lunedì 23 febbraio 2015

Fine del fascismo

«Durante tutto il periodo fascista continuarono ad essere comunisti, subire discriminazioni violente e non piegarsi, affrontando fame e disagi, ma rimanendo a Racalmuto Vincenzo Macaluso fu Stefano falegname, Salvatore Jacono calzolaio, Salvatore Dell’Aira muratore, Eduardo Romano, muratore, Giovanni Lo Forte, Di Liberto Carlo, Luigi Leone, Leonardo Abramo Vizzini, Alfonso Tirone Tiberio e qualche altro. Mantenersi iscritto clandestinamente al partito comunista durante il fascismo era una impresa non facile, si trattava rischiare la galera ad ogni istante e la rovina della propria famiglia. Loro furono in continuo contatto con Cesare Sessa a Raffadali. Per lo più vi si recava Eduardo Romano, col pretesto che andava a badare alla campagna dell’avv. Vincenzo Campo, cognato del Sessa. Solo Sessa rimase nell’Agrigentino a reggere le fila del partito comunista. Il dirigente Scarfidi, in seguito ad un’aggressione subita a casa dalle squadre fasciste, dalla quale scampò mediante l’intervento di un alto magistrato, al quale era amico, che, quel giornoper caso, era andato a fargli visita e fu presente, era fuggito e si era rifugiato in un convento. I comunisti di Racalmuto, spesso Romano ed una volta anche Abramo, durante la dittatura andavano anche a presenziare riunioni segrete a Palermo. Avvenivano in una casa in via Albergheria ed erano presiedute dall’onorevole Pilato.
«Ad Eduardo Romano infine è da attribuirsi il merito di avere salvato il grosso del partito, che poi furono quelli che in maggioranza fecero l’abiura a don Enrico, dalle persecuzioni. Infatti, allorchè alla caserma gli chiesero l’elenco dei tesserati, egli fornì un elenco in cui comparvero i notabili e tutti i morti e gli emigrati. Un plauso solenne vada pertanto a costoro vivi e defunti, che ebbero il coraggio di professare le proprie idee affrontando ogni rischio. E ben ha fatto il partito comunista nel 1961 ad offrire una medaglia di bronzo ed il diploma degli otto lustri di fedeltà ai superstit, perché le nuove generazioni potessero conoscere ed ammirare gli uomini tenaci e fermi nel loro credo anche in clima di difficoltà e divieto. Da Racalmuto poterono avere quest’attestato di riconoscenza, Salvatore Dell’Aira, Di Liberto Carlo e Vincenzo Macaluso. Quest’ultimo alla memoria, per essere deceduto giorni prima. Don Enrico non seppe mai queste cose e dire che aveva sempre fra i piedi Carmelo Romano, il fratello di Eduardo che gli faceva l’amico e badava a tener lungi i sospetti dalla sua casa.
«Lui seppe solo il borbottio della bottega Giudice e del salone Bellavia, ma non potè mai eccpire alcunchè per colpire con carcere e confine il titolare ed i frequentatori. [..]
«Il giovane che sin qua ci ha seguiti ci darà, credo, dell’esagerato, ma prima di giudicare si informi e saprà che il fascismo aveva un decalogo, i cui primi articoli o comandamenti così dicevano - 1) Mussolini ha sempre ragione; 2) le punizioni sono sempre meritate; 3) la Patria si serve anche facendo da guardia ad un bidone di benzina, ecc. ecc.
«Quando vedrà che il governo fascista imponeva il domma dell’infallibilità del suo capo, costringeva la supina accettazione di ogni pena e poneva tutte le attività lavorative al servizio della Patria, per attribuire il delitto di attentato alla sicurezza dello Stato contro ogni inadempienza, si accorgerà che non siamo esagerati e si meravigliera che un popolo di circa 45 milioni di componenti ha sopportato per venti anni tanto obbrobrioso sistema. Coloro che avevano assaporato la libertà democratica mal sopportavano tanta opprimente vuotaggine, ma guai a manifestare la loro avversione, si rischiava il confine o la galera, il domicilio coatto o una serie di legnate e sevizie nelle caserme. Ebbe considerevoli guai Edoardo Romano, per esempio, perché a Giovanni Agrò che gli ingiunse un giorno al campo sportivo di credere, obbedire e combattere, rispose: - Combattere sì, perché se mi chiamano alle armi non mi posso rifiutare, obbedire altrettanto perché se non ubbidisco mi costringono a farlo, ma credere no, perché nessuno può impormi una fede. [...]
«Si nasceva figli della lupa e si aveva una divisa da portare ed un moschetto. Si diventava balilla e la stessa cosa, poi avanguardista, giovane fascista, camicia nera ecc. L’opera nazionale Balilla era stata sostituita dalla Gil, gioventù italiana del littorio, che inquadrava tutta la gioventù della nazione in un casermone rigurgitante odio ed abuso, soverchieria e sbronzerie dei tanti megalomani dell’epoca. Per andare a scuola si doveva presentare la tessera Gil, sia per le elementari che per le medie o superiori, comprese le università, dove oltre al diploma di maturità si doveva esibire il certificato di iscrizione al G.U.F., gioventù universitaria fascista, e l’attestato di avere superato il brevetto sportivo. Senza la tessera Gil non si poteva nemmeno lavorare. A Racalmuto potè rifiutarla un solo giovane, Calogero Macaluso, figlio di un cugino di don Enrico, il quale da solo, o per contatti con Eduardo Romano, diventò comunista. Costui fu raggiunto dai tentacoli della piovra nera del fascismo e fu chiamato in caserma dai carabinieri. Il maresciallo gli disse, fra l’altro, che lo avrebbe arrestato se non prendeva la tessera. Lui ebbe il coraggio di ripondere: - mi arresti pure, è necessario che i nostri compagni in galera ricevino il conforto delle nuove generazioni. - Non fu arrestato perché don Enrico non volle subire l’affronto di far sapere ovunque che un suo omonimo parente non era fascista.
«Nelle scuole si studiava dottrina fascista e cultura militare fino alla università dove pure era la materia obbligatoria di mistica fascista. Prima di andare soldati c’era il premilitare obbligatorio, e qui a suon di nerbo i giovani diciottonni, ogni Sabato pomeriggio, per ore ed ore dovevano stare a fare marce ed istruzioni. A Racalmuto il premilitare si faceva al campo sportivo, lo faceva fare il geometra Luigi Falletti, coadiuvato dal cadetto della milizia Luigi Di Marco e qualche altro. Non so altrove, ma a Racalmuto la borghesia aveva un privilegio, non faceva le istruzioni. Noi studenti facevamo gli elenchi al geometra Falletti e stavamo ogni sabato a guardare. Ricordiamo la nausea e la ribellione che provavamo quando vedevamo schiaffeggiare sonoramente i poveri giovani contadini ed a volte anche bastonare, perché si muovevano sull’attenti o per altro. La nausea ci veniva perché già ai nostri diciotto anni eravamo organizzati da circa due anni nelle file clandestine antifasciste. Alla formazione del nostro pensiero politico, impreciso partiticamente, ma decisamente ugualitario, di sinistra e di pronta opposizione al fascismo, contribuì, oltre la famiglia sempre antifascista alla quale apparteniamo, il nostro insegnante di filosofia Ettore Centineo, che ci schiuse la mente alla democrazia ed alla critica. Siamo entrati nelle organizzazioni allora operanti in Italia per mezzo di Leonardo Sciascia [..] A lui si deve la formazione di un gruppo di studenti antifascisti in Racalmuto e la coscienza della brutalità di quel partito, nonchè della sua carenza ideologica fra gli studenti di ieri e professionisti di oggi in questo paese. Leonardo Sciascia, convinto comunista nel 1938 e 39, quando aveva 17 e 18 anni, riuscì a fare preziose cellule nel paese, si ricordano Angelo Picone, Diego Paradiso e Salvatore Cavallaro, oltre noi e qualche altro fra coloro che collaborarono nei limiti delle loro capacità, compromettendosi magari, a prepare la resistenza contro il fascismo ed a sabotare le organizzazioni della dittatura. [...]
«Feste nazionali sotto il fascismo erano: il 23 marzo, anniversario della fondazione del fascio, il 21 aprile, natale di Roma, l’11 febbraio anniversario del Concordato con la Chiesa, il 24 maggio, entrata in guerra, il 28 ottobre anniversario della marcia su Roma ed il 4 novembre festa della vittoria. [..] Una mattina di festa nazionale il dottor Giuseppe Cavallaro ebbe inferto dai fascisti racalmutesi un colpo terribile, tale che tarò per sempre la sua salute. Il dottor Cavallaro era un vecchietto senza figli, che ogni giorno con la moglie andava a trovare il suocere e i cognati. Un giorno fu fermato in Via R. Margherita, davanti di Pavia dai militi. Gli chiesero perché non portava la camicia nera quantunque festa nazionale. Il povero dottore rispose di averlo dimenticato, essendo uscito di premura per fare una visita di urgenza. I militi fecero l’addebito e riferirono al segretario politico. Il dottor Cavallaro ebbe ritirata la tessera d’iscrizione al partito nazionale fascista. Tale provvedimento significava la rovina, infatti senza tessera non si poteva esercitare la professione sanitaria, perché l’ordine dei medici lo vietava. Il dottor Cavallaro, sospeso dall’esercizio professionale, si dispiacque tanto, anche se stava economicamente bene, che si ammalò. Non si guarì più e morì alcuni anni dopo. [...]
«La delinquenza però è bene che si dica non finì proprio sotto il fascismo, e la stessa mafia non fu eliminata, infatti ad essa, strumento di repressione contadina, si sostituì lo stato autoriatario fascista, cioè non ve ne fu più bisogno e sembrò essere stata debellata, ma debellata non fu tanto che rinacque così rigogliosa alla caduta del regime, cessarono soltanto le efferatezze del dopo prima guerra mondiale non la criminalità vera e propria. Al fascismo si diede a torto quel merito. Si dimenticò che Sciascia, il ricevitore del registro fu assassinato nel 1935 e c’era il fascismo, Federico Giancani ammazzato barbaramente nel maggio del 1937 e c’era il fascismo, il latitante Ciciruneddu, Rizzo, non potè mai essere preso dalle forze dell’ordine e fu ucciso da uno per la regola del tagione che gravava sulla sua morte ed erano gli anni dal 1936 al 1939 e c’era il fascismo, l’orificeria di don Carmelo Rosina fu scassinata, una prostituta fu trovata con la gola recisa da un rasoio nella sua casa in Via Madonna della Rocca, l’altra fatta a pezzi alla Acqua Amara presso la Torre di Baeri in pieno fascismo. Abbiamo voluto citare i misfatti più eclatanti del periodo fascista, sorvolando i minori, per dimostrare l’infondatezza di quest’affermazione, che, purtroppo, si sente ancora ripetere nelle discussioni di piazza. Il fascismo usò metodi repressivi atroci e questo è vero, mise la pena di morte e la esercitò e questo è pure vero, ma l’una e l’altra non gli fanno onore. Non si scherza con la vita degli uomini, ed essa è sacra e nessuno può toglierla per nessuna ragione. La società può relegare fuori del proprio consorzio il tarato, il reo, ma non sopprimerlo, non ne ha nessun diritto. La repressione poliziesca del fascismo poi era peggio della fucilazione, si trattava delle torture di medievale memoria, praticate nelle caserme dei carabinieri: nerbate fino al sangue, scosse elettriche, fare ingerire acqua satura di sale, legare alla cassetta e tante e tante altre barbarie. Basta dire che l’omicidio di Federico Giancani se lo accollarono parecchie persone incapaci ed innocenti pur di non patire più le torture e poi si vennero a trovare i colpevoli fuori dell’Italia, in Africa dove erano riusciti ad imboscarsi.» (10)
La traballante prosa del Messana traccia un quadro della situazione politica a Racalmuto duntante il fascismo che va preso - lo ripetiamo - con le molle. Ma qualche elemento di prima mano ce lo fornisce. Sappiamo solo così di antifascisti operanti a Racalmuto. Le loro vicende sono palesemente enfiate. Un riscontro possiamo coglierlo dale schedature della polizia, oggi consultabili presso l’Archivio Centrale dello Stato in Roma.
Secondo il Messana, il maggiore esponente comunista dell’epoca fu Edoardo Roma. Abbiamo visto che la locale caserma dei carabinieri già nel 1925 lo definisce un “pericoloso comunista”, portando acqua al mulino dellenfasi antifascista del nostro storico racalmutese. Pericoloso lo fu, però, non a lungo, se lo schedario puntuale e puntiglioso del capo della polizia Arturo Bocchini (11) lo ignora del tutto. Forse a motivo delle influenti protezioni fasciste che al Romano venivano dalle sue parentele bene inserite nel regime. Vi sarà pure un motivo se la famosa medaglia di fedelta quarantennale al PCI non fu conferita nel 1961 ad Edoardo Romano (vedansi le precedenti annotazioni del Messana).
Nelle nostre ricerche a Roma, di racalmutesi finiti negli schedari di polizia durante il fascismo troviamo:
1) Vella Vincenzo;
2)  Vella Diego;
3) Picone Chiodo Calogero;
4) Sacerdoti Edmondo;
5) Messana Everardo.
Ma dei cinque sudetti nominativi i veri racalmutesti sono tre (Vella Vincenzo, Picone Chiodo Calogero e Messana Everardo), nessuno viene schedato in quanto comunista, e i due schedati (Picone Chiodo Calogero e Messana Everardo) hanno poco di politico.
Vella Vincenzo, è personaggio di risalto durante i Fasci siciliani, è attivo nell’era prefascista e rientra nei ranghi durante il fascismo. Schedato già dalla questura di Girgenti sin dal primo settembre del 1896, ne è “radiato” l’8 aprile 1936 «tenuto conto della buona condotta e delle prove di ravvedimento» ed essendosi «espresso in senso favorevole al Governo nazionale.»
Nel 1893 si era lanciato nell’agone politico a capo del movimento contadino e zolfataio del luogo, con cipiglio e furore. Agì anche fuori di Racalmuto: lo troviamo impigliato nella repressione dei moti rivoluzionari dei Fasci in quel di Milena. Ecco quel che ci racconta Arturo Petix: «Nel pomeriggio del 27 luglio del 1893, a Milocca, in casa del contadino Luigi Schillaci, posta nella robba Valenti (oggi via Gioberti) si riuniva un gruppo di contadini con lo scopo di costituirsi in fascio dei lavoratori. [...] A quella riunione furono presenti l’Avvocato Vincenzo Vella, presidente del fascio dei lavoratori di Racalmuto e l’insegnante Rinaldo Di Napoli, presidente di quello di Grotte (ASCL, Carp. n. 9, Pubbl. Sicur., lettera del 2 agosto 1893).»( 12). Abbiamo sopra fornito alcuni dati del fascicolo sul Vella dell’Archivio Centrale dello Stato. Li integriamo qui trascrivendo quant’altro vi è annotato.
«N.° 16434 - Prefettura di Girgenti, comune di Racalmuto - Vella Vincenzo fu Giuseppe e della Vincenza Tinebra nato in Racalmuto il 17 ottobre 1868, residente a Racalmuto mandamento della Provincia di Girgenti.- Laureato in giurisprudenza - celibe - Socialista rivoluzionario - statura 1,58 - corporatura robusta, capelli castano scuri, viso oblungo, fronte alta, occhi castani, naso giusto, barba alla mefistofele e di colore castana scura, mento tondo, bocca regolare, espressione fisionomica satirica, abigliamento (sic) abituale, veste decente in nero.
«Riscuote nell’opinione pubblica fama di fanatico stravagante. Di carattere volubile. Di educazione limitata, in quanto che si appartiene a famiglia di esercenti miniere. Di corta intelligenza. Di coltura scarsissima. Ha compiuto gli studi nel liceo ed il corso di università in legge. Non possiede titoli accademici. E’ lavoratore fiacco. Ritrae i mezzi di sostentamento dalla poca proprietà lasciata alla famiglia dall’Avv. Tinebra Vincenzo. Frequenta la compagnia dei pochi affiliati al partito socialista di questo  Comune e dei Comuni di Grotte ed Aragona. Mal si comporta nei suoi doveri con la famiglia, di cui dovrebbe essere il sostegno, causa la morte del padre, trascurandola completamente. Non gli sono state affidate cariche amministrative e politiche. E’ iscritto al partito socialista rivoluzionario. Non ha precedentemente appartenuto ad altro partito.
«Ha molta influenza nel partito socialista locale, di cui è il capo e di cui fa il promotore. La sua influenza è circoscritta al luogo dove risiede. E’ stato in corrispondenza epistolare con i componenti il comitato centrale socialista di Palermo, con l’avv. Maniscalco direttore della Giustizia Sociale, coi nominativi Rao Gaetano, Presidente del disciolto fascio dei lavoratori di Canicattì, Di Napoli Rinaldo Presidente del disciolto fascio di Grotte, coll’onorevole Colajanni e col presidente della Federazione Regionale Socialista Lombarda. Non è stato, nè è in relazione epistolare con individui del partito all’Estero. Presentemente è in relazione epistolare col Direttore del periodico ‘La Riscossa’ di Palermo, il presidente del Comitato Regionale della Federazione Socialista Ligure, coi sudetti Di Napoli e Rao, col Direttore del periodico ‘La Lotta di classe’, e dicesi in relazione epistolare con Bosco Garibaldi e l’on. De Felice.
«Non ha dimorato all’estero, nè vi riportò condanne, e non ne fu esplulso. - Ha appertunuto al disciolto fascio dei lavoratori di Racalmuto, con la carica di Presidente. Presentemente non appartiene ad alcuna associazione sovversiva di mutuo soccorso o di altro genere. Durante il 1893 ha collaborato ai periodici sovversivi ‘La Lotta di Classe’ e ‘La Giustizia Sociale’. Di tanto in tanto spedisce corrispondenze alla ‘Riscossa’, ed alla ‘Lotta di Classe’.
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«Riceve i periodici ‘La lotta di classe’ e ‘la Riscossa’ ed opuscoli editi a cura del Comitato Regionale della Federazione socialista Ligure. Fa propaganda fra gli esercenti arti e mestieri, con poco profitto. E’ capace tenere conferenze. Ne ha tenute nel 1893, nel locale di questo disciolto fascio dei lavoratori, e nel domicilio di qualche socialista di qui. - Verso le autorità tiene un contegno sprezzante. Non ha preso parte a manifestazioni del partito cui è ascritto a mezzo della stampa firmando cioè manifesti, programmetti. Ma ha preso parte in occasione della dimostrazione organizzata in questa Stazione ferroviaria il 2 Novembre 1893, al passaggio dell’on. Colajanni, nella quale circostanza il fanatismo dei dimostranti raggiunse il colmo, intervenne la forza pubblica, fu percosso il Deputato di P.S. del tempo, malmenati il Maresciallo ed i militi.
«Nelle elezioni ammimistrative di Racalmuto del 1905 è stato eletto consigliere comunale. »
[Aggiunta in calce la posteriore data: Girgenti 14 gennaio 1908 - il prefetto Mario Rebucci].
«Prefettura di Girgenti - Cenno biografico del 20 ottobre 1913 - Andatura attempata. - Gode nell’opinione pubblica fama di uomo di poco carattere e di nessuna serietà. D’intelligenza ed educazione medie, è mordace ed aggressivo, quando scrive per i giornali, tanto che ha un frasario tutto suo speciale, fatto di volgare turpiloquio, appunto perché nelle lotte sia politiche che amministrative non sa fare a meno di attaccare in modo triviale le persone degli avversari, invece di combattere le idee. E’ laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate. Di natura fiacca, lavora lo stretto necessario, approfittando di quello che ricava dalla poca proprietà immobiliare a lui lasciata da un suo avo. Tenace nelle lotte, ma non nel carattere, egli varia di continuo e con molta leggerezza di relazioni politiche e di amicizie personali, a seconda della convenienza e dell’opportunità del momento, non si può dire quindi egli abbia in ciò una direttiva sicura, per quanto inclini nella scelta verso gli elementi sovversivi o politicamente esaltati. Si deve a tale sua malleabilità di carattere ed azione se egli sia stato consigliere comunale ed anche assessore supplente. Nella presente lotta politica, egli, transigendo con la sua condotta passata, ha stretto relazione con persone, altra volta attaccate fino all’insulto, per appoggiare la candidatura socialista dell’Avv. Marchesano. Nel biennio 1893-1894 - egli dette pensiero ed azione ai moti convulsionarii dei ‘fasci’ ed ebbe perciò il suo quarto d’ora di influenza e di popolarità, fra gli elementi sovversivi di allora; ma sopravvenuta la repressione egli ritornò quello di prima, anzi fu lì lì per essere inviato a domicilio coatto, a termini dell’art. 3 della legge 19 luglio 1894.  [..] Successivamente egli si occupò dei suoi affari privati per cui fece dimora a Delia ed a Casteltermini. Nel presente fa qualche pubblicazione sui giornali della provincia a carattere sovversivo; fa come può, ma con scarso profitto, propaganda fra gli operai ed è presidente della lega di miglioramento tra gli zolfatai di Racalmuto.
«E’ capace di parlare al pubblico, ma non di tenere conferenze vere e proprie, ciò quindi ha fatto sempre che se ne sia presentata l’occasione; in lui però più che la facilità di parola è comune il turpiloquio, che, in fondo, tradisce la sua origine volgare. Però nel passato tenne verso l’autorità un contegno altero e sprezzante; ora però si mostra remissivo e rispettoso. Ma ha preso parte a vere e proprie pubbliche manifestazioni di carattere del partito. Nel 1893 intervenne in manifestazioni più o meno violente e, successivamente, in un pubblico spettacolo si lasciò andare a qualche atto inconsulto. Mai fu sottoposto alla pregiudiziale ammonizione e fu solo proposto, ma non assegnato, a domicilio coatto. Non ha subito condanne, ma ha i seguenti precedenti penali. Il 1° settembre 1893 fu arrestato in Milocca per istigazione a delinquere; a 7 maggio 1894 fu assolto dal Tribunale di Girgenti dall’imputazione di violenza e resistenza ad agenti della forza pubblica; a 19 maggio 1894 la camera di consiglio di Girgenti disse non luogo per l’imputazione di tentativo di fare insorgere gli abitanti del regno contro i poteri dello stato. Nello assieme il Vella, per quanto sempre relativamente temibile, non è più il sovversivo di una volta e non è più da ritenersi un socialista veramente combattivo, perché, in fondo, non riesce a farsi pigliare sul serio da alcuno. L’età, il male cronico di cui è affetto e qualche debito hanno fiaccato e piegato il suo carattere, naturalmente a ciò disposto, ed oggi si aggioga al carro di taluni conservatori, liberali d’occasione, con la stessa facilità con la quale si metterebbe loro contro, se gli tornasse opportuno, data anche la sua venalità.»

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