[Dopo quarant'anni di ricerche, di studi, di consultazioni di documenti e diplomi in biblioteche ed archivi, quali la Biblioteca nazionale di Roma, l'Archivio Vaticano segreto, l'archivio parrocchiale di Racalmuto, l'archivio centrale di stato e gli archivi di Palermo, di Agrigento e non ricordo che altro, ritenevo che l'origine e il consolidarsi del forsthoffiano spazio vitale di Racalmuto si fosse dispiegato come sotto sintetizzo. Tutto vano, in una sera, sì in una sera di un sabato di Aprile, tutto svanito. Un non socio del mio circolo mi ha tutto cassato. Che fare? dimettermi dal mio circolo Unione, da "galantuomo" del Circolo dei Do' di un tempo? Ignobiltà, la mia, impone].
RACALMUTO: UNA PREISTORIA DURATA 3271 ANNI
Raggiunta questa tappa del nostro excursus, uno sguardo retroattivo, una pausa di riflessione si rende indispensabile per fare il punto su ciò che fu la società, la vita, la religione, gli usi, i costumi dei frequentatori dell’altipiano racalmutese, nel corso di circa 3271 anni, quanto dura la preistoria di Racalmuto. Il documento angioino del 1271, apre finalmente le porte alla storia, quella documentata, non inventata, più o meno fantasiosamente.
Prima, affiorano solo cenni o spunti che soltanto in via congetturale possono portare al centro abitato dall’incerto nome arabo che è la nostra terra di Racalmuto.
Su quell’altipiano - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da quasi quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana scompare completamente (o non fu in grado di lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Contraddistingue il popolo sicano un sentimento religioso tanto profondo da spingerlo ad opere che scavalcano l’obliterazione dei millenni per giungere sino a noi. Sono quelle tombe sicane le quali si affacciano grandiose e impressionanti dalla parete della grotta di Fra Diego. Il culto dei morti - una costante racalmutese che diventa una mania al di là di ogni temperanza, dai tempi remoti sino ai nostri giorni - affonda le radici nel sentimento religioso, nel senso dell’al di là che connota ed ossessiona persino l’uomo preistorico racalmutese. Certo, a quel tempo, è più il terrore superstizioso della morte, che non una liberatrice fede nell’immortalità dell’anima, ad avere il sopravvento. Ma è pur aspetto nobile e qualificante di un popolo che se crede in una vita ultraterrena, crede anche nell’esistenza di Dio. In tal senso anche il popolo sicano racalmutese è stato il popolo di Dio.
Sparita la civiltà sicana attorno al XIII secolo a.C., saranno i sicilioti greci di Akragas a rifrequentare quelle plaghe. Continua il culto dei morti, sorge una religione politeista, vi ispira sentimenti nuovi di pietà e di fede operosa. Dio continua ad essere presente a Racalmuto. Così come avviene quando il territorio è annesso dalla predace Roma ed assoggettato a decime in natura ed in denaro. Una epigrafe sul timbro apposto nell’interno del manico di una diota testimonia la tassazione romana delle terre di Racalmuto al tempo di Cicerone. Reperti archeologici di tombe attestano riti e culti religiosi.
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In Sicilia quindi subentrò il periodo delle immigrazioni greche. Racalmuto appare completamente estraneo al processo iniziale della colonizzazione: solo, quando si consolida l’egemonia greca di Agrigento, qualche colono ebbe l’ardire di addentrarsi nelle parti più interne dell’altipiano racalmutese. Di documentato, però, non abbia nulla e dobbiamo accontentarci delle acritiche descrizioni di ritrovamenti archeologici che ci fornisce Nicolò Tinebra Martorana nella sua «Racalmuto, memorie e tradizioni». Non solo le contrade di Cometi e Culmitella ma anche quelle del Ferraro sarebbero state frequentate da Sicilioti.
ESATTORI ROMANI, ZOLFO, DECIME E MANCIPES A RACALMUTO
Nel terzo secolo a.C., con la conquista romana, non cambia molto ed è solo sporadico l’interesse di coloni, che solitari ebbero voglia di coltivare qua e là alcune delle plaghe più fertili di Racalmuto; si può forse congetturare che più frequente fosse, specie nell’interno, la pastorizia.
Contadini grecofoni non mancarono comunque ai tempi della repubblica romana ed essi furono tassati specie per le loro produzioni vinarie, come attesta un’epigrafe rinvenuta nel territorio di Racalmuto nel XVIII secolo, di cui ebbe a fornire preziosi ragguagli il Torremuzza. Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese, anche se non può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località siciliana “diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena epoca repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.
Ma quel che di rimarchevole ci forniscono i reperti archeologici del luogo sono certe “ tabulae” o “tegulae” ‘sulfuris’ risalenti con certezza al tempo di Commodo e che per secoli dal II al IV comprovano una intensa attività mineraria solfifera nelle medesime zone del nord ove sino a qualche decennio fa prosperava tale industria.
Con Commodo, nel 180 d. C., le viscere della terra, che erano state invase da vibrioni trasformatisi in vene di zolfo, vengono violate per l’estrazione del biondo minerale con metodi e strumenti che dopo essersi eclissati per secoli riemergono nell’ottocento e durano, tutto sommato, sino a metà di questo secolo. Reperti archeologici, compresi per primo dal nostro quasi compaesano avv. Giuseppe Picone, disvelano l’esistenza a quei tempi di “gàvite” con impressi timbri di singolare importanza epigrafica. In esse talora viene incisa una piccola croce. Ecco la più antica testimonianza dell’avvento del cristianesimo a Racalmuto.
L’industria mineraria solfifera dura dal II al IV secolo d.C. in quel di Racalmuto: dopo decade e scompare (salvo a risorgere nel XVIII secolo) per l’opera nefasta dei Vandali di Genserico. L’abitato si trasferisce allora a Casalvecchio. Un monticello calcareo - le Grotticelle - ben si presta alla tumulazione dei morti. Per Biagio Pace quello è un ipogeo cristiano. Il culto dei morti si ammanta ora di pietà cristiana. Solo la rapace ed incolta pirateria di improvvisati tombaroli racalmutesi degli anni ’quaranta ha impedito uno studio archeologico serio di quell’ipogeo. Nessun reperto si è comunque salvato. Di nessun dato disponiamo per una vulnerazione del buio fitto che è calato sulla vicenda religiosa locale del periodo post-romano.
Nell’atrio dell’ex convento della Clarisse - rapinato dal buon Garibaldi - si custodisce il noto sarcofago con il bassorilievo del ratto di Proserpina. Giaceva prima nel castello chiaramontano, assurto nel XVI secolo a dimora dei Del Carretto. Chi, quando e come ve lo avesse qui portato, resta un mistero. Se dovesse essere il superstite segno di una necropoli giacente sotto (o nei dintorni) del castello (per i racalmutesi: lu Cannuni), se ne dovrebbe trarre l’inferenza che ancora nel VI secolo d. C., la religione cristiana non era universalmente abbracciata in questa antica terra, e qualcuno amava farsi seppellire in sarcofagi pagani.
VISIGOTI E GOTI, BIZANTINI E LATINI A RACALMUTO
Dopo, con la caduta dell’impero romano e l’avvento dei barbari, il silenzio archeologico - oltreché documentale - è totale sino al tempo dei bizantini. Di certo, incursioni di barbari dovettero esservi specie per razziare i pregiati raccolti cerealicoli. Forse Genserico, se non nel 441 almeno nel 445, portò i suoi Vandali a devastare anche il territorio racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte dei coloni dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel 456 riuscì a sconfiggere i Vandali ad Agrigento. Del pari non sono da escludere presenze vandale a Racalmuto nel periodo del loro ritorno in Sicilia che si protrae sino alla cessione dell’isola ad Odoacre. Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il possesso della Sicilia ci è del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del ‘buon governo’ di Teodorico. Probabilmente risale a questo periodo se tanti coloni poterono concentrarsi nelle contrade di Grotticelli e di Casalvecchio e costituirvi un consistente agglomerato che poté prosperare specie sotto i Bizantini.
Casalvecchio, il toponimo che ancor oggi persiste, è zona piuttosto ricca di testimonianze archeologiche: purtroppo riluttanze delle autorità agrigentine impediscono tuttora di studiarne in loco la portata, le valenze e la significatività. Sappiamo solo che fu fiorente la civiltà bizantina, che durò sino all’incasione araba, allorchè appassì e si disperse. Alcune monete - rinvenute, però, nella disabitata contrada della Montagna portano in effigie gli imperatori bizantini Héracleonas e Tiberio II. Il primo risale al 641; il secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso nel 705. Le tante e ricorrenti testimonianze archeologiche (lucerne, condutture d’acqua, resti di fondamenta, ingrottamenti artificiali ad arcosolio, strutture murarie abitative affioranti, etc.) che si rinvengono nella zona che va dallo Judì al Caliato; dalle Grotticelle a Casalvecchio e dintorni attengono alla cultura bizantina, prosperata dal sesto secolo sino all’avvento degli Arabi.
Dal VI al IX secolo Racalmuto - ci è ignoto il nome greco del periodo - divenne palesemente bizantino. Secoli fervidi di opere e di umane presenze che le future campagne di scavi redimeranno dall’oblio dei tempi. La locale comunità fu di certo grecofona e quanto al rito religioso ebbe ad optare per quello ortodosso. Infuriava ad Agrigento la lotta tra vescovo greco e quello latino. Le vicende di tal Gregorio ci sono state tramandate ma con tali obnubilamenti che neppure il grandissimo mons. De Gregorio è riuscito sinora a dipanare. Misterioso dunque l’atteggiamento della periferica chiesa racalmutese in tal frangente.
ARRIVA LA CIVILTA’ ARABA
Con gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né vestigia archeologiche, né testimonianze scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è, appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che di arabo Racalmuto non abbia nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi - a partire dal nome del paese - o l’etimologie arabe dei vari lemmi della parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione saracena o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi di meri vaneggiamenti, di fole senza fondamento, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia trasparire l’assetto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti ribellistici dei sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio [avrebbe contenuto] 1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore di Rahal-Almut, Aabd-Aluhar, per bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuto dall’Emir di Giurgenta ( ) Ma l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di rimbeccare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso». E del resto lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra.» E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo (v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste a quella accativante falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, si lascia andare a questa arditezza storica: «... siamo nella microstoria di Racalmuto: antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende oggi il nome....». Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o più attendibile del solito Tinebra Martorana (v. pagg. 33 e segg.).
NORMANNI E SARACENI
E di fantasia in fantasia, trova ancora credibilità la favoletta che a metà dell’Ottocento confezionò il peraltro meritevole Serafino Messana quando racconta di due baldi eroi saraceni racalmutesi, Apollofar e Apocaps, distintisi nella lotta contro i Normanni.
Ruggero il Normanno conquistò Agrigento il 25 luglio del 1087 (se seguiamo l’Amari, o l’anno prima secondo il Maurolico ed altri). Racconta il Malaterra, nelle sue cronache coeve, che Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e munitala di un castello e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i castelli dei dintorni che furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe, Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il testo del Malaterra è inquinato e non si è certi della correttezza di tutti i toponimi. Sia come sia, Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su quell’impreciso ed incompleto Rahal... Un tempo abbiamo aderito a tale tesi, dando credito al Fazello che a dire il vero include nell’elenco il nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a quell’epoca nessun centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di tutte le fonti scritte è significativo. Neppure nella celeberrima geografia dell’Edrisi della prima metà del XII secolo è rintracciabile un qualche toponimo che assomigli a Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche modo possono essere collocati nei pressi dell’attuale centro racalmutese. Nel ricco archivio capitolare della Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il primo documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli (come diffusamente si vedrà in seguito). Mi si obietterà che l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che si afferma nel silenzio delle fonti è mera congettura, che nel caso di Racalmuto trascende pressoché costantemente persino l’area della verosimiglianza. Il territorio racalmutese non ha sinora restituito neppure una testimonianza archeologica di una qualche presenza umana per tutto il tempo degli arabi, dei normanni e degli eventi che seguono sino alle repressioni saracene di Federico II. Pensare ad un prospero centro abitato, dalla conquista araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al 1240-1250, è francamente avventatezza storica.
Il Garufi considerò «.. cervellotiche [le] etimologie [che vogliono] R a h a l m u t, casale della morte....». Per lui: il casale di « Rachal Chammout .... sin dalle sue origini fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ». Ma la tesi del Garufi appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca tale località in quel di Polizzi. Il Rachal Chammoùt del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno Racalmuto. E ciò destituisce di ogni fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel 1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo.
AGRICOLTURA RELIGIONE E COSTUMI NELLA RACALMUTO ARABA-NORMANNA
Due furono le fasi della conquista araba di Racalmuto: in un primo tempo gli arabi - la componente guerriera - razziarono il territorio bizantino racalmutese. Se ne stancarono molto presto, per la povertà di quei coloni nostri antenati. Passarono altrove. Subentrarono allora i berberi, popolo contadino, che si insediarono presso le sorgenti (Saracino, Raffo e forse Fontana). Un toponimo - anche se troppo poco - fa supporre infatti che si siano raggrumati attorno alla località del Saracino: le vicinanze - abbondanti di sorgenti d’acqua, propiziatrici delle colture di ortaggi con il sistema delle porche e zanelle, in cui erano maestri - potrebbero avvalorare la congettura. Sia quel che sia, l’Islam divenne imperante e non sono da escludere conversioni in massa dei pavidi cattolici del tempo, non foss’altro per sottrarsi alle sgradite tassazioni che la tolleranza araba aveva inventato per permettere ai non credenti di conservare vita e beni.
La sopraffazione si inverte con la conquista normanna dell’XI secolo. Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il “villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia saperne di più, gli studi di I.Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione, sotto i Normanni, di nuove terre. Tanto avvenne per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca - come si è detto - farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva con spirito depredatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
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