ARCIPRETI E SACERDOTI NELLA
SECONDA META’ DEL CINQUECENTO
Don Aloysio (Lisi) Provenzano
Questo sacerdote traspare
dai registri di battesimo e di matrimonio della Matrice. Il suo ministero
sembra discontinuo. Nel biennio 1575-1576 dovette avere funzioni di cappellano
ed il suo nome si alterna con quello di don Vincenzo d’Averna negli atti di
battesimo. Ancora nel 1581 è uno degli officianti della Matrice ed il 19
settembre 1581 battezza Paolino d’Asaro, fratello del pittore e futuro
sacerdote racalmutese.
In tale veste compare
sino al 1584, dopo subentrano altri cappellani come don Paolino Paladino e don
Francesco Nicastro. Don Lisi Provenzano riappare successivamente nei documenti
della Matrice, ma come teste nella celebrazione di matrimoni (ad es. il 28 settembre
1586) o come semplice padrino in battesimi (come quello di Francesco Castellana
del 3.10.1587 ).
La sua presenza a
Racalmuto è attestata sino al 1593 come da un atto di matrimonio, da cui però
risulta che il Provenzano non è più cappellano della Matrice.
La figura di d. Lisi
Provinzano emerge invero da un documento dell’Archivio Vescovile di Agrigento
che risale al 31 ottobre 1556. Se ne ricavano alcuni tratti biografici. Ma
soprattutto è la vita paesana a metà del XVI secolo che traspare. Val quindi la
pena di riportarne alcuni brani.
Siamo stati supplicati da parte
del Rev. presti Aloysio Crapanzano del tenor seguente: .. da parte del rev.
presti Aloisio Provenzano della terra di Racalmuto, subdito della giurisdizione
di V.S. ... In tempi passati venendo a
morte lo condam ... di Salvo della ditta terra, fece il suo testamento agli
atti dell’egregio condam notaro Vito Jandardoni et per quello inter alia
capitula legao all’esponente pro Deo et eius anima et in satisfatione de suoi
peccati tarì dudici anno quolibet sopra tutti li soi beni hereditari durante la
vita di esso esponente per una missa da dovirisi diri in die lunae cuiusvis
hebdomadis .. in ecclesia Sancti Francisci dictae terrae per ipse esponente. Et
mancando, che tali tarì dudici li havissero
li frati di ditto convento durante la vita di esso esponente, si como per ditto
legato appare in ditto testamento fatto ni li atti de ditto notaro Vito 21
novembre iiij ind. 1545. Et perché lo esponente si trovao absenti da ditta
terra alla morte del ditto testatore, che havea stato in Palermo et ad altri
parti per soi negotij et non habbi mai notitia di tale legato et li frati di
ditto convento quello si exigero con diri che ipsi voleano dire tali missa.
Appena saputa la faccenda
del legato, il sacerdote si dichiara disponibile alla celebrazione della messa
per l’anima del di Salvo. Ma i frati sono riluttanti e non consentono al
Provenzano di celebrare quella messa nella chiesa del loro convento. Quindi il
sacerdote si trova nell’impossibilità di adempiere all’obbligo nelle modalità
volute dal testatore. Egli non può celebrare
ditta missa per la repugnantia di ditti frati in la loro
ecclesia; pertanto supplica V.S. sia servita provvedere et comandare che ipso
exponente possa satisfare la volontà di ditto defunto in diri la missa ogni
lune cuiusvis hebdomadis in alcuna altra ecclesia in ditta terra di Racalmuto
ben vista a V.S. Rev.da et comandare alli heredi di ditto defunto che di ditti
tarì dudici anno quolibet staiono de
rispondere et quelli dari allo esponente con la conditione ordinata e fatta per
lo defunto che quando mancasse per sua colpa e defetto recada al ditto convento
di santo Francesco. Et ita petit et supplicat. ..
Il vicario generale
dell’epoca don Rainaldo dei Rainallis dà quindi disposizioni al vicario del
luogo perché faccia un’inchiesta e ragguagli il vescovado.
Quel che emerge con
chiarezza è dunque la vita piuttosto girovaga di questo nostro prete del
Cinquecento che per affari si reca a Palermo ed in altre località ed è tanto
affaccendato da non sapere neppure di un legato in suo favore. Non meraviglia
certo che il di Salvo s’induca a lasciare a favore di questo sacerdote, durante
vita, un legato di dodici tarì per una messa la settimana, il giorno di Lunedì,
da celebrarsi nella chiesa di S. Francesco. Le disposizioni testamentarie pro
Deo et anima in remissione dei propri peccati investivano i vari strati della
popolazione. Non sorprende che i frati siano riluttanti a concedere il permesso
di celebrare nella loro chiesa a sacerdoti secolari. Se messe di suffragio sono
da dire, possono benissimo essere loro ad adempiere ogni volontà testamentaria
al riguardo. Ovviamente percependone le elemosine. A chi abbia dato ragione il
Vicario Generale, se ai frati o a d. Lisi Provenzano non sappiamo, ma
propendiamo a credere che sia stato quest’ultimo a venire favorito. Non per
nulla, qualche anno dopo il sacerdote si stabilisce a Racalmuto e qui svolge
funzioni da cappellano.
Il documento è comunque
importante perché ci fornisce qualche dato sul convento e sulla chiesa di S.
Francesco. L’uno e l’altra erano dunque operanti da prima del 1545. Stanziano a
Racalmuto padri francescani che dispongono della chiesa ed erano sottratti alla
giurisdizione del vescovo agrigentino. Nella visita pastorale del 1540-43, il
vescovo Tagliavia omette ogni riferimento ai francescani. Eppure abbiamo motivo
di ritenere che essi fossero già
insediati. Nel 1548 il convento possedeva una bottega in piazza e ciò risulta
dalla bolla di riconoscimento della confraternita di S. Maria di Juso datata 21 maggio 1548 ( A.C.V.A. - Registro
Vescovi 1547-48, p. 142).
Con i
padri dell’Ordine dei Minori Conventuali di S. Francesco, ebbe dunque a
confliggere don Lisi Provenzano attorno al 1556 per un legato del 1545. Il
convento francescano precede quindi di almeno 15 anni il 1560, data ritenuta di
fondazione dal Tossiniano. Al 1560 risale, invero, il testamento di Giovanni
del Carretto che accenna alla chiesa di S. Francesco ed al convento ma in
questi termini:
Del pari lo stesso spettabile
Testatore volle e diede mandato al predetto d. Girolamo del Carretto, suo
figlio primogenito ed erede particolare, di far celebrare delle messe nel
convento di S. Francesco di detta terra. Inoltre dispone che sia costruita una
cappella in un luogo da scegliersi in detta chiesa dal suddetto erede
particolare ed a tal fine saranno da spendere 100 onze entro due anni dalla
morte del testatore. La Cappella è da fabbricarsi per l’anima del predetto
testatore e dei suoi predecessori.
Inoltre
decide di venire sepolto nella chiesa di S. Francesco con l’abito francescano:
Item elegit eius corpus sepelliri in
Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus ordinis ditti Sancti Francisci
et ita voluit, et mandavit.
Anche
da qui emerge che S. Francesco esisteva da tempo.
Il
Sac. Lisi Provenzano visse, dunque, gli anni del suo sacerdozio tra Palermo,
altri luoghi e Racalmuto. Ordinato già nel 1545, all’epoca cioè del testamento
del di Salvo, nacque a Racalmuto qualche tempo prima del 1520. Morì attorno al
1597.
Nel
1584 fa una donazione alla chiesa di S. Maria Inferiore (di Gesù) di tt. 6
annui, cedendo un censo annuo su una casa una volta appartenuta a Violante
Petruzzella:
Actus donationis o. - 6.
Pro ven: Eccl. Sanctae Marie inferioris - cum p.ro Aloisio Provenzano.
Die xxiiij° septembris xiij^ ind. 1584
Reverendus presbiter Aloisius Provenzano de Racalmuto coram
nobis mihi notario cognitus pro anima sua titulo donationis et omni alio
meliori modo sponte cessit et cedit ven: Eccl. Sanctae Mariae Inferioris dictae terrae per eum
Mattheo La Paxuta rettore mihi cognito omnia jura quae et quas habuit et habet
in et super tt. 6 census quolibet anno solvendi contra magistrum Joseph
Cachiatore super domo olim Violantis Petrocella virtute contractus facti in actis meis die etc.
Testes m.j
Joseph Lomia et Jacobus de Poma.
Arciprete Gerlando D’Averna
Con
bolla pontificia del 13 novembre 1561 ( Archivio Segreto Vaticano - Registri
Vaticano - Bolla n.° 1911 - f. 211 e
ss.), Pio IV nomina arciprete di Racalmuto don Gerlando D’Averna (chiamato nel
documento Giurlando de Averna). La bolla viene indirizzata al diletto figlio,
arciprete e rettore della chiesa di S. Antonio di Racalmuto, diocesi di
Agrigento.
Pius episcopus servus servorum Dei.
Dilecto filio Giurlando de Averna
rectori archipresbitero nuncupato parrochialis ecclesiae archipresbiteratus
nuncupatae Sancti Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis,
salutem et apostolicam benedictionem.
E’ del
tutto rituale l’apprezzamento che giustifica la concessione papale del lontano
beneficio dell’arcipretura racalmutese, ma è pur sempre un riconoscimento di
meriti:
Vitae ac morum honestas aliaque laudabilia probitatis et
virtutum merita, super quibus apud nos fide digno commendaris testimonio, nos
inducunt ut tibi reddamur ad gratiam liberalem.
Ci appare oggi strano
come una prebenda così striminzita fosse di concessione pontificia. All’epoca
era invece una consuetudine ed il papa mostra di esserne un custode geloso et
attento. Ne fa accenno nel corpo della stessa bolla, dichiarando illegittima
ogni usurpazione da parte di qualsiasi autorità:
Dudum siquidem omnia beneficia ecclesiastica cum cura et sine
cura apud Sedem apostolicam tunc vacantia et in antea vacatura collationi et
dispositioni nostrae reservavimus, decernentes ex tunc irritum et inane si
secus super hijs a quacumque quavis auctoritate scienter vel ingnoranter
contingeret attemptari.
In un siffatto quadro
giuridico si colloca, dunque, il beneficio di Racalmuto, un beneficio che,
comunque, tal Sallustio - già rettore ed arciprete di Racalmuto - non ha
reputato utile mantenere e l’ha restituito nelle mani del Papa.
Et de
inde parrochiali ecclesia archipresbiteratus nuncupata Sancti Antonij terrae
Rachalmuti Agrigentinae diocesis per liberam resignationem dilecti filij
Salustij humilissimi nuper ipsius ecclesiae rectoris archipresbiteri nuncupati,
de illa quam tunc obtinebat in manibus nostris sponte factam et per nos admissam apud Sedem predictam
vacantem.
L’arcipretura di
Racalmuto, cui rinuncia anche il chierico Cesare, viene alla fine assegnata al
D’Averna per i suoi meriti:.
Noi, quindi vogliamo concederti una speciale grazia per i
tuoi premessi meriti, e assolvendoti da ogni eventuale censura, disponiamo che
tu ottenga tutti i singoli benefici ecclesiastici
con cura e senza cura (d’anime) e tutto quanto ti compete in qualsiasi modo,
comunque e per qualsiasi quantità; ed in particolare gli annessi frutti,
redditi e proventi che costituiscono una pensione annua di 24 scudi d’oro
italiani secondo la ricognizione fatta dalla Santa Sede quando ebbe ad
accordarla al predetto Sallustio, pensione che in ogni caso non supera i
sessanta ducati d’oro come tu stesso
affermi.
E vogliamo ciò anche se sussiste una qualche riforma insita
nel corpo delle leggi visto che la predetta chiesa è riservata alla
disponibilità apostolica in forma speciale e generale.
Pertanto ti conferiamo il beneficio con l’autorità apostolica
che ci compete, giudicando irrituale ed inefficace ogni altra contraria
decisione di qualsiasi autorità che abbia ritenuto di poterne disporre,
scientemente o per ignoranza. E ciò vale anche verso chi tenterà in futuro di
arrogarsi poteri dispositivi.
Intorno a quanto precede, diamo mandato per iscritto ai
venerabili fratelli nostri, i vescovi Amerin/ e Muran/ nonché al diletto
Vicario del venerabile fratello nostro, il vescovo di Agrigento, affinché loro
due o uno di loro, direttamente o per il tramite di qualcuno introducano Te o
un tuo procuratore nel materiale possesso della chiesa parrocchiale e degli
annessi diritti e pertinenze e lo facciano per la nostra autorità. Non
manchino, altresì, di difenderti, dopo avere rimosso qualsiasi altro detentore,
facendoti dare integro il resoconto della chiesa parrocchiale e degli annessi
frutti, redditi, proventi e doti. A ciò non osti qualsiasi contraria
costituzione di papa Bonifacio Ottavo, di pia memoria, nostro predecessore, né
ogni altra decisione apostolica. Del pari, nessuno può richiedere per sé o per
il proprio legato un qualche diritto di omaggio o un qualunque beneficio
ecclesiastico in base a lettere o in forma speciale o generale, anche nel caso
in cui vi sia stato un processo e sia stato emesso decreto riformatore.
Vogliamo che tu comunque entri in possesso di detta chiesa
parrocchiale, senza pregiudizio alcuno degli annessi benefici. Se qualcuno
dovesse tentare presso il venerabile fratello nostro, il vescovo di Agrigento o
presso chiunque altro che sia stato dalla Sede apostolica dotato in comunione o
frazionatamente nei beni della chiesa, non gli si accordi costrizione o
interdetto o sospensione o scomunica. Resta ribadito che quanto ad omaggi,
benefici ecclesiastici, relativa collazione, provvisione, presentazione e
qualsivoglia altra disposizione, sia congiuntamente che separatamente, non può
provvedersi per lettera apostolica che non faccia piena ed espressa menzione,
parola per parola, alla presente, la quale ha forza di annullare qualsiasi
altra indulgenza, generale e speciale, di qualsiasi tenore della Sede
apostolica.
La complessità della
bolla invero illumina poco sulle peculiarità parrocchiali della Matrice del
tempo. V’è un rigonfiamento di formule curiali, del tutto sproporzionato alla
esiguità dell’affare.
L’arc. D’Averna non pare
essere racalmutese. Sembra venire da Agrigento. E’ un po' nepotista. Con lui si
sistema a Racalmuto il sac. d. Vincenzo d’Averna che è anche cappellano. Appare
un vicario a nome don Giuseppe d’Averna. Fa capolino un chierico: Orlando
d’Averna.
Come arciprete, lo
riscontriamo con una certa assiduità negli atti di battesimo dal 12.11.1570
sino al 5.7.1571; poi appare sporadicamente. Non abbiamo, però, serie complete
di atti di battesimo: il primo quinterno è incerto se si riferisce al 1554 o al
1564. Si salta, poi al 1570-71-72 e quindi al 1575-1576. Quindi il vuoto sino
al 1584.
L’arc. Gerlando d’Averna
figura ancora il 24 di maggio 1576 in questo atto di battesimo - ed è l’ultima
testimonianza di cui disponiamo:
24 5 1576 Joannella figlia di Barbarino Vella (di)e diPalma;
madrina: Juannella
di Rotulu;officiante: Don Gerlando di Averna.
Va, quindi, fugato
il sospetto che, ricevuto il beneficio
dal papa, egli abbia soltanto percepito i proventi della sua arcipretura e per
il resto se ne sia stato lontano. La sua arcipretura sembra durare oltre 18 anni:
è, infatti, nel 1579 che subentra l’arc. Michele Romano.
Don Vincenzo D’Averna
Ci sembra un parente
dell’arciprete d. Gerlando D’Averna, ma non abbiamo prova alcuna ove si
eccettui una qualche singolare coincidenza. Sicuramente non era racalmutese. E’
cappellano della matrice a partire dal luglio del 1571. I salti della
documentazione parrocchiale ci impediscono di sapere sino a quando operò
assiduamente. Comunque, stando agli atti di battesimo disponibili, nel
successivo periodo che decorre dal 6.11.1575 sino al 21.5.1576 è il sacerdote
officiante in n.° 76 funzioni battesimali. Dopo quella data non lo s’incontra
più, ma vanno tenute presenti le interruzioni che si riscontrano per quel
periodo nell’archivio della matrice. Don Vincenzo D’Averna non appare nel
“liber” della parrocchia: ovviamente già nel 1636 si era perso il ricordo di
quel cappellano.
Don Giuseppe D’Averna
Appare per la prima volta in un atto notarile
della confraternita di S. Maria Inferiore del 31 agosto 1578:
Terrae Racalmuti Die xxxi° augusti vj ind. 1578. - Notum
facimus et testamur quod Reverendus pater Joseph d’Averna cappellanus,
Antoninus de Acquista; Jo Grillo et Vincentius Macalusio rectores
venerabilis ecclesiae Sanctae Mariae
Inferioris ...
Nel 1580 fa da padrino di
battesimo a Vincenza Stincuni:
14 2 1580 Vincentia di
Gerlando Stincuni e Angela; lo q. don Joseph di Averna la q. Betta la Carretta'.
E’ poi assiduo come
cappellano sino alla data della sua morte che il ‘Liber’ segna sotto la data
del 26 ottobre del 1600 (Liber in quo adnotata .. cit. col. 1. n.° 13). Una malcerta annotazione sembra
indicarlo come Vicario Foraneo, ma è indizio troppo dubbio per essere certi che
abbia ricoperto tale importante carica. Comunque è presente nei battesimi dei
figli degli ottimati locali come quello di
3 7 1598
Margarita donna di Geronimo don Russo e di donna Elisabetta del Carretto, per
don Gioseppe d'Averna; patrini Vinc. Piamontese et soro Gioanna Piamontese
Elisabetta del Carretto
era figlia di Giovanni del Carretto, conte di Racalmuto e di donna Caterina de
Silvestro. Ella fu legittimata il 12 novembre del 1587.
Giovanni del Carretto, fa
sposare la figlia, attorno al 1590, con il nobile Girolamo Russo. Costui figura
come governatore del castello di Racalmuto nell’ultimo scorcio del secolo.
Un’eco affiora in certo carteggio scambiato tra il vescovo di Agrigento Horozco
Covarruvias e la Santa Sede, come si è visto nello stralcio di un documento
vaticano sopra richiamato.
Clerico Blasi Averna
Tra il 1579 ed il 1581fa
capolino negli atti parrocchiali tal Clerico Blasi Averna. Di lui non fa
menzione il “Liber”: era dunque sparito persino dal ricordo nel 1636. Nel
rivelo del 1593 figura tal Blasi Averna, ma è un ragazzo di 22 anni che vive
con la madre Vincenza nel quartiere di S. Giuliano: non ha dunque nulla a che
vedere con il chierico in questione. Costui sposerà nel gennaio del 1601 Agata
Mastrosimone, come da seguente trascrizione della Matrice:
7 1 1601 Averna Blasi di Antonino q.am e di Vicenza q.am con
Mastro Simuni Gatuzza di Nicolao q.am e di Francesca; testi: Muntiliuni cl.
Jac. e Gulpi Antonino: Benedice il sac.Macaluso Jo:
Don
Monserrato d’Agrò.
Compare come cappellano
della Matrice attorno al 1579, agli esordi dell’arcipretura Romano, e la sua
missione sacerdotale, in subordine all’arciprete, dura sino al 1594. Sotto la
data del 30 aprile 1595 lo incontriamo negli atti della chiesa di S. Maria di
Gesù, di cui è divenuto cappellano. Nel coevo atto di assegnazione di un’onza
di reddito da parte dei fratelli Vincenzo e Giacomo d’Agrò per avere in cambio
la concessione di sepoltura nella medesima chiesa, don Monserrato d’Agrò
fornisce il suo benestare nella cennata veste di cappellano:
Praesente ad haec omnia et singula praesbyter Monserrato de
Agrò, mihi etiam notario cognito et stipulante pro dicta ecclesia uti eius
cappellano et se contentante de praesente attu et omnibus in eo contractis et
declaratis et non aliter.
Ma negli ultimi giorni di agosto dell’anno
successivo è già infermo e si accinge a fare testamento. Il suo attaccamento
alla chiesa di S. Maria di Gesù è tale da presceglierla quale luogo della sua
tumulazione. A tal fine assegna una rendita annua di un’onza e 3 tarì.
In un
atto della chiesa del 12 settembre 1596 viene formalizzato il contratto di concessione
in termini che sono uno spaccato del vivere civile e religioso dei racalmutesi
dell’epoca.
Sappiamo dal rivelo del
1593 che a quel tempo il sacerdote aveva 45 anni. Era nato dunque attorno al
1548. Muore giovane, all’età di 48 anni. Abitava, apparentemente da solo, nel
quartiere della Fontana come da questa nota del rivelo del 1593:
3 149 AGRO' (DI) PRESTI MONSERRATO [Sac:] CAPO DI
CASA DI ANNI 45
La cappella desiderata da
don Monserrato sorse nella chiesa di S. Maria vicino a quella di S. Maria dell’Itria
e di fronte all’altra ove era raffigurata l’immagine di S. Francesco di Paola (intus dictam ecclesiam Sanctae Mariae
Majoris prope Cappellam Sanctae Mariae
Itriae in frontispicio cappellae Imaginis Sancti Francisci de Paula...).
Risulta che questa fu dedicata a S. Michele Arcangelo ( nell’atto del 1604 si
parla, infatti della dote Cappellae
Sancti Michaelis Arcangeli condam presbiteri Monserrati de Agrò).
Per
quel che ci dice il Rollo della confraternita di S. Maria di Gesù, don
Monserrato aveva almeno quattro nipoti di cui si ricorda nel testamento:
Est sciendum quod inter alia capitula
donationis causa mortis facta per condam don Monserrato de Agrò Paulino,
Natali, Joseph et Joannelle de Agrò eius nepotibus est infrascriptum capitulum
tenoris ....
Il nipote Paolino d’Agrò
risulta figlio di quel Simone d’Agrò che approvò la transazione feudale con il
conte Girolamo del Carretto nel 1581 (è il 229° dei presenti nella chiesa
maggiore di Racalmuto che diedero l’assenso il giorno 15 gennaio 1581). Don
Monserrato si limiterà ad apporre la sua firma come teste.
I primi cappellani:
don Vincenzo Colichia;
don Antonino La Matina;
don Dionisi Lombardo;
don Antonio Castagna.
Il più antico quinterno
di atti battesimali della Matrice è composto di n.° 26 colonne. In alcune parti
è indicata la data del 1554 (ad esempio 24 di augusto 1554 o die Xbris 1554) in
altre 1563 (adi 9 januarii 1563) ed in
altre ancora 1564 (junii VII ind. 1564). Non è facile districarvisi. A noi
comunque sembra che le date sia apocrife, aggiunte successivamente. In effetti
il fascicolo dovrebbe essere datato 1563-64, settima indizione anticipata.
Vi vengono segnati i
sacerdoti che celebrano il battesimo. Sono costoro i cappellani della Matrice
(operante nella chiesa di S. Antonio). Non riscontriamo mai la presenza
dell’arciprete (né don Gerlando d’Averna, né quello che si considera il suo
predecessore, don Tommaso Sciarrabba
(“Arciprete e canonico della cattedrale di Girgenti anno 1553”, annota il Liber
citato, c. 1 n.° 2).
I cappellani officianti
risultano:
don Vincenzo Colichia;
don Antonino La Matina;
don Dionisi Lombardo;
don Antonio Castagna.
Il primo atto di battesimo della Matrice di Racalmuto
Anno 1554 Viene Battezzato il figlio di Gilormo La Licata
Inferno
Il sacerdote celebrante è il rev. Presti Vincenzo
Colicchia
La maggior frequenza si
registra per don Vincenzo Colichia e per don Dionisi Lombardo. Entrambi vengono
segnati con il titolo di “presti” (prete).
Di nessuno di loro si fa il più vago cenno nel “Liber”. Nella successiva
documentazione del 1570/71, riappare soltanto il cappellano don Antonino La
Matina.
I cappellani del periodo successivo
(1570/1571):
Don Vincenzo d’Averna;
Don Jo Cacciatore;
Don Antonino D’Auria;
Don Giuseppe Garambula;
Don Antonino La Matina;
Don Filippo Macina.
E’ il periodo centrale
dell’arcipretura di don Gerlando D’Averna che spesso presiede alla funzione
battesimale. Su don Vincenzo d’Averna ci siamo già abbondantemente soffermati.
Abbiamo pure accennato a don Antonino La Matina, presente negli atti del
periodo precedente del 1564 (o giù di lì). Sul D’Auria, Cacciatore e Garambula
non disponiamo di altri dati. Fra tutti questi cappellani, il solo ricordato
dal Liber è don Filippo Macina (c. 1 n.° 8).
Stando ai cognomi, il D’Auria, il La Matina e Jo Cacciatore possono
essere stati benissimo indigeni. Il Macina ed il Garambula appaiono oriundi.
I
cappellani del periodo 1575/76
Don Vincenzo d’Averna;
don Lisi Provenzano.
I salti della
documentazione disponibile ci portano a questa quarta indizione anticipata
(1575/76). I battesimi vengono ora suddivisi solo tra il d’Averna ed il
Provenzano. Su entrambi ci siamo dilungati in precedenza. Arciprete di
Racalmuto è ancora don Gerlando d’Averna
I cappellani del
periodo 1579/1582:
Don Michele Abate;
Don Monserrato d’Agrò;
Don Lisi Provenzano;
Don Giuseppe d’Averna.
Nei fascicoli dei
battesimi del 1579 appare segnato come arciprete Don Michele Romano, dottore in
sacra teologia (S.T.D.). Nel Liber vengono citati Abbate (n.° 24), Monserrato
d’Agrò (n.° 7) , Giuseppe d’Averna (n.° 13) e naturalmente l’arc. Romano ( n.°
4). Il Provenzano è segnato come diacono (n.° 18) non si sa se per errore o
perché c’era veramente un diacono Luigi Provenzano morto il 20 luglio 1600.
I
cappellani del periodo 1583/84:
Don Monserrato d’Agrò;
Don Francesco Nicastro;
Don Paolino Paladino;
Don Lisi Provenzano.
Arciprete del tempo è don
Michele Romano che appare in qualche battesimo. Rispetto al precedente periodo
appaiono per la prima volta don Francesco Nicastro e don Paolino Paladino:
entrambi sono annotati nel Liber, ma senza alcun altro dato all’infuori del
nome e cognome.
Don Giuseppe
Romano
Annotato nel Liber (c. 1
n.° 17) si riscontra solamente in questa nota a margine del libro parrocchiale
delle trascrizioni dei matrimoni 1582-1600:
Die 24 ottobris Xa ind.s 1597, mi detti lu cunto
don Leonardo Spalletta delli sponczalicii a mia don Joseppi Romano come
procuraturi di mons.r ill.mo.
L’arc. don
Michele Romano era morto solo da poco tempo (28 luglio 1597). Che vi sia un
qualche vincolo di parentela, è congetturabile.
Arciprete
Michele Romano
Ha tutta l’aria di essere
il primo arciprete d’origine racalmutese. Insediatosi attorno al 1579, succede
a don Gerlando d’Averna. Muore il 28
luglio 1597, prossimo al suo ventennio di arcipretura. Ebbe forse ad acquisire
un discreto patrimonio, fatto sta che il vescovo Horozco intenta una lite al
conte del Carretto per rivendicare i beni successori del defunto arciprete
Romano. Il Vescovo ne fa cenno in una sua difesa inviata al Vaticano, ove fra
l’altro si legge:
« [.....]Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s’ha voluto occupare la
spoglia[1] del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et
atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante à detta
Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam
Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per
occuparseli esso conte, come se l’have occupato, et per non pagare ne lassar quello
che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte
di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue
confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta
spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in
condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno. »
A
distanza di secoli non è facile sapere chi avesse ragione. Di certo, il Romano
durante la sua vita non si mostra contrario ai Del Carretto. Sul punto di morte
è persino propenso a favorire il conte facendogli - a dire del vescovo - «certi testamenti et atti fittizij,
falsi e litigiosi».
L’arciprete
Romano deve vedersela con il primo conte di Racalmuto, Girolamo del Carretto -
divenuto tale nel 1576 - e, dopo il 9 agosto 1583, con il successore,
l’avventuroso Giovanni del Carretto, che finirà trucidato a Palermo il 5 maggio
1608. Entrambi furono però signori di Racalmuto che amarono starsene a Palermo.
L’arciprete Romano ebbe a che fare più con gli amministratori comitali, quali
Cesare del Carretto e Girolamo Russo, che non con gli altezzosi titolari. E
l’intesa sembra essere stata buona, anche quando si trattò di stabilire, nel
1581, oneri e tributi di vassallaggio.
Quando
scende a Racalmuto un parente dei del Carretto per battezzare il figlio di un
personaggio eccellente, in quel tempo operante nella contea, l’arc. Romano è
ovviamente presente:
“Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 Diego
figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano
archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Conbare
l'Ill'S.ora Donna Maria del Carretto''
In
ogni caso, nei raduni del popolo, chiamato ad avallare gravami tributari,
l’arciprete si mantiene, almeno formalmente, al di sopra delle parti e non
appare neppure come teste.
Arciprete
Alessandro Capoccio
Il
Vescovo Horozco lo nominò arciprete di Racalmuto nell’estate del 1598. Il
Capoccio aveva vari incarichi presso la Curia Vescovile di Agrigento e non aveva
tempo di raggiungere la sede dell’arcipretura: mandò due suoi rappresentanti,
muniti di formalissimi atti notarili.
Presso la Matrice può leggersi questa nota apposta al margine di un atto
matrimoniale:
«DIE 16 Julii XIe Indi.nis
1598: ''Pigliao la possessioni don Vito BELLISGUARDI et don Antonino d'AMATO
(?) procuratori di don Lexandro Capozza p. l'arcipretato di Racalmuto come
appare per atto plubico''.» (cfr. Atti della Matrice: STATO DI
FAMIGLIA - M A T R I M O N I - 1582-1600
)
Tre
anni prima, don Alexandro Capocho era stato inviato a Roma, al posto del
Covarruvias, per presentare la prima relazione 'ad limina' dei Vescovi di
Agrigento al Papa[2]. Nell'atto di delega del
12 settembre 1595 "Don Alexandro Cappocio' viene indicato come "Sacrae theologie professor eiusque [del
vescovo] Secretarius”.
In
Vaticano si conserva il processo concistoriale di quel vescovo (Archivio
Vaticano Segreto - Processus Concistorialis - anno 1594 - vol. I - (Agrigento)
- ff. 30-62.). La testimonianza del Capoccio è, a dire il vero, schietta e per
niente compiacente (f. 36v e 37).
Sintetizzando
e traducendo dallo spagnolo ricaviamo questi dati:
«Depone
il dottor Don Alexandro Capocho, suddiacono naturale del Regno di Napoli e
residente per il momento in questa
corte. Egli testimonia che conosce il detto signor Don Juan de Horoczo y
Covarruvias di vista e solo da due mesi, poco più poco meno, e di
non essere né familiare né parente dell’ Horozco».
Salta quindi ben dodici domande che attenevano
alle origini ed alla vita del futuro vescovo. La sua testimonianza è quindi
molto minuziosa sulla Cattedrale di Agrigento (circostanza che non ci pare qui
conferente). ‘Conosceva piuttosto bene Agrigento per esservi stato due anni,
poco più poco meno’.
Per quanto tempo il
Capoccio sia stato arciprete di Racalmuto, s’ignora. Sappiamo che subentrò
l'Argumento, nominato nel marzo del 1600.[3] Quel che appare sicuro è che
l’arciprete Capoccio non fu presente in alcun atto di battesimo o nella
celebrazione di un qualsiasi matrimonio nella parrocchia racalmutese di cui per
un biennio fu titolare. A sostituirlo nelle incombenze pastorali fu di certo
don Leonardo Spalletta, il cappellano di cui gli atti parrocchiali testimoniano
zelo ed assidua presenza.
I CONVENTI DI
RACALMUTO NEL ‘500
CENNI INTRODUTTIVI
Non crediamo che vi
siano stati conventi a Racalmuto nei
primi quarant’anni del ‘500: solo attorno al 1545 è di sicuro operante il
convento di S. Francesco, ove erano insediati i padri francescani dell’Ordine
dei Minori Conventuali. In certi documenti vescovili che riguardano il sac. don
Lisi Provenzano abbiamo rinvenuto elementi tali da suffragare questa antica
datazione del convento. L’altro cenobio che appare alla fine del secolo, quello
dei carmelitani, sorge all’incirca verso il 1575 se diamo credito alla lapide
dell’avello del primo priore padre Paolo Fanara, quale ancora si legge nella
chiesa del Carmelo (la chiesa sembra invece essere esistita già dal tempo della
visita del Tagliavia nel 1540 ed è citata nel testamento del barone Giovanni
del Carretto).
Giovan Luca Barberi parla
di un convento benedettino presso Racalmuto, ma gli ereduti locali negli ultimi
tempi sono propensi a ritenere che il chiostro fosse quello di S. Benedetto, in
territorio di Favara.
Quanto all’altro convento
francescano, quello dei Minori di Regolare Osservanza, esso, seppure se ne
parla già nel 1598, inizia la sua attività nei primi anni del ‘600.
Per tutto il Cinquecento
non vi sono conventi femminili a Racalmuto. Il primo - quello di S. Chiara -
comincerà ad operare verso il 1645.
Convento di S. Francesco.
Sappiamo con certezza che
il 21 novembre 1545 il convento di S. Francesco era operante. Noi pensiamo che
sin dagli esordi furono i padri minori conventuali ad occupare il convento,
sotto l’egida di Giovanni del Carretto. Pietro Rodolfo Tossiniano, vescovo di
Senigallia, accenna a questo convento racalmutese nel libro 2° della sua
Historia Serafica. Il maltese Filippo Cagliola nel 1644, fa un discorso un poco
più articolato e, descrivendo le “Almae sicilienses Provinciae ordinis Minorum
Conventualium S. Francisci”, prende in considerazione anche Racalmuto in questi
termini:
LOCUS RACALMUTI
[custodia agrigentina]. suae fondationis certam non habet notam, cum scripturas
omnes grassantis pestis insumpserit
lues. Quam ob rem annus 1576 a THOSSINIANO inscriptus, ad reparationem
Ecclesiae, post eliminatum languorem, non ad fundationem referendus; pugnaret
siquidem secum Auctor, qui a Comite Ioanne, certam pecuniam pro Ecclesia
reparatione, legatam asserit, anno 1560. Ecclesia denuo excitata, imperfecta
iacet, locus iuxta arcem a Friderico Claramontano constructa, situs amoenus,
qui fabricis non spernendis incrementa suscepit. Ecclesia Divo Francisco
dicata.[4]
Dunque non era nota la
data di fondazione, per la distruzione dell’archivio nel tempo della grande
peste del 1576. Questo stesso anno viene indicato dal Tossiniano come data di
fondazione, subito dopo la cessazione del flagello. Ma questi cade in
contraddizione con se stesso, dato che afferma che il conte Giovanni [invero
era barone] ebbe a lasciare una certa somma nel 1560 per riparare la chiesa. La
chiesa, invero, di nuovo eretta, giace ora incompleta vicino al castello
edificato da Federico Chiaramonte, in un luogo ameno e con un notevole
chiostro. Essa è dedicata a S. Francesco.
Il barone Giovanni del
Carretto, a dire il vero non aveva tanto pensato alla chiesa ma alla sua tomba.
Egli lasciò cento onze per la sua cappella tombale. Ed altri mezzi per la
celebrazione di messe in Conventu Sancti
Francisci dictae Terrae, che dunque nel 1560 era attivo.
Francescani conventuali nel
1593
Da una ricerca del prof.
Giuseppe Nalbone risulta che nel 1593 stanziassero a S. Francesco i seguenti
religiosi:
1
|
1593
|
COLA ANDREA
|
GAITANO
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
GIOVANNIANTONIO
|
TODISCO
|
FRA
|
3
|
1593
|
SEBASTIANO
|
D ' ALAIMO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
BARBERIO
|
FRA
|
5
|
1593
|
GIO
|
BARBA
|
FRA
|
6
|
1593
|
LODOVICO
|
DI SALVO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPE
|
LA MATINA
|
FRA
|
Francamente non
conosciamo granché di tutti questi francescani: abbiamo, ad esempio, alcuni
accenni nell’atto di donazione di quel singolare personaggio che fu Antonella
Morreale, rimasta vedova piuttosto giovane di Leonardo La Licata. Il rogito è
datato 9 gennaio 1596 e ad un certo punto stabilisce:
Et voluit et mandavit ditta donatrix
quod dittus Jacobus donatarius ...debeat ac teneatur supra dicto ut supra
donato solvere uncias decem po: ge: in pecunia fratri Lodovico de Salvo ordinis
Sancti Francisci, filio magistri Rogerij consanguineo dittae donatricis infra
annos duos cursuros et numerandos a die mortis dittae donatricis in antea hoc
est anno quolibet in fine unc. unam in
pacem pro vestito ispius Lodovici pro Deo et eius anima ipsius donatricis et
solutis dictis unc. 10 ut supra dictus Jacobus de Poma donatarius per se et
successores teneatur et debat pro dittis unc. decem anno quolibet in perpetuum
solvere unciam unam redditus supra dicto
loco de supra donato dicto ven.li conventui Sancti Francisci dictae Terrae
Racalmuti eiusque guardiano mentionato pro eo et successoribus in ipso conventu
in perpetuum legitime stipulante in quolibet ultimo die mensis augusti
cuiuslibet anni incipiendo solvere anno quolibet in perpetuum pro Deo et eius
anima ipsius donatricis pro celebratione tot missarum celebrandarum per fratres
dicti ven. conventus
Fra Ludovico de Salvo era
dunque un consanguineo della Morreale. Nella donazione si parla di sussidi per
il suo vestiario. Per le messe v’è un altro legato di un’oncia annua in favore
del padre guardiano.
Il guardiano padre Cola
Andrea Gaitano
La Morreale si ricorda di
questo priore anche a proposito della sistemazione della non chiara vicenda del lascito da parte del
marito di un vestito appartenente a don
Cesare del Carretto. In dialetto, ella dispone piuttosto prolissamente che:
Item ipsa
donatrix pro Deo et eius anima ac pro anima ditti condam Leonardi olim eius
viri titulo donationis preditte post mortem ipsius donatricis ... donavit et
donat ditto ven. conventui Sancti Francisci
ditte terre uti dicitur: una robba
di donna di villuto russo chiaro con li soi passamanu di oro, quali robba ditta
donatrichi teni in potiri suo in pegno del sig. don Cesaro il Carretto, la
somma dello quali pignorationi ipsa donatrici non si recorda, per tanto essa
donatrici voli chè si il detto del Carretto paghira ditto conventu seu suo
guardiano la reali summa per la quali robba fui inpignorata, chè in tali casu
lu guardiano di detto convento chè tunc forte serra sia tenuto restituiri ditta
robba a ditto del Carretto et casu chè il detto del Carretto non si recapitassi
detta robba oyvero non declarira la summa per la quali detta robba sta
pignorata voli la detta donatrichi chè lu guardiano di detto convento habbia di
obtenere lettere di executione et per quella somma chè serra revelato il detto
guardiano debbea detta robba per detta somma ad altri personi inpignorarla et
quelli denari convertirli et expenderli in
subsidio et bisogno di detto conventi et fari diri tanti missi per
l’anima di detta donatrici et il ditto condam Leonardo per li frati di detto convento
et quoniam sic voluit ditta donatrix et non aliter nec alio modo.
Il
nome del padre guardiano doveva essere padre Cola Andrea Gaitano: non è
certamente racalmutese, mentre originari del paese appaiono tutti gli altri sei
fraticelli.
Fra Ludovico de Salvo
La famiglia cui apparteneva fra Ludovico Salvo
è così censita nel rivelo del 1593:
36
|
360
|
Salvo (de) Mg. Ruggero,
soldato anni 45
|
Nora de Salvo moglie;
Santo anni 14; Ludovico 11; Francesco 7; Ivella; Caterina; Vincenza
|
confina con La Lattuca Paulino
|
abita al Monte
|
Nel
1602 consegue i quattro ordini minori e pare che non sia andato oltre.
Un’annotazione del vescovo Bonincontro del 1608 farebbe pensare che fra
Ludovico abbia lasciato il convento e si sia secolarizzato. Lo troviamo infatti
fra i chierici sottoposti alla giurisdizione dell’ordinario diocesano:
Ludovico
di Salvo an 26 cons. ad 4 m. ord. die 23 martii 1602 ... S. Francisci
Fra
Ludovico era nato a Racalmuto nel 1581 come da questo atto di battesimo:
19
|
7
|
1581
|
Lodovico
|
Rogieri m.o
|
Salvo
|
Nora
|
Fra Sebastiano d’Alaimo
Semplice
frate nel 1593 ricevette sicuramente gli ordini sacerdotali. Nella visita del
1608 viene autorizzato alle confessioni per sei mesi:
Frater
Sebastianus de Alaimo ordinis S.ti Francisci Convent. ad sex menses
Risulta
dai Rolli di S. Maria quale teste in un atto del 28 ottobre 1597. Null’altro ci
è dato di sapere su questo francescano, sicuramente racalmutese.
Il Convento del Carmine.
Per
il Pirro questo convento è nobile ed antico ed ai suoi tempi (1540) contava 10
religiosi con 108 onze di reddito. Ne era stato solerte priore per 46 anni il
racalmutese fra Paolo Fanara. La lapide del suo sepolcro fornisce questi dati
biografici:
Paolo
Fanara innalzò, accrebbe e decorò, dotandolo d’immagini, questo tempio; curò
l’edificazione del convento con somma operosità. Visse 71 anni e nell’anno
della salvezza 1621, dopo 41 anni di priorato, morì nella pace sel Signore.
Fra
Paolo Fanara nacque dunque nel 1550; nel 1575 diviene priore del cenobio
carmelitano di cui è fondatore a Racalmuto. Il convento viene edificato accanto
alla chiesa periferica del Carmelo, che stando ai documenti disponibili sorgeva
invero da tempo, a dir poco dal 1540.
La
chiesa, invero, sembra in costruzione al tempo della morte del barone Giovanni
del Carretto che così ne accenna nel suo testamento:
Item praefatus Dominus Testator dixit
expendisse unceas centum triginta in emptione lignaminum et tabularum facta per Magistrum Paulum Monreale, et per
Magistrum Jacobum de Valenti, de quibus dominus Testator consequutus fuit
nonnullas tabulas, et lignamina; voluit propterea, et mandavit quod debeat
fieri computum per dictum spectabilem D. Hieronymum heredem particularem, et
faciendo bonas uncias viginti septem solutas Ecclesiae Sanctae Mariae de Jesu, et uncias undecim solutas pro
raubis; de residuo tabularum et lignaminum compleri
debeat tectum Ecclesiae Sanctae Mariae di lu Carminu dictae Terrae Racalmuti,
et voluit quod debeat expendere unceas
quindecim in pecunia in dicto tecto, et ita voluit, et mandavit, et hoc infra
terminum annorum trium.
Nel
1560, dunque, la chiesa di Santa Maria del Carmelo era a buon punto e doveva
soltanto completarsi il tetto, cosa che andava fatta entro tre anni. Non è
attendibile quindi quel che dice l’avello del p. Fanara, quanto alla chiesa.
Certo dopo il 1575 fra Paolo non mancò di farvi fare opere murarie e migliorie
ed a ciò è da pensare che si riferisca l’iscrizione della lapide.
I carmelitani racalmutesi del secolo XVI
Nel
rivelo del 1593, questo era l’orrganico del cenobio carmelitano racalmutese:
1
|
1593
|
PAULO
|
FANARA
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
RUBERTO
|
COSTA
|
PADRE
|
3
|
1593
|
SALVATORE
|
RICCIO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
FRA
|
5
|
1593
|
ANGELO
|
CASUCHIO
|
FRA
|
6
|
1593
|
GEREMIA
|
RUSSO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPI
|
RAGUSA
|
FRA
|
8
|
1593
|
ZACCARIA
|
RICCIO
|
FRA
|
Fra Paolo Fanara
Nella
visita del Bonincontro del 1608 il priore del carmelo è ricardato fugacemente
come confessore approvatoed indicato semplicemente come “fra Paulo di Racalmuto padre giardiano del
Carmine”.
Fra
Paolo fu molto attivo anche nelle faccende sociali. Lo incontriamo in un
documento del 1614[5]
in cui si briga per consentire una “fera franca” in occasione della
festività della Madonna del Carmine.
«Ill.mo Signor Conte di questa terra. Fra Paulo
Fanara priore del Convento del Carmine di questa terra, dice a V.S. Ill.ma che
per devotione et decoro della festività della Madonna del Carmine quali viene
alla terza domenica di giugnetto [luglio] resti servita V.S. Ill.ma concedere
ché ogn’anno per otto giorni cioe quattro inanti detta festa et quattro poi, si
possa inanti detto convento farci la fera franca di quella di Santa Margarita
la quale si transportao in lo conventu di Santa Maria di Giesu per lo decoro
della detta festa et della terra di V.S. Ill.ma ché li sarà gratia particolare
ultra il merito che per tal causa haverà ut altissimus etc. - Racalmuti Die XX°
octobris XIII^ ind. 1614.»[6]
Nel
1596 lo incontriamo come teste in un paio di atti della confraternita di S.
Maria di Gesù. Non spesso, ma qualche volta assiste pure alla celebrazione del
matrimonio di qualche racalmutese in vista.
Fra Salvatore Riccio di
Racalmuto
Dalla
solita visita del 1608 sappiamo che èsacerdote ed è autorizzato alle
confessioni per sei mesi:
Frater
Salvator Riccius Carmelitanus ad sex menses.
A
dire la verità abbiamo dubbi sulla correttezza della grafia del cognome. Se
Racalmutese, ebbe forse a chiamarsi fra Salvatore Rizzo.
Fra Zaccaria Riccio
Anche
in questo caso, il cognome è forse da correggere in Rizzo. Un chierico a nome
Zaccaria Rizzo è presente in vari atti di battesimo ed in atti di trascrizione
matrimoniali della Matrice dal 1598 in
poi. Costui è anche citato nella nota visita del 1608:
cl:
Zaccaria Rizzo an. 25 cons. ad p. t. die 19 decembris 1597 alias vocatus
Leonardus
Tratterebbesi
di un racalmutese nato nel 1581 come da seguente atto di battesimo:
5
|
9
|
1581
|
Rizzo
|
Leonardo
|
Martino
|
Norella
|
Ma
resta pur sempre da appurare se v’è identità fra il fraticello carmelitano ed
il chierico che s’incontra negli atti della matrice e della curia vescovile di
Agrigento.
Fra Angelo Casuccio
Nel
1608 lo ritroviamo fra i confessori:
P.
Angelo Casuchia
Stando
al Liber in quo .. sarebbe morto il 4
febbraio 1636 (c. 2 n.° 45). Certo sorge il dubbio che tra il frate carmelitano
del 1593 ed il sacerdote che del 1608 vi
sia identità di persona. Noi siamo per la tesi affermativa e pensiamo ad una
secolarizzazione del giovane fraticello del Carmine. Il Casuccio che s’incontra
in Matrice è chierico tra il 1598 ed il 1600 e figura come diacono in un atto
di battesimo del 30 agosto 1600. Il 12 gennaio 1601 è già stato, comunque,
ordinato sacerdote.
Fra Francesco Sferrazza
Analogo
dubbio sorge per questo fraticello, visto che negli atti della Matrice figura
un omonimo che però viene indicato nel Liber (c. 2 n.° 38) come don Francesco
Sferrazza Fasciotta (ma rectius Falciotta).
A
quest’ultimo di certo si riferiscono gli atti della visita del 1608, ove è
reiteramente citato. Vengono forniti alcuni dati anagrafici:
D.
Franciscus Sferrazza an. 27 cons. ad sacerd. die 17 decembris 1605 Panorm ...
quas dixit amisisse
Costui
era già protagonista a quell’epoca, come emerge dai seguenti passi di quella
relazione episcopale a proposito di S. Giuliano:
Sequitur
Cappella transfigurationis S.mi Dni Nostri Iesu Xristi, quae fuit constructa a
Don Francisco Sferrazza propriis expensis. et adhuc non est completa. Altare
d.e Cappellae est decenter ornatum super quo est Scena trasfigurationis
praedictae cum multis imaginibus aliorum sanctorum, est bene depicta et
pulchra, est dotata uncias duas redditus relictus a q. Antonino praedicti de
Sferrazza pro celebratione unius missae qualibet hebdomada quae celebratur a
Cappellano Ecclesiae
Habet
etiam dicta Cappella incias X pro maritaggio inius orfanae consanguineae,
pariter relictus iure legati a d.o Antonino Sferrazza.
Da
altri elementi risulta che trattasi di un membro dell’importante famiglia degli
Sferrazza Falciotta. Sembrerebbe quindi che si debba escludere l’identità con
l’umile fraticello del Carmelo. D. Francesco Sferrazza Falciotta fu peraltro
anche Commissario del Tribunale del S. Officio e morì il 7 maggio 1630.
Se
fra Francesco Sferrazza, carmelitano nel 1593, fu persona diversa, come sembra,
nulla sappiamo all’infuori di quella citazione del rivelo.
Fra Giuseppe d’Antinoro
Dalle
brume documentali dell’archivio parrocchiale dell’ultimo scorcio del ‘500
affiorano alcune figure di religiosi racalmutesi o, comunque, operanti a
Racalmuto: uno di questi è fra Giuseppe d’Antinoro, sicuramente un carmelitano,
che l’11 settembre 1584 è presente nel matrimonio insolitamente celebrato nella
chiesa del Carmine. Per questa inusuale celebrazione era occorso il benestare
del vescovo agrigentino. Il matrimonio era avvenuto tra certo La Licata Paolo
di Paolo e La Matina Antonella di Pietro e di Vincenza. Benedisse le nozze
l’arc. Romano. Ne furono testimoni il noto fra Paolo Fanara ed il citato fra
Giuseppe d’Antinoro. Ne trascriviamo qui l’atto che si conserva nella matrice.
11 9 1584 La Licata Paolo di Paolo e di Angela con La Matina Antonella
di Petro e di Vincenza.= Sacerdote benedicente:Romano Michele arciprete. Testi:
Fanara r. fra Paolo ed D'Antinoro frate Gioseppe. Nota: foro benedetti nella
chiesa del Carmine ex concessione Ill.mi et rev.mi n. Epi. Agrigentini
Due religiosi di fine secolo:
fra Antonino Amato;
fra Pasquale Di Liberto
gli
atti di matrimonio di fine secolo restituiscono alla memoria questi due monaci,
di cui però s’ignora tutto: dall’ordine d’appartenenza ad un qualsiasi altro
dato biografico. Quel che conosciamo è tutto contenuto in queste annotazioni
d’archivio:
1 9 1588 Gibbardo Berto
Vincenzo con Savarino Francesca di Joanne Benedice le nozze: Amato frati Antonino. Testi: Todisco
Pietro e Rotulo Pietro
30 9 1596 Mendola (la)
Leonardo di Angilo e Paolina con Aucello Antonella di Paolo e Minichella.
Benedice le nozze: Spalletta don Nardo. Testi: Mulioto Giuseppe e Di Liberto frati Pasquali.
Nella
visita del 1608 è invero ricordato un francescano a none fra Antonino Amato:
che si tratti dello stesso monaco del 1588, non abbiamo elementi per
affermarlo. Questi comunque non figura nel rivelo del 1593. Nella relazione
episcopale del 1608 è indicato in questo stringato modo:
Notamento
di confessori di S.to Francisci: il p.re
guardiano - fra. Antonio di Amato.
Chiese, quartieri e facoltà nel
rivelo del 1593
I
ponderosi volumi del rivelo del 1593 non possono essere tutti minuziosamente
setacciati, se non da una squadra di studiosi e con rilevanti mezzi economici.
Dobbiamo quindi accontentarci di alcuni sommari cenni.
A
quell’epoca la terra di Racalmuto era idealmente segnata da un sistema di assi
cartesiani in cui l’ascissa era una linea ideale che dalla Guardia andava al
Padre Eterno e l’ordinata (che all’atto pratico era una sequela di strade
tortuose) partiva dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel mezzo vi era di
sicuro la chiesa di Santa Rosalia (sicuramente in prossimità dell’attuale
Collegio, ma a quale punto non sembra che si possa individuare con certezza).
In tale sistema la parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere di S.
Margaritella; quella di sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di
nord-est era la Fontana ed infine il quartiere del Monte occupava la sezione di
nord-ovest.
All’interno
vi erano località di spicco che negli atti ufficiali servivano per
l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione di Santa Rosalia che in
effetti risultava inglobato prevalentemente nel quartiere di San Giuliano ma
una minima parte debordava in quello di S. Margaritella. Santa Rosalia - che talora
veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna o S. Rosaria, non si capisce bene se per
errata trascrizione o per omonimia popolare o per la presenza nella chiesa di
qualche altra immagine della celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava tanti
personaggi cospicui. Esclusivo appare anche il rione di S. Agata.
La comunità ecclesiale di Racalmuto nei primi anni del
Seicento.
Il nuovo secolo, il XVII,
si apre a Racalmuto con un vuoto: non c’è ancora il nuovo arciprete. Questi
viene solo dopo alcuni mesi e si tratta di
Andrea d’Argomento.
Questo nuovo arciprete di
Racalmuto è comunque esaminatore sinodale ad Agrigento, ed è dottore in utroque iure; giunge nel marzo del 1600,
il giorno della festività di San Tommaso dottore della chiesa, prende possesso
della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se forse anche lui preferisce la
più centrale chiesa suffraganea della Nunziata. Questo pozzo di scienza immigra
a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte della Sicilia. Forestiero, di
sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le novelle costituzioni
tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si trasferisce o viene
mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo ritroviamo annotato qua e
là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del 1601 rimangono
rivelatrici annotazioni come “detti fra
Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete; all’arciprete;
palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che trattarsi del
regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri termini la
quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di chiesa, 5 tarì
e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le “glorie”, i bambini).
Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture avvengono “a lo Carmino” (ed
ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo Fanara, di cui abbiamo fornito
cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu)
- e vi viene tumulato un pargoletto della racalmutesissima famiglia Mulé, ed a
S. Giuliano (accompagnata da tutto il clero vi è sepolta una tale Angela
Turano, ceppo poi emigrato da Racalmuto). Sia però chiaro che non abbiamo
elementi di sorta per sospettare di questo arciprete dottore in utroque. Crediamo, anzi, che sia
stato bene accetto e rispettato: un “signore arciprete”, dice il chiosatore
dell’archivio parrocchiale.
Dopo il 1602 sino al 10
gennaio 1606, l’Horozco ha traversie giudiziarie, contese con Roma, deve
vedersela con il conterraneo - ma non per questo meno ostile - vescovo di
Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato dai nobili, è costretto a
fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di obbrobri giudiziari per il
tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi, canonico percettore della
prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la Sacra Congregazione dei
Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i canonici cammaratesi don
Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera, e don Raimondo Vitali: il
primo era accusato di pederastia; il secondo di relazione peccaminosa con la
vecchia madre del primo.
La diocesi sbanda e così
Racalmuto. Certe carenze d’archivio parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo
vescovo Vincenzo Bonincontro, che si insedia il 25 giugno 1607 e durerà a lungo
sino al 27 maggio 1622, dovette mettersi di buzzo buono per riordinare la sua
turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18
giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si porta a Racalmuto per la
sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione minuziosa, ricca di
riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e misfatti, tale da
rappresentare una preziosissima fonte per la storia di Racalmuto, e non solo
quella religiosa.
L’anno
successivo, il Bonincontro ritorna a Racalmuto e completa la vista..
Il
Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva essere anomala sotto il
profilo del codice canonico del tempo. Il figlio legittimato - era stato
concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto Giovanni IV del Carretto -
don Vincenzo del Carretto si era insediato nella chiesa di S. Giuliano,
elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse stato consacrato
sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene dall’indagare. Il
potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non consente insolenze
del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione di San Giuliano
hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola: ratifica il
fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti approssimativamente uguali:
la bisettrice parte dal Carmino ed
arriva a la Funtana lungo un percosso
che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo riusciti a tratteggiare con
sicurezza. Non passava di certo per la discesa Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni pressoché impraticabile, ma
lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la chiesa di Santa Rosalia,
posta al centro del paese, ma dalla parte di S. Giuliano, per irrompere nella
parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte
a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete; quella a nord-ovest, in
mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene assegnata al giovane - è
appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro d’Asaro, don Paolino
d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è già affermato ed una
sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta - viene apprezzata, come
abbiamo visto, in occasione della visita a Santa Margherita, la chiesa
congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S.
Margaritae depictum in tila manu
pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del vescovo).
Giovanni
IV del Carretto, familiare del Santo Ufficio, ma per interessi e per sottrarsi
a tribunali laici molto meno accomodanti, non dovette essere molto religioso.
Quel figlio legittimato che faceva il prete nel suo lontano feudo di Racalmuto
doveva apparirgli come un povero diavolo che si arrabattava per superare le
umiliazioni del suo essere stato concepito in toro non benedetto. Gli echi
della vita religiosa della sede della sua contea gli saranno pervenuti, ma
molto affievoliti, lasciandolo nella totale indifferenza. Non vi è documento
che comprovi la sua presenza, anche saltuaria, a Racalmuto. Ma appena
seppellito quel truculento conte, il figlioletto deve raggiungere la lontana
dimora di Racalmuto, così diversa dai fasti di Palermo.
GLI ARCIPRETI DI
RACALMUTO SOTTO GIROLAMO II DEL CARRETTO
Don
Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o volle essere) per poco
tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale Pietro Cinquemani ,
originario, forse, di Mussomeli. ([7]) Secondo il prof. Giuseppe Nalbone,
costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro paese:
1613 PIETRO
CINQUEMANI RETTORE e poi
nel 1614 ARCIPRETE
Viene
annotato, nel Liber in quo a f. 1,
n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce
lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don
Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna
Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don
Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta
il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo
adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti
memorabili a Racalmuto, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto
del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80
cavalieri a Palermo a prenderle, in una con
una bolla che si conserva in Matrice; torna a nuovo splendore la
chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese.
* * *
Ma
ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice Girolamo II del
Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte
violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce sotto le grinfie
del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva benevolenza del
vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale di Racalmuto.
Non ci sembra un prete molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma
come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo
II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice
del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà.
Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della
minuscola chiesa dell’Itria, può far sospettare ancor di più, ma può farlo
assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo
del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte,
deve vedersela con le procedure della successione comitale, e non è agevole.
Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne
ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una
sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è
del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del
28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e
potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono.
Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile
sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del
suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di
Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto
battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo
figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona
conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et
excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna
Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre:
fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno
matrimoniale è inderogabile.
Girolamo
II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque
nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto cartiglio del
sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando
il giovane conte era quasi ventenne e la
splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne
(nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena
di 4 anni - Dorothea aetatis annorum
quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del
Carretto e la questione del terraggiolo
Don
Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante
questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato sopra: vi ritorniamo
per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una
trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di
terre nello stato e fuori dello stato di Racalmuto in una rendita perpetua di
un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti,
possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad
un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7%
potevano fruttare 2.380 scudi,
sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non
sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento.
Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che
non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa)
furono ben lieti di raccogliere quei profughi
che non vollero essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero
capitale, si tentò allora di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma
annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro
suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati
nel 1580, di cui abbiamo già detto. Altro che frate Evodio o Odio che dir si
voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è
pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito
rispetto della verità, senza un anticlericale spumeggiare.
In una memoria
del 1738 [8], quando lo stato di Racalmuto era
stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e
del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora
nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere
dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella
misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di
secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione
del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che
aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento
per ogni salma di terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la
riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre
700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva
nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per
salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso
la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San
Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a
coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è
faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino
per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data
importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi
contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con
l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San
Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura
fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo
significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte,
sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso
la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti
peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto.
Le note sciasciane
stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei
documenti rende incontrovertibili.
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno
prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era
il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si
continua a scrivere).
Trattasi del povero
fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di
finire in un convento che già nel 1667 ([9]) si tentava di scardinare, almeno in
quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul
rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con
ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di
mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto,
sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si
attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della
locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo:
nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni
indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione
della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo
tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico
anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi
il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi
astrologici del Padre Matranga ([10]).
Lo si vuole ad ogni costo
di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si
trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche
del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si
dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna
gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’
attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere
all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di colpe
dello spirito (bestemmiatore ereticale,
dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego ..
eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie
svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli
ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo
‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un
individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le
campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia
ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal
Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di questi tempi
bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul
vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva, finito all’indice
nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119
al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e
prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ([11]) Da un contesto di canonici
libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico
cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia
della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della
giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa
da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla
Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono
molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro
ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più,
et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e
quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e
laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei
sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino,
e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che
sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([12]).
Alla luce di queste
considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra
doversi dare una risposta del tutto opposta a quella data dallo scrittore.
Un contemporaneo ebbe,
pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi
notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato
al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far
diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a
Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol
far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra
le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti
spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per
l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto
Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro
di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto
comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli
specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto
cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con
tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto
avere quel libro che fra Diego scrisse di
sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille
ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua
mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel
cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto
più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe
stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma
Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne -
non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il
diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era
all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma
ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di
campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal
convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo
scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco
giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado
di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene
conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a
“scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti
del processo di beatificazione del contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si
rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La
Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne
dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa
di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in
briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di
santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio
di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita.
I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di
pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e
proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza
indugio giustiziati sul posto. ([13])
Il latrocinio di passo
era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento,
sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del
Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della
Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla
macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora
grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a
Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in
medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone
sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il
“povero disgraziato, confessato e
ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal
Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla
piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento
di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.”
([14])
Il Matranga sostiene che
il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per
questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al
brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la
Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al
Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga.
Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra
Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente
i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi
sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla
‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio
aggrada, resta sempre di censura morale)
e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per
condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di
reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla
sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata,
libertina.
«Siamo convinti, - scrive
Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che
nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione
in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è
del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo
snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento
polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore,
peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non
migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si
faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si
leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel
descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per
sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece
franca da un irridente assassinio. [15]
E la misera storia di fra
Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione
era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure
quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non
ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria francescana,
intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con
esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di
ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice
peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio
della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente
consultato. Ma era lettura ostica.
Riandando indietro nel
tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato
racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata
presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del
consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo,
forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si
direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa
genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece
figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio
l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per
nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina
battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va
correttamente letto:
Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621
quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca
[Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto
[battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo
Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo]
Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni
consolidata credenza sul frate dal tenace
concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda
delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state
tramandate) - e cioè a sei anni di
distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta
l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In
definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina ci appare un fervido
parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi
alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse
palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore di libelli eretici è
ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi
risulta, invece, - come si è detto - che
un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al
precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli
Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante:
va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un
ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un
tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile
eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente
travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
Assistito
dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si
produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto
e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora
raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro
don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà
del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo?
Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato.
Forse sentiva alito di morte sulla nuca.
L’atto
viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto
provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una
schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del
cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine -
quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto
Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La
sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente
prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal
pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le
pretenziose note [16] di coloro che vi scorgono i ritratti
di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati
“promessi sposi”, sono davvero inverosimili.)
Quel
sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si
coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile
visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella
conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del
notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2
aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione
nella contea.
Nel
cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto
la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte
suona così:
[Dal
Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto
fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un
ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro
delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque
anni.
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del
Carretto
A
Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott.
Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6
novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28
febbraio 1637) dura ancor meno. Subito
dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra
Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare
il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il
Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento
della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi
manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e
risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di nome Tommaso.
Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva
di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a
Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la
pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina.
Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639 figura
come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre del
1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il
convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi
aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del
“paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II,
prima; e Giovanni V, dopo.
Don
Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e
confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso
l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue
erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo prete
venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe
la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili
dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per
l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte
ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania
nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare
l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della
Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato
rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in
favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata
dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a
destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue
ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del
testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da
rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana,
procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da
quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel
po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non
manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento
più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani
scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo
qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche
attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché
divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto
alla ricostruzione della storia dei del Carretto di Racalmuto. Non mancherà
tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere
a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di
lui profuso in superfetazioni.
Il 30
agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete,
sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore
dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso
Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35
et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta
terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le
quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella
funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio
administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento
alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da
morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal
punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia.
Religione, clero ed altri aspetti
nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al
Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un
semplice dottore in teologia.
Porta
con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il
racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un
fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia,
come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai
registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese,
ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca
chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua
arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli dell’infelice Giovanni V del Carretto.
La
contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del recupero dei beni
feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi
riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli atti di questa
avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa
essere di supporto morale.
Frattanto
giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28
novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il
latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo
si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in
Matrice: LIBRO
D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di
Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio
per la penna di don Lucio
Sferrazza. Il depositario è il dott. don
Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze,
sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate
dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le
autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo
Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per
mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo
Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene
esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel
contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma
essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo
III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5
novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa
in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava nella
transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del
1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura
potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese
del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come
Racalmuto.
Il
Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:
1664
SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie
Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva
avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli
succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco:
muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo
apostolato.
E’ ora
la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e
costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide
funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di
sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse
stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.
Il
vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno
spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26
maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus
Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664);
e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus
Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17
maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni:
Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il
secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento,
essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento
provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia
ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato
da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo
letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma
anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di
preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento della
confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto
comportamento di alcuni catapani che
avevano tentato di applicare l’imposta
di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene -
del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente
per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia
Apostolica).
Se, un moribondo - ossessionato dalla sola
paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un
confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato
alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in grado
di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri antenati
che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto
(cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava
il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il
vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò
scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del
vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro
Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar
l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da
ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre
Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove
carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e
non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il
clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il
canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio
Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto
retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non
abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e
tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un
interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed
una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli
che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari
privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti
all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i
loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d.
diritto di stola all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in
quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che
era comunque un parlare e scrivere poco ... latino
(nell’accezione sciasciana).
L’arciprete
Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese
“sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S.
Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus
Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari
fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a
Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da
parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne fa nominare i
mansionari.
Contro
la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese
della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura
capitata tra capo e collo; e fu iattura
per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano
vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti
fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso,
il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non
sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la
tassa del macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i
suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et
repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il
tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di
“paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento
degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed
in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e
delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato
convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di
Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo III del
Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli
poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il
torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto
sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli
perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò:
ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto
ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse
non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia
origine.
Girolamo III aveva
contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo
studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a
partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una
figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi
dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto fosse addolorato
l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per
il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la
prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e
BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella
guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo
difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de'
Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron.
f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di
Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di
questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10.
Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211].
Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di
Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di
ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE
del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto
morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di
Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a
fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria
diocesi). Là [17] troviamo un ampio ragguaglio sulla
vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un
quadro di raffronto con quanto emerso dalla
documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM - Cittadina
(oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione
ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio
sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano
quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali
(Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
- dei Carmelitani, con
tre sacerdoti e due laici;
- dei Minori Conventuali,
con tre sacerdoti e un laico;
- dei Minori di Regolare
Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
- dei Riformati di S.
Agostino con tre sacerdoti e due laici;
- una casa addetta ad
ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e
due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi
religiosi, dopo avere accettato di accudire
all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto
ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti
dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per
costringerli a rinunciare ai proventi o
a lasciare i locali del convento.
Sorge un monastero di
monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il
Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.
Oltre alla chiesa
maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con
quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul
vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari
riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è
profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
Sac. Giuseppe Savatteri e
Brutto (1755-1802)
Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto
casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia
sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di
seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite
manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri
ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione
con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata storia
del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile
consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del
paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario -
che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte
private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile
ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano studiare da medico a spese
dell’Amministrazione comunale.
Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del Caracciolo
su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte
provvidenze di giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio
p.p. in die 16 - Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati
di questo esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri
nell’esigenza del terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere
agumentato la Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o
Statica come anche esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli
utensili delle loro moglie e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il
conveniente per non vedersi pur troppo soverchiati.»
Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per
fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte
del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e
del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque,
compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento
e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe
Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo
Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere
anticlericali. Nessuna ricerca storica,
da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo
Sciascia [18]:
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della
Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i
poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera
anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete
Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato
le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il
Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias
Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote
Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la
cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le
cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di
Napoli, che è quanto dire.
D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il
Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802
d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il
Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare
molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i
confrati defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri
della confraternita.
Abbiamo prima
ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci pare opportuno riportare alcune
annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice.
1713 (Morti dal 1714 al
1724)
Dopo il 28 agosto 1719:
L’interditto fu imposto
dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con
il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la
Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima
seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic. Generale
Apostolico con l’Autorità della S. Sede.
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII Ind.)
Vigilia Sanctae Rosaliae
hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac terra Racalmuti.
Battesimi 1711-1716 -
pag. 450.
Ad perpetuam rei memoriam
Die tertio septembris septimae inditionis 1713 Vigilia Sanctae Rosaliae nostrae
Patronae hora vigesima, fuit affixum interdictum in Civitate Agrigenti et in
eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et rev.mo D.no D. Francisco Remirens Episcopo
dictorum
Archipresbitero D.re D.
Frabritio Signorino 1713.
Il Lo Brutto fu
personaggio di spicco; arciprete, in simpatia delle varie autorità vescovili,
di famiglia presso l’ultimo conte Del Carretto, dispensatore di benefici e di
mozzette clericali, finì – come si disse – sepolto in Matrice, osannato da una
lapide a spese del nipote dottor Antonio Pistone:
Matrice ex Cappella
dell’Annunziata.
Monumentum hoc
mortalitatis, quod jure sacelli propriis sibi facultatibus ascito, ante aram
Virginis huius templi patronae, familia Brutto paraverat, doctor don Antonius
Pistone, hic situs, velu optimus heres, honorifico lapide, qui suos suorumque
cineres decentius conderet, exornatum curavit, votumque expletum est. -
Kalendis Septembris MDCC - Post eius obitum anno sexto.
(Stemma - Pampini - leone
alato ... elmo chiomato del milite)
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se volessimo
dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio spagnolo
sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare riferimento
al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia; alla rivolta
antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude in ritirata
del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del 1720 al 30
giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo
l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il vescovo Ramirez che prima
di recarsi in esilio lancia l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso
periodo: l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che
cadde il 7 agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20
ottobre 1735) lo chiudono sotto un
duplice profilo: quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna
ad una feudalità vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel
1710 aveva di molto rilassata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli
arcipreti d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco
Torretta inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure
come “economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba
arcipretura di Antonio Scaglione - sino
ai nostri giorni.
Sull’interdetto
del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare.
Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di
cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da die compagnie di
Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9
cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale
viene ripartito il c.d. “donativo”. [19]
Col passaggio sotto
l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento della morsa militare e l’ordine
pubblico ne risente: resta celebre il caso[20] del bandito Raimondo Sferrazza di
Grotte, tra i cui affiliati un qualche racalmutese vi dovette essere. Lo
Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30 aprile 1727. Iniziò la sua attività
criminale vera e propria nel 1723. Vittima dello Sferrazza risulta tale Mariano
Calci di Racalmuto.
Da Prizzi arriva a
Racalmuto il successore di d. Fabrizio Signorino: don Filippo Algozini, che non
dura più di un quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia lasciato un buon
ricordo nei suoi confratelli se costoro si limitano ad annotarne la morte sul
LIBER, al n° 220 seccamente, senza alcuna sottolineatura. Invero era stato un
arciprete alquanto vivace, piuttosto energico e sicuramente preciso ed
ordinato. Ci lascia un tariffario che illustra ad abbondanza quanto fiscale
fosse la Chiesa di allora: veramente tassava dalla culla alla tomba come
abbiamo avuto modo di rappresentare una volta in una nostra mal tollerata
conferenza alla Fondazione Sciascia. I balzelli venivano pudicamente denominati
diritti di stola; il maggior peso si
aveva per i matrimoni per i quali vi è una casistica tanto puntigliosa quanto
invereconda; ecco, infatti, l’ampia gamma di aliquote per tasse matrimoniali
dovute alla locale Matrice.
1731
Tariffario dei diritti di stola per
il matrimonio celebrato in chiesa, a Racalmuto, sotto l’arciprete Algozzini, originario di Prizzi:
Sponsali 1731 al 1738
LIBER PROCLAMARUM
PRO NUPTURIENTIBUS ET
ORDINIS SACRIS INSIGNIRI CUPIENTIBUS
E ANNO 1731 QUO FUI IMMISSUS
IN HAC MATRICI RACALMUTI
EGO PHILIPPUS ALGOZINI
PRITIENSIS
S.T.D. ARCHIPRESBITER USQUE
AD ANNUM 1770
TASSA PER L'INCARTAMENTI
se la sposa esiste in
questa terra
LE SPESE SONO CIOE'
PER LETTA REGOLARE AL
PARROCO DELLA TERRA DOVE
ABITA IL SPOSO-------- T. 1
SEDE DI DENUNCIE---------- T. 2 10 GRANI
ORDINE PER IL COPIARI TESTES
T. 1
LETTERE ALLA G.C. : T. 1
P. SOVRATASSA DI DETTA LETTERA
NELLA QUALE DONA LICENZA
DI SPOSARSI T.
1
TASSA T. 3 10
GRANI
-----------
---------------------
-----------
T. 10 0
..
LETTERA REG.RE AL PARROCO T. 0 10 GRANI
TESTI T . 2
??
T. 1
LIC. REGOLARE T. 2 10 GRANI
TASSA DELLA LETTERA DI GI.GNTI T. 10 GRANI
//
15 GRANI
----------- --------------------- -----------
T. 7 5 GRANI
SE PERO' LA SPOSA E' FUORI PARROCCHIA
ORD. DEL COPIARE LI TESTES T. 1
SEDE DI
DENUNCIA
T. 2 10
Dobbiamo però
alla penna dell’Algozini un preciso inventario
delle ricche suppellettili che ormai dotavano la Matrice; in più abbiamo
una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo della locale arcipretura,
in uno con la raffigurazione dell’interno della chiesa dell’Annunziata, nonché
con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini lascia,
comunque, in sospeso la questione del quadro della Maddalena che si continua ad
attribuire a Pietro d’Asaro; l’arciprete si limita ad annotare: “Altare di S.
Maria Maddalena: item il quadro con la figura di detta Santa” e non ne indica
l’autore; per lui – come per noi – l’autore è anonimo. Se una congettura
personale è permessa, tendo a credere che il quadro sia stato commissionato
dall’Agrò in prossimità del 1637 (molto dopo dunque dalla datazione 1622 di cui
a pag. 66 del Catalogo del 1985), in nome e per conto di qualche confraternita della Matrice o della Fabbrica; consegnato agli eredi,
costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano a sistemarlo nella già operante
Cappella della Maddalena, il cui spazio antistante viene acquisito per la
“carnalia” del sacerdote defunto e dei suoi eredi, previa destinazione alla
“Fabbrica” di un censo annuo di
un’oncia, prescelto tra i legati del sac. Santo Agrò. Singolare è il fatto che
nel 1731 si è perso il ricordo della tomba del sacerdote benefattore e
l’Algozini si limita ad annotare che «non sono sepolture sotto le predelle
dell’altari” e che in tutta la chiesa le gentilizie di specifici “patronati” sono
solo quattro ed appartengono ai « fratelli del SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654
non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il cennato censo di un’oncia
dell’eredità Agrò[21].
L’elaborato
algoziniano che si conserva presso l’archivio vescovile di Agrigento ci
fornisce un insostituibile spaccato della comunità racalmutese in pieno regime
austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna al visitatore pastorale un
folto fascicolo di «notizie che dona il
Molto Rev. Dr. Filippo Algozini archipresbitere di detta terra, alle dimande
nelle istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo Gioeni, vescovo di Girgenti
per la visita pastorale.» Quel celebre vescovo era di recente nomina (con
bolla pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata in Palermo il 5 gennaio
1731) e all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un controllo ficcante e
pignolo. Fornisce un questionario dettagliatissimo cui l’arciprete deve dare esaustive
risposte. Una fatica improba per lui, ma buon per noi che siamo così in grado
di disporre di una stratigrafica ricognizione della comunità di Racalmuto a
quasi un terzo del Settecento.
Unica la
parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove nell’abitato e sei nelle
campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In totale ben 21 luoghi di
culto e cioè:
le n°
quindici “secolari” sparse per il paese:
1.
la Matrice chiesa sotto titolo della
SS.ma Annunciata ; il Rettore ed Amministratore il M.to
Rdo Archipresbitere Dr D. Filippo Algozini;
2.
Oratorio del SS.mo Sacramento sotto
titolo di S. Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o Dr D.
Filippo Algozini Archiprete, ed i congionti Mo Scibetta e Mo
Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3.
Chiesa sotto titolo di S. Maria del
Monte, il Rettore clerico coniugato Agostino Carlino, Rdo Sac. D. Pietro
Signorino ed Onofrio Busuito congionti, che l’amministrano;
4.
Chiesa sotto titolo di S. Rosalia,
amministrata dalli Giurati di questa terra come Padroni;
5.
Chiesa sotto titolo di S. Anna, il
Rettore clerico coniugato D. Calogero Sferrazza congionto a Sigismondo
Borsellino e Diego Emmanuele che l’amministrano;
6.
Chiesa sotto titolo di S. Micheli
Arcangelo, il Rettore e Amministratore il Rev. Sac. D. Francesco Pistone;
7.
Oratorio sotto titolo di S. Giuseppe,
il Rettore Dr. D. Giuseppe Grillo , notaio Nicolò Pumo ed Ignazio
Mantione congionti;
8.
Chiesa sotto titolo di S. Maria
dell’Itria amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro Signorino Beneficiale;
Chiesa sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata dal
R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò mansionario della Catredale di Girgenti, e per esso
dal R.do Sac. Dn Isidoro Amella procuratore.
Queste le
annotazioni che riguardano le chiese di campagna, denominate “chiese fora le
Mura”:
1.
Chiesa sotto titolo di S. Maria della
Rocca, il Retttore o amministratore Sac. D. Vincenzo Avarello;
2.
Chiesa sotto titolo di S. Maria di
Monteserrato, in cui si celebra la povera festa dalli pij devoti;
3.
Chiesa sotto titolo di S. Maria della
Providenza amministrata da D. Paolo Baeri Patrono;
4.
Chiesa sotto titolo di S. Marta
amministrata da Pietro Mulè Paruzzo procuratore;
5.
Chiesa sotto titolo di S. Gaetano
amministrata dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come Padrone;
6.
Chiesa sotto titolo del SS.mo
Crocifisso, amministrata dal Rev. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato
che non vi erano “cappelle ed oratori domestico” (queste saranno di moda alla
fine del Settecento e si protrarranno sino alla seconda metà del XX secolo),
ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque conventi de’ regolari ed un
monastero di Donne”:
1.
Convento di S. Maria del Carmine;
2.
Convento di S. Francesco de Padri
Minori Conventuali;
3.
Convento di S. Maria de Padri Minori
osservanti;
4.
Convento di S. Giovanni di Dio de’
PP. Fateben fratelli;
5.
Ospizio di S. Giuliano de’ PP. di S.
Agostino della Congregazione di Sicilia;
6.
Monastero de Monache dell’ordine di
S. Francesco.
E si precisa
che all’epoca non vi erano conventi soppressi.
A Racalmuto
operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei Padri fatebenfratelli giusta
li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di pegno.
In compenso operavano due
confraternite e cinque “compagnie”.
1.
Confraternità di S. Maria di Giesù,
li Rettori sono Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo Missana e Giovanne
Farrauto; si fanno ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
2.
Confraternità di S. Giuliano, li
Rettori sono Giovanne d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe Savarino e Vito
Mantione, il loro governo dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di
Gennaro;
3.
Compagnia del SS. Sacramento,
Governatore il Mo R.do D. Filippo Algozini, congionti Mo
Giacinto Scibetta e Mo Giuseppe Di Rosa, il loro governo dura tre
mesi, incominciando dalla domenica infra “octavam Corporis”;
4.
Compagnia del Thaù fondata nella
Chiesa di S. Anna, Governatore D. Calogero Sferrazza, congionti Sigismondo
Borsellino e Diego Emmanuele; dura il loro officio tre mesi, incominciando
dalla Domenica più prossima all’otto che ch’incide del mese, li presenti furono
fatti all’8 Giugno 1731;
5.
Compagnia dell’Anime del Purgatorio
fondata nella Chiesa di S. Micheli Arcangelo, Governatore Raimondo Borcellino
minore, congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto e Santo La Matina Calello; il
loro officio dura quattro mesi incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
6.
Compagnia di S. Maria del Monte,
Governatore Clerico Coniugato Agostino Carlino, congionti R.do Sac. D. Pietro
Signorino ed Onofrio Busuito; il loro officio dura anno uno, incominciando
dalla Prima Domenica di Settembre;
7.
Compagnia di S. Giuseppe, Governatore
Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed Ignazio Mantione; il loro
officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda domenica di Gennaro.
8.
Ci viene fornito un dato
anagrafico di notevolissima importanza: sapendo quanto precisi erano gli uomini
della Chiesa, possiamo essere certi che davvero a Racalmuto, nel giugno del
1731, c’erano 1200 famiglie con 5.134 anime o abitanti che dir si voglia (in
media 4,28 componenti per ogni nucleo familiare). Nutritissima la compagine
ecclesiastica: 28 sacerdoti, di cui però ammalati cronici 24. In ogni modo un
sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183 abitanti. Ecco l’elenco:
1.
Il
Mo Rev. Archipresbiter Dr D. Filippo Algozini;
2.
Il
Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario Foraneo;
3.
Sac.
D. Filippo Cino;
4.
Sac.
D. Francesco Pistone;
5.
Sac.
D. MichalAngelo La Mendola;
6.
Sac.
D. MichalAngelo Rao;
7.
Sac. D. Ignazio Laudito;
8.
Sac.
D. Paulo Spagnolo;
9.
Sac.
D. Gerlando Carlino;
10.
Sac. D. Antonino Macaluso;
11.
Sac. D. Francesco Torretta;
12.
Sac. D. Gaspare Casucci;
13.
Sac. D. Vincenzo Casucci;
14.
Sac. D. Leonardo La Matina;
15.
Sac. D. Calogero Pumo;
16.
Sac. D. Giovan Battista Pumo;
17.
Sac. D. Antonino Mantione;
18.
Sac. D. MichalAngelo Savatteri;
19.
Sac. D. Isidoro Amella;
20.
Sac. D. Vincenzo Avararello;
21.
Sac. D. Francesco De Maria;
22.
Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano;
23.
Sac. D. Baldassare Biondi;
24.
Sac. D. Pietro Signorino;
25.
Sac.
D. Orazio Bartolotta;
26.
Sac. D. Antonino d’Amico minore;
27.
Sac. D. Ignazio Pumo;
28.
Sac. D. Santo Farrauto.
Ma le vocanzioni non
mancavano; erano già diaconi: Melchiore Grillo ed il nostro Servo di Dio padre
Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva ricevuto l’ordine minore del
suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco Grillo; Vito Gagliano; Vincenzo
Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi; Ludovico Amico; Diego Martorana;
semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino Tirone; giovani lettori:
Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro; Calogero Vinci; Leonardo
Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio Picone; i chierici tonsurati
erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e Nicolò Milano. Tutti gli ottimati
racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano ad esserli nel secolo dei lumi ma
anche dell'irrompere di una nuova classe, quella borghese, vi sono
rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di riguardo. Tra queste i
Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché ancora non scesi a
Racalmuto.
Alcuni signori amano
essere chierici “coniugati”, forse per i benefici del Santo Offizio: D.
Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D. Paulo Baeri. Ad un livello inferiore
troviamo i chierici “coniugati” Agostino Carlino, Francesco Farrauto e Giuseppe
Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però
eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno
disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da
potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre
all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci:
Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La
Matina.
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