Racalmuto e le sue vicende storiche
di Calogero Taverna
Una
nota a mo’ di premessa
Questa vuol essere una storia
veridica su Racalmuto, una storia che presuppone ma non esplicita l’enorme
quantità di documenti consultati presso i vari archivi di Roma, Palermo
Agrigento e Racalmuto, per non parlare della marea di letture più o meno
storiche che attengono a questo paese dell’agrigentino. Il risultato è
stravolgente di ciò che agli occhi di scrive sa ormai di stucchevole
mistificazione, di aporie letterarie, di voglie che traducono il desiderio di
eventi memorabili in indubitabili realtà
storiche. Abbiamo così miti di monaci dal “tenace concetto”, di preti in
decrepita età presi da “alumbramiento” erotico, di frati omicidi, di fantasiosi
eroi saraceni, di allocazione delle misere casupole racalmutesi in presunte
località amene, di frati omicidi, di contesse in foia erotica, di pittori
sublimi e di medici d’alta scienza e via discorrendo.
A proposito dei Del Carretto,
abbiamo già scritto e qui ripetiamo:
Forse risponde al vero che un tale
Antonino del Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane
Costanza Chiaramonte e farsi da costei sposare - lui vecchio e prossimo a morire
- spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni
di esordio del turbolento secolo XIII. Forse davvero Costanza Chiaramonte,
figlia primogenita del rampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella,
anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges
ci ha propinato in un libro secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine Siciliana. Forse davvero il
matrimonio fu fecondato dalla nascita di un ennesimo Antonino del Carretto.
Forse è attendibile che - non tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro
inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di terra alla Menta, a
Garamoli, al Roveto furono assegnati in dote come beni “burgensatici” da
Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e mezzo ligure. Il
solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato
Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della
signoria dei Del Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo
d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che solo
negli anni novanta del secolo scorso chi scrive ha avuto il destro di riesumare
dai polverosi archivi di Stato di Palermo per un’ostica ma illuminante lettura.
Ma in quell’investitura, scopo, intento, occorrenza
ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia
di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente
ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze
altisonanti: difficile credere a quanto vi si afferma nei confronti di
Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto; traluce invece una realtà ove
si scorge la rapacità di codesti esattori delle imposte dei Martino, quei
Martino che risultano più che altro gli avventurieri dell’ “avara povertà di
Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.
A noi - racalmutesi - quegli
intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano
perché sono la nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal
Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra
deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più
cervellotico è il costrutto fantasioso.
Noi abbiamo speso tempo e denaro per
raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del
Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione
dei processi d’investitura - venne riprodotta in un CD-ROM interattivo cui si
rinvia. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici
diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con
vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi
fedifraghi strumenti di uxororicidi a comando di principesche padrone dalle
propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati
omicidi; addio preti in “alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli
vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani.
Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità
inoppugnabili. Addio moralismo di bassa lega.
Un quadro - ora inquietante, ora
banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con
tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il
dominio, consueto per l’epoca, dei baroni del Carretto: costoro verso la fine
del Cinquecento - dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso
illuminata) - hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa,
di farsi nominare conti di Racalmuto; mancano però l’obiettivo e non riescono a
farsi riconoscere il titolo di marchese che fasullamente in esordio della loro
signoria su Racalmuto avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana
aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio
tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la
documentazione che abbiamo pubblicato ne spazza via ogni briciola di
attendibilità. E quel che si scrive su
data e struttura del castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene
commiserevole ogni sicumera sulle origini storiche del Castelluccio.
Ma ora uno sguardo ai tempi remoti.
Gli stravolgimenti geologici
Sette milioni di anni fa – qualche
secolo in più, qualche secolo in meno – terminava il lungo processo di
prosciugamento marino del territorio racalmutese: abbattuto l’ultimo ostacolo
nei pressi di Cozzo Tondo, le acque defluirono anche da quel versante verso
Passo Fonduto, e di là, lungo il Platani, verso il mare. Dal Castelluccio erano
scivolati scisti di pietra dura, che scivolando verso il fiumiciattolo della
Ciarla, appariranno agli autoctoni dell’epoca sicana provvidenziali macigni per
le loro tombe, a mezzo tra la tecnica del “forno” e quella del “Tholos”. Alla
luce dell’attuale scienza geologica – destinata a venire travolta dalle tecnologie
dell’incombente futuro – siamo in tempi pliocenici.
Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio
di Racalmuto raggiunse, dunque, l’attuale sua conformazione nelle fasi finali
dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso
relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni
di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la
quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”. Ed anche qui
trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di
anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo
dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche ebbero ad
abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un
isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una
sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la
regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre
marine.
Secondo una cartina della distribuzione dei terreni
pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan, Racalmuto si modella con
le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè
durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto
sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi
Romano) hanno dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi
dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi,
distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese:
1)
complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2)
formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e
argille;
3)
serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del
Saheliano e Messinese.
4)
una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e
calcari marnosi (Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali
non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali
minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli
sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie
progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che
avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della
chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio
desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare
ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso
una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo». Secondo tale affascinante
teoria, le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si
devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di
beffarda premonizione e di malefica iella.
Preistoria
racalmutese
Sull’altipiano di
Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre
quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta
prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano,
fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal
XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione
che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli
influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale
e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare
testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel
territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie
umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e
culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali
conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana
nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea
ad ospitare il primitivo homo sapiens
sapiens dei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi
di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una
pagina di Tucidide, sicani. Due
testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra
Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il
Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci
chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi
migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del
versante sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli
insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso
Milena, Montedoro, Bompensiere.
L’insediamento di Fra Diego è quello che persino nelle
cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di
scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle
tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di
tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari
dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e
forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri
antenati pare nutrissero. Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno
alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e
fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie.
Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra
Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al territorio di
Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si
dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei. Ancora nel '700 il
viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente
pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai
nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei
'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia
circolavano ancora.
Quello che si diparte da Licata sino ai pressi della
galleria ferroviaria prossima al bivio Canicattì-Castrofilippo, viene fatto
risalire al XVIII secolo a.C. Le
pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della
ferrovia nel 1879. I reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono
dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le relative tombe a
forno sono andate del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto,
non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione
da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel
solerte ingegnere delle ferrovie. Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe
antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga
tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un
gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va
da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in
una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito
da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su
vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879]
furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i
cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che
hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» Si ha,
quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta
anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti
di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un
calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma
di un conno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me
descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei
Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti
d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà
indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà
in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi
ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui
è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna
campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese.
Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro
verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo
visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora
del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine
inappaganti.
Quel che le affioranti testimonianze archeologiche
dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi
risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la
strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri,
il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe
rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del
Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non
irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei
sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e
Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media
Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo
dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono
tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare
«ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» Il Monte
Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di
vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione
interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato,
come la rarefazione delle testimonianze archeologiche sembrano comprovare.
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non riusciamo a resistere alla forte
tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed
abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto
durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo:
quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a
valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita.
Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e
ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche
«tombe del tipo a forno».
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro -
riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in
condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici,
come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a
testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e
pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare,
l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci
sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni
di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito
ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i
greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,
si insediarono nella valle agrigentina,
per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi,
modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il
termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono
però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata
dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la
scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non
subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda
generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite
dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio
per un (improbabile) ritorno in patria.
I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la
città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio
anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel
sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante
denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per
il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e
dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si
attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio, e,
secondo recentissimi ritrovamenti archeologici, anche alle falde del costone di
Fra Diego. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio
akragantino non attestano solo l'inclusione di quel territorio nella
circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto
l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non
è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero
certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica
costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro
assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o
fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti
a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e
misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi
sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le
radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si
evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona.
Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si
pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo molto
di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere
pertinenza rurale della polis di
Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la
tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo
fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per
via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito
ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla
Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili
se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che
lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita
comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro
territorio sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli
che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela
attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta
che avventurarci in malcerte congetture.
In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti
scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la
nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962).
Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante
'non liquet' (non risulta) di Filippo
Cluverio. Oggi, liquet (risulta)
l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente
ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di
Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò
queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza
considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie
e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e
l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano
di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere
granché diversa da quella della fine dell’Ottocento-.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva
usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena
lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla
vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce
di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini
cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva
certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità
e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda
storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza
monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia
agricola della Polis, dunque, al
tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con
vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a
pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva
fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare
le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della
lontana Grecia. Dopo, chi vinceva
commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva
doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla
cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una
flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie
terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante
la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria
col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato,
incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo
per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio
del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti
alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere
anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino,
testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di
Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da Akragas, per il passaggio
ad un regime democratico, non fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella
riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua
guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola
Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano
ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico,
di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste,
certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la
Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni
bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce,
l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli
ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa
trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i
siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta
degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas,
come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di
Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha
modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine
rurale di quella polis, ne segue
sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno
al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per
Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal
giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di
impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia
punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano
dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come
primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e
cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci
agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i
cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai
saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare -
il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente
saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette
verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio
demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli
agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le
note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si
impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas
cadeva nella mediocrità dell'epikrateia
africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante
sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per
qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla politica
ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere,
vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la
civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina
- ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri:
i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e
infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo
per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta
contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di
Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più
delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono
chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana
scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi
degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti
numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre
racalmutesi di quei secoli.
Sempre il Tinebra Martorana
ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una
parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi
senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di
Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu
durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un
libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese
prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne
derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla
greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In
contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia
un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo
Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il
tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette
essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno
finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda
storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole
e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile
ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le
porte di Siracusa. Akragas ed il suo
territorio - ivi compreso Racalmuto - si
estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti
all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue
risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella
zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a
quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica
romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda
siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura
appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo
di provincia che secondo Cicerone: «prima
docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare».
Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare
popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e
ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo
perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi,
le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri
cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono
risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della
città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne
le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa,
abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto
dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di
quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti.
Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo,
vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui
successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi.
Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di
40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine
per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture
raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto
sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani
ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel
grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici
ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi
consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei
romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una
vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per
Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella
lontanissima Roma.
IL PERIODO
ROMANO
Finite le guerre puniche, il console
Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma.
Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono
all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione
avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il
cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi
della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo
di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua
vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente
grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse
all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel
territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete
romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi
del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che
servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi
si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire
nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da
parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di
grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci
attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da
parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da
Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo
c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota"
(anfora per vino) nel cui manico [«in
manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C*
PP. ILI* F* FUSCI
RMUS.
FEC.
Il
Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale
quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi
(C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo
ad un personaggio di nome FUSCO, del
tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana.
Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti»
(VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un
Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius
Fuscus Salinator e via di seguito. Ma
una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto
era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore
dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del
Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a
Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si
evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita
agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano,
trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il
sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere
racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del
secondo secolo d.C., sotto Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si
registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di
zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne
seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme
romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con
scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu
l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento.
All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il
Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del
1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni
del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della
corrispondenza si denoma: Mattoni antichi
con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate
del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati,
interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:
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