PARTE SECONDA
L’AFFERMAZIONE
DEL FASCISMO A RACALMUTO
Il QUINQUENNIO 1926-1931
L’antifascismo
a Racalmuto.
I
paradigmi della società contadina meridionale quali si colgono nella
letteratura antifascita di Levi (Cristo si è fermato ad Eboli) o di Ignazio
Silone (Fontamara) non trovano riscontri significativi nella vicenda
racalmutese che pure si dispiega tutta in un contesto di contadini e di piccoli
proprietari terrieri. Quel che emerge maggiormente è il
diverso livello di vita ed il più variegato assetto sociale.
Ci
pare esplicativa, invece, del modo di pensare dell’intera comunità nazionale
questa pagina de IL CONFORMISTA di Alberto Moravia, espunta ovviamente delle
particolarità narrative. Era sorta a Racalmuto, come altrove, una sorta di
“simmetria” tra il modo di pensare del singolo ed il fascismo divenuto regime:
«come qualcuno che, arredando la propria casa, si preoccupi di collocarvi
mobili tutti dellom stesso stile.» «Questa simmetria, [ad ognuno] pareva di
leggerla nei fatti degli ultimi anni, in progressivo accrescimento di chiarezza
e di importanza [..] Questo progresso [..] piaceva, non [si] sapeva perché,
forse perché era facile ravvisarvi una logica più che umana e saperla ravvisare
dava un senso di sicurezza e di infallibilità. [..] Questa convinzione era
venuta dal nulla, come è da credersi che
venga alla gente ignorante e comune; dall’aria, insomma, come si intende quando
si dice che un’idea è nell’aria. [..] Per simpatia, insomma, dando a questa
parola un senso tutto irriflesso, alogico, irrazionale. Una simpatia che si poteva dire soltanto per metafora che
veniva dall’aria [..] Questa simpatia, dunque, veniva da zone più profonde [..]
non era né superficiale, né abborracciata irrazionalmente e volontariaemnte con
ragioni e motivi opinabili, ma legata ad una condizione istintiva e quasi fisiologica, ad una fede,
insomma, che [si] condivideva con altri milioni di persone. [Si] faceva tutta
una cosa sola con la società e il popolo in cui [ci] si trovava a vivere. [..]
[Si] era uno di loro, un fratello, un cittadino, un camerata..»a
Massimo
Ganci - un uomo di sinistra e quindi piuttosto prevenuto nei confonti del
fascismo - non ha molto da dire sul periodo che a noi interessa e nella sua
“Sicilia contemporanea” affidata alla ponderosa inziativa del 1979 della
Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, si limita ad annotare:
«Dopo le elezioni e la vittoria fascista del
‘24, il quadro cambierà completamente: l’appoggio della mafia diverrà, infatti,
deliqualificante e inutle. A mantenere l’ordine nelle campagne e ad
accattivarsi i grandi terrieri, non era più necessaria l”onorata società”;
poteva farlo, e molto meglio, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
Anzi, per accattivarsi ancora di più il ceto dei latifondisti ed anche quello dei
piccoli e medi proprietari, bisognava liberare le campagne dei gabelloti
mafiosi che impedivano ai signori addirittura il libero accesso alle loro terre
e taglieggiavano i metateri e i braccianti.
«Di qui l’operazione Mori, che con sistemi ‘forti’, dal 1920
al 1930, realizzò, nelle quattroprovince dell’isola, una spetata ‘operazione
antimafia’; con paesi interi circondati nottetempo da migliaia di carabinieri,
con retate gigantesche, con processoni celebrati in chiese sconsacrate, dato
che le normali aule della Corte d’Assise
non riuscivano a contenere le migliaia di imputati di associazione a
delinquere; il tutto con criteri procedurali piuttosto sbrigativi, che
portavano a pesantissime condanne, cui seguiva il confino. I tempi
dell’assoluzione per insufficienza di prove, erano tramontati.
«[..] E’ [però] certo che dal 1930 sino al 1943, la
tranquillità regnò nella campagna siciliana: per i ricchi, ma anche per i
poveri. Di guisa che, se la parola libertà ha un significato concreto e non
formale e significa anche sicurezza della vita e degli averi, paradossalmente
si deve giungere alla concertante presa d’atto che questo tipo di libertà venne
assicurato alle genti siciliane, proprio da una dittatura!
«[..] L’opposizione siciliana al fascismo, durante gli anni
1925-1943 è in gran parte simile a quella di tutta la nazione. Se qualcosa la
distinse fu l’impegno minore di quello che caratterizzò altre regioni. Come non
era stata all’avanguardia nel favorire l’avvento del fascismo, la Sicilia non
lo fu neppure per contestarlo.
«Comunque qualcosa ci fu. Negli anni sino al 25 il dissenso
passò attraverso i canali della stampa. Si distinsero per decisione il ‘Babbio’
di Maggiore Di Chiara, il ‘Paff Paff’ di tendenze radicaleggianti, ‘La libertà’
organo dei popolari sturziani (‘La Primavera Cattolica, organo dell’Azione
Cattolica siciliana, era invece su posizioni fasciste), tutti stampati a
Palermo.» ()
Restringendo
il campo a Racalmuto, l’antifascismo nel periodo che c’interessa (1926-1931) fu
ben poca cosa: può dirsi inesistente. La letteratura ci fornisce qualche lume.
Il solito grande Sciascia ha nelle sue “Parrocchie di Regalpetra” questi
deliziosi aneddoti:
«Mio padre si era iscritto al fascio per
lavorare: 3 ma credeva in
Mussolini anche se non credeva nel fascismo. Un fratello di mio padre non si
preoccupava di queste cose; faceva il sarto e aveva per la caccia una
passionecosì totale da trascurare qualsiasi altra cosa. [...] Le poche volte
che nelle riunioni della sartoria cadeva su Mussolini mio zio diceva - è un
diavolo - per dire che si sapeva fare; oppure per dire che era un delinquente -
è un gran cornuta - ma sempre senza passione. Una volta aveva un lavorante
milite, voleva andarsene a non so che campeggio, mio zio non voleva perché si
era sotto le feste e c’era molto lavoro. Quello andò a dirlo al centurione, il
centurione fece chiamare mio zio, gli disse che doveva lasciar libero il lavorante e poi riprenderlo. se no
erano guai. Forse da allora mio zio ebbe sul fascismo più appassionata
opinione.
«Qualche volta veniva un altro cugino di mio padre. Era
ricco. Aveva una voce che faceva tremare i vetri. Oggi è fascista. Allora
gridava - ve lo dico io, questo cornuto ci porterà alla rovina. Pensava alle
tasse che pagava e diceva - vedrete che ci lascerà nudi, finirà che ci
resteranno solo le mani per coprirci il culo. Raccontava poi una storia che
solo più tardi sono riuscito a ricostruire. Aveva dato la lira per il monumento
a Matteotti e quando più tardi aveva fatto domanda per essere ammesso al fascio,
il segretario politico gli aveva detto che il partito non voleva carogne, che
gli elenchi di coloro che avevano dato la lira erano nelle sue mani. La cosa
colpì; ci si arrovellava. Finché trovò una soluzione: c’era un suo parente
povero che aveva cognome e nome uguale al suo; grazie a qualche centinaio di
lire gli fece dichiarare, per iscritto e in presenza del segretario politico,
che era stato lui, il povero, a dare la lira per Matteotti. Il povero non aveva
niente da perdere, magari ad andare in galera gli pareva forse uno scialo in
confronto alla vita che faceva.
«Tranne che per qualche piccola invettiva, del fascismo e di
Mussolini non sentivo parlare che bene [..] Sapevo che c’erano dei sovversivi,
gente che non lovoleva: sentivo parlare di un muratore e di un sellaio, erano
socialisti, li mettevano dentro per due o tre giorni e poi li rilasciavano.
Passò Farinacci, e il muratore e il sellaio se ne stettero un paio di giorni in
camera di sicurezza. Re Boris venne per sposare Giovanna, avevo una cartolina
con i due ritratti uniti da un nodo, e i due furono rinchiusi di nuovo. Una
volta sentii che avevano messo una bomba al passaggio del re. Poi avevano preso
un tale che aveva intenzione di ammazzare Mussolini. Erano cose che mi
scuotevano. Odiavo la gente che metteva bombe per il passaggio del re, l’uomo
che si portava dietro le bombe per ammazzare Mussolini. E mi pareva strano che
non cacciassero per sempre in galera un tipo che sapevo diceva male di
Mussolini. Si chiamava Celestino. Dicevano che era stato un debosciato, che non
aveva mai lavorato. Era poverissimo, dormiva in uno di quei casottiche un tempo
servivano da posti di dazio; sulla paglia, e con la porta sempre aperta. Non
aveva camicia, portava solo un vecchio fazzoletto di seta sotto la giacca.
Magrissimo, d’inverno vedevi le sue gambe fragili tremare di freddo dentro i
leggeri calzoni a tubo. Sempre strozzato dalla voglia di fumare, andava in
cerca di cicche più che di pane. Nella banda municipale, un tempo suonava il
clarino: e sempre aveva dentro musica, andava fischiettando e agitava a ritmo
una bacchetta che non lasciava mai. Lo vedevo scendere ogni mattina, sapevo
quale sarebbe stata la sua prima sosta. Era come un rito. C’era nella strada
dove io abitavo, un negoziante di stoffe che teneva appesi sugli scaffali
ritratti del re, della regina e del duce. C’era anche un Cuore di Gesù col
lumino sempre acceso. Il negoziante non amava il fascismo, diceva che Mussolini
faceva danno come un porco in una vigna; perciò tollerava la quotidiana visita
di Celestino. Il quale si fermava sulla soglia, salutava - bacio le mani, don
Cosimo - e poi, guardando il ritratto di Mussolini, diceva - sì, corri pure; ma
verrà il giorno che ti vedrò attavvato alla coda di un cavallo. Guardava il re
- e tu, cornuto...; e sputava. Dopo una irripetibile attenzione al Cuore di
Gesù riprendeva la sua strada fischiettando.
«Non lo mandavano in galera perché sapevano gli avrebbero
fatto piacere. Ma una volta un fascista tentò di convincerlo. Parlava e gli
dava da fumare. Celestino succhiava avido la sigaretta, e aveva una faccia così
intensa e seria che quello credette di aver fatto colpo. Finì il discorso e -
sei convinto? Celestino consumò la sigaretta fino a bruciarsi le labbra; e poi
- convinto sono, ma il fatto è che se non lo ammazzano non riusciremo a vedere
un po’ di luce.
«Si fece il referendum per vedere, dicevano, chi voleva il
fascismo e chi no. Si votava nelle scuole. Nel paese non ci fu un solo no. Del
resto, l’ultima amministrazione comunale democratica aveva deliberato di dare a
Mussolini la cittadinanza onoraria: non sarebbe stato bello dire no a un
concittadino tanto grande. Così tutti trovarono il veterinario comunale che dal
seggio graziosamente porgeva la scheda con un sì in calligrafia. Non restava che
da leccare la colla, chiudere la scheda e ridarla al veterinario. Uno solo, un
ex maresciallo delle guardie regie, guastò la giornata al veterinario:
sbirciando la scheda con quel sì gliela lasciò in mano, disse - prego, ci sputi
lei. E se ne andò tranquillamente. Volevano poi farlo mandare al confino. La
frase restò proverbiale in paese, si dice - ci sputi lei - per dire di una cosa
che, dichiarata facoltativa, è di fatto obbligatoria.»(4)
«L’ex podestà di Regalpetra [..] godeva di una effettiva
popolarità, era stato generoso ed onesto, amministrando il Comune ci aveva
rimesso del suo; in tempi di proverbiale rapacità, quest’uomo metteva mano ai
suoi soldi per le pubbliche spese, forse nemmeno Mussolini lo avrebbe creduto.» (5)
Oltre a
Sciascia, Racalmuto vanta un altro romanziere. E’ per la verità un
italo-americano. In un romanzo del 1973 (pubblicato in Italia nel 1976 da
Mursia) fa la parodia ad un libro autobiografico (invero illeggibile) di un
prete racalmutese, morto a Palermo il 17 gennaio del 1974 (P. Arrigo Giovanni:
Svolta pericolosa, Messina 1969) e vi ingurgita una sua dileggiante raffigurazione dello scrittore Sciascia. Il
libro s’intitola “Uomini d’onore - li curnuti”. In un certo senso, si scorre la
lettura deformante della vita racalmutese dal fascismo alla democrazia
cristiana degli anni ‘60. La vicenda fascista racalmutese viene abbozzata, sia
pure con la lente deformante dell’albagia siculo-americano, in termini che
vanno qui richiamati, magari per provare quello che sicuramente il fascismo non
fu.
«Giufà provò un senso di sollievo e di
orgoglio durante il regime del Duce, che diede una nuova realtà alla legge e
all’ordine. Le case di campagna erano sicure, ora, e le liti venivano composte
in tribunale. Si poteva rimanere in campagna durante la notte e se gli
agricoltori tornavano ancora ogni sera nella cittadina, ciò accadeva perché
erano soliti fare così, diceva Giufà. Se furti, rapimenti assassinii avvenivano
come in passato, essi erano posti a carico, ora, di un misterioso bandito che si
celava nelle numerose basse gallerie delle miniere già fallite e inattive. Ciò
nonostante, si riteneva che il regime del Duce avesse estirpato dal suolo
siciliano le radici di quel cancro ‘che definiva se stesso onorata società’; se
ne era così certi come si era certi che esso avrebbe recato onore, potenza e
gloria a tutta l’Italia, e fose anche alla Sicilia. [...]
«Ma non ci volle molto perché gran parte di quei giovani
fossero levati dalle strade e arruolati nell’esercito, a causa dell’andamento
della guerra. Anche Giufà fu arruolato nella milizia, inizialmente come
cappellano, per diventare poi centurione dei cappellani; ed ebbe una bella
uniforme, con tre galloni dorati, e un berretto ricamato d’oro e d’argento,
alto dieci centimetri, con un’aquila romana che stringeva tra gli artigli - se
la siguardava attentamente - una croce. Era stato lui a chiede di esservi
arruolato . Aveva previsto, come avrebbe poi scritto, ‘la grande trasformazione
che si sarebbe verificata nella nostra piccola dimenticata città e che il
sangue dell’antica stirpe di Roma si sarebbe fatto sentire ancora una volta’.
Gli scolaretti, in camicia nera e berretto con nappina, erano arruolati in
eserciti da burla, e armati di un fucile di legno facevano, ogni Giovedì, sotto
la guida di un insegnante di nuova nomina venuto dagli Abruzzi, delle marce in
campagna. Qui tagliavano foglie di cacto in lunghe strisce che legavano insieme
con piccole cinghie di cuoio, poi vi mettevano sopra, alta in mezzo, la testa
di un’ascia per indicare l’unità, la legge e l’ordine: la severa umanità di
coloro che indossavano la camicia nera. Tornavano poi nel tardo pomeriggio, cantando lodi alla
giovinezza e al Duce, il cui viso era dipinto ora sui muri delle case del paese
con il detto: ‘Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora’.
«In quegli anni egli [il sacerdote cui Ben Morreale dà
l’improbabile nome di Giufà, n.d.r.] si rallegrò dell’aria festosa assunta dal
paese. Tutti indossavano splendide uniformi e il capostazione aveva ricevuto
l’ordine d’indossare sempre la sua, che aveva quattro o cinque galloni sul
braccio. Il postino, il personale delle ferrovie, il caposquadra delle miniere,
gli impiegati, gli amministratori, tutti possedevano l’uniforme ed erano
istruiti dal capo centurione, un uomo grande e grosso che diceva loro con voce
severa, mentre stringeva le mascelle e li guardava con occhio truce: - Dobbiamo
salutarci reciprocamente, ovunque l’uno veda l’altro. Capito?
«Il capostazione sogghignava ogni volta che salutava Giufà e
quando era al circolo dei nobili alzava il braccio per salutare e poi lo
ripiegava di colpo sull’altro emettendo con la bocca un suono osceno: era un
residuo del principio a cui si ispiravano gli uomi d’onore: qualsiasi autorità,
che non fosse la propria, doveva essere messa in ridicolo.» (6)
Senza veli
e con pretese di resoconto storico, si dilunga sul periodo fascista l’altro
autore racalmutese: Eugenio Napoleone Messana. Stralciamo vari pasi passi dal
suo lavoro: «Racalmuto nella storia della Sicilia».
«Nel 1925 si fece la mascherata delle
elezioni politiche italiane (6
bis) messa in scena dal duce.
Malgrado il clima terroristco in cui si svolse la campagna elettorale e la
precisa sensazione che le cose potevano solo mutare in meglio per il fascismo,
Eduardo Romano ed i compagni comunisti di Racalmuto ebbero l’abilità di
raccogliere circa quattrocento voti. Questo fatto impressionò i dirigenti del
fascio locale e contribuì ad evitare persecuzioni feroci, per tema di generare
vittime, che poi avrebbero potuto essere causa di disordini gravi. Non osarono
nemmeno, infatti, provvedere con mezzi palesi contro Edoardo Romano, per quanto
avvenuto in teatro giorni dopo, durante la serata inaugurale del Mortorio,
eseguito quell’anno da una filodrammatica locale, nella quale primeggiava
Giovanni Agrò. (7 ) In quella serata era andato a teatro pure
Edoardo Romano, perché la sorella signorina, con la quale conviveva, era stata
invitata dalle sorelle di Leonardo Abramo ad andarci ed aveva accettato.
Edoardo Romano non aveva trovato posto nel palco ov’era la sorella con le
Abramo e si era seduto in platea. Prima di cominciare lo spettacolo l’orchestra
suonò ‘Giovinezza’, l’inno fascista. Tutti i presenti scattarono in piedi e si
tolsero il cappello. Edoardo Romano rimase seduto col capo coperto ed il sigaro
in bocca. L’insegnante Emanuele Cavallaro, don Niniddu, gli si avvicinò e con
tono categorico gli ordinò - Alzatevi, toglietevi il berretto e smettete di
fumare! Il Romano a voce altissima
rispose - Non mi alzo, non mi tolgo il cappello e non smetto di fumare! A
questa risposta don Cesare Macaluso gridò da un palco - Arrestatelo,
arrestatelo! I carabinieri in servizio si erano mossi, ma il popolo scattò a
gridare - No, No! L’avv. Carmelo Burruano intervenne e frenò i carabinieri,
dicendo di lasciare perdere se non non si sarebbe potuta più fare la recita.
Non passò molto tempo però e Romano ebbe perquisita la casa. Non trovarono
niente, solo dei proiettili da caccia ed un fucile. Lo denunziarono per
detenzione non autorizzata di armi e munizioni, subì un processo, lo difesero
Cesare Sessa, Vincenzo Campo e Cigna, in pretura fu condannato a due mesi e
quindici giorni, in appello assolto per insufficienza di prove. (8 )
«Le elezioni ebbero il risultato che dovevano avere.
L’onorevole Angelo Abisso conseguì dei grandi meriti in quest’occasione. Il 31
gennaio 1926 Curatola infatti deliberò la spesa di L. 50 di contributo ad una
medaglia d’oro, che la Sicilia aveva deciso di offrire a questo deputato in
segno di gratitudine per aver fatto le ossa al fascismo nella regione. Più
avanti lo stesso commissario deliberò ancora L. 200 di contributo alla
federazione dei fasci di Girgenti. Inoltre diede l’incarico all’ingegnere
Giammusso di Girgenti per redigere il progetto particolareggiato di una rete
fognante generale da costruire a Racalmuto e arrivò a deliberare L. 300 di
acconto per tali lavori.
«La mascherata elettorale del 1925 si organizzò pure a
Racalmuto in occasione delle ultime elezioni amministrative, prima della
costituzione della dittatura, o meglio durante le more per la sua
solidificazione. L’assassinio dell’onorevole Giacomo Matteotti, capo
dell’opposizione, aveva scosso la nazione. Il fascismo era lì per cadere e
sarebbe caduto se fosse intervenuto il re in difesa dei diritti statutari del
regno e contro la violenza, la criminalità e l’assassinio e se l’opposizione
non comunista avesse fatto appello alle masse, invece di ritirarsi
sull’Aventino in inutili discussioni. Mussolini allora diede la parvenza di
rientrare nella legalità convocando alle urne il popolo, prima per le votazioni
politiche, poi per le amministrative. Si trattò di sola parvenza, sia per la
legge Acerbo che truffò la maggioranza in pro del partito di governo, sia
perché le elezioni avvennero sotto il controllo bieco delle squadracce e dei
manutengoli assoldati dal fascio. Le persecuzioni, gli arresti, le violenze, le
intimidazioni avevano, fin dalla conquista del potere operata da Mussolini, in
combutta con Vittorio Emanuele III di Savoia, costretto al ritiro dall’agone
politico le forze più genuine del pensiero italiano e siciliano. La repressione
della delinquenza era servita come pretesto per reprimere gli esponenti dei
vari partiti, coinvolgendoli nelle inchieste e nei processi o a diritto o a
torto. (9)
«Ad Agrigento il prefetto Mori aveva di già fatto sentire di
che erba si fa la scopa a tutti i liberi pensatori della provincia. Fingendo di
lottare la mafia, che invece eludeva, com’è suo costume i processi e passava
dalla presenza palese alla presenza nascosta nella vita pubblica, Mori era
finito con l’abbattere il prestigio di vari uomini politici e disperdere i
seguiti elettorali. In questo clima nel 1926 si votò a Racalmuto, ma per chi?
«Per i fascisti che, dopo essersi fusi coi nazionalisti
locali, come avvenne in parecchie parti del regno, fecero un’unica lista. Si
presentò una sola lista, la fascista. Gli altri si ritirarono e si misero in
posizione di attesa. Non ci fu da preoccuparsi o affaticarsi. Essendo una lista
la vittoria era sicura, di campagna elettorale democratica non ce n’era di
bisogno. Bastava che si votasse, tanto il voto, andava sempre a loro. I
democratici del paese risero di sdegno allorchè si accorsero che si doveva
votare solo per una concentrazione di candidati, quella ad ispirazione e
composizione fascista. Il listone aggiusta tutto, fu definito.
«Il 18 luglio 1926, alle ore 12 si insediò il consiglio
eletto da questa pseudo votazione. Risultarono consiglieri il dottor Enrico
Macaluso, il dottor Achille Vinci, Oreste Cavallaro, Carmelo Rosina, l’avv.
Baldassare Cavallaro, Luca Giuseppe Brucculeri, l’ins. Giuseppe Mattina,
Giuseppe Tulumello, l’avv. Camillo Vinci, Antonino Restivo Ardilla, Salvatore
Sbalanca, Carmelo Romano, Calogero Scimè Giancani, Giovanni Salvo, Giovanni
Farrauto, Cav, Alfredo Falletti, Giuseppe Cinquemani, Giuseppe Sardo, Calogero
Burruano, Luigi Casuccio, Pietro Buscarino, Luigi Nalbone, Andrea Petrone,
l’avv. Salvatore Picone, l’ins. Antonio Muratori, Alfonso Puma, il dottor
Calogero Burruano. Sindaco fu eletto, con 18 voti su 29 presenti, il dottor
Enrico Macaluso. La giunta fu così composta: Baldassare Cavallaro, Giuseppe
Mattina, Salvatore Picone, il dottor Achille Vinci, Giovanni Farrauto ed
Antonino Restivo Ardilla. Il dottor Enrico Macaluso in tale data iniziò la sua
epoca nella vita pubblica ed amministrativa di Racalmuto. Dico epoca perché
tutto il periodo fascista, da allora in poi e fino al’arrivo degli alleati,
porta la sua impronta.
«Chi era Enrico Macaluso lo sappiamo da quando al seguito di
Marchesano abbiamo visto muovere la politica in questa famiglia ed eleggero suo
fratello Vincenzo, il farmacista vecchio, consigliere comunale. [...]
«Gli antifascisti o i discendenti dei vecchi esponenti della
politica paesana che, o per dignità propria, o per semplice disavvedutezza non
prestarono l’omaggio deferente a lui, mentre imperò, la pagarono cara. I Greco,
cordai, dovettero trasferirsi altrove, non poterono facilmente ambientarsi
commercialmente, fallirono e si ridussero all’elemosina. Salvatore Greco inteso
Cinniredda dovette fuggire. Riparò in America, precisamente nella Virginia. Là
organizzò il partito comunista e gli operai nel sindacato rosso. Si fece un
nome dirigendo lotte terribili contro il padronato. Subì un attentato e rimase
ferito alla testa. Si salvò la vita per miracolo. I Figliola si sparsero per la
provincia perché per loro non ci fu più pace a Racalmuto.
«Luigi Scimè, figlio del dottor Nicolò, per aver dato la
famosa lira per la corona a Matteotti, mentre sosteneva un concorso, al secondo
scritto, venne invitato a lasciare la sede di esami e tornarsene a casa. Coloro
chelo privarono di un diritto, non più tale sotto il tallone fascista,
risposero al giovane che chiedeva perché lo mandavano via, di andarlo a
domandare al suo paese. Eloquentissima allocuzione. Un Cavallaro vinse il
concorso di Commissario di pubblica sicurezza ma non potè essere nominato per
cattive informazioni date dal paese. Don Michele Di Naro, il vecchio
socialista, accerchiato dalle persecuzioni, in un momento di scoraggiamento si
suicidò, buttandosi sotto il treno. Era costui una persona intelligentissima,
poeta felice in vernacolo, lasciò la moglie e l’unico figlio nella miseria.
Vincenzo Vella fece una colletta e
comprò alla vedova una macchina per fare calze.
«Gli arresti e le condanne per gli indizi fondati più sui
rapporti personali con lui che sulla probalilità o capacità di reato
riempirebbero pagine e pagine se si dovessero riportare e ridesterebbero
rancori ormai sopiti dal tempo. Basti pensare che era pericoloso andare a
comprare medicine in altre farmacie, significava ripercussioni nel lavoro o
nella vita privata; non salutarlo incontrandolo valeva dar conto di sè alla
milizia o ai carabinieri, sotto forma di sovversivismo o altro aggeggio del
genere. Quando decise, per esempio, di ordinare ai contadini di non rientrare
più con l’aratro legato alla mula e l’asta che strisciava per terra, perché il
rumore lo disturbava, Nicolò Schillaci, ogni sera, cominciò a rientrare in
paese con l’asta dell’aratro alzata e la portava a mano fino a quando arrivava
a casa., tanto erano grandi il rigorismo e la paura che incombeva don Enrico
sulla popolazione. Trovò qualcuno però che gli diede filo da torcere, anche se
pagò bene le sue bravate. Una mattina, il lucchetto del negozio Macaluso si
trovò unto di sterco umano e con una scritta attaccata, ove si leggeva:
«Qua la faccio/ qua la lascio/ merda al duce/ merda al
fascio.
«Il grave oltraggio impose la mobilitazione di tutte le
forze per esperire le indagini. Risultò colpevole Giuseppe Collura, lu
casinieri, e fu arrestato. Quando lo stavano portando ad Agrigento a San Vito,
don Enrico, volle far mostra di un generoso perdono e gli porse una moneta da
L. 10, per comprarsi il tabacco in carcere. Il Collura di rimando gliela buttò
in faccia. Fu condannato, espiò la pena e tornò in paese. Venne ad essere
sospettato di un omicidio, che poi si venne a sapere che non commise per
avvenuta spontanea confessione del colpevole a letto di morte, e fu condannato
all’ergastolo. Durante il processo andò a testimoniare contro l’imputato don
Enrico. L’imputato vedendolo, dalla gabbia gli mollò uno sputo e lo colpì sulla
guancia. Allorchè, risultato innocente, il Collura fu scarcerato e tornò in
paese, Don Enrico ebbe paura perché il fascio era già caduto e si lasciò
assoggettare maledettamente. Collura diceva ‘ma parrinu’ e gli scroccava soldi
per vivere, fino a quando trovò una sistemazione decente e cambiò vita. Aveva
degli amici don Enrico che gli facevano corona la sera nel negozio all’angolo del
corso Garibaldi, e standogli da presso godevano di una illuminata sicurtà, si
rischiaravano della sua luce e brillavano di prestigio ed autorità nel paese.
Abbiamo presente quel negozio e quelle persone che la sera stavano con un certo
occhio a guardare i passanti della piazza con superiorità regale e con l’altra
a spiare glu umori del comandante per assuefarsi al discorso ed all’espressione
della sua faccia.
«I passanti vedevano quel gruppo con distacco, il distacco
della paura per le mezze figure, il distacco dello sdegno per coloro che
avevano saputo conservare gelosamente personalità e dignità anche sotto il
fascismo. Erano amici di Macaluso gli impiegati del municipio dei tempi,
l’ufficiale postale, un falegname, un muratore, Oreste Cavallaro, Luigi
Marchese, Giuseppe Mattina, Giuseppe Sicurella, Calogero Rizzo e qualche altro
il cui nome ci sfugge. Don Enrico atterrì la popolazione con la sua azione intransigente
tanto da fare di Racalmuto un paese senza volto e senza prospettiva,
addormentato nella crisi economica, morale e di valori spirituali, rassegnato
ad un amaro destino, separato dalla classe dirigente, incline alla soggezione
ed all’ipocrita acquiescenza esteriore alla volontà dei tenutari del potere del
paese.
«I difetti che produsse il Macaluso nella società
racalmutese furono i difetti necessari per potere subire con serenità
l’oppressione di una dittatura, quale la fascista, che tendeva a spegnere le
volontà agli uomini ai fini di una sola volontà, quella del capo a Roma, come
ad Agrigento ed in ogni recondito angolo d’Italia. L’opposizione al regime a
poco a poco si affievolì fino a ridursi ai frequentatori di una bottega di
merceria, gestita dal sig. Salvatore Giudice in via Matrona, case Tulumello, e
gli amici di un barbiere, Calogero Bellavia, inteso Nasone, che aveva il salone
in corso Garibaldi, accanto l’odierno negozio di generi alimentari di Carmelo
Brucculeri. La merceraia non vendette più perché nessuno vi andava a comprare
per paura di essere visto dal podestà. Il salone ridusse i clienti, ma
resistette perché divenne il salone dei soli nemici del fascismo. La merceria
era chiamata dai fascisti ‘La cucina del demonio’. Don Liddu Nasone fu e rimase
indicato come il sovversivo. Il Circolo degli Amici si chiuse in quel periodo
perché i suoi soci in maggioranza non si tesserarono al fascio. Nuovi soci non
ne entrarono più per paura del libro nero e si esaurì lentamente. Macaluso fu
infatti l’uomo del libro nero, lo diceva sempre di annotarsi il nome di chi gli
faceva sgarbo, per saperlo colpire al momento opportuno. E siccome faceva sul
serio seccava ai più di finire scritto là e si preferiva ingoiare e stare alla
larga, quando non si riusciva o non si sentiva di fare il codino come gli
altri. Non mancarono i ricorsi contro don Enrico, spesso anonimi, avevano paura
di farsi conoscere gli autori, anche se, a dire della gente, si lasciavano
individuare e risultavano buoni professionisti con un decoroso passato politico
alle spalle. Si attribuì all’avv. Carmelo Burruano un ricorso, l’altro al
farmacista Argento.
«Sindaco Don Enrico lo fu poco, perché nel marzo del 1927 si
sciolsero tutti i consigli comunali d’Italia ed i comuni furono affidati ai
podestà di nomina governativa, che si riduceva a nomina del capo del fascio
della provincia. Il podestà doveva
rinnovarsi ogni quattro anni e doveva essere collaborato dalla consulta
podestarile nei centri grossi, nominata da lui stesso, a cui venivano conferite
le funzioni della giunta comunale. Nei piccoli comuni il podestà aveva facoltà
di delegare alla firma un cittadino di sua fiducia per la continuità della vita
amministrativa in caso di sua assenza. La prima deliberazione podestarile di
Racalmuto, come si rileva dagli atti d’archivio del municipio, porta la data
del 9 aprile 1927. Enrico Macaluso fu sindaco per meno di nove mesi, poi
diventò podestà per intrigo e raccomandazione di Abisso. Alla firma delegò
l’ins. Giuseppe Mattina fu Gaetano il 5 novembre dello stesso anno. Da podestà
diede meglio sfogo al suo carattere
singolare, incline al ripicco ed alla vendetta, pronto al pettegolezzo
ed implacabile nell’odio e nell’amore, pretenziodo di continue umiliazioni e di
sciocche e melliflue deferenze, fanatico e puerilmente capriccioso.
«Se ebbe dei difetti gravi ed incancellabili, ebbe anche dei
pregi encomiabilissimi. Fu onesto fino allo scrupolo. Non rubò nè permise che
si rubasse. Ebbe sacro rispetto per l’erario e per tutto ciò che fosse
patrimonio del pubblico. Non trasse profitto alcuno dalla carica di podestà e
di altre che ne ebbe. Fu infatti presidente del Consorzio delle ‘tre sorgenti’
per molti anni, consigliere del Banco di Sicilia, sciarpa littorio del partito
nazionale fascista e console del Touring Club italiano. Ebbe amicizia con tutte
le autorità del suo tempo, sia civili, sia militari, sia religiose, relazioni
che seppe cattivarsi con la sua straordinaria generosità nel donare. Non
calcolò interesse pur di emergere e di acquistare rispetti. In questo campo fu
tale la sua prodigalità che può dirsi di aver diviso il suo patrimonio, ed era
considerevole, alla gente. Nessun racalmutese può vantarsi di non essere stato
un suo debitore. A chi andava a comprare medicinali o radio, o, più tardi
elettrodomestici, prima cucine, sedie ed altro, quando chiedeva il conto lui
rispondeva ‘Po si nni parla’. Il cliente in altra occasione si dichiarava
pronto a pagare e lui ancora rifiutava. Guai ad insistere. Cambiava espressione
e grave diveca: ‘I conti a casa mia li debbo fare io’. Era la premessa di una
rottura. La gente così facendo, volente o nolente, gli restava vincolata, anche
se non mancavano persone che si urtavano di questo vincolo a cui venivano
costrette senza la loro volontà. Lui però era felice di poter dire che tutti
gli dovevano o, nominando qualche persona che gli mancava di rispetto, dire in
farmacia davanti al pubblico, ‘perché nun mmi veni a pagari primu’, quando non
la mandava a chiamare e gli intimava l’immediata soluzione del credito. Questa
prodigalità sui generis finì col ridurlo in cattive condizioni economiche e
sarebbe morto all’elemosina se non avesse posto riparo una ragazza, che a tarda
età rese sua figlia adottiva e salvò il salvabile. Il grosso però fu tutto
venduto e i soldi divisi ai clienti del suo esercizio e della sua farmacia.
«Nell’attività amministrativa don Enrico pensò prima di portare
a conclusione le opere avviate dai suoi predecessori, ma con scarso risultato,
perché, non ammettendo interferenze nell sua volontà, finiva col provocare
passiva reazione negli uffici o fra coloro che dovevano necessariamente portare
avanti le cose, quando non incontrava opposizione dura, da cui scaturivano
lunghi processi civili. Il progetto per le fognature, per l’ammontare di L.
900.000 lo approvò il 19 marzo del 1927, ma le fognature si fecero nel 1956,
quando il fascismo era morto e sepolto e lui relegato alla sola attività
professionale. Collaudò l’esecuzione del contratto con l’impresa elettrica
Siculo Lombarda, redatto l’11 febbraio 1925, secondo il quale si costruì in
paese la centrale elettrica, nei pressi della stazione, con motore generatore
di corrente. Tale motore sfruttava l’acqua della Fontana a mezzo di una pompa
aspirante, che in fase eduttiva provocava una cascata sufficiente alla
generazione dell’elettricità necessaria a fornire luce agli abitanti ed
alimentare 384 lampade ad incandescenza sparse nelle vie dell’abitato, di cui
14 nel corso Garibaldi. Tentò di realizzare il vecchio progetto dell’edificio
scolastico, redatto nel 1913 dall’ingegnere Stefano Bianco per una spesa di L.
335.000, aggiornata nel 1919 e portata a L. 735.000, nel 1922 ad 1.300.000, ma
non vi riuscì perché provocò un giudizio civile col proprietario del fondo ove
doveva essere ubicato, nello spiazzale Palma. L’edificio infatti potè sorgere
solo nel 1936, dopo la sua caduta.
«Subito dopo la prima guerra mondiale in Racalmuto si era
costituito il comitato pro monumento ai Caduti, stabilendo a presidente il
sindaco pro tempore. Si erano raccolte selle somme sufficienti alla costruzione
mediante sottoscrizioni civiche ed offerte degli emigrati di America. L’opera era
in corso di realizzazione quando subentrò Macaluso a presidente del Comitato.
Egli cominciò a rivoluzionare il programma precedente e si venne ad una
clamorosa divisione fra i componenti in merito alla forma ed all’ubicazione
dell’opera. Questa divisione durò per sempre. Don Enrico non mollava e quelli
intralciavano il suo operato. Gli anni passavano ed il paese era rimasto uno
dei pochissimi d’Italia a non avere un ricordo degli infelici giovani morti sul
campo di battaglia.
«Intanto il 10 settembre del 1929 il podestà deliberava
l’offerta di L. 100 del comune per contributo alla lampada votiva per i caduti
in guerra di Agrigento, non potendolo fare per i racalmutesi sprovvisti di
monumento.
«Quando si fece la nuova strada di circonvallazione, oggi
Filippo Villa, Macaluso comprò con i solde del comitato e per conto del
comitato un po’ di suolo edificabile di proprietà dei Baiamonte a San Gregorio,
prima adibito a mulino per l’epurazione della feccia di mosto. Nel punto
d’incontro fra la strada di circonvallazione ed il cosro Garibaldi fece fare un
recinto in filo spinato, che sarebbe dovuto diventare, ma non lo fu mai,
un’aiuola spartitraffico. Nel mezzo di questo recento vi fece piantare un
albero di pino, dedicato ad Arnaldo Mussolini, ma non crebbe e fu estirpato
secco nel 1950. Contava di costruire, ove oggi è l’Esso, sul suolo edificabile
dell’ex mulino, la casa del fascio ed il monumento ai Caduti. Gli anni
passarono e non sorse mai niente. Negli ultimi tempi della dittatura soltanto
le basi di un edificio. [...]
«Durante il podesterato del Macaluso, i lavori pubblici
furono curati dal di lui fratello Cesare, dottore in agraria, addetto ai
sindacati fascisti. Don Cesare era stato in Tripolitania ed aveva visto le
strade di là com’erano fatte, le famose strade a mac adam con sottofondo in
breccia aggregata con polvere di cava. Pensò d’introdurre questo sistema a
Racalmuto, furono divelti quasi tutti i selciati a ciottolato delle strade e
cambiate in mac-adam. La riforma ben presto risultò inidonea. La friabilità
delle pietre sabbiose ed il clima dell’Africa agevola la durata delle vie fatte
con questo sistema. Le rocce di Racalmuto non essendo nè sabbiose nè friabili,
non resistettero all’uso, si frantumarono e si cambiarono in polvere di estate
ed in fanfo d’inverno. In via R. Margherita e in Via Asaro d’inverno era un
problema passarvi. Se si andava su si dava un passo in avanti e tre
all’indietro con i piedi affondati nella mota. Se si andava giù si rischiava di
finire a terra con qualche scivolone. Meno male che macchine non ce n’erano
tante, se no gli sbandamenti sarebbero stati frequenti e disastrosi. Le
macchine allora erano rarissime, le prime Balilla e le Ardita le ebbero
Giuseppe Mattina, l’avv. Carmelo Burruano e l’avvocato Luigi Cavallaro, che era
funzionario del Banco di Sicilia. Poi si fornirono di macchina i Nalbone e si
fecero i primi autisti di piazza, Di Marco e Don Pietro Sedita.
«Macalus ebbe il culto degli alberi e si devono a lui gli
alberi che costeggiano la strada che va al padre Eterno e la via Filippo Villa.
Altri alberi costeggiano la via Macaluso e Ferdinando Martini, fino al ponte
Carmelo e fino alla Stazione ferroviaria. Ne restano pochi perché sono stati,
purtroppo, distrutti dai frontisti della strada, dimostrando scarso senso civico.
Lo spiazzale Canalotto, oggi occupato dalle case degli zolfatai, sotto Macaluso
fu attivato a Palco della Rimembranza e vi sorsero tanti alberi dedicati ai
Caduti. Durante l’estate vi si eseguiva ogni Domenica sera un concerto
bandistico e spesso proiezione cinematografica muta delle pellicole in voga. La
musica non suonò più al Canalotto, che cessò di essere meta e ritrovo delle
passeggiate estive, verso il 1935, in seguito ad un fatto di sangue avvenuto
proprio ai piedi dell’icona attaccata al muro di fronte, lato Ovest. Vi fu
assassinato il procuratore del registro Sciascia ed il delitto rimase impunito,
perché non si individuarono i colpevoli.
«Don Enrico fece restaurare il teatro riportandolo alla
primiera sontuosità, ma non riuscì ad evitare che fosse adibito a sala di
proiezione cinematografica. Dapprima era il comune a gestirlo direttamente, poi
si diede in appalto, sotto Mattina, a Parisi, indi a Collura e a Bordonaro. Con
gli appalti cominciò a rovinarsi il locale. I gestori non avevano interesse a
custodire l’iimobile, il quotidiano uso e la vetustà a poco a poco lo resero
inagibile.
«Curò il riattamento del municipio, disimpegnando tutti gli
ambienti a mezzo del corridoio che collega al salone del lato sud, rimettendoci
soldi di tasca propria ed impegnando architetti ed artisti di vaglia. Dopo i
patti lateranensi, nella consegna della congrua parte alla chiesa, riuscì a
tacitare l’arciprete di allora, Giovanni Casuccio, con la restituzione
dell’intero locale di S. Giovanni di Dio a soluzione dei diritti su altri
edifici del comune. Tale atto fu abbastanza lodevole perché servì a conservare
integra la proprietà al comune del municipio, del cimitero e della chiesa di S.
Maria e dell’ex orto delle clarisse, area oggi occupata dal teatro. [...]
« Fra le opere meritorie della sua amministrazione va
ricordato l’acquisto dei locali dell’ex Castello del Conte, Lu Cannuni, o
palazzo Chiaramontano. Questo edificio era finito in mano ai privati. Alla
famiglia Presti la parte di sud est e di sud ovest; l’ingresso, la porta
centrale, il salone delle adunanze della Signoria, tutto il versante di nord e
le due torri in mano di Padre Cipolla. Ciò dopo che non fu più adibito a
carcere. Padre Cipolla ne voleva fare un educandato femminile affidato alle
suore domenicane, ma quando nel 1930 fallì, l’immobile, venduto all’asta per L.
2000 (duemila), l’acquistò il Comune.
«Con gli impiegati non fu mai in confidenza. Mantenne il
distacco, ma ebbe garbo nei rapporti personali. Tutte le mattine arrivava il
primo al Municipio, entrava nel suo abinetto, lasciava la porta aperta e così
impegnava i dipendenti ad essere scrupolosi nell’osservanza dell’orario. Col
pubblico non fu mai tenero. Usò il confine e l’isola, le vili armi della
dittatura fascista, a discrezione [...]
«Un bel giorno .. dovette ingoiare un rospo: venne privato della segreteria politica e fu
nominato in sua vece Tito Tinebra. Mobilitò le sue forze ed ingaggiò battaglia.
Cadde Tinebra e fu nominato il suo amico Giuseppe Mattina. Si sentì appagato e
riprese fiato ad esercitare le sue funzioni di tirannello paesano.
«Il fascismo intanto si realizzava con la sua pesante
struttura anche nel paese. Nata l’opera Nazionale Balilla, don Enrico si
affrettò ad iscrivere socio perpetuo il comune l’8 gennaio 1928. Nel 1930
l’iscrizione all’opera Nazionale Balilla diventò obbligatoria per tutti i
fanciulli e le fanciulle che dovevano frequentare le pubbliche scuole
elementari e per gli studenti di ogni ordine e grado. Cominciarono le
fastodiose adunate del Sabato e della Domenica, le sfilate estenuanti e le
parate stupide fra le vie imbandierate fitte e le bestemmie degli anziani. Le
donne scesero pure a sfilare, le maestre e le giovani. A Racalmuto la dirigenza
dei fasci femminili la ebbe sempre, nella qualità di fiduciaria, collaborata
dalle figlie del farmacista Argento, la maestra Piera Taibi. Le divise
omogeneizzarono apertamente i cittadini. L’opposizione però continuava nel
segreto a vivere, pur se divenne presto innocua all’arbitrio fascista. Il
giornale ‘L’Unità’ arrivava da parigi in un pacchetto con la scritta profumi.
Il fattorino postale Salvatore Morreale lo sapeva e portava il pacco a Giovanni
Facciponti, in un salone sopra l’attuale negozio di Falco. L’Unità si vendeva
una lira la copia, prezzo iperbolico per i tempi e la comprava Vincenzo Vella,
Eduardo Romano, Vincenzo Macaluso, Giuseppe Cutaia e qualche altro di nascosto,
sapendo che se fossero stati scoperti il confine non glielo avrebbe tolto
nessuno.
«Durante tutto il periodo fascista continuarono ad essere
comunisti, subire discriminazioni violente e non piegarsi, affrontando fame e
disagi, ma rimanendo a Racalmuto Vincenzo Macaluso fu Stefano falegname,
Salvatore Jacono calzolaio, Salvatore Dell’Aira muratore, Eduardo Romano,
muratore, Giovanni Lo Forte, Di Liberto Carlo, Luigi Leone, Leonardo Abramo
Vizzini, Alfonso Tirone Tiberio e qualche altro. Mantenersi iscritto
clandestinamente al partito comunista durante il fascismo era una impresa non
facile, si trattava rischiare la galera ad ogni istante e la rovina della
propria famiglia. Loro furono in continuo contatto con Cesare Sessa a
Raffadali. Per lo più vi si recava Eduardo Romano, col pretesto che andava a
badare alla campagna dell’avv. Vincenzo Campo, cognato del Sessa. Solo Sessa
rimase nell’Agrigentino a reggere le fila del partito comunista. Il dirigente
Scarfidi, in seguito ad un’aggressione subita a casa dalle squadre fasciste,
dalla quale scampò mediante l’intervento di un alto magistrato, al quale era
amico, che, quel giornoper caso, era andato a fargli visita e fu presente, era
fuggito e si era rifugiato in un convento. I comunisti di Racalmuto, spesso
Romano ed una volta anche Abramo, durante la dittatura andavano anche a
presenziare riunioni segrete a Palermo. Avvenivano in una casa in via Albergheria
ed erano presiedute dall’onorevole Pilato.
«Ad Eduardo Romano infine è da attribuirsi il merito di
avere salvato il grosso del partito, che poi furono quelli che in maggioranza
fecero l’abiura a don Enrico, dalle persecuzioni. Infatti, allorchè alla
caserma gli chiesero l’elenco dei tesserati, egli fornì un elenco in cui
comparvero i notabili e tutti i morti e gli emigrati. Un plauso solenne vada
pertanto a costoro vivi e defunti, che ebbero il coraggio di professare le
proprie idee affrontando ogni rischio. E ben ha fatto il partito comunista nel
1961 ad offrire una medaglia di bronzo ed il diploma degli otto lustri di
fedeltà ai superstit, perché le nuove generazioni potessero conoscere ed
ammirare gli uomini tenaci e fermi nel loro credo anche in clima di difficoltà
e divieto. Da Racalmuto poterono avere quest’attestato di riconoscenza,
Salvatore Dell’Aira, Di Liberto Carlo e Vincenzo Macaluso. Quest’ultimo alla
memoria, per essere deceduto giorni prima. Don Enrico non seppe mai queste cose
e dire che aveva sempre fra i piedi Carmelo Romano, il fratello di Eduardo che
gli faceva l’amico e badava a tener lungi i sospetti dalla sua casa.
«Lui seppe solo il borbottio della bottega Giudice e del
salone Bellavia, ma non potè mai eccpire alcunchè per colpire con carcere e
confine il titolare ed i frequentatori. [..]
«Il giovane che sin qua ci ha seguiti ci darà, credo,
dell’esagerato, ma prima di giudicare si informi e saprà che il fascismo aveva
un decalogo, i cui primi articoli o comandamenti così dicevano - 1) Mussolini
ha sempre ragione; 2) le punizioni sono sempre meritate; 3) la Patria si serve
anche facendo da guardia ad un bidone di benzina, ecc. ecc.
«Quando vedrà che il governo fascista imponeva il domma
dell’infallibilità del suo capo, costringeva la supina accettazione di ogni
pena e poneva tutte le attività lavorative al servizio della Patria, per
attribuire il delitto di attentato alla sicurezza dello Stato contro ogni
inadempienza, si accorgerà che non siamo esagerati e si meravigliera che un
popolo di circa 45 milioni di componenti ha sopportato per venti anni tanto
obbrobrioso sistema. Coloro che avevano assaporato la libertà democratica mal
sopportavano tanta opprimente vuotaggine, ma guai a manifestare la loro
avversione, si rischiava il confine o la galera, il domicilio coatto o una
serie di legnate e sevizie nelle caserme. Ebbe considerevoli guai Edoardo
Romano, per esempio, perché a Giovanni Agrò che gli ingiunse un giorno al campo
sportivo di credere, obbedire e combattere, rispose: - Combattere sì, perché se
mi chiamano alle armi non mi posso rifiutare, obbedire altrettanto perché se
non ubbidisco mi costringono a farlo, ma credere no, perché nessuno può impormi
una fede. [...]
«Si nasceva figli della lupa e si aveva una divisa da portare
ed un moschetto. Si diventava balilla e la stessa cosa, poi avanguardista,
giovane fascista, camicia nera ecc. L’opera nazionale Balilla era stata
sostituita dalla Gil, gioventù italiana del littorio, che inquadrava tutta la
gioventù della nazione in un casermone rigurgitante odio ed abuso, soverchieria
e sbronzerie dei tanti megalomani dell’epoca. Per andare a scuola si doveva
presentare la tessera Gil, sia per le elementari che per le medie o superiori,
comprese le università, dove oltre al diploma di maturità si doveva esibire il
certificato di iscrizione al G.U.F., gioventù universitaria fascista, e
l’attestato di avere superato il brevetto sportivo. Senza la tessera Gil non si
poteva nemmeno lavorare. A Racalmuto potè rifiutarla un solo giovane, Calogero
Macaluso, figlio di un cugino di don Enrico, il quale da solo, o per contatti
con Eduardo Romano, diventò comunista. Costui fu raggiunto dai tentacoli della
piovra nera del fascismo e fu chiamato in caserma dai carabinieri. Il
maresciallo gli disse, fra l’altro, che lo avrebbe arrestato se non prendeva la
tessera. Lui ebbe il coraggio di ripondere: - mi arresti pure, è necessario che
i nostri compagni in galera ricevino il conforto delle nuove generazioni. - Non
fu arrestato perché don Enrico non volle subire l’affronto di far sapere
ovunque che un suo omonimo parente non era fascista.
«Nelle scuole si studiava dottrina fascista e cultura
militare fino alla università dove pure era la materia obbligatoria di mistica
fascista. Prima di andare soldati c’era il premilitare obbligatorio, e qui a
suon di nerbo i giovani diciottonni, ogni Sabato pomeriggio, per ore ed ore
dovevano stare a fare marce ed istruzioni. A Racalmuto il premilitare si faceva
al campo sportivo, lo faceva fare il geometra Luigi Falletti, coadiuvato dal
cadetto della milizia Luigi Di Marco e qualche altro. Non so altrove, ma a
Racalmuto la borghesia aveva un privilegio, non faceva le istruzioni. Noi
studenti facevamo gli elenchi al geometra Falletti e stavamo ogni sabato a
guardare. Ricordiamo la nausea e la ribellione che provavamo quando vedevamo
schiaffeggiare sonoramente i poveri giovani contadini ed a volte anche
bastonare, perché si muovevano sull’attenti o per altro. La nausea ci veniva
perché già ai nostri diciotto anni eravamo organizzati da circa due anni nelle
file clandestine antifasciste. Alla formazione del nostro pensiero politico,
impreciso partiticamente, ma decisamente ugualitario, di sinistra e di pronta
opposizione al fascismo, contribuì, oltre la famiglia sempre antifascista alla
quale apparteniamo, il nostro insegnante di filosofia Ettore Centineo, che ci
schiuse la mente alla democrazia ed alla critica. Siamo entrati nelle
organizzazioni allora operanti in Italia per mezzo di Leonardo Sciascia [..] A
lui si deve la formazione di un gruppo di studenti antifascisti in Racalmuto e
la coscienza della brutalità di quel partito, nonchè della sua carenza
ideologica fra gli studenti di ieri e professionisti di oggi in questo paese.
Leonardo Sciascia, convinto comunista nel 1938 e 39, quando aveva 17 e 18 anni,
riuscì a fare preziose cellule nel paese, si ricordano Angelo Picone, Diego
Paradiso e Salvatore Cavallaro, oltre noi e qualche altro fra coloro che
collaborarono nei limiti delle loro capacità, compromettendosi magari, a
prepare la resistenza contro il fascismo ed a sabotare le organizzazioni della
dittatura. [...]
«Feste nazionali sotto il fascismo erano: il 23 marzo,
anniversario della fondazione del fascio, il 21 aprile, natale di Roma, l’11
febbraio anniversario del Concordato con la Chiesa, il 24 maggio, entrata in
guerra, il 28 ottobre anniversario della marcia su Roma ed il 4 novembre festa
della vittoria. [..] Una mattina di festa nazionale il dottor Giuseppe
Cavallaro ebbe inferto dai fascisti racalmutesi un colpo terribile, tale che
tarò per sempre la sua salute. Il dottor Cavallaro era un vecchietto senza
figli, che ogni giorno con la moglie andava a trovare il suocere e i cognati.
Un giorno fu fermato in Via R. Margherita, davanti di Pavia dai militi. Gli chiesero
perché non portava la camicia nera quantunque festa nazionale. Il povero
dottore rispose di averlo dimenticato, essendo uscito di premura per fare una
visita di urgenza. I militi fecero l’addebito e riferirono al segretario
politico. Il dottor Cavallaro ebbe ritirata la tessera d’iscrizione al partito
nazionale fascista. Tale provvedimento significava la rovina, infatti senza
tessera non si poteva esercitare la professione sanitaria, perché l’ordine dei
medici lo vietava. Il dottor Cavallaro, sospeso dall’esercizio professionale,
si dispiacque tanto, anche se stava economicamente bene, che si ammalò. Non si
guarì più e morì alcuni anni dopo. [...]
«La delinquenza però è bene che si dica non finì proprio
sotto il fascismo, e la stessa mafia non fu eliminata, infatti ad essa,
strumento di repressione contadina, si sostituì lo stato autoriatario fascista,
cioè non ve ne fu più bisogno e sembrò essere stata debellata, ma debellata non
fu tanto che rinacque così rigogliosa alla caduta del regime, cessarono soltanto
le efferatezze del dopo prima guerra mondiale non la criminalità vera e
propria. Al fascismo si diede a torto quel merito. Si dimenticò che Sciascia,
il ricevitore del registro fu assassinato nel 1935 e c’era il fascismo,
Federico Giancani ammazzato barbaramente nel maggio del 1937 e c’era il
fascismo, il latitante Ciciruneddu, Rizzo, non potè mai essere preso dalle
forze dell’ordine e fu ucciso da uno per la regola del tagione che gravava
sulla sua morte ed erano gli anni dal 1936 al 1939 e c’era il fascismo,
l’orificeria di don Carmelo Rosina fu scassinata, una prostituta fu trovata con
la gola recisa da un rasoio nella sua casa in Via Madonna della Rocca, l’altra
fatta a pezzi alla Acqua Amara presso la Torre di Baeri in pieno fascismo.
Abbiamo voluto citare i misfatti più eclatanti del periodo fascista, sorvolando
i minori, per dimostrare l’infondatezza di quest’affermazione, che, purtroppo,
si sente ancora ripetere nelle discussioni di piazza. Il fascismo usò metodi
repressivi atroci e questo è vero, mise la pena di morte e la esercitò e questo
è pure vero, ma l’una e l’altra non gli fanno onore. Non si scherza con la vita
degli uomini, ed essa è sacra e nessuno può toglierla per nessuna ragione. La
società può relegare fuori del proprio consorzio il tarato, il reo, ma non
sopprimerlo, non ne ha nessun diritto. La repressione poliziesca del fascismo
poi era peggio della fucilazione, si trattava delle torture di medievale
memoria, praticate nelle caserme dei carabinieri: nerbate fino al sangue, scosse
elettriche, fare ingerire acqua satura di sale, legare alla cassetta e tante e
tante altre barbarie. Basta dire che l’omicidio di Federico Giancani se lo
accollarono parecchie persone incapaci ed innocenti pur di non patire più le
torture e poi si vennero a trovare i colpevoli fuori dell’Italia, in Africa
dove erano riusciti ad imboscarsi.» (10)
La
traballante prosa del Messana traccia un quadro della situazione politica a
Racalmuto duntante il fascismo che va preso - lo ripetiamo - con le molle. Ma
qualche elemento di prima mano ce lo fornisce. Sappiamo solo così di
antifascisti operanti a Racalmuto. Le loro vicende sono palesemente enfiate. Un
riscontro possiamo coglierlo dale schedature della polizia, oggi consultabili
presso l’Archivio Centrale dello Stato in Roma.
Secondo il
Messana, il maggiore esponente comunista dell’epoca fu Edoardo Roma. Abbiamo
visto che la locale caserma dei carabinieri già nel 1925 lo definisce un
“pericoloso comunista”, portando acqua al mulino dellenfasi antifascista del nostro
storico racalmutese. Pericoloso lo fu, però, non a lungo, se lo schedario
puntuale e puntiglioso del capo della polizia Arturo Bocchini (11)
lo ignora del tutto. Forse a motivo delle influenti protezioni fasciste che al
Romano venivano dalle sue parentele bene inserite nel regime. Vi sarà pure un
motivo se la famosa medaglia di fedelta quarantennale al PCI non fu conferita
nel 1961 ad Edoardo Romano (vedansi le precedenti annotazioni del Messana).
Nelle
nostre ricerche a Roma, di racalmutesi finiti negli schedari di polizia durante
il fascismo troviamo:
1) Vella
Vincenzo;
2) Vella Diego;
3) Picone
Chiodo Calogero;
4)
Sacerdoti Edmondo;
5) Messana
Everardo.
Ma dei
cinque sudetti nominativi i veri racalmutesti sono tre (Vella Vincenzo, Picone
Chiodo Calogero e Messana Everardo), nessuno viene schedato in quanto
comunista, e i due schedati (Picone Chiodo Calogero e Messana Everardo) hanno
poco di politico.
Vella
Vincenzo, è personaggio di risalto durante i Fasci siciliani, è
attivo nell’era prefascista e rientra nei ranghi durante il fascismo. Schedato
già dalla questura di Girgenti sin dal primo settembre del 1896, ne è “radiato”
l’8 aprile 1936 «tenuto conto della buona condotta e delle prove di
ravvedimento» ed essendosi «espresso in senso favorevole al Governo nazionale.»
Nel 1893
si era lanciato nell’agone politico a capo del movimento contadino e zolfataio
del luogo, con cipiglio e furore. Agì anche fuori di Racalmuto: lo troviamo
impigliato nella repressione dei moti rivoluzionari dei Fasci in quel di
Milena. Ecco quel che ci racconta Arturo Petix: «Nel pomeriggio del 27 luglio
del 1893, a Milocca, in casa del contadino Luigi Schillaci, posta nella robba
Valenti (oggi via Gioberti) si riuniva un gruppo di contadini con lo scopo di
costituirsi in fascio dei lavoratori. [...] A quella riunione furono presenti
l’Avvocato Vincenzo Vella, presidente del fascio dei lavoratori di Racalmuto e
l’insegnante Rinaldo Di Napoli, presidente di quello di Grotte (ASCL, Carp. n.
9, Pubbl. Sicur., lettera del 2 agosto 1893).»( 12). Abbiamo sopra
fornito alcuni dati del fascicolo sul Vella dell’Archivio Centrale dello Stato.
Li integriamo qui trascrivendo quant’altro vi è annotato.
«N.° 16434 - Prefettura di Girgenti, comune
di Racalmuto - Vella Vincenzo fu Giuseppe e della Vincenza Tinebra nato in
Racalmuto il 17 ottobre 1868, residente a Racalmuto mandamento della Provincia
di Girgenti.- Laureato in giurisprudenza - celibe - Socialista rivoluzionario -
statura 1,58 - corporatura robusta, capelli castano scuri, viso oblungo, fronte
alta, occhi castani, naso giusto, barba alla mefistofele e di colore castana
scura, mento tondo, bocca regolare, espressione fisionomica satirica,
abigliamento (sic) abituale, veste decente in nero.
«Riscuote nell’opinione pubblica fama di fanatico
stravagante. Di carattere volubile. Di educazione limitata, in quanto che si
appartiene a famiglia di esercenti miniere. Di corta intelligenza. Di coltura
scarsissima. Ha compiuto gli studi nel liceo ed il corso di università in
legge. Non possiede titoli accademici. E’ lavoratore fiacco. Ritrae i mezzi di
sostentamento dalla poca proprietà lasciata alla famiglia dall’Avv. Tinebra
Vincenzo. Frequenta la compagnia dei pochi affiliati al partito socialista di
questo Comune e dei Comuni di Grotte ed
Aragona. Mal si comporta nei suoi doveri con la famiglia, di cui dovrebbe
essere il sostegno, causa la morte del padre, trascurandola completamente. Non
gli sono state affidate cariche amministrative e politiche. E’ iscritto al
partito socialista rivoluzionario. Non ha precedentemente appartenuto ad altro
partito.
«Ha molta influenza nel partito socialista locale, di cui è
il capo e di cui fa il promotore. La sua influenza è circoscritta al luogo dove
risiede. E’ stato in corrispondenza epistolare con i componenti il comitato
centrale socialista di Palermo, con l’avv. Maniscalco direttore della Giustizia
Sociale, coi nominativi Rao Gaetano, Presidente del disciolto fascio dei
lavoratori di Canicattì, Di Napoli Rinaldo Presidente del disciolto fascio di
Grotte, coll’onorevole Colajanni e col presidente della Federazione Regionale
Socialista Lombarda. Non è stato, nè è in relazione epistolare con individui
del partito all’Estero. Presentemente è in relazione epistolare col Direttore
del periodico ‘La Riscossa’ di Palermo, il presidente del Comitato Regionale
della Federazione Socialista Ligure, coi sudetti Di Napoli e Rao, col Direttore
del periodico ‘La Lotta di classe’, e dicesi in relazione epistolare con Bosco
Garibaldi e l’on. De Felice.
«Non ha dimorato all’estero, nè vi riportò condanne, e non
ne fu esplulso. - Ha appertunuto al disciolto fascio dei lavoratori di
Racalmuto, con la carica di Presidente. Presentemente non appartiene ad alcuna
associazione sovversiva di mutuo soccorso o di altro genere. Durante il 1893 ha
collaborato ai periodici sovversivi ‘La Lotta di Classe’ e ‘La Giustizia
Sociale’. Di tanto in tanto spedisce corrispondenze alla ‘Riscossa’, ed alla
‘Lotta di Classe’.
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«Riceve i periodici ‘La lotta di classe’ e ‘la Riscossa’ ed
opuscoli editi a cura del Comitato Regionale della Federazione socialista
Ligure. Fa propaganda fra gli esercenti arti e mestieri, con poco profitto. E’
capace tenere conferenze. Ne ha tenute nel 1893, nel locale di questo disciolto
fascio dei lavoratori, e nel domicilio di qualche socialista di qui. - Verso le
autorità tiene un contegno sprezzante. Non ha preso parte a manifestazioni del
partito cui è ascritto a mezzo della stampa firmando cioè manifesti,
programmetti. Ma ha preso parte in occasione della dimostrazione organizzata in
questa Stazione ferroviaria il 2 Novembre 1893, al passaggio dell’on.
Colajanni, nella quale circostanza il fanatismo dei dimostranti raggiunse il
colmo, intervenne la forza pubblica, fu percosso il Deputato di P.S. del tempo,
malmenati il Maresciallo ed i militi.
«Nelle elezioni ammimistrative di Racalmuto del 1905 è stato
eletto consigliere comunale. »
[Aggiunta
in calce la posteriore data: Girgenti 14 gennaio 1908 - il prefetto Mario
Rebucci].
«Prefettura di Girgenti - Cenno biografico
del 20 ottobre 1913 - Andatura attempata. - Gode nell’opinione pubblica fama di
uomo di poco carattere e di nessuna serietà. D’intelligenza ed educazione
medie, è mordace ed aggressivo, quando scrive per i giornali, tanto che ha un
frasario tutto suo speciale, fatto di volgare turpiloquio, appunto perché nelle
lotte sia politiche che amministrative non sa fare a meno di attaccare in modo
triviale le persone degli avversari, invece di combattere le idee. E’ laureato
in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte
pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate. Di natura fiacca,
lavora lo stretto necessario, approfittando di quello che ricava dalla poca
proprietà immobiliare a lui lasciata da un suo avo. Tenace nelle lotte, ma non
nel carattere, egli varia di continuo e con molta leggerezza di relazioni
politiche e di amicizie personali, a seconda della convenienza e
dell’opportunità del momento, non si può dire quindi egli abbia in ciò una
direttiva sicura, per quanto inclini nella scelta verso gli elementi sovversivi
o politicamente esaltati. Si deve a tale sua malleabilità di carattere ed
azione se egli sia stato consigliere comunale ed anche assessore supplente.
Nella presente lotta politica, egli, transigendo con la sua condotta passata,
ha stretto relazione con persone, altra volta attaccate fino all’insulto, per
appoggiare la candidatura socialista dell’Avv. Marchesano. Nel biennio
1893-1894 - egli dette pensiero ed azione ai moti convulsionarii dei ‘fasci’ ed
ebbe perciò il suo quarto d’ora di influenza e di popolarità, fra gli elementi
sovversivi di allora; ma sopravvenuta la repressione egli ritornò quello di
prima, anzi fu lì lì per essere inviato a domicilio coatto, a termini dell’art.
3 della legge 19 luglio 1894. [..]
Successivamente egli si occupò dei suoi affari privati per cui fece dimora a
Delia ed a Casteltermini. Nel presente fa qualche pubblicazione sui giornali
della provincia a carattere sovversivo; fa come può, ma con scarso profitto,
propaganda fra gli operai ed è presidente della lega di miglioramento tra gli
zolfatai di Racalmuto.
«E’ capace di parlare al pubblico, ma non di tenere
conferenze vere e proprie, ciò quindi ha fatto sempre che se ne sia presentata
l’occasione; in lui però più che la facilità di parola è comune il turpiloquio,
che, in fondo, tradisce la sua origine volgare. Però nel passato tenne verso
l’autorità un contegno altero e sprezzante; ora però si mostra remissivo e
rispettoso. Ma ha preso parte a vere e proprie pubbliche manifestazioni di
carattere del partito. Nel 1893 intervenne in manifestazioni più o meno
violente e, successivamente, in un pubblico spettacolo si lasciò andare a
qualche atto inconsulto. Mai fu sottoposto alla pregiudiziale ammonizione e fu
solo proposto, ma non assegnato, a domicilio coatto. Non ha subito condanne, ma
ha i seguenti precedenti penali. Il 1° settembre 1893 fu arrestato in Milocca
per istigazione a delinquere; a 7 maggio 1894 fu assolto dal Tribunale di
Girgenti dall’imputazione di violenza e resistenza ad agenti della forza
pubblica; a 19 maggio 1894 la camera di consiglio di Girgenti disse non luogo
per l’imputazione di tentativo di fare insorgere gli abitanti del regno contro
i poteri dello stato. Nello assieme il Vella, per quanto sempre relativamente
temibile, non è più il sovversivo di una volta e non è più da ritenersi un
socialista veramente combattivo, perché, in fondo, non riesce a farsi pigliare
sul serio da alcuno. L’età, il male cronico di cui è affetto e qualche debito
hanno fiaccato e piegato il suo carattere, naturalmente a ciò disposto, ed oggi
si aggioga al carro di taluni conservatori, liberali d’occasione, con la stessa
facilità con la quale si metterebbe loro contro, se gli tornasse opportuno,
data anche la sua venalità.»
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