scampata per miracolo in
Africa sotto un bombardamento a tappeto: volle che si portassero due buchè alla Madonna del Monte, due buchè con fiori, erano alti filiformi
vitrei. Nicu Lu Sardu, il barbiere
fotografo, venne a casa mia, a tutti i nipoti ci fece mettere a scala per
altezza e ci fece la fotografia con avanti i due buchè. Non erano ancora nati mio fratello Angelo e Lina la figlia
di mio zio paterno Calogero. Non eravamo allegri, non sorridevamo, specie io
che assumevo l’area pretesca ad appena nove anni. Questo non significa che
eravamo tristi, solo compunti, dignitosi come possono essere sette bambini il
più anziano di soli nove anni. Non capivamo che stavamo vivendo un periodo
tragico della storia d’Italia, stavamo perdendo la guerra che aveva voluto
Mussolini.
Ricordo il giorno in cui quello lì di Roma, da
Piazza Venezia sfidò le maggiori potenze del mondo. Scesi con mia nonna materna
a San Franciscu: vi era il raduno
delle cinque sorelle (i cinque fratelli, uno faceva il “dirigibile”, l’altro
stava accanto a mia nonna in un dammusu
tentando impossibile fortuna da “scarparu” ed era sordastro, l’altro ancora
stava facendo invece fortuna con una salumeria avviatissima a Palermo - dopo dovette scappare per i bombardamenti, e
finì a Racalmuto con una bellissima figlia e due masculi non disprezzabili, ma finì, se non in miseria, col
disperdere i suoi risparmi); due fratelli in America. Erano in dieci figli.
A San Franciscu, donne e giovinette (la zza Lillina, Teresina, etc.) si
trasformarono nelle ancestrali prefiche e piansero, e imprecarono, e chiamavano
Mussolini con improperi che non ricordo, forse oltre la decenza. Disertò per
prima la ‘zza Mariù: aveva il figlio
cadetto ed era fanatico. Sembrava che avesse il fascismo nel sangue; aveva però
appena diciassette o diciotto anni e sotto Giuggiu Agrò e con a lato
l’autoritario ingegnere Falletti i calci nel culo che ebbe a dare nel raduno
fascista del sabato alle scuole nuove restarono proverbiali. Balilla e avanguardisti,
militarescamente bardati e con fucili di legno, dovevano marciare impeccabilmente . Di
statura meschinella, mal nutriti, per natura ribelli, non erano uno spettacolo,
finivano fuori schiera e il calcio nel culo se lo meritavano. Con tanti di loro
ho parlato, tutti a parlar bene del cadetto Luigi Di M. Arrivava tronfio
Giuggiu Agrò e sembrava l’avvento del Duce a Racalmuto.
Sciascia, pare, non partecipasse perché aveva in
odio il “giummo” della divisa fascista: forse lo zio il prof. Farrauto sapeva
ben proteggerlo ed esonerarlo. Ex avanguardista se non erano in età di leva, potevano benissimo
servire lo Stato fascista con l’arruolamento volontario: se ne guardarono bene.
La retorica tanta, i fatti pochi. Tartufescamente, tra il dire (in sproloqui
patriottardi) ed il fare ( al fonte si moriva) si disse ma non si andò al
fronte. Armiamoci e partite, si ironizzava a Racalmuto. Le piccole italiane,
ora giovincelle appetite dai guerreschi
in calore, le addestrava la maestra Taibi, maschia ma non insensibile.
Il “cadetto” aveva una sorella che si affacciava alla giovinezza:
longilinea, soave, alquanto francesizzante. Se dò adito ai miei molto tardivi
vagheggiamenti cinematografici, dovrei dichiararla emula di Anouk Aimée. La ormai ineludibile entrata degli
americani, metteva in apprensione. Non per i baldi yenkee ché quelli composti se
ne dovevano stare vuoi per i figli militari dei nostri vuoi perché si sapeva
che risorta era la vecchia mafia (quella vera) e già accordi c’erano per una
tranquilla conquista della Sicilia, vigilata, indirizzata e protetta dai tanti
rispettabilissimi capimafia di ogni centro abitato siciliano. Si vociferava che
potessero seguirli i marocchini e costoro si diceva essere famelici di giovani
donne, specie se minorenni o meglio vergini. Era propaganda fascista,
d’accordo. E Moravia con la sua “ciociara” era molto di là a venire. Un po’ si
sapeva un po’ no: un accordo di ferro era stato concertato: niente squadre
marocchine in Sicilia. La diffidenza sicula in materia di salvaguardia della
giovinezza intemerata delle proprie figlie in età da marito era acuminata ed
angosciante. Già di giovani in paese c’erano pochi per via della guerra voluta
da quel “cornutazzu” di Mussolini.
Aveva in
bel da fare Giuggiu Agrò ad impedire discorsi disfattisti al Circolo del mutuo
soccorso tra i sedentari che qualcosa dovevano avere per le loro interminabili
discussioni. Qualcuno lo prese e se lo portò in gattabuia. Brav’uomo in
definitiva Giuggiu Agrò – lo dice anche Sciascia. Aveva comunque un
fanatismo fascista in corpo che se lo
portò sino alla tomba. Prematuramente, purtroppo. Quando ritornò dalla
deportazione in Algeria, cercò una sistemazione. Tutto il suo servizio come
segretario del fascio ora non solo non serviva a niente, ma era da ostacolo ad
un impieguccio al municipio. Allora non c’era l’attuale scorciatoia dei LSU o
dei posticini a contratto. Bisognava essere di intemerata fede “democratica”.
Giuggiu Agrò l’attestato di intemerata fede democratica ovviamente non poteva
esibirlo, neanche con carte false. Cercò allora di farsi dare una dichiarazione
di civile convivenza dal Mutuo Soccorso. Lì, però insorsero pingui maldicenti,
usi al male e l’attestato gli si doveva negare per la faccenda
dell’incarcerazione di un socio reo di mormorazioni disfattiste. Giuggiu Agrò
altezzosamente prevenne lo smacco, ritirò la richiesta: a dire il vero ci aveva
pensato un astro nascente della politica di sinistra, piissimo e neo comunista
per dissidio da un compagno di letto omo. Giuggiu Agrò fu regolarmente assunto.
Pensate un po’, da un “comunista”. A Racalmuto sappiamo tutto sommato essere
ilari.
Ragazza già donna all’Anouk Aimée (per mia palese
mistificazione), era prima cugina di mia madre. Soprattutto era nipote di mia
nonna materna, scheletrica per troppa vedovanza. C’era pure mia zia monaca,
venuta dal trapanese per sfuggire ai terrificanti bombardamenti americani. La
monaca, allora caruccia anche se traccagnotta con le sue sei o sette cinquine, portava un nero
integrale e si diceva che gli americani dove vedevano nero vedevano fascisti e
sparavano ed ammazzavano, Ma c’era soprattutto l’apprensione marocchina. Mia
zia monaca il saio nero non volle assolutamente levarselo. Quanto all’altra
faccenda, non era Claudia Cardinale del Gattopardo per farsi quella sconcia
risata. Noi nipotini in fin dei conti la consideravamo asessuata, come
asessuate consideravamo tutte quelle vedove di vecchia data che a Racalmuto (ed
altrove, penso) brulicavano.
In un primo tempo, alla fine di giugno, ci
radunammo tutti in casa mia vecchia casa che mio padre aveva fatto aggiustare
dal Mussumulisi sperperando tanti suoi risparmi sudati, letteralmente parlando,
con i suoi viaggi a Palermo per rifornirsi di “roba” che poi forniva
lucrosamente a tanti venditori ambulanti. Un altro mio zio faceva quel
mestiere, aveva la “bardanella” che un aiutante, quando non faceva il facchino,
portava a tracollo girovagando per i paesi vicini: Milocca, lu Naduri, Castrufllippu e soprattutto Montedoro. Aveva
purtroppo scarsa fortuna. Bellissimo quel mio zio, vestiva “allicchittatu”, lo
ricordo in eterno lucidarsi le scarpe. Le donne, sedicenti zie, venivano anche
da Palermo per corteggiarlo. Salivano in un terrificante solaio della casa
paterna di mia nonna. La quale aveva di che strillare. Lassù figlio e “parente” palermitana facevano i loro comodi.
Così pensava mia nonna ed io penso che pensasse giusto. Mio zio giovanissimo
cominciò ad avere disturbi di stomaco: Vomitava tanto. Non voleva, però,
curarsi; aveva terrore dei ferri. Morì di cancro nel ’50 a soli trent’anni. Era
mio “pipino”. Gli volevo un bene dell’anima. Me ne voleva di più. Ave,
carissimo zio, ovunque tu sia!
Mia zia monaca sembrava l’esperta di bombardamenti.
All’improvviso a Racalmuto, sul cielo di Racalmuto, cominciarono a volteggiare
aerei, pareva che giostrassero: in picchiata e poi s’inerpicavano, rumori
assordanti. Le sirene che preannunciavano aerei già in sorvolo, che dovevano
segnare la fine ed invece gli apparecchi
militari americani ancora lì stavano, dal Castelluzzo alla montagna, da dietro
il Serrone sino al mare e dal mare in paese. Luccichii, lampi in cielo.
Mitraglie che dannatamente crepitavano lassù in alto, senza senso …
fortunatamente. Veramente non ce ne
davamo più apprensione, tutto divenne consueto, insenso ma non preoccupante.
Mia zia sosteneva che quando suonava la sirena nel rifugio dovevamo andare … ma
rifugio a Racalmuto non c’era. Almeno di notte, disse mia zia sotto in cantina
dovevamo dormire. Scendemmo tutti i parenti stretti nella nostra cantina che
era ampia ed aveva archi di supporto che secondo mia zia ben potevano
proteggerci da improvvisi lanci di bombe. Cunzarunu
letti. Per noi bambini era più un divertimento che un rifugiarsi. La novità
appariva gradevole, spezzava la monotonia dei giorni a scuola chiusa. Mia nonna
paterna, però, non volle venire: nella sua alcova, quella antica alla siciliana
si sentiva più al sicuro. Mio zio Pietro la seguì. Mia nonna Concetta venne un
paio di notti, non si trovava a suo agio. Se ne tornò nel suo catoio. Mia zia monaca non poté lasciare
la mamma sola e melanconicamente andò a dormire nel mono ambiente della
mamma. La festa evaporava. Giunti così
ai primi di luglio mio padre decise che il tempo orami era caldo e ben si
poteva andare “ fori” a la Curma. Si
prese il solito carretto; il carrettiere, il solito, sistemò tanta di quella
roba su quei pochi metri quadrati del tavolato del carro che sembrava un
miracolo. Le lunghe tavole del letto matrimoniale di mia nonna – che su quello
ancora dormiva con me bambino accanto a farle compagnia - fuoriuscivano dietro,
con i trispa a cavalcione. Il marito
le era morto da oltre trent’anni. E lei vedova rimase con il nero del lutto
perennemente addosso. Jppuni nero, falletta nera, calze nere, scarpe –
ineleganti tappini – nere; il
fazzoletto largo in testa come soggolo, però, era bianco, candido. Aveva la
dentiera ed ogni sera se la levava. Io bambino non capivo e ormai vi avevo fatto l’abitudine. Quando a
tarda età mi sono messo a rimembrare ed
a cercare di capire mi sono chiesto che tipo di femminilità vivevano
tutte queste vedove in giovane età; e di allegria la retriva società siciliana
poco gliene concedeva; divenivano proprio asessuate, neppure discorsi alacri si
concedeva. Tante, quasi tutte assurgevano però a matriarche, il dominio
dell’intera famiglia avevano e le maggiori vittime erano le altre donne del
clan; i maschietti ci guadagnavano, un occhio di riguardo veniva loro elargito;
qualcuno diveniva il cocco di nonna ed in famiglia conseguiva scandalosi ed
invidiati privilegi. Sciascia ebbe a dire una volta che in Sicilia vigeva il
matriarcato; la Maraini lo fulminò.
Fu così che ai primi caldi di luglio 1943 ci
trovammo a la Curma. Mia nonna aveva
ereditato una piccola proprietà, manco due tumoli di terra, bonificati, però,
con alberi di pero, di pesco, di fico. Grande il castello di fichidindia che
faceva da pudica cortina alla “robba”. C’era un casolare siciliano con feritoie
per scrutare e se del caso sparare. Era dell’Ottocento. Tre ambienti si direbbe
oggi: la cammara, tre metri per tre
metri, l’ingresso giù con scala d’accesso e sotto la scala la mangiatoia; di
fronte, la cucina all’antica; adiacente una stalla grande. L’ingresso era parte
su pietra gessosa – la chiamavamo balata
– e parte sulla nuda terra, battuta comunque e con sopra residui di paglia da
tempo immemorabile; frammisti rami secchi di pruni. Amplissima la mangiatoia. Proveniva
dall’ampia proprietà di mio bisnonno. Questi nell’ottocento si era dato alla
speculazione zolfifera. Non aveva avuto molta fortuna. Bucava la terra, cercava
zolfo. Quasi mai lo trovava, debiti contraeva. Sul letto di morte fece
testamento, lo dettò al notaio che riservò per se stesso una buona fetta della
nostra terra alla Curma. Una parte
comunque pervenne a mia nonna. A quella casa non piccola, non grande, ero
affezionato. Pervenuta a mia madre, fu venduta in un momento di nostre
difficoltà economiche. Non sono riuscito a recuperarla. Ora, spalla; i
proprietari attuali sparsi per il mondo non hanno tempo e voglia di buttar
l’acqua fuori, come si dice.
Appena si arrivava si faceva subito la “ittena”,
una rudimentale panca in pietra; v’era dentro una sorta di nicchia grande e vi
si affiggeva una immagine sacra grande; di solito il sacro cuore di Gesù. Il
miracolo avveniva nella “cammara”. In quei pochi metri quadri mia nonna faceva
disporre il suo grande letto matrimoniale. Nell’angolo di fronte si
apparecchiava il lettino per mia zia monaca che aveva per paravento due
lenzuola legate ad un filo ad L che
partiva da un chiodo alla parente di fronte, si attorcigliava ad un bastone che
faceva da angolo e si fissava ad un altro chiodo alla parete di lato. Un lettino
a terra nel mezzo ci usciva. Vi si coricava la sorella del cadetto di cui
abbiamo parlato. Nel letto grande dormivano mia nonna due nipoti accanto e due
altri ai piedi del letto. Mia nonna il suo materasso lo voleva di lana, per gli
altri il materasso era un ripieno di paglia che si andava a prendere dalle aie
fresche della tradizionale trebbiatura con le bestie. La raccolta era già alle
spalle.
Fu così che nella notte del 10 luglio 1943
facemmo la tremenda esperienza di una bomba americana esplosa là vicino, a Piru. Si disse che a tarda notte avevano
acceso il fuoco per cuocere i pomodori nel grande pentolone di rame e farne poi
l’ “astratto”. Non morì nessuno per
quell’incauto richiamo del volteggiante aereo americano, pronto a sganciare una
bomba su innocui contadini alle prese con le conserve di pomodoro. Dopo guerra,
a dignità nazionale ripresa, una denuncia penale occorreva fare contro quei
nostri liberatori, figli o imparentati di emigranti compaesani.
Svegliati di soprassalto, nulla capendo,
stropicciandoci gli occhi impauriti, non avemmo neppure il tempo di farci dire
da mia zia monaca cosa era successo. Subito,
subito, iusu, intimò con voce strozzata mia zia monaca. Bummi ittaru, bummi ittaru, soggiunse la
zia che dicemmo essere esperta.
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