lunedì 19 ottobre 2015
Anch'io ho parlato di Guastanella
Introduzione
Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIV. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita del rampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato nel suo Cartagine Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni “burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei del Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che il prof. Giuseppe Nalbone, solo negli anni ’novanta di questo secolo, ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di Palermo.
Scopo, intento, occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto, rapace esattore delle imposte dei Martino, i noti avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIV secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Giuseppe Nalbone ha speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - viene qui riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxoricidi a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio consueto per l’epoca dei baroni del Carretto che verso la fine del Cinquecento dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di aver riconosciuto titolo di marchesato che infondatamente in esordio avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che andiamo a pubblicare spazza via ogni briciola di credibilità di una tale ingenua favoletta.
E quel che si scrive su data e struttura del Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera sulla storia del Castelluccio.
Già, carta canta e villan dorme!
Parte Prima
UN EXCURSUS DELLA STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL CARRETTO
Dai barlumi dell’archeologia locale affiora, flebile ma con contorni alquanto netti, l’insediamento sicano di quattromila anni fa lungo l’intero arco collinare sud est e sud ovest racalmutese.
Verso il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a paura per i naviganti micenei, verso le più protettive montagne di Milena, Bompensiere e Montedoro. Arrivano quindi i greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni agragantini. Solo verso il VII secolo la moneta con il granchio di Agragas sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana. Tra il II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo verso la fine del secolo XIX.
Allo spirare dell’Impero romano, la feracità del suolo racalmutese sembra avere attirato sia pure fugacemente le brame espoliatrici di Genserico e dei suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti significativi in località Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di Heracleone saranno poi rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso ed in luogo che all’epoca era forse disabitato: un nascondiglio, dunque, sicuro e lontano da occhi indiscreti.
Giungono gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi di sede fissa, violenti e ladroni. A Racalmuto trovano ben poco e subito si dileguano. Subentrano i Berberi, contadini e pacifici: ebbero forse a convivere con i mansueti bizantini del luogo.
I Normanni del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri - pare, depredarono il territorio dell’altipiano ove sembra sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nel XII secolo, il gaito saraceno Chamuth, signore della vicino Naro, con molta probabilità aveva il dominio del nostro Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal: da qui il toponimo Rahal Chamuth, a seguire l’acuta congettura del Garufi. I Saraceni furono, specie sotto Federico II, ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero verso di loro, deportò a Lucera i caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero assumendo nomi latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica. Per uno o due decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia Musca - forse Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e far sorgere un nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare il vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò di quel casale assegnandolo nel 1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini ne specificava - prima di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità e dettagli. Finiva, per altro verso, quella che possiamo considerare la preistoria racalmutese: un periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per circa 33 secoli. Quel che per tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche dalla penna più illustre del luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo solo credere a quei radi reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel poco, spesso nulla, che riescono a svelarci di tanto defluire umano degli antichi racalmutesi.
Con i Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto acquisisce importanza e ruolo perché può fornire tasse e balzelli alla famelica pirateria di un Pietro d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75 fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480 abitanti). Frattanto, Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da Federico di Chiaramonte che pare vi abbia costruito le torri del castello nella prima decade del 1300. Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di Federico, fu l’erede universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure Antonio del Carretto e poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria - forse quello dannato all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli archivi di Stato palermitani sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino al 1396 Racalmuto è dominio dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio illegittimo Manfredi Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto Vaticano.
Tocca a Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo, farne una baronia e farsene riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente previo esborso di sonanti once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel 1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505, al tempo della “venuta” della Madonna del Monte, la sua popolazione sale a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il barone di Racalmuto Ercole del Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un delitto: commissiona a tal Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di Castronovo per vendicare l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione su Palermo Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire chiese e conventi ed a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una redenzione spirituale sua e del suo popolo. Certo, mero e misto impero, terraggio e terraggiolo ed una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli): era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni II del Carretto finì sotto l’Inquisizione.
A metà del secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno che la politica del barone non era poi così devastante come sembra voler far credere Leonardo Sciascia.
Quello che non fa il barone, lo fa invece la peste del 1576: la popolazione racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un documento del fondo Palagonia, dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia tutta fiscale di impietosire il viceré per una contrazione delle “tande” in mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione della popolazione non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la soffocante tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi con gli stessi esattori, al contempo strozzini.
Sia come sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli abitanti ora sono in numero di 4448: ovviamente molti fuggiaschi erano rientrati e, soprattutto, si doveva trovare conveniente emigrare dai centri viciniori per sistemarsi nella neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni sociali, economiche e giuridiche in definitiva tornavano appetibili.
La questione feudale racalmutese
Si attaglia perfettamente a Racalmuto quanto ebbe a teorizzare Francesco De Stefano nel 1948, [1] specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu in origine, un baronaggio esigente ed esorbitante, perché né Ruggero I, né Ruggero II lasciarono impiantare la grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia vi fu un processo inverso rispetto all’organizzazione feudale anglosassone, e se questo processo inizia con un baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo il 1154 poté sfrenarsi, altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed a ben vedere, bisogna aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto quale centro totalmente feudale, con un barone prima, e un conte dopo, veri domini, forti ormai del mero e misto impero (invero ambiguamente comprato a suon di once attorno al 1550).
Quando nel 1282, Racalmuto è una “universitas”, è proprio come asserisce il De Stefano[2]: faceva parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi riconosciuti come tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era ordinato che “magistri iurati” e “judices in singulas partes regni creari debeant” e che le universitates delle terre demaniali judices, e le feudali ed ecclesiastiche iuratos “in magistros juratos de communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale insegnamento, dai diplomi dei Vespri possiamo desumere questa veste giuridica del casale di Racalmuto: esso era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i suoi giudici (judices) con voto unanime dei suoi abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del 26 gennaio 1283 ind. XI, sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor». Se il paese ha giudici e non giurati, vuol dire dunque che non è ancora feudale, oppure, per la latitanza di quel Negrello di Belmonte napoletano, il casale da baronia è stato derubricato in terra demaniale.
La dizione del documento è anche tale da suggerirci l’ipotesi che il “castrum” (il castello) non fosse ancora sorto. E ciò porta acqua alla tesi del Fazello che vuole le due torri feudali edificate da Federico Chiaramonte poco prima del 1311.
Come e perché Federico Chiaramonte si fosse impossessato di Racalmuto e che cosa l’abbia spinto a costruire quelle due inutili torre cilindriche è sinora un mistero. L’Inveges, lo storico secentesco che ci tramanda testamenti e cenni al riguardo, è relativamente attendibile, avendo più interesse ad accattivarsi il favore dei potenti del tempo che voglia di rispettare la verità storica. Ebbe o non ebbe gli originali di quegli atti notarili che dichiara di possedere? O non si trattò di una falsificazione, visto che nessuno è riuscito dopo a rintracciare quelle fonti?
Federico Chiaramonte va comunque considerato il primo feudatario di Racalmuto, almeno dopo il trambusto avvenuto a cavallo dei Vespri. Da espungere dalla verità storica le varie apocrife baronie dei Malconvenant, degli Abrignano, dei Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria che lo pseudo Muscia fa nostro barone addirittura prima di essere nato e cioè nel 1296.
Il primo riconoscimento ufficiale della baronia di Racalmuto è del 1396 e riguarda un diploma dei Martino a favore di Matteo del Carretto. Al di là delle incertezze delle fonti diplomatiche del XIV secolo - che si avranno modo di scandagliare - il nostro paese è incontrovertibilmente terra feudale baronale solo a partire da tale data: prima sono solo fantasie e sprovvedutezze di autori e scrittori locali, ivi compresi il sommo narratore di Regalpetra e gli avveduti ecclesiastici dediti alla storia paesana.
GENESI ED AFFERMAZIONE DELLA BARONIA DEI DEL CARRETTO A RACALMUTO
Dalle brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei Del Carretto affiora qualche piccola scisti veritiera: chi fosse davvero quell’Antonio I Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo sia pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.
E’ fragile l’ipotesi secondo la quale esistette un Antonio I Del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte – e neppure è indubitabile che la coppia abbia avuto un figlio, Antonio II Del Carretto. Vi è una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.
Su quelle carte torneremo in seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla circostanza di un Antonio II Del Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì vi ha fatto fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di codesto figlio di un sedicente legittimo titolare.
Quasi certo che i Del Carretto provengano dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel 1263. [3]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali costei appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, cui si accredita la prima baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie dell’Inveges.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato ad un certo punto a Genova, come detto. Là si sarebbe arricchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370).
La svolta del 1374
Si accredita autorevolmente la tesi di un Manfredi Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate combinazioni, si [venne] a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [4] Non sembra potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo, Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia nel senso allora corrente di gravissima epidemia». [5] Già vi era stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni si ebbero per un ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo. Operava frattanto la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo erano emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile additare una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era propenso a credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di quei tragici eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto questo è però provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un massiccio trasferimento da Casalvecchio all’attuale sito della residua, falcidiata popolazione.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360. L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I, il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con 9 galee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento: nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il concordato con il papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile interdetto.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a Limoges nel 1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla cosiddetta "cattività avignonese".
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento culminante di una gravissima crisi. Ed in questa congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche per il modesto, gramo paesotto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola, nell’isola - scrivemmo una volta in pieno disaccordo con Sciascia.
Le decime del 1375
Nel contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel. Il suo destino si lega a quello della Sicilia ed investe Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del 1375. La sua carriera in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i suoi compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi. Vi troviamo Racalmuto.
La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca nel quadro di grandi eventi storici. In particolare occorre tener presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV di Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida del papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV accettava la signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmettere alla Santa Sede questo canone. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi che godeva prima dei Vespri del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto che gravava sull’isola da lunghi anni.
In Sicilia la riscossione di tale sussidio fu decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono modalità di esazione contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle del dicembre del 1372, chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo. In virtù di una clausola apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento di rispettare la pace e d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero si parla ancora più esplicitamente di “subsidio auctoritate apostolica imposito” . E ci siamo dilungati proprio perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.
«Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le condizioni economiche fossero state omogenee, sarebbe stata distribuzione equa. Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e le “miserabili persone” che non era prefigurato quali fossero.» [6]
Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico che subito toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Manfredi è a Mussomeli nel suo castello che ora si denomina dal suo nome “Manfreda”: là si redige un processo verbale che attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria, presentandosi davanti al re Federico III gli ha prestato fedeltà e devoto omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, si era dunque quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re, Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace, come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro.
Egli ha promesso di fare versare il sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle sue terre di Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro, Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronovo, Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco, Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione. Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno, Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra, Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano, Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le proprietà della regione di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [7]
Dalla lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas ha un suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituisce un soggetto giuridico (universi homines). Rientra tra le terrae nostrae, cioè di Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto, ma così non è.
Le singole università devono nominare tre probiviri (tri boni homini) i quali devono assolvere il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino la ficcante tassazione.
L’elenco delle università ha una sua logica: Racalmuto si trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. a Nord di Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini) che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese si arricchisce di un altro importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi scema del tutto.
Fin qui si è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo); il 18 dello stesso mese può togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto. Dal nostro paese si passa a Castronovo (8 aprile 1375). La raccolta del sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione, lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamente Racalmuto.
Disponiamo di un paio di annotazioni che riguardano il nostro paese e che naturalmente svelano tratti storici diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit amotum interdictum in casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e 27 tarì.» Ad essere precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze 7 e tarì 27 (anziché 27) dato che così andava ripartita:
quota individuale
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totale in tarì
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pari ad onze
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e tarì
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numero fuochi
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136
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238
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onze 7
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tarì 28
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ceto medio (1/4)
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34
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2 tarì
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68
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benestanti (1/4)
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34
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3 tarì
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102
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poveri (1/2)
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68
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1 tarì
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68
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Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni nucleo familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i preti (tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che dispersi per le campagne non era possibile includere nel censimento, un venti per cento. Nel 1375 Racalmuto contava dunque circa 650 abitanti.
Come si è visto le case erano di paglia: segno di grande indigenza. Eppure i racalmutesi o per solerzia degli scherani pontifici o per vero timore di Dio (e della peste) furono solerti e puntuali nel dare il sussidio caritativo al papa. Non così in altre zone della Sicilia, come ebbe a lamentarsi quello straniero di Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte del du Mazel non vanno minimamente confuse con i rilievi censuari. Abbiamo solo numeri simboli da cui possiamo dedurre qualche ipotesi di lavoro di carattere demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a Racalmuto vi erano davvero 136 case con tetto a paglia; che 34 di queste (1/4) erano abitate da benestanti in grado di corrispondere la tassa pontificia in misura massima (3 tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a ceti medi (tassati per 2 tarì a famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie di dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1 tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per stima aprioristica. Certamente in misura più limitata dovette essere la densità delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più vasta quella della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi (tassati a parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili” (nullatenenti e non imponibili per legge o per dato di fatto), gli irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessibili o nei contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva. Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel 1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi avvallamenti sotto le grotte dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti, che tutto considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”). Una popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento spagnolo del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
La fine del Trecento
L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.
Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile.
Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.
La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stessero ancora a Genova a curare i nuovi loro affari in seno a compagnie marittime.
Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [8] Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva l’intrigo della corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.
Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi sommovimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.
Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia, punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.» [9]
Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico racalmutese.
Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai Martino. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e dà inizio al lungo periodo della sua baronia vera e storicamente documentata.
Si dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di Castronovo in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiaramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» [10] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici degli invasori, per “necessità” finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
* * *
Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.
Gli eventi precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte si asserragliava a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando venne decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» [11] Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finì in successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata direttamente dalla Spagna.» [12]
I DEL CARRETTO BARONI DI RACALMUTO
Quando il 22 marzo 1392 la spedizione spagnola approdò a Favignana, dalla lontana Genova i Del Carretto si decisero a veleggiare verso la Sicilia per riprendersi le terre racalmutesi cui pensavano di avere diritto per successione diretta e per lascito di Matteo Doria. Racalmuto si presentava tripartita: a sud-est il Castelluccio, munito già della sua fortezza, e dintorni era feudo denominato Gibillini e di pertinenza dei signori di Favara; a nord il castello chiaramontano era coronato da case coperte di paglia e con il suo toponimo arabo costituiva la terra abitata di un feudo ampio che meglio definiremo dopo; ed a sud-ovest le ampie pianure della Menta della Noce del Rovetto erano considerate terre burgensatiche, di personale proprietà del feudatario.
Le terre dello stato di Racalmuto, soggette a vincolo feudale, non si estendevano dunque per tutto il territorio extraurbano: un qualche rilievo di autonomia mostrava la contrada della Menta (sempre dei del Carretto) che talora è stata denominata ‘feudo’. Sono dei del Carretto i fertili fondi di Garamoli, ma appaiono come terre allodiali.
Lo stato di Racalmuto parte dalla contrada di Cannatuni (come ai giorni nostri) e da quel versante nord va verso ponente: coinvolge Santa Margaritella e Santa Maria di Gesù, arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo Morto); si diffonde nella fertile piana di Fico Amara o Fontanella della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e per Bovo; include una parte del Serrone (un altro versante è detto appartenere al feudo di Gibbillini); scende per Judio, Malati, Casalvecchio e Saracino, annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[13] e Difisa; e chiude quindi l’irregolare circonferenza inerpicandosi per le contrade della Pernice fino a Quattro Finaiti.
Menta, Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono pertinenze del feudo dei Del Carretto, ma hanno una loro distinta configurazione.
Negli atti notarili non sempre è chiara la peculiarità feudale di queste terre dei del Carretto che talora vengono segnate come un distinto ‘feudo’ (fego della Menta o della Nuci), talaltra no, e comunque restano talora attratte nell’intreccio delle doti di ‘paragio’ dei cadetti e delle figlie di quella famiglia.
L’importanza dei possedimenti di Garamoli si coglie da una pagina della ‘Fabrica’ [14] della Matrice del 1658. La fiumara di Garamoli doveva essere contornata da un bosco fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per costruzione, fonte di grossi affari. La famiglia Napoli, quella degli Alcello e l’altra dei Gueli fornivano maestranze specializzate, ben pagate per l’epoca.
Per coprire il tetto della Matrice occorrevano “burduna” di enormi proporzioni. Si trovavano nel mezzo della fiumara di Garamoli. Per trarli fuori provvide la maestranza ma soprattutto un nugolo di nerboruti facchini che furono pagati in modo inconsueto: con salsicce e vino. La pagina della “fabrica” del dicembre 1658 appare degna di essere riportata qui diffusamente:
«.. al d. di Napoli con dui figli et m.° Alcello tarì 11; ...
· alli d. di Napoli, Alcello et dui altri mastri tt. 12.10;
· alli d. di Gueli et Napoli et un giovane per pulire travetta et intravettare tt. 12;
· alli d. di Gueli et Napoli et suo figlio per havere andato in Garamoli per sbarrare li travetti et li burduna n.° tre che mancano al complimento della nave tt. 11.10;
· per havere fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli tt. 5;
· alli d. di Gueli et Napoli con dui figli tt. 14. per havere comprato deci lignami da Vincenzo Pitrozzella per mancanza di forbici onze 3.10;
· più per havere fatto venire dui burduna da Garamoli tt. 20;
· e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna dentro la fiumana e ni portaro uno tt. 15.8.»
Piena autonomia ha sempre invece il feudo di Gibbillini. Feudi dei dintorni di Racalmuto sono - stando a certi atti notarili - quelli Di Grotte, del Chiuppo, di Scintilia e del Nadore.
* * *
Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. [15]
Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, nella nota guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, di certo, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie quelle del Fazello. Se attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare per marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, sarebbe stato Gerardo a darsi da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. Sarebbe sempre Gerardo a mettersi a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non risolvibile allo stato delle attuali conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i del Carretto sono costretti, comunque, a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogativi cui non siamo in grado di dare risposte certe.
I DEL CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO
Il quattordicesimo secolo vede i del Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, sulla Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti, difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda un documento: esso fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava acconcio per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XIV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.
LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del Carretto, figlio di Matteo, di quell’avventuriero, cioè che si era arrabattato alla fine del secolo precedente. Henri Bresc vorrebbe questo Giovanni del Carretto come un disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale. Appare come creditore dei Martino, acquirente di quote di feudi in quel di Mussomeli, ma lo storico francese è perentorio: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse oblige à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Di questa espoliazione della baronia di Racalmuto a favore di Gispert d’Isfar, non trovasi riscontro alcuno nell’altra pubblicistica di nostra conoscenza. Il Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ([16]) sembra escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non spregevole latinista, addentro di sicuro alle segrete cose dei del Carretto, è smaccatamente elogiativo per dargli eccessivo credito. Comunque, l’interruzione della baronia dal 1422 al 1453 non viene neppure sospettata. Così è anche in una lunga comparsa giudiziale della fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo del Carretto.
Gibert Isfar avrebbe sposato una figlia di Giovanni I del Carretto nel 1418 ([17]); il personaggio è arrogante, intraprendente, si dà all’usura, sa farsi nominare mastro portolano. Il Bresc è prodigo di notizie sul suo conto. Tra l’altro, compra per 10.000 fiorini la castellanìa e la “secrezia” di Sciacca (Bresc, op. cit. pag. 857); opera a tassi usurari del 7% (ibidem pag. 859); è bene insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto riesce a farsi nominare feudatario di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per ripopolarlo (ibidem pag. 895; ASO Canc. 65, f. 42).
Attorno alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti del protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474.
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole Del Carretto. Gli contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe: traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa. In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della Madonna fu certamente fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere, intenda.
PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([18]) su tutta la storia racalmutese. Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi ci accingiamo ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con topiche ed errori, spesso con “visionarietà romantica”: correggerli alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
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Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
1. Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([19]) è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo III. Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni, forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ed intentando contro di lui, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una scottante scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV ([20]), dunque, non è mai esistito.
2. Giovanni V Del Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([21]) - il Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio del 1622 sarebbe stato perpetrato insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([22]).
3. Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del terraggiolo, «canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo particolarmente crudele e brigantesco» ([23]) dal conte in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti - quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con una donazione una tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non dovessero il terraggiolo (e cioè due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive il Pirro. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi con la stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di vita 'appena descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.
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Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI, il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto in capo alla rampante famiglia d'origine ligure.
Solo in una circostanza ha ragione da vendere il Barberi e cioè quando contesta l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il 1519, quel diligente burocrate sull'origine e sui primi sviluppi dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una terra feudale racalmutese in mano a Federico II Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([24]) aveva così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal condam Antonio del Carretto.
Morto costui, doveva succedere nella stessa terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti che aveva e poteva avere per ragione di successione e di eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo suo fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, acquista i predetti beni e diritti dal fratello Gerardo, per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tale conferma dato in Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
E morto Matteo, gli successe nella detta terra Giovanni del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta terra in un diploma ove risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.
Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
E morto il detto Ercole successe nella detta terra Giovanni del Carretto [III], suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il padre non avesse preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del proprio genitore. ([25])
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa per ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto, titolo che la cancelleria di Martino riserba a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).» ([26])
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([27]) Il Di Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque, anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito dire e Dio sa quanto menzogneri fossero quei nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale fede.
Il Fazello, restando nell'ambito della storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo) nella ricostruzione della storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello, però, è del tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito Amico([28]) ed il Villabianca, quello della Sicilia Nobile([29]) - su un'evidente distorsione di un passo dell'opera dello storico di Sciacca. ([30]) Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto ([31]): Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende di quella famiglia. Ma di ciò a suo tempo e luogo.
Allo spirare di quel secolo, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce il prelato - l'Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto, il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti [.....]
Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perché il vicario generale d'esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale di Girgente, et perché ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([32])
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti, processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia stata la base di un libro scritto poi, nel 1630, proprio dal Baronio. ([33])
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirro: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 ([34]) alla famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano dei Del Carretto anche per quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I - sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine Siciliana, è datato 1661 ([35]) e può dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio, mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di piaggeria araldica. ([36]) Si dà il caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di Federico II Chiaramonte ([37]) è il fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere davvero la nonna di Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il lavoro dell'Inveges ([38]), ma sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro, di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie, quando sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento. ([39]) Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. ([40])
Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo diarista palermitano. ([41]) Quando, ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il conte fu imputato del delitto di lesa maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata del tutto fallita. Nel suo diario ne fece diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria ([42]) che poi seguì passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI PRIMI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di un Barone è tale che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi, sia pure in corsivo, mostrando di non esserne certi.
Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, semplicemente non esiste.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è proprio così che forse è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia storica di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era fasullo, comunque inconsistente, in ogni caso obsoleto.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non sappiamo dove sposa una tale Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399.
Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, ....»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto in giovane età.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto, solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammessa secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente inverosimile congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome della nonna paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima ([43]) era tutto l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo ([44]) ne fornisce indubbia testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri fideli quelli di lu dictu locu qui tutti generalmente defrodaru e fichiruli assai dispiachiri; per la quali cosa si ita est la nostra maiestati haviva causa di meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna affannu di chircarisi che cumandamu ki con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu procuraturi di la presente per parte di li altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la nostra maiestati cesaria [si occupi] plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.
La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del Carretto.
Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe spagnole.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia sedicente originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.
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