Tra Abbado e Muti non vi è differenza: entrambi nell'olimpo dell'alta direzione sinfonica. Solo diverse sfumature umorali. Muti è partenope, Abbado emiliano, certo più vicino a noi per essere della grassa Bologna. Muti scoppia di gioia di vivere anche quando celebra il funerale che è sempre sfarzoso con quelle barocche carrozze, con tutti quei pennacchi. Talora si ferma, un moto di desolata malinconia lo afferra, socchiude gli occhi, neppure il tempo per una lagrima e subito a tripudiare con una orchestra che non risparmia né in strumenti né in maestri orchestrali. Ha gli impeti della mia stessa anima ed è vero gli eguali spesso si respingono. Abbado dirige con il suo tetro soffrire, rappreso in sé come accerchiato da quei banchi di nebbie che mi annichilivano quando dopo il sole di San Geminiano passai a Modena alle cupe e mortuarie distese desolatamente nivee, all'annaspare la sera per trovare la via di casa per quei nebbioni senza respiro, per quel ghiacciarmi il gocciolar del naso per i freddi sotto zero la mattina quando da via dei Fogliani dovevo portarmi alla Banca d'Italia di fronte al teatro lirico e accanto alle nobili caserme dei cadetti dell'accademia militare. Sì, ma tanta nostalgia dentro ,anche per una lontana giovinezza che poteva esser lieta, amabile, piacevole, forse peccaminosa, ed invece fu burocratica, senza ardori, senza amori. Abbado mi capisce e mi culla fra i flutti di una musica che non è canzonetta..
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