Il 1931
viene assunto come dies ad quem
scadendo il quinquennio della carica podestarile ai sensi dell’art. 2 della
legge 4 febbraio 1926, n.° 237. Sul piano politico, va registrato che sino al
1931 vi era una certa discrezionalità quanto ad adesione dei ceti impiegatizi e
dirigenti al P.N.F. Con una serie di dereti del 1932-33 stabilì l’obbligo
dell’iscrizione al P.N.F. per chiunque volesse partecipare ai concorsi per
impieghi pubblici di qualsiasi genere o
per impieghi nelle amministrazioni locali e in istituti parastatali. Anche per
le libere professioni o per la magistratura l’iscrizione al partito divenne di
fatto necessario. Nel 1931 scoppiò - ma
subito si esaurì - la nota controversia tra chiesa e fascismo sull’autonomia
dell’Azione cattolica, che a Racalmuto aveva una sua significativa presenza. Il
contrasto si concluse con piena soddisfazione del Vaticano. Qualche storico (Ragionieri, op. cit. pag.
2223) reputa responsabile dell’incidente Giovanni Giuriati, nominato segretario
del PNF l’8ottobre 1930. Egli, in
effetti, cercò di rintuzzare la crescente forza organizzativa e politica
dell’Azione cattolica. Pare che abbia esagerato e da qui la sua breve
permanenza alla segreteria del PNF. Nel dicembre del 1931 veniva sostituito con
l’ancor oggi notorio Achille Starace. Con Starace la fisionomia del PNF cambia
vistosamente. Gli effetti si registreranno anche nella lontana e periferica
Racalmuto. Se prima, non si poteva essere antifascisti, ma essere ‘indifferenti
al Regime’ - come recitavano le carte degli schedari della polizia - era in definitiva
tollerato, ora occerreva anche un ‘consenso’ come dire, ope legis. Ciò vale a livello nazionale; ciò vale anche sul piano
locale. Chiudere il segmento nel 1931 per la storia del fascismo racalmutese ha
dunque una sua validità, anche sotto questo aspetto. Si pensi che il vecchio
arciprete di Racalmuto amava negli anni ‘50 raffigurarsi come un eroe per avere vissuto - ed a suo dire
‘combattuto’ - la persecuzione fascista contro l’Azione cattolica. ().
Le cadenze
temporali della microstoria racalmutese sono invero alquanto sfasate rispetto
al corso politico nazionale di quel periodo.
Il 24
gennaio 1924 (), con lo scioglimento del consiglio comunale eletto nel 1920, si
chiude l’era dei sindaci del vecchio stato democratico. Subentra, un periodo di transizione con un rapido
succedersi di commissari straordinari (ben tre: Ernrico Sindico; avv. Salvatore
Burruano e Salvatore Curatola). Nel 1926 inzia l’epoca fascista vera e propria,
quanto all’ammonistrazione comunale),
che s’impersona nella figura del farmacista dott. Enrico Macaluso per un
decennio.
Per un
scandalo a carattere sessuale, il dott. Macaluso è costretto a dimettersi il 18
maggio 1936 (). Gli succede un suo fedelissimo, il prof. Giuseppe Mattina fu
Gaetano che dura, praticamente, fino all’inizio della guerra. I tempi del
fascismo racalmutese sono in effetti cinque:
1°) la
vigilia fascista che si chiude con l’estromissione governativa degli
amministratori demo-liberali del 1924;
2°) il periodo
di transizione che cessa, nel marzo del 1927, con la nomina a primo podestà del
dott. Enrico Macaluso;
3°) il
decennio del podestà Macaluso che si conclude nel 1936;
4°) la
successione del prof. Mattina, che di fatto tiene la carica sino all’entrata in
guerra nel 1940;
5°) il
periodo della guerra sino al 17 luglio 1943, giorno dell’entrata a Racalmuto
dell’esercito americano.()
Racalmuto
prefascista
Dal 1860
al 1923, Racalmuto è un centro minerario ed agricolo totalmente dominato da
alcune famiglie medio-borghesi qualcuna delle quali cerca di accreditare titoli
persino nobiliari. I Tulumello, ad esempio, vantavano il fregio baronale, ma si
era trattato dell’astuta acquisizione di due terzi del feudo di Gibillini da
parte di un prete loro antenato, piuttosto traffichino, tra il Settecento e
l’Ottocento, in piena soppressione dei diritti feudali. I Tulumello, già ricchi
per il possesso di vaste terre a Villanova, tra Racalmuto e Montedoro,
locupletarono molto con le miniere di zolfo nello scorcio finale del secolo
scorso. Soppiantarono i concorrenti ottimati dei Matrona e dei Savatteri e si
insediarono nella sindacatura locale praticamente per un ventennio, dal 1889 al
1909. Intorno al 1909 ebbero rovesci finanziari, decaddero economicamente e
sparirarono dalla scena politica locale. Subentrarono nella gestione della cosa
pubblica avvocati e medici appartenenti a famiglie borghesi che avevano fatto
fortuna con lo zolfo. Per un settantennio erano stati dunque gli ottimati
locali, i cosiddetti “galantuomini”, con la loro boria di nuovi ricchi a
dominare lo scenario politico racalmutese, con le loro beghe, le loro risse, le
loro clientele. Col 1924 tutto ciò scompare e può dirsi definitivamente, visto
che dopo il 1943 la storia dei locali sindaci ha altre peculiarità,
profondamente intrisa degli umori delle masse, in termini, cioè a dire, di
moderna domocrazia popolare. Con 1926, si affaccia e - come si dirà - trova
consensi di massa la figura del podestà della riforma fascista.
Racalmuto
si consegna alla gestione podestarile con una fisionomia economica e sociale
segnata da turbolenza sociali, specie tra gli zolfatai. Sono gli zolfatai che
hanno una più avvertita coscienza sociale ed è appunto fra loro che sorge a
Racalmuto il primo nucleo fascista. Ne sono animatori gli avvocati Agostino
Puma e Salvatore Burruano. L’11 dicembre 1922 il prefetto di Girgenti (poi
Agrigento) il dott. Raffaele Rocco () partecipa al Ministro degli Interni che
l’associazione «Racalmuto - Lega di miglioramento fra zolfatai» aveva pochi
giorni prima cambiato titolo in «Sindacato Nazionale Zolfatai» aderendo al
fascismo. () Siamo, come si vede, a pochi giorni dalla “marcia su Roma”:
avvedutezza degli zolfatai (la cui loro lega risaliva ai Fasci ed era stata
dominata dal socialista Vella) o opportunismo di due giovani avvocati
appartenenti alle famiglie emergenti di Racalmuto? Non è facile rispondere, ma
entrambe le cose sono plausibili. Una sezione fascista - la prima - risulta
costituita a Racalmuto il 26 dicembre 1926. ()
Racalmuto
si affacia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario
d’Italia - Calendario generale del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni
2 - Popolazione 22.648, Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico
in Girgenti, Ufficio di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e
Agenzia delle imposte a Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di
Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello
del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del
Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti,
olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo greggio e varie miniere di
salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco:
Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale: Rao Liborio. - Agenti di
assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao Liborio. Albergatori:
Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino
Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri:
Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli (negoz.):
Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.) Bartolotta
Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone
F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè Salvatore. Farine:
(negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè Gregorio - Scimè Alfonso
- Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi Gioacchino. Ferro:
(negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi: (negoz.) Denaro
Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami:
(negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia
Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di
salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella
Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento
Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli -
Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro
Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto
Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono
Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco -
Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore -
Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona
cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo -
Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu
Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci
Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli -
Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè
Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore;
Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello
Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode:
(negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone
Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè
Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe -
Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio d’oliva:
Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore - Leone Diego -
Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri: Genova
Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.)
Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela -
Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) -
Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli:
Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni -
Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola
Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore -
Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta
Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo -
Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo
Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori:
Amato Calogero. Agronomi: Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi
Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro
Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano Giuseppe - Tulumello
Salvatore. Medici-chirurghi:
Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe -
Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore -
Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando -
Vassallo Giuseppe Antonio.
Il quadro
economiche che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre 63 esercenti di miniere di zolfo (per converso
solo 4 esercenti di miniere di salgemma)
attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5
grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste
alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un
pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di
sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro
effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo:
negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai
ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri
(ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la
serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della
rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente
racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati;
e poi tanti (troppi) medici (ma molti
sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un
orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il
quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo
- che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben
delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano le arti ed i
mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo
titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico
prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine
di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof.
Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una
rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio
finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno
abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’
racalmutesi dell’Ottocento.
Luigi
Pirandello ne I vecchi e i giovani ( accenna alle condizioni - avvilentissime -
dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli zolfatai. Triste la
sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda la vita delle loro
donne.
«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di
Racalmuto o di Raffadali o di
Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e
arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno
turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone;
o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare
o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o
con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville
al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti,
massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e
sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva,
vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere,
col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi
lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a
lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal
pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava
occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e
appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano
ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio
corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per
comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»
Forse un
tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che
Nino Savarese () fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla
Racalmuto dell’avvento fascista. «I
fazzoletti di seta sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di
pelle lucida con lo scricchiolìo, il
berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello,
sono distintivi della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati,
dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi,
grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o
sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi
animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di
commemorazione domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di
essere ancora in vita e con le tasche piene di danaro ben guadagnato. E fra i proprietari e
dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una netta distinzione
di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel linguaggio: gli
uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di gallerie, con
l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi disastri dei
crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti al cielo a
scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima di zolfo.
Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si seguono a
brevissima distanza.
«Dalla profondità delle loro viscere esse hanno mandato
ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere
generazioni di operai vi hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano
ancora, che è il loro modo di dire che esistono, che producono ancora e
vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di
ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le linee del paesaggio
di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta
consumando in una dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa
che richiama la vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi
le poche colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno
sempre qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di
fumo che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di
nebbia densa e giallastra. [...]
«I molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare
al largo da questi luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda. [...]
«Qua e là, tra le distese grige del tufo e i mucchi
rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente come grandi
fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto per essere
spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni,
che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i
secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano
piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura hanno
nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio
cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il
mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che
non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso,
sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le
operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia
diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di notte la miniera è appena segnata da grappoli di
lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante
la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si
impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette campestri si
spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere
la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui campi
silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»
Quanto al
contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per
Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore
locale così riferiva alla Giunta per
l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola (): «Il contadino di questi luoghi non è un servo
della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben
pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito
nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua
famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla
cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di
zolfo, ora nei campi.»
L.
Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia
Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi
di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno
riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua
personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba
il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra
in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto
quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso
ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa
prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E
i carusi? Le infelici creature
vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e,
quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...]
questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e,
moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono
avendo a loro modello i piconieri,
anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...],
mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di
malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ()
Gli
zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Abbiamo
visto come subito passarono al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu
domato molto tardi dallo stesso fascismo. Ancora, nel 1931, osavano scioperare
per contestare la riduzione della paga unilaterlmente decisa dagli esercenti.
() Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti
sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura
che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio
moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom.
Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed
i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva
i locali zolfatai in questi termini: «Io
ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi,
abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla
criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento
[..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella
più orribile abiezione morale ed economica [..].» ()
Quanto
alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in
fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto,
Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel
1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesa sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e
l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali:
Risponde Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie
di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale.
Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di
acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o
meglio consorzio.» ()
Racalmuto
si consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo. Un indice è
quello demografico che è bene qui segnare:
Abitanti di Racalmuto
Anno
|
N.ro
abit.
|
Indici
1825 =100
|
1825
|
7.170
|
100
|
1831
|
7.806
|
108,87
|
1852
|
9.030
|
125,94
|
1869
|
12.252
|
170,88
|
1894
|
13.384
|
186,67
|
1901
|
16.029
|
223,56
|
1911
|
14.398
|
200,81
|
1921
|
13.045
|
181,94
|
1931
|
14.044
|
195,87
|
1936
|
13.061
|
182,16
|
1951
|
12.623
|
176,05
|
1961
|
11.293
|
157,50
|
1980
|
10.000
|
139,47
|
In quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i
quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo
emigratorio sono stati:
Comune di Racalmuto
|
|
|
|
|
|
|
|
Periodi
|
Incremento
totale
|
incremento
naturale
|
saldo
migratorio
|
1861
-1 871
|
3,6
|
8,86
|
-5,26
|
1871
- 1881
|
20
|
18,43
|
1,55
|
1881
- 1901
|
09,65
|
13,26
|
-4,64
|
1901
- 1911
|
-10,8
|
11,32
|
-22,12
|
1911
- 1921
|
-14,6
|
4,19
|
-18,79
|
1921
- 1931
|
11,4
|
9,93
|
1,47
|
1931
- 1951
|
-06,72
|
9,97
|
-16,69
|
Nel
periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello
naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello
successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una
immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il
sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio
successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del
18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di
tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso
emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).
()
Rispetto
alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il
seguente andamento:
Anno
|
abit.
Racalmuto (A)
|
N.ro
ind.
(B).
|
abitanti
prov. Ag. (C)
|
N.ro
ind.
(D)
|
Rapporto
%
A/C
|
Rapporto
% B/D
|
1901
|
16.029
|
100
|
371.638
|
100
|
4,313
|
100
|
1911
|
14.398
|
89,825
|
393.804
|
105,96
|
3,656
|
84,77
|
1921
|
13.045
|
90,603
|
369.856
|
93,92
|
3,527
|
96,47
|
1931
|
14.044
|
107,658
|
398.886
|
107,85
|
3,521
|
99,82
|
1936
|
13.061
|
93,001
|
407.759
|
102,22
|
3,203
|
90,98
|
1951
|
12.623
|
96,647
|
461.660
|
113,22
|
2,734
|
85,36
|
1961
|
11.293
|
89,464
|
447.458
|
96,92
|
2,524
|
92,30
|
1980
|
10.000
|
88,550
|
449.699
|
100,50
|
2,224
|
88,11
|
Rispetto
al territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto
scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi
d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza.
Eugenio Napoleone Messana (, uno storico locale degli anni sessanta, da
prendersi molto con le pinze, è alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i
dati dell’Istituto Centrale di statistica [...] balza evidente una crescente
flessione demografica dal 1936 al 1961». Quasi si trattasse di un fenomeno
inziato in pieno fascismo. Era invece, come abbiamo visto, un deflusso che
affondava le radici alla fine dell’Ottocento.
La lezione
di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.
Scrive in Occhio di Capra, Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a
Racalmuto è nato: «Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I
ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad
esempio, uno di loro: «Se il passo ha un
valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso
addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare
proprio inattendibile. Racalmuto è solo
uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» () Quanto
a storia fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali
ricercatori che a Sciascia.
Leonardo
Sciascia, nato nel 1921, qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e
là, ce la fornisce. Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta,
si professa antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da
obiettività. Bisogna depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge.
Qualche
volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un
riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a
frequentare con devozione quasi filiale
la famiglia di una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si
riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e quindi a
Racalmuto, in questo passo molto efficace (): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al momento in cui Mussolini fondava
i fasci (di combattimento: parola che è mancata, negli anni nostri, alla pur
possibile resurrezione del fascismo, d in fascismo) e quindici quando i fasci
marciavano su Roma; tra adolescenza e giovinezza visse, come noi tra infanzia e
adolescenza, quello che lo storico chiama “gli anni del consenso”: un consenso
che, pieno e fervido nella classe borghese (e specialmente nella piccola ed
infima, poiché mai lo stipendio del travet, del questurino, del maestro di
scuola, è stato come allora sufficiente in rapporto al bisogno e a quel tanto
di superfluo - pochissimo - cui si poteva limitatamente accedere), arrivava
alla classe operaia , cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto
un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non
avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal Poeta erano passate al regime:
eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi, l’aggregarsi: insopprimibile istanza
giovanile oggi d’altro squallore. E i riti. Tutto era allora fascismo, insomma,
intorno ad un uomo di vent’anni. E perché un uomo di vent’anni cominciasse a
non sentirsi fascista, a detestare quelle parole, quei riti, quella violenza,
quella unanimità, occorreva insorgesse “una
strana quanto benefica mancanza di
rispetto”: verso i padri, le
madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa.
Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona salute d’intelligenza, di
giudizio, finiva col riscuotere una condizione di malattia: l’isolamento (alla
mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine, l’esilio»
Sui
rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul
Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non
sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un
lavoro di Christopher Duggan () «L’idea, - scrive Sciascia - e il conseguente comportamento, che il primo
fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di
sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà dove il socialismo è debole; in
Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già
fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la
mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo,
altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo
vigore aveva l’istanza rivoluzionaria
degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di federzoni
per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto
vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che,
prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni
settentrionali e nella permissività e
protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di
polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai
vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano
assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e
temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza
agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e,
almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi
“risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò,
infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu
segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e
progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro
ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di
ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero
Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la
caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo
arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di
sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia,
liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli
esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno
l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange
criminali più inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella
lotta condotta da Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i
campieri [...]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima
insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento
della repressione Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e
l’efficacia del patto. [...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del
dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato
questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale
non poteva non sentire per il conservatorismo, in cui il fascismo andava
configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è,
nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia
di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica)
nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto
richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più
debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di
una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere
incontrastato e incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente
incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione
all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi
forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo
estrarrre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci
racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può
benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito
critico mancando.)» ( )
Qualche
giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera), sull’onda
della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene
chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla
Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di
incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato
(e si può anche riconoscere che c’è
riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può
condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi
alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a
vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del
consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in
certe pagine di Brancati () la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso
di ragione - e cioè del mafioso antifascista.» ()
In altri
tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che stranamente
emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi del pensiero -
Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandierà”! Questo era lo
stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un
rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non
avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria
anglo-americana. Cos’ americani ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che
pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando
[...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve
diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che
senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse.
S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi
assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e
sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a
Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la
Kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad
oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si
liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più
generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventenniodi
diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era
giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta
ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14
luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il
podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La
popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa,
tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i
distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile
abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una
porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale
americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto
di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una
battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La
festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa
come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri
si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla
pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile
intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano
guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano
corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la
bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva
tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in
quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare
alle insegne della casa del fascio.
Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si
trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in
realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo
dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle
famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico
era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che
aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era
ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un
segno dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri
di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un
inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito
predilessero.» ()
A voler
adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di Racalmuto,
potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa periodizzazione:
1°)
l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di
fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla “favola
(documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°) in loco l’antidoto al socialismo era
costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto “è già
fascismo”;
3°) ma il
fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)° “era
l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che trasmigrano al fascismo
“non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici”. (Si dà il
caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore Burruano,
fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma,
s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, come
si è visto, al fascismo):
5°) ma il
fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex nazionalisti) per più agevolmente patteggiare con gli
agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la costruzione sciasciana
stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero Vizzini, che se ne stava a
Racalmuto per essere gabellotto dell’importante miniera di Gibillini, figura in
consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi puri del fascismo degli
ex-nazionalisti;
6°) degli
ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”; “ne fu
segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura
affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario
della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta
vittorioso l’on. Abisso che ebbe trasformista lo era stato da tempo e che a
seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli
ex-combattenti;
7°) giunto
il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle sue
frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli esercenti
le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed appariscenti”.
Questa fase, invero, risulta così nebulosa per Racalmuto da considerala
inesistente;
8°) inizia
la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore delle masse
nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche elemento di
stridore. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche
quieto racalmutese, che in piazza osasse andare
“cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo
con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di
Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua
folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una
sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°)
l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia
sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il
raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero
letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°)
vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia
perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De
Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°) è un
consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella classe
borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la “carta del lavoro” aveva
dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte
sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere
d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12) è un
consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al luglio
di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e spiega.
La storia
nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda locale prima del
1925.
Quando il
18 ottobre 1914 Benito Mussolini
pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo «Dalla neutralità assoluta
alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio che qualcuno a Racalmuto
ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa visione l’unico socialista
di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il suo fascicolo che la P.S. da
tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La Lotta di classe», «La
Giustizia sociale», di «Riscossa»
e di certi «opuscoli editi dal Comitato
Regionale della Federazione socialista Ligure» .() Per il questore di
Girgenti, il Vella - così annota il 20 ottobre 1913 - «è laureato in legge, ma
la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte pubblicazioni socialiste
lette e ben poco ben assimilate». Fose fra quelle letture c’era l’ «Avanti!»,
ma possiamo essere certi - a prescindere dalle malevoli note del questiore
‘girgentano’ - che non afferrò di certo che la storia d’Italia prendeva in
quell’ottobre 1914 una radicale svolta nella storia dei partiti politici
d’Italia. La successiva velenosa polemica tra il partito socialista e Benito
Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette seguire in quel di Racalmuto.
E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul serio negli schedari politici
del fascismo e ne fu perseguitato ancor più pressantemente di quanto non lo
fosse stato prima dalle questure antisocialiste dei governi liberali.
A noi pare
che la lezione di Ernst Nolte () abbia maggiore vigore di quanto leggesi tra i
detrattori () del fascismo e i suoi coevi esaltatori(): non sembri quindi
ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio dell’opera dello
studioso tedesco. «L’articolo fu in
effetti l’ultimo scritto da Mussolini in veste di direttore dell’ «Avanti!». Il
giorno dopo, il direttorio del partito si riuniva a Bologna, e qui la posizione
di Mussolini non trovava neppure un difensore; e, benché si cercasse di fargli
dei ponti d’oro, dovette immediatamente dimissionare dalla direzione dell’
«Avanti!». Le spiegazioni, che egli ne ha dato all’epoca, permettono di affondare
lo sguardo nei suoi moventi: «Io capirei la nuova neutralità assoluta qualora
avesse il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè di provocare
un’insurrezione; ma questa a priori la scartate, perché sapete di andare
incontro ad un insuccesso. E allora dite francamente che siete contrari alla
guerra ... perché avete paura delle baionette ... Se lo volete, se vi sentite,
io sono alla vostra testa: neutralisti fuori della legalità ... ebbene, bisogna
essere decisi. Ma la neutralità assoluta nella legalità ormai è divenuta
insostenibile.»
«Non viene addotto alcun motivo di natura contenutistica:
qui non si parla di democrazia, delle necessità vitali dell’Italia, dei
territori irredenti; l’impossibilità di una radicale coerenza spinge il
rivoluzionario su una strada, sulla quale avrebbe dovuto procedere assieme ai
suoi avversari più decisi. A quanto sembra, tuttavia Mussolini sperava di
portare dalla sua il partito ovvero cospicue frazioni di esso. Pochi giorni gli
sono sufficienti per togliergli le illusione: il 25 ottobre, Mussolini scrive
all’amico Torquato Nanni «Ho voluto aprire il vicolo cieco nel quale si era
ficcato il partito, ma nell’urto sono caduto»
«Mussolini non era uomo da sottomettersi alla disciplina di
partito; si sarebbe potuto aspettarsi da lui che tacesse o, per lo meno, che
non scrivesse contro il partito, e a quanto pare una premessa del genere è
stata da lui fatta ai compagni della direzione. Ma egli non riuscì a tenersi
chiuso dentro quella che riteneva la sua verità, e nel giro di poche settimane
tra Mussolini e gli antichi amici si scavò un abisso di incomprension,
disprezzo e odio, che mai più sarebbe colmato.
«Pare che alla fine di ottobre, Mussolini abbia concepito
l’idea di crearsi un proprio organo di stampa: già il 15 novembre, apparve il
primo così numero del «Popolo d’Italia. E’ perfettamente comprensibile che i
socialisti annusassero odor di «tradimento», che sospettassero che Mussolini si
fosse «venduto»: sembrava impossibile che un uomo completamente privo di mezzi
potesse, con le sue sole forze e nel giro di pochi giorni, far sorgere dal
nulla un quotidiano. Effettivamente Mussolini, ancora in veste di direttore
dell’ «Avanti!» aveva avuto degli abboccamenti col direttore di un foglio
bolognese, che sapeva organo degli agrari; da costui, egli ebbe, anche in
seguito, un valido appoggio di carattere tecnico-tipografico. Ma da dove
venissero i capitali è, oggi ancora, cosa non sufficientemente chiarita. Si
parlò quasi subito di denaro francese, supposizione che però non si riuscì mai
a provare. L’ipotesi più probabile è che organi governativi si siano assunti il
compito di finanziatori indiretti; numerosi erano infatti i circoli, in Italia,
interessati a un indebolimento del partito socialista. Indubbiamente dunque
Mussolini nel momento in cui si fece dare un giornale, divenne una carta in
mano di qualcuno. Affatto infondata è invece la supposizione che il denaro, il
giornale proprio fossero il motivo per il suo passaggio in campo interventista. Ma proprio questo lasciò
supporre l’ «Avanti!», ponendo, immediatamente dopo l’apparizione del nuovo
giornale, e instancabilmente, la domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche
settimane, l’ex-beniamino del partito era divenuto un «venduto alla borghesia»
e un «transfuga», che meritava «il sacrosanto odio del proletariato italiano».
Allorché, il 24 novembre, Mussolini si presentò alla riunione dei membri della
sezione milanese, chiamati a decidere in merito alla sua espulsione, il suo
discorso fu sommesso da un uragano di ingiurie, fischi e minacce. Il partito
socialista compì un linciaggio morale nei confronti del «traditore»; nessuno
dei fogli socialisti italiani si schierò dalla sua parte, e Mussolini non
riuscì a tirare dalla sua parte neppure una minima frazione del partito. Era la
sua prima sconfitta, e insieme quella che avrebbe avuto le maggiori
conseguenze. Mussolini era solo.»
Da qui «prese le mosse una polemica della massima
violenza e spesso bassamente ostile, nel corso della quale furono poste le basi
per l’interpretazione socialista del fascismo e per l’interpretazione fascista
del socialismo. In ogni caso, la dissociazioneera compiuta. Mussolini era
adesso un generale senza esercito, un credente senza fede. Un piccolo gruppo di
individui, per i quali egli era il «duce», naturalmente gli si raccolse ben
presto attorno. Già nell’ottobre, quando ancora Mussolini lottava con se
stesso, dalle file dei sindacalisti e socialisti si erano costituiti i fasci
interventisti, sotto la guida di Filippo
Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare Rosssi e altri. In dicembre
questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel «fascio d’azione rivoluzionaria»,
la cellula germinale del fascismo. L’unico punto programmatico sostanziale è il
proposito di provocare l’intervento a fianco dell’Intesa; per il resto,
Mussolini pone un postulato non facilmente superabile: «Riaffermare le idealià
socialiste rivedendole a lume della critica sotto l’attuale terribile lezione
dei fatti» [...]».
Ma tra
fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si dovrebbe
essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria storia e questa storia è indissolubilmente connessa
alla biografia di Mussolini» (op. cit.
pag. 226).
Le vicende
richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori di Milano e
Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze nella solatìa
Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina, gli agrari
liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si confondevano e
si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era appetibile:
contadini e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte alla terra ed
alle miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse erano ostili alla
guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore gioventù (la guerra del
1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a 33 dispersi: a scorrerne
i nomi, i figli dei “galantuomini” erano riusciti quasi totalmente a farla
franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo). Quanto agli agrari e ai
titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il diradarsi della mano
d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano d’accordo nel professare il
non interventismo. Eugenio Napoleone Messana propende per una qualche presenza
locale degli interventisi. Se vi fu, fu comunque molto limitata, anche a
credere a quello storico locale, cui
invero accordiamo poca credibilità: tutto si sarebbe limitato a questa
singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva sulla politica italiana e
condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu rappresentato da Vincenzo
Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola suasiva e convincente, il
quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non andarvi e la voce
popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il diabete.» ()
In ogni
caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a Racalmuto solo al
tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci d’azione
rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.
Ben
diverso è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in particolare del primo Fascio di combattimento in data 19
marzo 1919. Un racalmutese il notaio Giuseppe Pedalino di Rosa sarebbe stato
nientemeno che un “sansepolcrista”. Il personaggio, sul quale sono disponibili
alcune fonti che però sono di segno divergente, rassomiglia a quello del Rubè
di A.G. Borgese, anche se qui la storia può dirsi a lieto fine. Nato a Racalmuto
il 3.11.1879, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1901 e si trasferisce a Milano per esercitarvi la
professione di avvocato fino al 1925, e dopo quella di notaio sino. Morì a
Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. E.N. Messana
così ce lo descrive: «Fra i socialisti divenuti interventisti si ricorda il
notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito poi al fascio e divenuto un
sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in vernacolo, un tipo bizzarro, che
amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie d’America» in cui cantò luoghi e
persone di Racalmuto nell’aulico dialetto siciliano. Visse molti anni a Milano
e vi morì». () Salvatore Restivo riscrive, palesemente agiografico, così la
biografia nel giornaletto locale del maggio 1993 () « ... Fin dalla prima
giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia con Giuseppe Lauricella
della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui facevano parte tra gli
altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara.
[ ..] Il 23 marzo 1919 partecipò alla fondazione dei fasci di combattimento, dai quali si allontanò
progressivamente fino ad essere “eliminato per diserzione”. [...] Nel 1934
organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani a cui parteciparono anche Luigi
Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino ebbe, invero, la sventura di una
sorella che andò sposa ad un appartenente alla celebre famiglia di anarchici di
Grotte: i Vella. Il casellario politico centrale registra alla busta 5342 gli
anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.° 6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°)
Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego
(fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il 15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato
(fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il 24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più
celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo (fasc. 17912) nato a Grotte il 2o.4.1893. Non è questa la sede per
accennare, anche brevemente, all’affascinante storia di questa famiglia di
anarchici, socialisti, antifascisti, ma anche in rotta con gli esuli comunisti.
Ai nostri fini, il richiamo al C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta
n.° 5342) ci serve per inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre
1937, le questure d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella
Dante Nunziato. Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono
informazioni . Ecco la risposta: «27
dicembre 1937 - anno XVI. Oggetto: Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta
Pedalino, nato a Racalmuto il 24/3/1908 residente a Lugano ... Prefettura di
Milano ... “comunico che l’avv. Pedalino Giuseppe fu Fedele e di Rosa Maria
Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879 (e non 1895) risiede in questa città dal
paese di origine, ed abita in via Pergolesi n.° 23 con studio in via Monforte
n.° 14.
«Coniugato con Passoni Maria di Emilio e Speranza Rosa nata
a Milano il 29.9.1897 ha una figlia a nome Vitamaria Alfonsina, nata a Milano
il 2.10.1926. Il Pedalino è zio materno del Vella Dante. Il Pedalino risulta di
regolare condotta in genere ed è iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto:
(G. Mangano).» ( )
Fino al
1937, il Pedalino è dunque ancora un “regolare fascista” che può vantare la
prestigiosa tessera dei primordi fascisti. Recante la data dei sansepolcristi.
Certo, fu tessera presa a Milano e Racalmuto c’entra solo per un fatto
anagrafico del Pedalino. Non è da escludere che questi ebbe guai dopo quella
richiesta d’informazioni della polizia poltica del 1937. I due suoi nipoti, per
parte della sorella, Dante Nunziato e Rodolfo Vella, proprio in quell’anno si
erano arruolati nelle “milizie rosse” della guerra di Spagna.
Ma davvero
il Pedalino partecipò a quella adunata
tenuta la sera del 23 marzo 1919, fra le mura di un vecchio palazzo milanese in
Piazza San Sepolcro, donde uscì il primo Fascio
di combattimento? Non va dimenticato che quella fu una adunata che poi si tinse di un’aura veramente leggendaria. () Lo stesso
Mussolini non ricordava più quanti veramente fossero. Una volta parla di cinquantadue che “giurarono che la lotta che avevano intrapresa - quella
sera del 23 marzo 1919 - non poteva finire se non con una trionfale vittoria”,
ed altra volta rettifica in cinquantatre (12 febbraio 1925) () Il Pedalino, in quello
ristretto stuolo, forse non fu mai. Una qualche piccola astuzia (o menzogna),
forse utilizzato al tempo del concorso a notaio. Era un avventuroso siciliano,
dopo tutto! Quei nipoti, della III Internazionale, finiti nelle milizie rosse
di Spagna ebbero fose a guastargli quella vantata primogenitura politica.
Ma il
Pedalino - a conferma della validità di certe valutazioni storiche - potè
aderire all’adunata di San Silvestro per lo sfumato socialismo che si
riverberava. Le sue origini socialiste ed anarchiche racalmutesi poterono
spingerlo in tal senso. Con il Nolte () bisogna ammettere che, fondato il 23 marzo
1919 a Milano, nel corso di una non mumerosa assemblea, in massima parte da
ex-inyterventisti di sinistra, vuole
essere inteso come l’inizio di un socialismo nazionale, primo germe della
socialdemocrazia ..». E questa tendenza mussoliniana verso un blando socialismo
- a mo’ di richiamo delle origini - gli storici la rinvengono puntualmente in
varie contingenze, almeno sino al congresso di Roma del 1921. () Non è questa
la sede per trattare tale atteggiamento mussoliniano. Vi si inseriscono i
travagli della sconfitta elettorale del 1919; l’autunno violento del 1920;
l’intrigo con la borghesia agraria emiliana; l’insuccesso dell’astuta manovra
di coinvolgimento di Giolitti; la resurrezione elettorale del maggio 1921
(elezioni volute - e perse - da Giolitti); l’accordo firmato con i socialisti
il 3 agosto 1921; la retromercia innestata al congresso di Roma (7-10 novembre
1921); la trasformazione in partito del “movimento fascista”; la professione
mussoliniana della “tendenza repubblica”, etc. Dalla sera di San Silvestro del
23 marzo 1919 all’abbraccio con Dino Grandi nel novembre del 1921 la storia
italiana ha le sue stigmate fasciste e la vicenda mussoliniana con collima del
tutto con quella del fascismo. Eppure tutto questo sembra, per la Sicilia, ed
ancor più per Racalmuto, avvenire in un alienissimo mondo, persino totalmente
ignorato. Annota il Nolte (pag. 288):«.. le regioni meridionali (salvo la
Puglia) e le isole non ne sapevano praticamente nulla fino a poco prima della
marcia su Roma.»
Ma che
tipo di partito venne fuori dal Congresso dell’Augusteo del novembre 1921? A
questa domanda tenta di rispondere il Ragionieri (). «Non era poi un partito
troppo differente dagli altri partiti di massa», afferma lo storico di sinistra
e continua: «La sua caratteristica più originale era in foldo rappresentata dal fatto che esso era dotato
di un’organizzazione paramilitare [ma trasformatasi nella Milizia solo nel
1923]»; ma era un partito «completamente diverso dalle organizzazioni della
borghesia italiana»; in esso «la prevalenza anche quantitativa degli strati
della borghesia indica già il processo in atto di ricomposizione di un blocco
di forze piccolo e medio borghesi sotto la direzione dei gruppi superiori degli
indusrtiali e degli agrari»; «figlio dei tempi nuovi portati dal conflitto
mondiale, il fascismo poteva trovare nella massiccia presenza dei giovanissimi
nelle sue file una solida garanzia per l’avvenire».
Sarà stato
per la mancanza di quei “gruppi superiori degli industriali”; sarà stato per la
presenza della mafia (stando al quasi sillogismo sciasciano), fatto sta che
neppure sotto la nuova forma di partito il fascismo riesce a diffondersi in
Sicilia - tra il 1921 ed il 1922 - e men che meno a Racalmuto (ove peraltro
mancava un vero e proprio latifondo perché si ptesse parlare di agrari nel
senso del ragionieri, in senso cioè di classe borghese con una propria
coscienza di ceto egemone).
Nell’agosto
del 1922 - con il fallimento dello sciopero dei giorni 1-3 voluto dal PSI e
dalla CGDL - si registra la definitiva sconfitta del socialismo italiano e si
apre il viatico per l’avvento di Mussolini al potere (con il suo viaggio a Roma
in vagone letto nella notte del 29 ottobre, dopo la Marcia su Roma).
Nulla
troviamo che in qualche modo comprovi la minima percezione in quel di Racalmuto
che la storia era cambiata, che il cosiddetto stato liberale era spirato, che i
padrini della Democrazia Sociale (Guarino Amella a livello strettamente locale,
di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò per un referente a respiro unpò più vasto, regionale) erano
avviati verso uno scialbo tramonto.
Racalmuto, invero, era troppo in periferia,
persino rispetto alla storia siciliana, per avere acume di analisi e
lungimiranza d’orizzonte. Quel che sorprende che in quel biennio cruciale per
la storia nazionale anche filosofi alla Croce, o raffinati giornalisti alla
Albertini, o, in particolare, economistti già celebre alla Einaudi non
riuscissero a vedere molto lontano, quanto al fascismo che esplodeva sotto i
loro occhi. Sorprende, ad esempio, la miopia di Luigi Einaudi. Sfogliando le
sue Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), lo vediamo
impegnato nel gennaio 1921 in una retriva polemica con i socialisti sull’
«ostruzionismo del pane». Scriveva che «il
primo atto concreto dei socialisti unitari e concentrazionisti è stata la
deliberazione di intensificare alla camera l’ostruzionismo contro il progetto
sul pane. Era facile prevedere che la scisssione tra socialisti e comunisti
avrebbe istigato ambedue le frazioni ad una lotta acerba di concorrenza non per
fare il bene, ma per dimostrarsi ognuna di esse più accesa, più rossa, più
avanzata.» () Sull’argomento tornava con l’articolo dell’11 febbraio “Alla
ricerca di una formula definitiva per risolvere il problema del pane” (op. cit. pag. 40 e segg.) e con quello
del 24 febbraio “ed ora all’opera!” (op.
cit. pag. 44 e segg.). Colpisce il linguaggio insolitamente pugnace contro
i socialisti, anche blandi, del suo intervento giornalistico del 13 aprile
1921 (op. cit. pag. 111 e segg.): «Bisogna
avere - scrive a pag. 112 - il coraggio di dire che siffatto latte e miele è
pernicioso. Costoro, che dopo così recenti esperienze socialistiche dichiarano
ancora che tutto il mondo è socialista, sono gente senza idee, o sono semplici
procacciatori di voti. Bisogna escluderli dall’onore di fare parte del blocco
anticomunista. Non si può combattere il comunismo es eddere disposti ad ogni
sorta di socializzazioni, statizzazioni, controlli e simiglianti pesti. Coloro,
i quali hanno paura di essere detti “nemici del popolo o del proletariato” e
son pronti ad ogni sciocchezza, si dichiarino apertamente socialisti.
Provvederanno meglio alla propria dignità e coerenza. Noi non abbiamo bisogno
di noverare nelle nostre file siffatti amici del popolo. I quali, alla pari e
forse peggio dei comunisti, ne sono i veri nemici.» In una parola occorreva essere solo
«liberali» (op. cit. pag. 118 e segg.
Articolo del 17 aprile 1921); cioè «L’unica
nota veramente distintiva del blocco anticomunista è sempre quella di
“liberale”. Questa sì è una qualità che né socialisti né comunisti possono far
propria. Liberalismo e socialismo sono due concetti contraddittori. Lungo tutti
i secoli della storia sempre il concetto della libertà fu in guerra aperta con
concetto della tirannia - e socialismo e comunismo altro non sono che
asservimento completo dell’uomo alla collettività [ ....]». L’astuzia di
Giolitti che quelle premature elezioni del 1921 volle finì male, come ben si sa
per doverla qui commentare. Quel blocco “liberale” apriva irrimediabilmente la
porta al fascismo della dittatura. Proprio quella dittatura che l’Einaudi non
voleva (op. cit. pag. 766 e segg.).
Ma siamo già all’8agosto 1922. Troppo tardi.
Cert, a
questo punto Einaudi è in grado di fornire una perspicua fotografia dei tempi,
anche se ancora scarsamente previggente. Val la pena di riprodurla per ampi
stralci.
«Lo
spettacolo di incapacità offerto dal parlamento e dal governo, le agitazioni
continue, la guerriglia civile fra partiti ed organizzazioni armate hanno
avuto, fra gli altri disgraziati effetti, quello di aver reso popolare in una
parte notevole dell’opinione pubblica una parola: “dittatura”. Si parla da
molti oggi dittatura come della sola via di salvezza dal disordine e dalla
crisi profonda che attraversiamo. Gli uominiai mali di cui soffrono vogliono
trovare un rimedio semplice, preciso, definitivo. Il governo dei molti, il
governo dei partiti, il governo dei chiacchieroni e degli ambiziosi di
Montecitorio appare una cosa talmente disgustevole, vana, impotente che a poco
a poco l’idea della dittatura ha finito per perdere quella nebbia di terrore e
di tirannia da cui era circondata. Si crede che l’uomo forte, che l’uomo sapiente
saprà trarre il paese dall’orlo della rovina. Mettiamo al posto di quindici
ministri provenienti da parti politiche opposte, neutralizzandosi gli uni gli
altri, alla mercè continua di un voto politico incerto, impotenti a concepire
qualunque piano d’avvenire e più ad attuarlo, costretti a render favori agli
elettori ed agli eletti per trascinare innanzi la loro vita quotidiana;
mettiamo al posto di questa parvenza di governo un uomo solo, fornito di poteri
illimitatiper un tempo limitato, il quale possa e sappia porsi una meta, il
quale sia libero di scegliere a suoi collaboratori i migliori tecnici nei vari
rami di governo e noi saremo in grado di arrestarci sulla china spaventevole
lungo la quale precipitiamo verso l’anarchia.
«Contro
questa tesi non non torniamo a citare la vecchia sentenza di Cavour: la
peggiore delle camere essere preferibile alla migliore delel anticamere:; noi
non diremo ancora una volta che la dittatura è il rimedio degli impotenti e
degli incapaci. Noi non ricorderemo che l’esperienza contemporanea è tutta
contraria ai governi addoluti e dittatoriali [..]
«Lasciamo
pure da parte le massime dettate dall’esperienza ed i precedenti e gli esempi
stranieri. Chiediamoci soltanto: dove sono gli uomini capaci di essere i
dittatori dell’Italia contemporanea? Per quale ragione non si sono fatti
innanzi così da accogliere intorno a sé il consenso dell’opinione pubblica?
Degli uomini chiamati negli ultimi tempi
a capo della politica italiana alcuni sono a mala pena considerati degni di essere
presidenti costituzionali di un consiglio; intorno a nessuno di essi esiste
tale favore di pubblico, non diciamo parlamentare, da farli ritenere capaci di
governare il paese con poteri dittatoriali. Possibile che, se esistesse, l’uomo
superiore, il Napoleone, poiché a questo si pensa quando si parla di un
dittatore capace di salvare il paese, non si sarebbe fatto in qualche modo
conoscere? E se c’è, ma non è conosciuto come tale, quale probabilità vi è che
egli e non altro sia scelto?
«
[..] Ridotta alla sua semplice espressione, la dittatura è una qualche cosa che
noi conosciamo molto bene, di cui abbiamo parlato molto male fino a ieri: è il
governo per mezzo di decreti-legge.
« [ ...]
«
[ ...] Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi insustriali
disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale. Essi non
potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori. Chi può
immaginare quali stravaganze è capace di compiere un giovane audace e fidente
in sé, un uomo d’azione, un industriale abituato a decidersi rapidamente da
solo, quando si troverà dinanzi a problemi complessi e terribili come il
disavanzo, le imposte, il cambio, il latifondo, la giustizia? L’impulso primo
che viene dagli audaci è di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso il
giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai
direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10
lire e così via. [...]
«La
verità è che la capacità e la pratica di governo non sono innate e non si
acquistano facendo grandi cose negli altri campi dell’attività umana. Orator fit; così l’uomo di governo si fa governando gli uomini, discutendo con
gli avversar, cercando di convincerli del loro errore e rimanendo anche
persuaso dagli avversari della necessità di mutare parzialmente la propria
strada. [...]
«Insistiamo
oggi su queste considerazioni fondamentali perché le vicende di questi giorni
hanno avuto per effetto, come si diceva in principio, di render popolare presso
una parte del pubblico l’idea di forme più o meno larvate di governo
autocratico, e da molte parti si è parlato di spedizioni fasciste su Roma per
prendere possesso del potere, di colpi di stato, di dittature o di direttori
nazionali, e via dicendo. Lo stesso direttorio del partito fascista si è
affrettato a smentire una parte di queste chiacchiere, il che non impedirà che
certe fantasie continuino a correre basandosi sui «si dice» immancabili nei
momenti agitati come questo, e sulla riserva fatta dall’on. Mussolini durante
l’ultimo discorso alla camera circa la scelta che il partito fascista si
riservava di fare fra la legalità e l’insurrezione.
«Ora
noi non vogliamo ammattere neppure per un momento che le voci correnti possano
corrispondere a reali propositi e che propositi di tal genere possano trovare
il consenso di coloro che hanno la responsabilità del movimento fascista.
«Oggi
i fascisti hanno ragione di credersi sorretti dalla pubblica opinione; hanno
probabilmente ragione di credere che la loro rappresentanza parlamentare è
assai inferiore al consenso che essi riscuotono nel paese. Appunto per ciò essi
non hanno nessun interesse ad imporre agli altri le loro opinioni con l’ordine
secco e perentorio, con la facile arma della dittatura. Attraverso alla
discusssione ed alle vie legali essi possono ottenere tutto. Un parlamento di
neutralisti diede durante la guerra il voto a Salandra ed a gabinetti di
guerra, perché esso sentiva che l’opinione pubblica era per la guerra. Domani,
il parlamento attuale darà il proprio voto ad un gabinetto in cui entri come
uomo rappresentativo il leader del fascismo ed in cui qualche altro fascista
sia a capo di dicasteri importanti ed il fascismo impronti di se stesso e dei
suoi ideali l’azione intiera del governo. Il paese è ora favorevole ai fascisti
perché essi hanno dato il colpo decisivo che lo ha salvato dalla follia e dalla
tirannia bolscevica. Ed è pronto a consentire ad essi per le vie legali
l’ascesa al potere quando essi dimostrino di essere atti ad esercitarlo. Sinora
sappiamo che essi hanno fervore d’azione, che essi amano intensamente la
nazione, che essi la vogliono salva dalle malattie distruttive; che essi
vogliono ridare a tutti i cittadini la libertà di vivere e di agire e di
pensare, fuori della mortificante cappa di piombo della tirannia socialista.
Per quanto essi hanno fatto per ridare tonalità al paese, per trarlofuori dal
brutto materialismo ventraiolo denigratore della guerra combattuta, della
vittoria ottenuta, dei valori spirituali della nostra stirpe, tutti siamo loro
grati.
«Ora
si aprono ad essi le porte del potere, le vie dell’azione immediata e diretta.
Non più lotta per vincere, ma traduzione in atto dei principii per cui si è
vinto. Due vie si aprono a loro dinanzi: quella rapida della dittatura, via
brillante, senza avversari costretti alla fuga, senza critiche dei giornali,
soggetti a censura, con uomini fidi di governo, dotati di poteri illimitati; e
quella noiosa, fastidiosa, minuta della legalità costituzionale, dinanzi ad un
parlamento di scettici e di ambiziosi, attraverso le lungaggini della procedura
parlamentare, e sotto al maligno vaglio di giornali avversari ed infidi.
«Ma
la prima via, così attraente e promettente, conduce fatalmente alla tirannia ed
alla rovina del paese. Con un re devolto al suo giuramento di fedeltà alla
costituzione come è Vittorio Emanuele III, essa vuol dire proclamazione della
Repubblica; vuol dire l’inizio di un periodo convulsionario di sperimenti
politici, di contrasto fra le varie tendenze aristocratiche e demagogiche a cui
una nuova costituzione repubblicana potrà essere informata; vuol dire necessità
di giustificare ‘razionalmente’ i nuovi sistemi costituzionali; vuol dire
oscillare tra un governo di generali, un consiglio dei dieci aristocratico od
un consiglio di commissari socialisti. A che scopo, quando non si vedono i
generali ed i geni capaci di governare dittatorialmente e quando i nostri
comunisti sono goffe imitazioni di quei Lenin che, nonostante il loro
fanatismo, trassero la Russia alla morte?
«Quanto
più gloriosa e feconda, agli occhi degli uomini amanti del paese, è la seconda
viadel rispetto alla costituzioneed alla legalità! La costituzione e la
monarchia valgono non per sé, ma come incarnazione di tre quarti di secolo di
vita nazionale e di un millennio di sforzi verso l’egemonia e la formazione di
uno stato unitario nella penisola italiana. In quest’ora decisiva, tutti coloro
i quali attribuiscono un pregio ai valori spirituali, alla tradizione, alla
continuità della storia nazionale, tutti coloro i quali sentono che in politica
le creazioni nuove non hanno probabilità di vita, ma che ogni più audace novità
può essere innestata nel vecchio tronco e suggere dalla linfa di questo una
vita assai più vigorosa e lunga di quanta possa derivare dall’improvvisazione
di dittature incapaci, devono contrastare l’avvento della dittatura! [..]»
Einaudi
raggiunse quei livelli di «gratitudine» alle lotte politiche dei fascisti - se
essa fu sincera e non strumentale al suo regionamento - molto tardi, alla
vigilia della “marcia su Roma”. Prima aveva sottovalutato il fenomeno fascista.
In quel biennio, rarissimamente aveva accennato al fascismo sulle colonne del
Corriere della Sera. Il 14 gennaio 1922, polemizzando con i socialisti, aveva
accordato loro «causa vinta» «contro ai
casi singoli di violazione dei diritti degli operai, verificatisi
sporadicamente ad opera di qualche nucleo fascista.» A parte il lungo articolo
citato, sembra - a scorrere le cronache einaudiane di quel torno di tempo - che
non esista una questione fascista. L’articolo «per lo stato» del 4 novembre
1922 (op.cit. pag. 926 e segg.), con tutta la sua dose di supponenza, con
il suo tono arrogantemente monitorio, sbuca fuori inopinato, arcano,
inspegabile che non si sapesse aliunde
della capitolazione del re di fronte agli ultimatum
di Mussolini del 28 ottobre. (). Ottusità della pur colta alta borghesia o
miopia politica di un economista? Sottovalutazione di un fenomeno di massa o
marginalità effettiva della realtà politica del partito fascista, prima della
scelta di Vittorio Emanuele III, improvvisa e sollecitata da gruppi di
pressione (borghesia agraria, corpi militari dello stato, etc.)? Domande cui
non è dato qui dare ponderate risposte, se non altro per economia di lavoro. Un
approccio alla storia del fascismo di tal fatta non pare, però, che sinora sia
stato mai tentata. Quel che anoi preme qui rimarcare è che se ad un osservatore
del calibro di Einaudi sfuggiva l’importanza del fascismo ante-marcia, ben speigabile è che - come avverte Nolte - nelle
plaghe sperdute di Sicilia (e noi appuntiamo il nostro osservatorio su quelle
di Racalmuto) non venisse neppure percepita.
Attorno al
1922, a Racalmuto premeva in sommo grado la questione della crisi finanziaria
del settore zolfifero.
Nel
settembre del 1922 una commissione degli
esercenti le miniere di zolfo della Sicilia si era recata a Roma per premere al
fine di ottenere un decreto-legge autorizzante l’emissione di obbligazioni per
120 milioni di lire garantite dallo stato. Vagava tra la camera ed il senato un
disegno di legge in tal senso. A dire il vero la camera l’aveva approvato, ma
il senato ancora no, per via della crisi ministeriale. Si cercava, con il
decreto-legge, di ovviare al pericolo che la legge naufragasse in quel bailamme
parlamentare. Pronubo il sottosegretario Lo Piano.
La crisi
zolfifera era allo stremo. La concorrenza degli Stati Uniti era stata
micidiale. Solo che con la guerra, si era estratto zolfo a prezzi politici. Si
era costituito il «consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana» al quale il produttore
era obbligato di consegnare il minerale
estratto. Il consorzio, aveva accumulato uno stock di zolfo invenduto. Al 30
aprile del 1922 erano giacenti nei magazzini consortili 270.000 tonnellate di
zolfo. Su tale quantitativo le banche avevano anticipato 85 milioni di lire e
si rifiutavano di accordare altre anticipazioni sullo zolfo che frattanto si
era continuato a produrre. Si profilava un blocco nella produzione dello zolfo.
Gli industriali chiedavo di togliere - con l’emissione obbligazionaria - di
togliere lo stock dalla circolazione e di rendere quindi possibile la immediata
vendita della nuova produzione. ()
Einaudi
era sferzante ed irriducibile: «Chi ha stock da vendere, - rintuzzava (pag.
887) - si arrangi. Può darsi che il
modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo stock, facendo un’operazione
con istituti bancari, nella speranza di poterlo vendere in tempi migliori. E’
accaduto parecchie volte che l’operazione è riuscita bene. Riuscirà tanto
meglio, quanto meno lo stato ci ficcherà dentro il naso. [...] Ma - si obietta - il consorzio fu creato dallo
stato; i prezzi li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi il
governo o mantenga le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci chiaro. A
chi vuol dare ad intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola che il
governo osi sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il consorzio
rimarrà finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali solfatai
siciliani. Essi lo hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia non ci
ha messo bocca e non osa metterci bocca,
per timore di far cosa spiacevole ai siciliani. E’ uno di quei casi di leggi,
in cui deputati e senatori delle altre regioni hanno ritegno di parlare,
temendo, se parlano contro, di suscitare delicate recriminazioni regionali.
Tutta la responsabilità del cosiddetto ‘governo’ è qui: nel non avere osato, se
aveva un’opinione contraria al consorzio, di farla valere per timore di dire o di
fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi si persuadono, e sarebbe
tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua esistenza nuoce alla
Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo dicano chiaro e netto; e
lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento disposti a mandare a carte
quarantotto un esperimento tollerato solo per reverenza al volere che sembrava
unanime di quella grande e patriottica e nobile regione.»
Quel
numero del Corriere della Sera sarà
arrivato a Racalmuto e letto dagli interessati. Einaudi era anche senatore.
Sarà stato considerato alla stregua del nostro Bossi. Negli ambienti degli
esercenti sarà corso un brivido; forse una fibrillazione. Intanto saliva al
potere quel Mussolini di cui si era appena sentito dire. A lui si guardò certo
con acuto interesse in quel di Racalmuto, più in speranzosa attesa che con
timore politico. Il «liberismo» di Einaudi non era proprio un’appetibile scelta
politica!
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