Gentilissimo Signor Sindaco avv. Emilio MESSANA
mi rivolgo a Lei per un torto che ho subito come storico di Racalmuto. Vero è che Tanu Savatteri in una rara se non unica citazione del sottoscritto mi ha qualificato autore di una "controstoria di Racalmuto" ma questo non giustifica la irridente maiolica che mi trovo davanti la chiesa del Monte su un ferreo e credo costosissimo leggio.
Là sta scritto, grosso modo, che nel 1543 fu posta su un altare di una "piccola" chiesa una statua di scuola gaginesca che diede nome a chiesa e quartiere e cioè parliamo della Chiesa del Monte.
Mai poteva venire scritta una cazzobubbola del genere se si fosse dato uno sguardo alle mie trentennali ricerche storiche, al profluvio di mie pubblicazioni, ai riscontri metodici e pignoli sulla nostra saga della Venuta della Madonna del Monte.
Francanmente confondere la visita partorale del 1543 del vescovo Tagliavia con una siffatta sceneggiatura inventata di sana pianta mi dà le traveggole. Non si può così falsare la nostra storia, le nostre radici, il nostro spirito religioso e persino i nostri maniaci culti mariani.
Dobbiamo qui presentare la fotocopia della visita pastorale di quel nobile Vescovo cognominato Tagliavia, di cui all'archivio arcivescovile di Agrigento?
Ma per scrivere una siffatta fandonia storica quanto e a chi è stato corrisposto in preziosi euro? E se i fondi sono comunitari come si è giustificata la spesa per serie ricerche storiche? E i vari uffici competenti di Racalmuto interposero la loro scienza e conoscenza dei fatti?
Non lessero le carte mie? Bene allora da dove presero queste scempiaggini storiche? E se è stato un appiglio per arraffare quattrini, non debbono pagare? Il dovere omertoso deve avere il sopravvento?
Caro Sindaco, nel tuo diaroio ci vuoi dire come sono andate le cose? Altrimenti a chi devo rivolgermi per la salvaguardia della mia seriatà espositiva della veridica storia paesana? Ho legittimaziomne attiva?
Ma se tu non mi rispondi debbo pensare che vuoi coprire qualcuno. Cercherò di fare scoprire la verità allora alle autorità competenti. Ci sarà pure giusticioa in questo Paese o no?
Cito a casaccio una pagina mia di quella che repuno l'unica vera storia di Racalmuto, con buona pace di Tani che ha voglia di ridurre l'opera storica mia a nient'altro che ad una controstoria, da prescinderne dunque per scrivere cazzate sulle novelle maioliche dei percorsi storici e didattiti racalmutesi.
Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo
interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi
pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva
considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone
non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna
si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la
condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un
fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto
bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di
Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come
dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre
presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di
disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta
economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali
banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure
relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro
guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare,
e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono
essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente
religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto
racalmutese: monaci e parrini, vidici la
missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite
ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno
deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta
indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica,
tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni
anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma
con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del
1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza
le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente
esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno
pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del
vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura
sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro
Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le
visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione
sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in
sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di
allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e
San Giuliano. [1] Tre anni dopo, il paese subì,
come si è accennato, una più seria indagine da parte del vescovo in persona, che vi si recò il giorno
11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene
fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[2]
Al centro della locale
comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’
originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico
agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però,
se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché
l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono
alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis
Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est
assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo
ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto
l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex
disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario
in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di
un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate
solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam ..
contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte
terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti
et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum
singulo anno”.)
Nella visita del 1540
era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella
misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di
16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La
popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto
lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890
fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di
indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto
elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel
1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di
Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha
decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in
circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni
capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in
statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di
una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime
suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il
fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse
soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete
Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama
diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei
servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava
che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da
chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si
aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione:
«Ecclesia di la Nuntiata confraternitati
et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore
che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet
primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini
Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di
che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da
chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La
vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle
esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che
venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et
hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo
dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli
ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S.
Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono
tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio
sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice
percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo
coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali
richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri
sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco
de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse
il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti
esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia
penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più
dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio
ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di
cui era titolare.
Il de Leo era vicario,
dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di
curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio
di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i
pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva
accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco
de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel
visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene
compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam
dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario,
oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque,
positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché
tenesse alla vetusta chiesa di S.
Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il
Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de
Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata
e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale
agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est
titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I
contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della
Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un
racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si
assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la
donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il
milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta,
si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra
intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica
del 1108 consacra chierico e chiesa
inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro
agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta
l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di
riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella
antica chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci
compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si
appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto
il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa
su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato
che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola”
sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una
Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai
al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3) Chiesa di
Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di santa
Maria di Gesù;
5) Chiesa di
Santa Margherita;
6) Chiesa di San
Giuliano;
Nella
precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della
“NUNTIATA”
2) Chiesa di
Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di
Santa Margherita;
4) Chiesa di
“Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S.
Giuliano.
(Cfr.
le pagine 196v-198v della Visita)
|
Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543
abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
·
la Nunziata,
visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto
iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
·
Santa
Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
·
Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle
antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano
non v’era nulla di vecchio.
Il
testamento di don Giovanni III del Carretto
Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([3]) steso
sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito
sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in
qualche modo abbozzato.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile
signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto,
cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta
terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i
testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è
tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene
nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il
secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di
Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso
spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del
medesimo”.
Ripete in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da
me e dalla condam Aldonsa mia mugleri in
tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime
in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e
pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti,
orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali,
et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto
Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha
un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di
servitù e vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva
proprietà di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata
nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso
spettabile D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità
versare al signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese
del funerale quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della
persona dello stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da
prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed
essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi
gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto
spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito,
legittimo e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam
Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di
Racalmuto con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e
criminali, il mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella
regia curia, con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con
tutti gli altri diritti quali il terraggiolo,
le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo
del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta
Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro,
frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti,
nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento
esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che
seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata
nel castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et
mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro
dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt,
ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri
pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il predetto testatore volle e diede
mandato, ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo
suo figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia
affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni
singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da
chicchessia, e ciò per amore di nostro
Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del
testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia
dato troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per
Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue
disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi
titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di
Girolamo di far dire tante messe nel
convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una
Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito
annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato
sapere: crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a
Palermo per spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato
Racalmuto. Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato
considerato artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo
Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato
Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e
la beffa del sanbenito. Leggere il
commento di Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina purtroppo tragica nella sua acre realtà
storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once
nella compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e
mastro Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la
costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa
di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da
dotare:
1.
donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de
Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da
prelevare dalle casse del castello);
2.
donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare
Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50
once in contanti da erogare;
3.
Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima,
monaca del convento di Santa Caterina
della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre
20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello
venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi
certamente alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei
potenti ed ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse
spectabilis Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione
praesentis, et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij
uncias quinque, nec non relaxavit et
relaxit mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et
gravorum omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae
inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et
mandavit.» Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero
dal terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo
Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure:
Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si
celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la
redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma
non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma
nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto
[in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo
recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et
necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos
sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):
·
5 once al venerabile convento di San Domenico
della città di Agrigento;
·
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del
Monte;
·
10 once al venerabile ospedale della terra di
Racalmuto;
·
5 once alla venerabile confraternita di San
Nicola di Racalmuto;
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore
ha
[2]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI
MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di
laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di
Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto
risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO
- "GIULIANA" - VISITA 1542-43
- colonne 190v-193v.
[3] ) Archivio di Stato di
Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r -
56v.
Nessun commento:
Posta un commento