Lo storico
locale E.N. Messana (op. cit. pag. 358) retrodata sentimenti antifascisti del
dopoguerra con evidente falsificazione della realtà, quando storicizza le sue
personali fantasie sul tiennio racalmutese 1919-1922. «A
Milano intanto, - annota - nel marzo dello stesso anno [1919], fu fondato il
fascio di combattimento. La borghesia e specialmente i capitalisti presero
respiro di quella forza antirivoluzionaria e violenta che subito cominciò a
bravacciare nelle città e nei comuni. A Racalmuto, il partito nazionalista, di
già menzionato, aveva accampato le pretese di rappresentare la conservazione
contro la evoluzione affiorante, sebbene con metodi inesperti e puerili. Le
notizie dei fasci e dello squadrismo si raccontavano al circolo Unione ed al
circolo degli Amici. Qualche do’
esultava a quelle nuove e non nascondeva il desiderio che anche a Racalmuto
venissero i prodi in camicia nera a bastonare gli zolfatai e i contadini.» Ma
la questione - come vedremo in seguito - era ben altra, più complessa e più gravida di conseguenze sociali.
Il biennio
1923-1924 è denso di avventimenti che sicuramente moficano lo scenario
nazionale: è però erroneo ritenere che si apra una parentesi destinata a
chiursi a conclusione della guerra, adottando il criterio interpretativo del
Croce. La storia non procede per salti. Solo alcuni processi modificativi hanno
sussulti di accelerazione. E la consegna dei pieni poteri a Mussolini alla fine
del 1922 è una di queste fase. Peculiare diventa l’acquisizione di una
sensibilità delle masse in senso nazionale che, sicuramente prima difettava, specie
in Sicilia.
Per il
pensiero ufficiale del fascismo del tempo si iniziava una Rivoluzione; ma è da credere allo stesso Mussolini se nel
drammatico discorso al Senato del 1924 precisava: «all’indomani della Rivoluzione, io mi trovai di fronte a questo quesito:
creare una nuova legalità o innestare la Rivoluzione nel tronco, che io non ritenevo affatto
esausto, della vecchia legalità? Fuori la Costituzione o dentro la
Costituzione? Io scelsi e dissi; dentro la Costituzione. Questo vi spiega la
composizione del mio primo Ministero, e vi spiega la serie dei successivi atti
politici». Il 12 giugno del 1924, in un altro discorso al Senato, Mussolini
aveva ancor più puntualmente aveva ben raffigurato questo processo di
«normalizzazione costituzionale» del primo fascismo: «Si trattava di
riassorbire la illegalità nella Costituzione ... di rimettere grado a grado ...
nell’alveo della legalità la vasta fiumana che aveva rovesciato gli argini.
[...] Chiamai al governo uomini di tutti i partiti. Riapersi il Parlamento, e
ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni poteri. Affrontai e risolsi di lì a
poche settimane il problema gravissimo degli squadristi. Ho esercitato i pieni
poteri per un anno. Potevo chiedere la proroga ... Vi rinunciai. Non avevo
proposte leggi eccezionali e mi proponevo di fare un altro passo innanzi sulla
strada della legalità .... Sciolta regolarmente la Camera, furono nei termini
prescritti dalla legge, indetti i comizi
elettorali. La lista nazionale ha raccolto circa 4 milioni ottocentomila voti
... Ottenuto il suffragio del popolo, le necessità della politica interna si
delinearono ancor più chiaramente nel mio spirito, precisate in questi
capisaldi fondamentali:
«1° far
funzionare regolarmente l’istituto parlamentare come organo del potere
legislativo ...; 2°) regolare dal punto di vista della Costituzione la
situazione della Milizia Volontaria; 3°) reprimere i superstiti illegalismi del
Partito; 4°) chiamare all’opera di ricostruzione tutte le forze vive della
Nazione ... Tutte le mie manifestazioni politiche dal 6 aprile in poi tendono a
questa mèta: ad accelerare l’entrata definitiva del Fascismo nell’orbita della
Costituzione». E ritornando al discorso al Senato del 5 dicembre, Mussolini,
alla domanda rivolta a se stesso: «Da allora ad oggi c’è stato o non c’è stato
un processo di riassorbimento della Rivoluzione nella Costituzione?», affermava
«Rispondo nettamente: c’è stato: faticoso, lento, difficile, ma c’è stato ...».
()
Siamo
propensi a credere che - ad onta delle autorevoli affermazioni del Valiani e
del Ragioneieri () - ben diverso sarebbe stato il corso della storia nazionale
se non ci fosse stato il delitto Matteotti (10 agosto 1924) e l’irrigidimento aventiniano.
Ciò - s’intende - tenendo presente che la storia non ammette ipotesi.
Come
veniva ricostruita quella tragica crisi seguita al delitto Matteotti,
all’interno del fascismo coevo? Stralciamo dallo studio dell’Ercole () i seguenti passaggi:
«Mussolini
pareva esser riuscito ... «a ristabilire
i termini necessari di quella convivenza politica e civile che è più necessaria
fra le parti opposte della Camera ...» (V, p. 10),»; eppure «”mentre nel Paese si era diffusa la
sensazione che un nuovo periodo di tranquillità e di pace stava per iniziarsi
[si aveva] l’episodio tragico, che è costata la vita all’on. Matteotti” (IV, 24 giugno al Senatop. 195). Quella sciagurata beffa del giugno, come Egli
la chiamerà in Gerarchia, in uno
articolo scritto alla fine di ottobre ‘25,
“diventa orribile tragedia indipendentemente, anzi contro la volontà degli
autori”, la quale determinerà nello sviluppo della Rivoluzione la “sosta di un semestre” (v. Elementi di storia in Gerarchia, p. 179)»
«Perché
dal delitto Matteotti le opposizioni credettero subito di poter trarre il
pretesto per tentare di “annullare tutto
quello che significa, dal punto di vista morale e politico, il Regime che è
uscito dalla Rivoluzione dell’ottobre” (IV, 25 giugno 1924, alla
maggioranza parlamentare, p. 207), inscenando la secessione parlamentare
cosidetta dell’Aventino e abusando di una persistente eccessiva libertà di
parola e di stampa, per chiedere, e per proprio conto iniziare, il processo al
regime, alla Marcia su Roma e alla Rivoluzione ... (‘il Regime non si fa processare se non dalla storia ‘.. (IV,
22 luglio ‘24: al Gran Consiglio, p. 214, e v. anche 7 agosto ‘24: al Consiglio
Nazionale del Partito, p. 242), in nome di una pretesa normalizzazione, dietro cui non si nascondeva che la speranza di
potere agganciare Mussolini, isolare materialmente e moralmente, disarmandolo,
il Fascismo e i Fascisti nel Paese, creare una situazione tale da permettere il
ritorno alla paralisi parlamentare,
sbarazzarsi del Governo fascista con un semplice voto di maggioranza della
Camera dei Deputati: come se il Fascismo fosse
arrivato al potere per la via ordinaria, e questo gli fosse stato dato
da un ordine del giorno: come, cioè, se esso potesse considerarsi “alla stregua di tutti i Partiti e considerare
il Parlamento come l’unico ambiente, nel quale tutte le situazioni politiche di
una Nazione in momenti eccezionali potessero trovare la loro soluzione
ordinaria e regolare” (IV, all’Associazione Costituzionale di Milano, 4
ottobre ‘24, p. 290).»
«Alla quale
speranza Mussolini darà la definitiva risposta, parlando il 29 ottobre 1924, al
Popolo di Cremona:
«”Noi siamo qui a dire che .. non siamo dei
vanitosi e nemmeno dei prepotenti, ma siamo dei soldati fedeli alla consegna, e
la consegna ci è stata data dal Re e dalla Nazione. Solo al Re, solo alla
Nazione noi dobbiamo rendere atto del nostro operato; non a coloro, che ad ogni
gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni legge, vorrebbero intentarci il loro
ridicolo processo, mentre sono gli esclusie i condannati dalla nuova storia” (IV, p. 335): onde la dichiarazionedel 5
dicembre in Senato: ... “Si è detto: voi
voleterestare al potere ad ogni costo. Non è vero. Nella grande piazza di
Cremona, ad una moltitudine immensa di Popolo, ho detto che riconoscevo i diritti
della Nazione e i diritti imprescrittibili di Sua Maestà il Re. Se Sua Maestà
al termine di questa seduta mi chiamasse e mi dicesse che bisogna andarsene, mi
metterei sull’attenti, farei il saluto militare e obbedirei. Dico Sua Maestà il
Re Vittorio Emanuele III di Savoia; ma, quando si tratta di Sua Maestà il Corriere
della Sera, allora no” (IV, p. 411).»
«[ ...] “La maggioranza cominciò a perdere alcuni dei
suoi elementi in margine: liberali,
democratici, combattenti. Credo che nella seduta del 16 dicembre - la seduta di
tre ex-presidenti - questo processo di erosione ai margini abbia toccato il
punto estremo” (V, Elogio ai
gregari, p. 23)».
Il
tentativo parlamentare di far crollare il fascismo non ebbe successo «perché
dall’altra parte stava il Fascismo “con i
suoi ottomila grusppi in ogni angolo d’Italia, con le sue forze politiche,
sindacali, amministrative, sempre imponenti”: il Fascismo che era stato “percosso, non abbattuto”, e a cui il
colpo aveva finito per giovare, facendogli perdere “le scorie funeste” (IV, p. 197). [..] “Se il Regime rapidamente potè
essere in grado di sferrare il contrattacco - il che avvenne il 3 gennaio di
quell’anno (1925) - il merito -- va alle masse rurali del Fascismo, che non si
sbandarono, a me, che rimasi tranquillo al mio posto nell’imperversare delle
molte bufere, e al Popolo italiano, che non fu dimentico del passato e non
disperò dell’avvenire” (V, Elementi di Storia, p. 179).»
Non
crediamo che fra quelle “masse rurali” era da includere il ceto contadino racalmutese.
Nulla ce lo lascia intravedere. E’, però, certo che agrari locali, esercenti
delle miniere di zolfo racalmutese, gabellotti, contadini e braccianti ed il
piccolo ceto dell’infima borghesia di Racalmuto ebbero modo di disaffezionarsi
ai loro referenti politici sia della Democrazia Sociale di Guarino Amella e
Colonna di Cesarò, sia allo stesso partito democratico-riformista di Enrico La
Laggia, cui ultimamente aveva aderito una frangia degli ottimati racalmutesi.
Mussolini parlava dell’ «Aventino» quale epicedio
dello stato demo-liberale. Non cìera
cultura greca a Racalmuto bastevole per apprezzare l’immagine classica. Vi era
molto buon senso (ed pressanti interessi del quotidiano) per dissentire dai loro deputati eletti nel listone
“nazionale” del 1924 che ora facevano l’«Aventino». In definitiva, nepppure
Gramsci mostra di apprezzare questi rappresentanti degli agrari siciliani con i
quali, inopinatamente, si trovava in sodalizio.
«Ho visto
in faccia la “piccola borghesia “ con tutti i suoi tipici caratteri di classe -
scriveva Gramsci alla moglie il 22 giugno 1924 commentando i primi lavori
dell’Aventino (). - La parte più ributtante di essa era costituita dai popolari
e dai riformisti (per non parlare dei massimalisti, povera gente di cascia andata
a male; i più simpatici erano Amendolae il generale Bencivenga dell’opposizione
costituzionale che si dichiaravano favorevoli in principio alla lotta armata e
disposti anche (almeno a parole) a porsi agli ordini dei comunisti, se questi
fossero in grado di organizzare un esercito contro il fascismo. Un deputato
democratico-sociale (è questo un partito siciliano che unisce latifondisti e
contadini) che è duca Colonna di
Cesarò, ministro di Mussolini fino al mese di marzo, dichiarò di essere più
rivoluzionario di me perché fa la propaganda del terrore individuale contro il
fascismo. Tutti, naturalmente, contrari allo sciopero generale da me proposto e
all’appello alle masse proletarie ... ».
Colonna di
Cesarò - è certo - non riuscì a propagandare “il terrore individuale contro il
fascismo”, a Racalmuto. I locali suoi aderenti dovettero disorientarsi non
poco: già amavano molto poco i blandi socialisti racalmutesi agli ordini
dell’avv. Vella; figuriamoci se potevano dare credito a chi osava associarsi
con i bolscevichi del 1921.
A livello
locale il problema centrale restava sempre quello dei finanziamenti per lo
zolfo invenduto. La faccenda del 1922 veniva ricordata ancora. I più avvertiti avevano l’odiato senatore
Einaudi per quello che scriveva allora sulle colonne del Corriere della Sera.
Il governo di Mussolini diede quel decreto invocato sotto Facta (D.L.n. 202
dell’11/1/1923). Nel nuovo corso fascista si potevano dunque riporre attese
meridionalistiche e di intervento statale. Tra le varie provvidenze del
decreto, lo stato garantiva lo smaltimento a prezzi remunerativi dello stock e
si impegnava nel finanziamento del Consorzio, ma su obbligazioni dell’ente
garantite sugli esercizi futuri. «Insomma
- scrive Salvatore Lupo - a pagare sarebbe stata la futura produzione».
Vi era - è vero - chi come Carlo Sarauw, forse per opposto interesse, aveva di
che ridire su quanto si riusciva a conbiare in provincia di Agrigento e di
Caltanissetta. «Io posso spiegarmi che un’accolta di maffiosi ignoranti delle
province di Girgenti e di Caltanissetta abbia potuto premere a Palermo
sull’amministrazione del Consorzio [...] ma non posso ammettere che essa
potesse allungare i suoi tentacoli fino a Roma o piegasse il Governo alle
direttive di quegli organi del Consorzio che subivano la sua azione». () In
quel di Racalmuto, ove gli interessi zolfiferi passavano trasversalmente per
tutti i ceti sociali, vi fu soddisfazione per il provvedimento mussoliniano del
gennaio 1923 ed iniziava quel consenso che dopo il 1926 si consoliderà
penetrantemente, in profondità, in maniera totalizzante. Le bizze dell’Aventino dei propri deputati
dovettero apparire atteggiamenti incomprensibili, sospetti, fedifraghi, da non
approvare, da rimuovere.
Il delitto
Matteotti, invero, non lasciò indifferente l’intera comunità civica
racalmutese. Se dobbiamo credere a E.N. Messana, il socialista Vella si diede
da fare: «Fu lui - scrive il Messana () - che in seguito all’uccisione di
Giacomo Matteotti si presentò con la guantiera a raccogliere il contributo per
la corona. Entrò nel salone di Salvatore Rizzo, Paparanni, e là Luigi Scimè,
giovane figlio del Dr. Nicolò, gli diede L. 0,50, altri uguale cifra o meno.
Contribuirono molti racalmutesi, oltre i summenzionati si ricordano il comm.
Giuseppe Bartolotta consigliere provinciale in carica, il sindaco Scimè, Pio
Messana, Salvatore Falcone, Calogero Mattina fu Gaetano, Carmelo Schillaci
Ventura, Giuseppe Cutaia, i fratelli Luigi e Giuseppe Lo Bue. Questi furono
segnati a dito e perseguitati dal fascismo. Luigi Scimè, ufficiale effettivo
dell’esercito, non avanzò più di grado.»
L’emozione
per l’efferato delitto dovette essere una momentanea reazione, non coinvolgente
la stima verso Mussolini. Questo, almeno a Racalmuto. A più ampio raggio, ancor
oggi non crediamo che sia stata stabilita la verità storica. Troppi
risentimenti, molti condizionamenti ideologici. A distanza di settant’anni, in
riviste storiche pur autorevoli, la vicenda Matteotti viene così rievocata,
passionalmente, con evidenti pregiudizi di valore:
«Giacomo Matteotti - leggesi nell’editoriale del n. 1-2 del 1994
di Storia e Civiltà ( ) - segretario
del partito socialista unitario, capo - con Giovanni Amendola -
dell’opposizione al fascismo, [..] mentre dalla sua abitazione, per il
lungotevere Arnaldo da Brescia, si dirigeva, attorno alle 16, verso il
Parlamento, era sequestrato, costretto a entrare in un’automobile ed, essendosi
difeso, ucciso. [Fu] uno dei più esecrandi delitti che la storia ricordi. [Ad
eseguirlo, c’erano] una brutale figura di squadrista toscano, Amerigo Dumini e
suoi quattro complici.
«Come sarebbe emerso, dal memoriale
Rossi, e da altre ammissioni, se anche Mussolini non era stato il diretto mandante, vi aveva
dato il suo tacito consenso. La commozione popolare fu così profonda, che
avrebbe dovuto avere per sbocco, con quale vantaggio per l’Italia è inutile
dire, l’immediato tracollo del fascismo. Mancò una forza organizzata a dirigere
la rivolta. Non vi fu, da parte della Monarchia, come nel ‘22, la coscienza del
dovere. Al governo venne lasciato il modo, con pochi ritocchi alla sua
compagine, di sopravvivere, e al fascismo di consolidarsi, più per l’altrui
debolezza che per virtù propria, profittando anzi dell’irrimediabile errore
delle opposizioni, di astenersi dalla presenza in Parlamento (l’«Aventino»),
che avrebbe consentito, nel gennaio ‘26, di farne deliberare la decadenza. Non
mancò la “trahison des clercs”, in
un’ora straordinariamente feconda per la cultura: e Giovanni Gentile, pur
surrogato come ministro dell’istruzione, ad assicurarsi maggior potere, si
assunse la responsabilità d’un manifesto degli intellettuali a favore del
fascismo, cui, con un numero minore di firme, se ne sarebbe contrapposto un
altro, redatto dal Croce.
«[Il processo venne trasferito] alla
lontana e più tranquilla Chieti, [e si ebbe] l’arrogante difesa di Farinacci
(cui si consentì di dichiarare di assumerla “prima come segretario del partito,
e poi come avvocato” e che il processo non si sarebbe fatto “né al regime né al
partito”). Esclusa dalla stessa pubblica accusa, la premeditazione ed ammessa
la preterintenzionalità, la sentenza,
del 24 marzo 1925, condannava solo tre degli imputati a cinque anni,
undici mesi e venti giorni, che, col condono di ben quattro anni per una
opportuna amnistia, e tenuto conto della carcerazione preventiva, li rendeva,
di fatto, liberi.»
L’avvento
del fascismo nell’area provinciale di Agrigento.
Nella
Sicilia - scrive Salvatore Leone () - in cui il fascismo ebbe “natura ricettiva
e non radiante”, schematizzando possiamo dire che l’aristocrazia agraria aderì
al regime nei tardi anni ‘20, quando si renderà contodella sostanziale
convenienza ad appoggiare il nuovo gruppo di potere. La piccola borghesia
cittadina darà il suo consenso agli inizi degli anni ‘20 con uno spirito
fortemente protestatario nei confronti di quello Stato liberale che l’aveva
schiacciata al basso al livello contadino. L’adesione al nuovo regime della
media borghesia e degli intellettuali, parecchi dei quali avevano alle spalle
una consistente tradizione autonomista, avvenne mediante comportamenti incerti
e talora contraddittori che si protrassero fino ai primi anni ‘30».
La provincia
di Agrigento (allora Girgenti) rispecchia grosso modo siffatta diversa
datazione del consenso al fascismo, anche se è difficile rinvenire
intellettuali di spicco che tardino nel concedere il loro accondiscendimento al
nuovo regime. Luigi Pirandello aderisce tempestivamente al fascismo; Enrico La
Loggia se ne mantenne sempre fuori; ed anche Giovanni Guarino Amella. Francesco
Renda vuole come nemico del fascismo padre Michele Sclafani «che diede filo da
torcere ai fascisti dell’Agrigentino [..] seppure anche lui non fu alieno dal
cercare l’intesa e la collaborazione con essi
e ddirittura dal proporre soluzioni impossibili, come la costituzione di
un grande partito siciliano clerico-fascista». () Per non parlare dei
socialisti rimasti coerenti, è difficile inquadrare figure come i fratelli
Ambrosini di Favara, o l’avv. Cesare Sessa, o l’avv. Bonfiglio. Fortemente
caratterizzata in termini di pronta adesione al fascismo è la figura dell’on.
Abisso, che alla fine, però, si guarda bene dall’aderire alla Repubblica
sociale di Salò. Analogo discorso potrebbe farsi per il narese on. Riolo.
Francesco
Renda ha ben ragione quando dichiara che le origini dei fasci di comattimento
di Girgenti (e di quei radi della provincia nel periodo 1919-20) sono «avvolte
nella nebbia». () Nell’agrigentino, il fascismo ebbe davvero, dai suoi esordi
sino al consolidamento del Regime, “natura ricettiva, e non radiante.”
Nessun commento:
Posta un commento