La svolta
del 1925
Il 1925
segna senza dubbio una svolta nel modo di essere del fascismo. Dopo il discorso
del 3 gennaio cambia Mussolini, cambia il suo modo di vedere il parlamento,
cambia il suo atteggiamento nei confronti delle istituzioni tradizionali. E
l’Italia si avvia verso un regime indubitabilmente dittaroriale.
Il
Ragionieri spiega, a nostro avviso, piuttosto puntualmente la vicenda del 1925 ().
«Il 3 gennaio 1925, con in tasca un decreto di
scioglimento della Camera firmato in bianco dal re, dopo una resistenza neppure
troppo convinta, Mussolini si presentò in Parlamento e assunse per sé e per il
suo movimento ogni responsabilità di quanto era avvenuto. Non si trattò dello
spartiacque fra due epoche, ma del momento della scelta esplicita e
irreversibile della soluzione di forza:
“Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili - dichiarò Mussolini -
la soluzione è la forza”. Gli strumenti adottati furono ancora una volta
offerti dall’autoritarismo delle leggi vigenti e della pratica repressiva e
centralizzatrice dello Stato, nonché delle nuove restrizioni introdotte dallo
stesso fascismo in questi anni. La notte del 3 gennaio Federzoni telegrafò ai
prefetti ordinando loro l’applicazione più rigorosa delle norme vigenti che già
limitavano drasticamente ogni libertà d’associazione e di movimentoe
prescrivendo la soppressione dei gruppi di “Italia libera”, organizzazioni di
ex combattenti, e retate di comunisti. Venivano così colpiti ad un tempo, con
una tecnica caratteristica del fascismo che si apprestava a divenire regime
totalitario, gli oppositori storicamente più vicini e più lontani, cioè gli
elementi più capaci di operare una disgregazione all’interno della base sociale
del fascismo o di organizzare la resistenza più intransigente e più combattiva
alla costruzione del regime.»
Per una valutazione meno ostile,
valgano le note del Nolte (): «Mussolini
non cadde perché lo appoggiavano il re e il papa, il senato e l’industria,
timorosi di potersi trovare di nuovo di fronte ai socialisti e ai comunisti. Ma
si perdette irrimediabilmente una delle possibilità di evoluzione di Mussolini,
soprattutto quella che non dipendeva tanto dalla sua “fede” e dal suo
temperamento quanto dalla sua visione politica: di essere il capo, e non il
dittatore, di una democrazia sociale. Eppure ancora nel famoso discorso del 3
gennaio 1925, che “chiarì la situazione” e significò l’accettazionedefinitiva
del totalitarismo fascista, è possibile avvertire una vena di tristezza se non
di disperazione, e in pari tempo - per
quanto la cosa possa sembri paradossale - un più forte vincolo con la monarchia
e con le forze conservatrici.»
«L’avvenimento
più importante di questa epoca, - scrive sempre il Nolte a pag. 317 e segg. - che per lumghezza e prosperità viene seconda nell’esistenza politica
di Mussolini, fu la creazione di ciò che si suole chiamare dominio totalitario.
«Dopo
il 3 gennaio Mussolini non si oppone più alla “ripresa totale, integrale”
dell’azione fascista, che da tempo i suoi estremisti esigevano. Lo squadrismo,
di nuovo potente, leva ancora la testa e porta contro i suoi avversari gli
argomenti che gli sono tipici. Farinacci, nuovo segretario generale, si applica
con tutta l’energia del suo fanatismo al compito di “smatteottizzare”, esalta
l’ “intransigenza rivoluzionaria ” del fascismo, minaccia gli avversari di una
“terza ondata”, e nega Nè più né meno che gli antifascisti possano essere
considerati italiani. Ben presto l’opposizione non ha più nessuna possibilità
di muoversi liberamente. Se in un primo tempo ci si accontenta di sequestrare
senza ritegno i suoi giornali, dopo l’attentato di Bologna tutti i giornali
ostili al regime vengono proibiti, viene istituito un tribunale speciale
supremo, la punizione del “confino” diventa una misura preventiva lasciata
all’arbitrio dei prefetti senza praticamente alcuna possibilità di protesta o
di controllo. Dove mai avrebbero potuto vivere gli avversari anche solo
potenziali del fascismo se non su isole rocciose, ora che la “feroce volontà
totalitaria” di Mussolini aveva da un pezzo negato a tutti i partiti ogni
diritto all’esistenza e voleva fare della nazione un “blocco granitico” o
“monolitico”? Aveva già dimenticato che appena due anni prima un’Italia senza
opposizione e senza contrasti di forze sociali gli era parsa “insopportabile”?
Ora si diceva che in un regime totalitario come quello fascista l’opposizione
era stolta e superflua, dal momento che il regime trovava nel proprio petto e
nella resistenza delle cose l’indispensabile opposizione.
«Come,
l’opposizione, anche lo Stato è in lui stesso. La citatissima formula “tutto
nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato” non va
affatto intesa, statalisticamente, come una contrapposizione tra Stato e una particolarità di tipo
individuale o collettivo. Questo Stato è caratterizzato piuttosto dal fatto che
esso non può essere rigorosamente separato dal partito o contrapposto a questo:
l’apparato dello Stato e quello del partito sono strumenti di dominio in mano a
Mussolini, e anzi il partito - grazie alla sua maggiore modernità o anche per
la sua dignità ideologica - diventa più importante ogni anno che passa.
«L’opera
legislativa che fissò la “mussolinizzazione” dello Stato fu costituita dalle
così dette “leggi fascistissime”, non a caso create da Alfredo Rocco.» ()
Un quadro
abbastanza veridico - anche se non privo di preconcetti ideologici - di quello
che ebbe a verificarsi in quest’anno di svolta nell’intera Sicilia ci viene
fornito dal Renda ().
«I
fascisti non vollero lasciare dubbi che i veri padroni della situazione fossero
loro - stralciamo
dal testo del Renda - e soltanto loro. La
riprova di quella verità, del resto, venne poco dopo, allorché nell’agosto
1925, si procedette alla elezione del consiglio comunale di Palermo. In tale
occasione, il fronte delle opposizioni, ammaestrato dagli avvenimenti nel
frattempo verificatisi nel paese, si presentò compatto nella lista Unione per
la libertà, chiusa solo ai comunisti, i quali formarono lista propria. [..] In
modo aperto, e senza giro di parole, lo scontro venne affrontato fra la libertà
e la dittatura. Sul momento vinse quest’ultima. I voti della lista fascista
furono 26.249; i voti della lista di concentrazione liberale, 16.616; i voti
della lista comunista, 211. [...] Non diedero quel segnale di rivolta politica
e morale che l’Italia antifascista dalla Sicilia si aspettava. La classe
dirigente dell’isola rimase ferma nella scelta già fatta in favore del
fascismo.
«Le
elezioni amministrative di Palermo furono l’ultimo guizzo di resistenza legale
al fascismo. Vittorio Emanuele Orlando ne trasse la conclusione che
“nell’attuale vita politica italiana non vi è posto per un uomo del mio passato
e della mia fede”; e si dimise da deputato per protesta [..] A chi non seguì il
suo gesto, non fu riservata sorte migliore. Subito dopo, infatti, varate le
leggi eccezionali, altri 13 deputati di opposizione (fra i quali Colonna di
Cesarò, Giuffrida, Guarino Amella) furono dimissionati dal parlamento con atto
d’imperio. Francesco Lo Sardo, addirittura, oltre che privato del mandato
parlamentare, fu anche arrestato. Contemporaneamente si procedette allo
scioglimento formale dei partiti politici (di fatto erano già paralizzati da
tempo); furono soppressi i sindacati; fu abolita la libertà di stampa e
proibita ogni forma di vita politica a chi non accettasse di sottostare al
regime. Ne seguì legalmente la fine del regime liberale e l’instaurazione della
dittatura. A non perdere la fede nella libertà e a non ammainare la bandiera
furono solo piccoli gruppi o singole personalità; ea distinguersi nella volontà
e nel proposito di non cedere fu, in particolare, il piccolo partito comunista,
fatto di alcune centinaia o di alcune migliaia di militanti, che, per sfuggire
alla spietata caccia della polizia, cercò riparo nella più rigorosa
clandestinità.
«Instaurato
il regime del partito unico, la storia politica isolana, al pari di quella
nazionale, sembrò identificarsi, e non pochi pretesero che si identificasse,
col fascismo. [..]
«Il
passaggio dal regime liberale al regime fascista, pur carattterizzato da un
largo consenso poi in parte rimesso in discussione, non fu indolore, e non si
limitò alla distruzione di qualche camera del lavoro, di qualche cooperativa,
di qualche sezione comunista o socialista e neppure alla somministrazione di
una certa quantità di olio di ricino accompagnata da dosi più o meno maccicce
di manganellate. La transizione dalla libertà alla dittatura, oltre che un
processo politico, fu anche un rivolgimento sociale. Alla vecchia classe
dirigente di ispirazione democratico-liberale se ne sostituì una nuova, la cui
formazione politica fu diversa, e la cui composizione non si identificò tutta
nel fascismo, ma in parte trovò la propria ragione d’essere fuori del fascismo
e in parte anche nello stesso antifascismo. La nuova classe dirigente si
defferenziò dalla vecchia, anche per il fatto che la sua matrice sociale non fu
necessariamente legata, come nel passato, alla grande proprietà terriera, e più
ancora alla campagna, ma divenne espressione del ruolo emergente assunto nella
società dai ceti medi e in particolare dai ceti impiegatizi dello Stato e degli
enti pubblici parastatali. In questo senso, la scelta filofascista dei grandi
proprietari terrieri, operata fra il 1922 e il 1924, e poi consolidata negli
anni successivi, più che un errore, fu il segno dell’esaurirsi della loro
capacità di egemonia sul resto della società.
«[..]
negli equilibri di potere interni al regime, la nuova classe dirigente
siciliana, formatasi durante il ventennio, sia per qualità che per capacità di
rappresentanza, non fu più capace di esercitare un qualche peso di rilievo
nazionale [...].
«Quella
situazione al livello della rappresentanza parlamentare si riflesse con
maggiore evidenza nelle istituzioni locali, nei comuni, nelle istanze del
partito, nei sindacati. Non fu più come ai tempi della Sinistra storica, quando
gran parte del personale politico periferico era costituito direttamente da
medi e grandi proprietari terrieri. Segretari federali fascisti, essi stessi
possessori di latifondi o rampolli del vecchio baronaggio, come il conte
Gaetani di Naro, durante il ventennio, si contano sulla punta delle dita. La
quasi totalità dei gerarchi appartiene, invece, ai ceri di media e di piccola
borghesia così urbana come anche rurale. Naturalmente, pure in regime liberale
non erano pochi i rappresentanti politici e parlamentari di origine piccolo
borghese; ma la loro funzione era quella di agenti fiduciari delle classi
dominanti proprietarie. In regime fascista, tale stretto legame di dipendenza
non esiste più, non essendo più la stessa di un tempo la fonte di
legittimazione del potere. Per altro, come segno di un mutamento istituzionale,
tende a diffondersi e generalizzarsi la
figura del funzionario di partito, che non esercita la politica come servizio
occasionale e temporaneo, bensì come professione organica e permanente, le cui
fortune si identificano con la ragion d’essere del regime. Da questo punto di
vista, il fascismo, generalizzando un fenomeno già presente nelle
organizzazioni politiche e sindacali della Sinistra socialista, e anche fra le
organizzazioni cattoliche, rappresenta un fenomeno sociale e politico da non
sottovalutare nella prospettiva di lungo periodo. In effetti, è la prima volta
che, in forma vistosa e quasi plateale, la grande proprietà terriera siciliana
viene staccata drasticamente dal potere, sebbene il potere manifesta il proprio
ossequio verso la proprietà medesima.
«Durante
il ventennio, senza dubbio, i grandi signori del latifondo siciliano conservano
la terra, mantengono o restaurano la loro influenza sociale, ricevono anche
vantaggi economici sostanziali (la battaglia del grano e la bonifica(; ma non
hanno più voce diretta e vincolante negli affari del governo nazionale e nel
controllo delle amministrazioni locali. Significativamente, il primo podestà
fascista di Palermo è un docente universitario, che prende il posto di un
qualificato esponente della vecchia aristocrazia. [..]
«Insieme
alla forzata separazione della grande proprietà terriera dalla diretta gestione
del potere, altra importante novità del fascismo è il suo essere un regime di
massa, che porta al reclutamento obbligatorio di tutti gli strati sociali della
popolazione nel partito, nel sindacato, nei circoli dopolavoristici, in altre
associazioni sportive e culturali varie.»
Nel
giornale L’Impero del 24 marzo 1929 il 1925 viene definito l’anno della
“seconda ondata”. Gli iscritti al fascio non erano poi molti: solo 599.988. Il
fascismo provinciale di Agrigento si dibatte nelle beghe interne per la
conquista del potere. Galatioto, sincero fascista, si scontra con i deputati
tradizionali ed in ispecie con il trasformista on. Abisso e, come abbiamo
visto, soccombe miseramente. Galatioto non capì, peraltro, il ruolo del
prefetto nella strategia del nuovo regime. Si credette al di sopra del prefetto
Rivelli e questi lo giubilò. Ancora non si era nel pieno regime totalitario. Si
pensi che vecchi esponenti dei clerico-moderati potevano avere possibilità nell’agrigentino
di restare a galla. E’ il caso dell’ex deputato dei Popolari on..le avv. Eugenio Fronda. L’on.le
La Loggia alla fine del 1925 non avrà però possibilità alcuna di salvarsi
politicamente ed il prefetto che forse in cuor suo avrebbe voluto recuperarlo
deve sprezzantemente silurarlo, come si è detto sopra. Nel settembre del 1925
la situazione provinciale si coglie significativamente da questi scorci di
corrispondenza del solito prefetto Rivelli con il Ministero degli Interni. ()
Riemerge la solita faccenda della estromissione di Galatioto. «La recente
riunione al Viminale - scrive il prefetto Rivelli in data 24 settembre 1925 -
del direttorio di questa federazione provinciale fascista, sotto la presidenza
della E. V. E con l’intervento dell’on. Farinacci e dello scrivente avvenuta ai
primi del corrente mese, e il conseguente provvedimento dello scioglimento
della federazione stessa, con la nomina del commissario straordinario in
persona dell’on. Starace, mentre son valsi a chiarire la situazione politica
del fascismo in questa provincia, rafforzando il prestigio e la posizione dei
quattro deputati fascisti, contro i quali ingiustamente si appuntavano le
ostilità del direttorio provinciale, hanno per conseguenza determinato un più
ragionevole, più serio e più esplicito indirizzo della politica fascista
provinciale.» In tale quadro non c’è più posto per un personaggio come
Galatioto che, peraltro, rivestiva ancora una carica presso la provincia. Ed
allora, essendo stato “il cav. Girolamo Galatioto () .. il condottiero della
campagna ostile ai deputati”, questi andava escluso “per incompatibilità
politica” che risultava evidente “data la nuova situazione politica della
provincia.” Per converso, poteva farsi ancora affidamento per la carica
provinciale sull’on. Fronda. Ci si può fidare dell’ «on. Avv. Eugenio Fronda -
può permettersi di affermare il prefetto del tempo -, leader del locale gruppo
cattolico, perché, sebbene capo della
locale sezione del Centro cattolico, ha dato già prova nelle elezioni generali
politiche del 6 aprile 1924 di essere un fedele sostenitore del governo
nazionale, e perché nelle prossime elezioni amministrative di questo capoluogo
il suo gruppo potrà dare un efficace ed influente aiuto all’esiguo fascio
locale per combattere il partito demo-sociale, che è forte ed agguerrito.»
Il passo
del prefetto rappresenta una testimonianza della provincia di Agrigento di
eccezionale valore. Dunque, sino al settembre del 1925 si pensava ancora in
termini elettorali, come se fosse d’attualità il pluralismo politico e
partitico. Cattolici e demosociali vengono additati dal prefetto come forze
egemoni nell’agrigentino contro un “fascio debole”. La logica delle alleanze
perdura in periferia o in quella estrema periferia come quella marginale provincia
siciliana. Certo, non si era avuto il risultato amministrativo di Palermo. Ma
la chiave di lettura dell’evoluzione politica delle realtà periferiche o di
quelle agrigentine resta, a livello ufficiale, quella del prefetto Rivelli. E a
dire il vero non pare molto simmetrica alla storiografia imperante.
Ciò,
invero, non significa che i giudizi in fondo burocratici dei prefetti
cogliessero proprio nel segno. La convinzione del funzionario periferico poteva
essere fallace ed al centro non si voleva o non si aveva interesse a
correggerla.
Non va
dimenticato che nel 1925 ministro degli interni era Federzoni, figura di
fascista particolare, vicino al re e sicuramente legalista. Le circolari cui
accenna il Ragionieri saranno state di taglio dittatoriale; resta al contempo
incontrovertibile che proprio sotto Federzoni - e finché restò ministro degli
interni - inizia un processo di raddrizzamento della Milizia. Il prefetto
Ravelli - l’abbiamo già citato - non mostra tenerezza verso quel corpo separato
militare.
Sino al 10
gennaio 1925 prefetto di Agrigento fu Giovanni Antonio Merizzi, di nomina
preaventina. A lui vengono indirizzate le famose circolari Federzoni ed è lui
che così ragguaglia il ministero in data 7 gennaio 1925 (): « .. presso alcuni
comunisti di questo capoluogo sono state sequestrate circolari e stampe di
propaganda sovversiva, parecchi bollettini del Comitato esecutivo comunista,
elenchi di componenti le cellule ed altro. Sono stati perciò tratti in arresto
sei comunisti mentre altri si sono resi irreperibili ...»
Il
successivo giorno 10, il prefetto torna a fornire ulteriori ragguagli: « ...
Presso avv. Molinari capo del partito popolare di Sciacca è stata sequestrata
corrispondenza con deputato on. Aldisio, nella quale contengonsi notizie
relative movimento e intendimenti Comitato Centrale opposizione. Sono stati
chiusi i seguenti circoli sospetti in linea politica: sezione socialista di
Palma di Montechiaro e quella di Licata; sezione “Italia libera” di Campobello
di Licata. Sono stati pure chiusi esercizi pubblici che erano ritrovi di
sovversivi.»
Ed il 14
gennaio: «.. sono state eseguite altre numerose perquisizioni e sono state in
vari comuni revocate licenze di esercizi pubblici che erano ritrovi di persone
politicamente sospette. Sono state chiuse le seguenti altre associazioni: a
Sciacca il circolo popolare e quello socialista; a Campobello il sodalizio dei
sensali; ad Aragona il circolo agrario ed il circolo democratico “Duca di
Cesarò”; a Naro l’associazione combattenti e smobilitati ed il circolo manovali; a Palma Montechiaro
la sezione socialista unitaria; a Canicattì il circolo operaio e la sezione
democratica sociale; a Ravanusa il circolo operaio, il circolo operaio sensali,
il circolo giovanile cattolico ed il circolo sportivo [..] Proseguono
operazioni per chiudere altri sodalizi politicamente sospetti, perquisizioni
domiciliari per rastrellamento armi e munizioni non denunziate e revoche
licenze esercizi pubblici.»
Nel febbraio 1925 è già operante in Agrigento
il prefetto Rivelli di cui si è avuto modo di citare svariate volte. Il 4
febbraio 1925, questi, sulla scia del suo predecessore, informa il ministero di
altri provvedimenti restrittivi. «Pregio assicuare - scrive - la chiusura delle
sezioni democratiche sociali di Girgenti, Canicattì ed Aragona e della società
agraria di produzione e lavoro di S. Angelo Muxaro ... per ragioni d’ordine
pubblico. I relativi locali erano divenuti ritrovi di elementi turbolenti e
capaci di sovvertire i poteri dello Stato e perché ivi veniva fatta la più
pericolosa propaganda antinazionale ed antifascista”. Il linguaggio del nuovo
prefetto è trasparentemente più allineato ideologicamente al nuovo corso della
politica nazionale. Il 17 marzo del 1925 è in grado di rassicuare il ministro
che l’impopolare provvedimento di scioglimento di “Italia libera” è stato
adottato anche in quel di Agrigento. Sezioni di ”Italia libera” «risultavano
costituite solamente in Licata e Campobello di Licata”. Esse erano “state
sciolte nel gennaio scorso”.
Il 5 marzo
1925, dopo appena un mese di permanenza in Agrigento, il prefetto Rivelli è - o si mostra -
conoscitore della psicologia delle masse
agrigentine. «Provvedimento sospensione
funzioni organi centrali amministrativi dell’Associazione Nazionale
Combattenti, - telegrafa () - è stato in questa Provincia favorevolmente
accolto meno in qualche centro. Data
però apatia queste popolazioni provvedimento non è stato eccessivamente
commentato ..»
Fra le
carte ministeriali troviamo alcuni accenni alla situazione politica e sociale
dell’agrigentino, contenuti nelle relazioni del 1925 della M.V.S.N. di Palermo
(). La prima relazione risale al 28 febbraio 1925, ed a proposito di Girgenti
si allude al contrasto «sorto in seno alla Federazione provinciale» ed ai
«motivi che l’avevano determinato». «La situazione - si assicura - però ora è
stata così ricomposta. La Federazione Provinciale è stata dal Direttorio Nazionale sciolta e ne affidò
la reggenza ai 4 deputati fascisti della provincia on.li Abisso, Palmisano,
Riolo e Gangitano ed al cessato Segretario Cav. Galatioto. A quest’ultimo il
Direttorio Nazionale ha conferito i poteri di Segretario della reggenza.»
Più
esplicito il successivo rapporto del 5 maggio 1925. Quanto a Girgenti
«l’andamento della politica provinciale, in seguito allo scioglimento della
reggenza e nomina del Commissario Straordinario alla Federazione del P.N.F.
nella presona del sig. Prof. Paladino Raffaele, ha subito un ristagno venendo
tutto ad innestare sulla dibattuta e nota questione, onde fu necessario il
provvedimento della Direzione del P.N.F. La situazione economica della
provincia va sempre più migliorando con l’inoltrarsi della stagione. Il
malumore del passato, dovuto al rincaro dei viveri, è un po’ attutito per il
buon raccolto che si prepara nell’anno agricolo in corso. Il costo dei generi
alimentari, però, si mantiene tuttavia relativamente caro: il lieve ribasso di
prezzo apportato dalle Commissioni economiche non è stato bene accolto dalle
popolazioni, giacché esso, in relazione al diminuito costo del grano è
veramente irrisorio. Nel corso del mese è stato in parte superato il grave
dissidio economico-sociale fra i zolfatai. I padroni e proprietari di miniere
non volevano concedere l’aumento del 15% stabilito sulle paghe giornaliere come
da concordato posto dalle organizzazioni sindacali. Venne minacciato uno
sciopero generale, che però non si effettuò, in parte dovuto alle tristi
condizioni economiche dei lavoratori. Non si deplorano incidenti di sorta. Una
certa preoccupazione desta in tutti una certa recrudescenza manifestatasi in
questi giorni di delitti vari. Sono in corso misure che sta adottando la P.S.»
Il 1925 si
chiude in Agrigento con qualche turbolenza politica, sia pure tutta racchiusa
al’interno del movimento fascista.
Un certo
Guzzo Giovanni protesta il 13 dicembre da Licata () contro una lunga sequela di
violenze che furono denunziate alla Procura generale di Palermo a carico di un
funzionario di P.S. che avrebbe impedito di presentare un’altra lista facente
capo ai cittadini di Licata di “pura fede fascista”. Parla di un “facinoroso
bloccamento”. In particolare sarebbe stata omessa la distribuzione di
certificati elettorali.
Il 14
dicembre il prefetto scrive a Roma che l’on. Starace si era interessato di Licata. “Nella sua
opera di epurazione aveva espulso dal partito ex fascisti per gravi atti di
indisciplina.”
Nel
complesso l’anno si conclude all’insegna del vittorioso raffermarsi del
fascismo. La solita documentazione ministeriale contiene ora il linguaggio
trionfalistico del nuovo regime. «Imponente, delirante dimostrazione per
proclamazione eletti lista» telegrafa da Agrigento il 18 dicembre 1925 il
prefetto. Il successivo giorno, la relazione prefettizia accenna ad una
manifestazione in teoatro dello stesso prefetto, dell’on. Starace, dei deputati
fascisti ed altre presonalità politiche “per elezioni amministrative questo
capoluogo indette per domani”. Ovviamente, tutto è superlativo: “efficace” è il
discorso del comm. Altieri, candidato sindaco; ma “robusto, brillantissimo” è
il discorso dell’on. Starace “che ha riscosso continui deliranti applausi”.
A Grotte
si hanno le elezioni in quello stesso giorno (20.12.1925). Su 4281 elettori
sono presenti 3711. Votano la lista fascista in 2186. Il fascismo guadagna
maggioranza e minoranza. L’avv. Seminerio subentra al commissario prefettizio
cav. Fede. La prefettura ragguaglia il ministero anche su tali, minime vicende
dello scenario politico agrigentino.
Racalmuto
verso il regime fascista.
Racalmuto
passò, pressoché inavvertitamente, dal regime della democrazia sociale del duca
Colonna di Cesarò a quello fascista. Fu decisione presa dall’alto, subita, ma
accettata di buon grado, senza alcuna opposizione. Fu il prefetto a determinare
la svolta con lo scioglimento d’imperio dell’amministrazione demo-sociale. Quel
che sorprende è il fatto che il regio decreto (23 marzo 1924) con il quale
veniva sciolto il consiglio comunale matura in tempi in cui il duca di Cesarò
era alleto nel listone nazionale con Mussolini. Gli amministratori locali erano
di fede demo-sociale: ciò nonostante vennero travolti da un’inchiesta
amministrativa, quanto veritiera ed obiettiva non si riesce bene a valutare. E’
da supporre una frattura tra i politici locali ed i vertici della democrazia
sociale. I personaggi che dominavano sulla scena amministrativa racalmutese non
sono da giudicare, del resto, campioni di fedeltà politica. Un rinnegamento
dall’alto non è da escludere, ma non figura in alcun modo provato.Sindaco in
carica risultava un medico: il dottor Nicolò Scimé; il vero dominatore erà,
però, un personaggio della nuova borghesia agraria: il commentatore Giuseppe
Bartolotta, non proprio un capo mafia, seppure molto temuto dalla locale cosca
mafiosa.
E.N.
Messana così ci racconta l’ascesa al comune dei due personaggi ():
«A
guerra finita gli schieramenti politici del paese sopravvissuti erano il gruppo
dei fautori di Marchesano, capeggiato dal Comm. Giuseppe Bartolotta e dal dott.
Nicolò Scimé ed il gruppo dei fautori di Gangitano rappresentato dal Comm.
Angelo Nalbone e dal dott. Salvatore Busuito. Il primo aveva avuto una specie
di scissione. Bartolotta e Scimé erano passati con Guarino Amella, il dott.
Enrico Macaluso invece con Abisso. I socialisti antichi, quelli alla De Felice,
nell’avv. Calogero Picone Chiodo avevano trovato un degnissimo rappresentante,
della stessa levatura di Vincenzo Vella. I due avvocati socialisti non
riuscirono in pese a creare una forza elettorale di sinistra vera e propria,
perché per la purezza delle loro anime, recependo la concezione marxista, non
erano riusciti a liberarsi dell’estremismo ed erano rimasti ancorati ad una
forma infantile di intransigenza, affascinante, interessante ma incapace a
maturare le coscienze delle masse. E dire che Calogero Picone Chiodo svolse
un’attività politica che trascese la limitatezza paesana.
«Egli,
figlio del popolo, appena laureato in legge si dedicò all’insegnamento nelle
scuole elementari. Poi si dimise dal posto di maestro ed intraprese una densa
attività giornalistica. Protestò ed insultò Mussolini per il tradimento della
classe operaia, ordito e consumato nel 1919. Fu un oratore felice, trascinatore
di folle e contribuì ad avvicinare al socialismo e la gioventù del paese. Lui,
col classico cappellolargo dei socialisti dell’epoca, organizzava scioperi e
proteste, teneva conferenze, in paese e fuori, tanto da rendersi famoso e
notabile nel circondario. Allorché il fascismo soppresse la libertà ed instaurò
la dittatura, Calogero Picone Chiodo dovette fuggire da Racalmuto per non incappare
in qualche processo davanti il tribunale speciale istituito da Mussolini contro
l’opposizione di ogni colore. Peregrinò per l’Italia perseguitato ad ogni
istante. Si ridusse a fare il venditore ambulante. Appena avvistato doveva
fuggire per non essere arrestato. Dopo tanto girare riparò a Bolzano in casa di
Ettore Messana, suo amico d’infanzia ed ex compagno, già vice questore in
quella città. I due erano tanto intimi che si chiamavano compari. Ettore
Messana intanto una mattina arrivando in questura trovò un telegramma firmato
dal Ministro dell’Interno così concepito: “Dicesi ricercato antifascista
Calogero Picone Chiodo aggirasi pressi cotesta città, pregasi disporre accurati
servizi onde assicurarlo giustizia prima che valichi frontiere.”
«Il
ministro dell’interno nel ventennio fascista fu quasi sempre lo stesso capo del
governo Benito Mussolini. Il telegramma perciò valeva un ordine di Mussolini.
Il ricercato era l’ospite suo compare e suo paesano. Tornatosene a casa,
aspettò che finisse il pranzo, poi si chiamò in disparte il compare e glielo
esibì. Il povero Liddu Chiodo non seppe che dire, Ettore Messana gli assicurò
che lo avrebbe messo in salvo lui oltre il confine. Verso sera gli procurò un
passaporto con false generalità e lo fece scortare fino ad Insbruk da due
agenti. Calogero Picone Chiodo in Austria si affermò, prese moglie e vi rimase
fino all’occupazione tedesca, poi passò in Svizzera ed il 25 luglio 1943 in
Italia, morì a Milano. Fu anche un medium fortissimo. Scrisse sullo spiritismo
parecchie opere, si ricordano “la verità sullo spiritismo” e “L’Immortalità
dell’anima”, scrisse ancora “il bolscevismo”, dove criticò aspramente il
leninismo. Calogero Picone Chiodo fu, infine, l’unico fuoriuscito racalmutese
del periodo fascista. [Se
prestiamo fede, però, al fascicolo del Casellario Politico Centrale - busta n.°
3951, il personaggio ne esce malconcio e molto meno nobile di quello che il
Messana tenta, con la sua incespicante sintassi, di accreditarci. Ma di ciò in
seguito, n.d.r.]
«Nel
1919 vi fu una nuova epidemia, il vaiuolo, con le sue vittime e i superstiti
sgrefiati dalle cicatrici del terribile male. La sofferenza degli .....sino a pag. 366]
Riportiamo una relazione della Prefettura di Agrigento,
datata 16 dicembre 1919, sulle
condizioni dell'ordine pubblico e
della sicurezza nella Provincia (cfr.
Archivio Centrale dello Stato -
Ministero Interno - Ps - 1919, b. 121).
«Da qualche tempo ad opera di aderenti al partito socialista
ufficiale, per sfruttare l'attuale momento critico di disagio generale, viene
preso pretesto da qualsiasi argomento per creare agitazioni più o meno "ingiustificate". Si
cerca così di tener compatte le masse per le prossime lotte elettorali amministrative
e di fare opera proficua di propaganda
per rafforzare il partito stesso in provincia, che finora ha potuto fare
solamente assegnamento su nuclei di scarsa importanza.
«Primo pretesto per il R. Decreto 2 settembre
scorso, recante provvedimenti per l'occupazione delle terre incolte. Le associazioni
agricole della Provincia, istigati da agitatori
messi in giro dalla locale Camera del Lavoro, iniziarono subito una
campagna per ottenere dalla Prefettura l'applicazione del decreto suddetto; e
tale movimento, iniziato apparentemente con carattere di legalità,
degenerò subito in vera e propria
agitazione, tendente ad impedire ai
proprietari di terre l'aumento dei canoni annui di fitto e la modifica
dei patti di mezzadria e si ricorse persino ad intimidazioni su fittavoli e
mezzadri per indurli ad abbandonare le terre e renderle incolte, onde
facilitare l'occupazione.
«Quest'Ufficio contrappose subito
l'opera propria e dei dipendenti funzionari perché‚ l'agitazione non sortisse
pratici risultati ed ottenere che i minacciati disordini abortissero ovunque,
sia assecondando le trattative di componimenti colà dove i proprietari di terre
si erano dimostrati proclivi ad intavolarle, sia provvedendo con i mezzi a
disposizione, a tutelare l’ordine pubblico e a fare opera di propaganda per
impedire l'abbandono delle terre e la sospensione delle culture intraprese.
«Finita tale agitazione, i socialisti ne
inscenarono un’altra ancora. Forti del
lodo arbitrale del collegio dei probiviri di Caltanissetta sulle pretese di
aumento dei salari avanzate dagli operai di quel bacino minerario, inducono la
numerosa classe zolfifera della Provincia ad invocare l'applicazione anche in questa giurisdizione: Aragana,
Favara, Cianciana, Racalmuto, Grotte, Comitini abboccano all'amo.
«I
proprietari delle miniere però resistono: gli operai di rimando proclamano lo sciopero.
«Quest'Ufficio,
nell’interesse dell’ordine pubblico, interviene nella vertenza e dopo pratiche
loboriosissime ottenne ovunque la ripresa del lavoro, riuscendo a persuadere le
organizzazioni zolfifere che non poteva il lodo accennato applicarsi alle
industrie del genere di questa provincia, nella quale la vertenza sorgeva ex
novo e che, in ogni caso, dovevansi
attendere le deliberazioni della commissione di
appello in Roma, cui era stata deferito su ricorso degli industriali la
soluzione della controversia. Ottennero però nell’occasione gli zolfatari quasi
ovunque aumenti di salario, con pagamento di arretrati da parte degli
esercenti, che accogliendo in parte le
pretese dei propri lavotarori, volontariamente vi si sobbarcarono.
«Visto
abortire anche tale pretesto, i mestatori, che erano ricorsi per mantenere
desta l’agitazione anche coll’ausilio di compagni, all’uopo qui venuti da fuori
provincia, prova cotesta che le fila del
movimento vengono mosse dall’alto, si danno ad aizzare ancora le masse per
pretese irregolarità nella distribuzione degli sfarinati nei vari comuni, per
la cattiva qualità della farina fornita
e per invocare la distribuzione del grano in sostituzione della farina stessa, alla
popolazione che ne avesse diritto.
«E
così, a Favara si cerca di scimmiottare i Soviet pretendendo che una
commissione di operai regoli la distribuzione degli sfarinati; a S. Giovanni,
S. Biagio Platani, Cammarata ed altrove si minacciano torbidi e si pretende l'aumento del contingentamento; a S.
Stefano Quisquina, rocca del socialismo in Provincia, si crea una vivissima
agitazione per ottenere grano invece di farina, pur non disponendosi di mezzi idonei alla
macinazione, prendendo a pretesto la cattiva qualità della farina, che, al
contrario, è ottima perché‚ fornita da stabilimenti che approvvigionano altri
Comuni, nei quali mai sono stati lamentati inconvenienti del genere. In
quest'ultimo Comune, ove sorge a tale scopo
un comitato permanente di agitazione, si pretende persino impedire alla
Commissione Militare di Requisizione il trasporto del frumento requisito e
depositato in quei magazzini
statali.
«A
questo movimento, per ovvie ragioni di tornaconto e di speculazione, è stata trascinata tutta la
cittadinanza, e ciò ha costretto quest’Ufficio a dislocare colà un forte nucleo di truppa allo scopo di
assicurare il regolare funzionamento delle operazioni di requisizione e il
conseguente regolare approvvigionamento della Provincia; d'altra parte si è
interessato il Consorzio per addivenire a qualche aumento nell'assegnazione
degli sfarinati effettivamente non
corrispondenti al bisogno e tali provvedimenti sono valsi ad infrenare i più violenti e a tranquillizzare
i più timidi, esasperati al punto da
indurre il Sindaco a telegrafare a diversi deputati della Provincia, sia pure
di tendenze opposte, perché‚ patrocinassero presso il competente Ministero
l'accoglimento dei desiderata della popolazione, anche a costo di dare
soddisfazione ai socialisti, avversari irriducibili con l'amministrazione al potere.
«Anche
tale agitazione è stata così ridotta in modesti confini. L’ordine pubblico
anche in S. Stefano Quisquina tende a
ritornare normale.
«E'
naturale e logico che il succedersi ininterrotto di tutte queste agitazioni che
io riferisco a codesto Ministero perché‚ si renda conto della difficoltà che
quest’Ufficio attraversa quotidianamente per far fronte alle esigenze
dell’ordine pubblico e per evitare fatti
che potrebbero avere su di esso grave ripercussione, ciò implichi lo
spostamento continuo dei mezzi limitati
di cui dispone, e la peregrinazione continua dall’uno all’altro Comune della
Provincia dei nuclei di agenti della Forza Pubblica che sono quindi distratti
dai servizi di Istituto e di quelli di Polizia Giudiziaria, nelle campagne
in ispecie.
«Tali
fatti influiscono evidentemente sulla recrudescenza dei reati e conseguente allarme nella popolazione
rurale che non può accudire, con
tranquillità, al lavoro dei campi.
«Si
aggiunga a tali circostanze la soppressione della locale Tenenza Guardie Città,
che contribuisce ad assottigliare il
numero degli Agenti disponibili, per quanto sostituiti dai soldati sui
quali pochissimo assegnamento può farsi per i servizi di prevenzione e anche di
repressione dei reati.
«Anche
ciò credo di portare a conoscenza di codesto On.le Ministero perché‚ si
compiaccia esaminare benevolmente la possibilità di mettere quest’Ufficio in
grado di ovviare agli inconvenienti
prospettati, aumentando convenientemente il numero dei carabinieri in
Provincia, per potere, sia rafforzando le stazioni, sia costituendo nuclei
speciali, porre almeno un argine al dilagare della delinquenza e della
propaganda sovversiva che intenderebbe farsi a base di intimidazioni, di sopraffazioni e di
violenze.
«IL PREFETTO:
Nannetti».
Un quadro di grave turbolenza sociale nella Racalmuto
dell’agosto del 1920 emerge dai rapporti di polizia e dai ragguagli della
prefettura al Ministero degli Interni ( )
Le avvisaglie della rivolta d'estate della popolazione racalmutese si erano
avuti l’anno prima per il diffuso malcontento in seno agli zolfatai.
Un telegramma prefettizio (n. 4113 dell'8 luglio 1919) aveva
informato il Ministero dell'Interno che «in Racalmuto centro minerario tutti
zolfatai scioperarono scopo protesta contro caro-viveri ed iniziarono
dimostrazione tosto sedata pronto intervento quel funzionario. Seguito promessa
attuazione nuovo calmiere scioperanti si sciolsero.»
Nella successiva estate la faccenda si complica. Per tre giorni (dal 14 al 17 luglio
1920) si hanno - precisa un telegramma
della solita prefettura agrigentina:
«dimostrazioni ostili amministrazione comunale
Racalmuto, togliendosi a pretesto insufficienza e cattiva distribuzione
sfarinati. Pro sindaco e giunta comunale cedendo intimazione folla tumultuante
ha rassegnato dimissioni. Nomina R. Commissario imponesi perciò anche come
mezzo calmare gli animi. Non avendo assolutamente come provvedere ho
delegato funzioni commissario
prefettizio al V. Commissario di P.S.
Allisio Carlo già mandato in luogo finché‚ non sia possibile
sostituirlo. Pregasi ratificare. Prefetto Nannetti.»
Segue un altro dispaccio al Ministero per segnalare
che proprio quel diciassette luglio del 1920 una «colonna di circa tremila
dimostranti tentò di saccheggiare e incendiare magazzino fave comm. Narbone
(sic) un maggiorente dell'amministrazione comunale.» Il prefetto Nannetti soggiunge di avere chiesto al «Comm. Mori [che]
sia colà [cioè a Racalmuto] inviato oggi
stesso parte nucleo carabinieri servizio rinforzo». La faccenda ha un corso che
indispettisce l'on. Abisso[che] sia
colà [cioè a Racalmuto] inviato oggi stesso parte nucleo carabinieri servizio rinforzo». La faccenda ha un corso
che indispettisce l’on. Abisso. Il Ministero chiede una prima delucidazione
al prefetto di Girgenti che tra l'amaro
ed il velenoso così replica il 19
luglio:
«on. Abisso che prima era un mio non
desiderato laudatore sotto tutti i rapporti, oggi, per suo tornaconto politico,
pare abbia cambiato giudizio [..] [E
tanto perché a Racalmuto]
procedono accertamenti con arresto responsabili, ciò che non si vorrebbe dai
partigiani on. Abisso, militanti partito avverso amministrazione comunale,
contro cui disordini furono promossi sotto pretesto deficienza servizi
approvvigionamento per i quali purtroppo si attraversa un periodo di difficoltà non avendosi
rifornimento stabile e non riuscendo
che, a stento, con grano requisito di produzione locale, soddisfare
giornalmente bisogni popolazione.»
I partigiani dell’on. Abisso, avversari del Nalbone ed altri
componenti dell'amministrazione comunale, erano personaggi eccellenti della
scena politica e sociale di Racalmuto. L'on. Abisso, per difenderli, lancia
un'interrogazione parlamentare, a risposta scritta, il 7 agosto del 1920. Il
prefetto è costretto a difendersi.
L'iniziale sicumera scema ed ora
chiarisce che
«V. Commissario Micucci fu da me
fatto sostituire con Allisio e Mazzora
perché‚ Pro-Sindaco Racalmuto era fisso nell'idea che funzionario fosse stato
influenzato dai suoi avversari, circostanza questa che dimostra infondatezza
accusa on. Abisso. Quanto al tenente presidente gruppo requisizione, egli ha
affermato non aver mai detto le
parole attribuitegli da commissione
zolfatai presentatasi 15 dic. mese a quell'ufficio p.s.- Ha pure affermato non
avere mai ricevuto denunzie per vendite clandestine di grano a prezzi superiori ai prescritti.»
Certo, l'on. Abisso era stato perentorio e sferzante nella
sua interrogazione parlamentare. L'onorevole voleva sapere, senza mezzi
termini, quali provvedimenti intendeva
prendere il Ministero «contro quei funzionari che nel loro impudente partigiano
contegno [avevano] provocato gravi
tumulti nel comune di Racalmuto». La cronistoria di quei gravi tumulti la
troviamo negli stessi documenti ministeriali.
«Telegramma 10417 da Girgenti 5.8.920:
partenza ore 21.45 arrivo 6 1,30 - Min.
Interni:
«Dal
prefetto di Catania è stato trasmesso telegramma ieri di codesto Ministero
17583 relativo interrogazione On. Abisso contro contegno funzionari ai quali imputa tumulti
verificatisi Racalmuto dal 14 al 16 decorso luglio. - Premesso che disordini
Racalmuto ebbero inizio improvvisamente e che
malcontento per deficienza approvvigionamento servì per pretesto
avversari amministrazione comunale per abbatterla costringendo pro-sindaco
dott. ALAIMO a dimettersi, escludo che
unico funzionario in luogo Domenico Micucci all'inizio dei disordini e gli
altri V. Commissario Allisio Carlo e dott. Marzani Francesco, colà andati
giorno 15 per sostituirlo perché‚
pro-sindaco ne dimostrò convenienza, abbiano provocato essi i tumulti. Devesianzi ai funzionari P.S.
se i disordini furono arginati e vinti senza conseguenze per le persone.»
Segue
'dettagliata' del 23.
«Aggiungo per quel conto che dovesse farsene e allo scopo di essere il
più possibilmente preciso su ogni circostanza che il 15 luglio Commissione
zolfatari, contadini ed operai presentossi ufficio P.S. Racalmuto reclamando
sostituzione tenente quel gruppo requisizione cereali che dicevano non aver
dato corso denuncia avuta vendita grano prezzo lire 170 al quintale e che alle
rimostranze popolazione avrebbe risposto
"mangiate patate". In proposito riferii subito presidente
Commissione Provinciale requisizione per provvedimenti caso.
«Presidente dispose inchiesta ma
ancora non conoscesi risultato che perciò riservomi comunicare avendo fatto
speciale sollecitazione. - Prefetto
Nannetti -.»
In contemporanea, la
Prefettura di Girgenti ragguagliava il
Ministero su quelli che definiva ‘i disordini di Racalmuto' nei seguenti
termini:
«Trascrivo - esordisce il prefetto Nannetti - il rapporto presentatomi da quel V. Commissario di
P.S. - "Con riferimento a precedente corrispondenza telegrafica,
pregiomi riferire alla S.V. Ill.ma che in questo Comune serpeggiava un
forte malcontento per la deficienza
degli sfarinati.
«"La mattina del 14 corrente un
gruppo di circa 300 persone, all'arrivo di due autocarri carichi di pasta, li
circondavano per impedire che la pasta venisse depositata nel magazzino consorziale per tema di possibili
sottrazioni. Intervenuto il V. Commissario sig. Domenico Micucci, detta pasta
venne depositata in questo ufficio di P.S.
«"Nel frattempo si raccolsero
circa 200 persone, che, precedute dalla bandiera nazionale, si avviarono presso
l'abitazione del pro-sindaco con grida di abbasso, reclamando le di lui
dimissioni.
«"Contro l'abitazione del pro-sindaco
vennero lanciati sassi che frantumarono i vetri di tutte le invetriate.
«"Però, per l'intervento del V.
Commissario Sig. Micucci, la folla
desistette da altre violenze e si diresse verso la casa comunale con minaccia di saccheggiarla se il
pro-sindaco non si fosse dimesso.
«"Poco dopo il dott. Alaimo
fece sapere che egli aveva già presentate le proprie dimissioni e la folla
ritornò in piazza continuando a protestare per la scarsa distribuzione degli
sfarinati. Indi, mercé‚ l'esortazione del predetto funzionario, i dimostranti
si sciolsero. Il quindici successivo, si ebbe altro tentativo di dimostrazione, che, senza incidenti, venne
sciolta.
«"La sera del 16, alle ore 20 e 15,
essendosi ad arte propalata la notizia che l'ill.mo signor Prefetto non aveva
accettate le dimissioni del pro-sindaco e trattenuto a Girgenti, in segno di
punizione, il V. Commissario sig. Micucci, in Piazza Umberto 1ø s’improvvisò
una dimostrazione con grida 'Abbasso l'amministrazione comunale', e per
l'abolizione del tesseramento al mulino per la macinazione del grano. I dimostranti percorsero la Via
Garibaldi, frantumando molti vetri delle abitazioni private, non esclusi quelli
di quell'Ufficio di P.S.; e mentre lo scrivente parlamentava con il Presidente
del gruppo della requisizione grano, sig. Tenente Veniero Giuseppe, per un
componimento conforme ai desiderata della popolazione, parte dei dimostranti si
avviò alla casa del comm. sig. Angelo NALBONE e, quivi, dopo avergli frantumato
tutti i vetri, scassinarono la porta di un magazzino sottostante all'abitazione
dello stesso e vi appiccarono incendio, per cui, il comm. Nalbone, per
richiamare l'attenzione della forza, cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco.
«"Recatomi sul posto con i
pochi militari dell'arma presenti, dopo aver subito fugati i dimostranti, mi
diedi con l'ausilio anche dei vicini di casa Nalbone, a fare opera di
spegnimento. Durante le quali operazioni i dimostranti si riversarono verso
l'abitazione del pro-sindaco, ove, oltre di avergli frantumato altri pochi
vetri rimasti intatti il giorno avanti, gli devastarono la villetta
prospiciente all'abitazione, gli abbatterono parte della ringhiera di ferro che
cingeva la villetta dalla parte della strada e tutta quella laterale che divide
la villetta dal cortile d'ingresso. Tentarono pure di forzare il portone di
entrata, di scassinare la porta del magazzino con cereali e quella della
cantina, che resistettero, rubandogli due paia di colombi, cagionandogli un
danno complessivo di L. 2.000.-
«"Durante tale vandalismo il
Prosindaco cominciò a sparare colpi d'arma da fuoco per fare ivi accorrere la
forza in di lui soccorso, ed in seguito
ai quali colpi mi recai subito in luogo con i militari dell'arma, ma il furore
popolare aveva già compiuto la sua opera, e, dopo non pochi superati stenti si
riuscì a fare gradatamente allontanare la folla.
«"Dalle indagini
successivamente svolte si è potuto stabilire che la causale dei disordini non è
stato solamente il malcontento per la
deficienza degli sfarinati ma l'influenza politico-amministrativa locale dei
maggiorenti del partito contrario, per rovesciare l'amministrazione comunale.
«"Accertata la responsabilità
degli esecutori dei lamentati danneggiamenti, si è proceduto all'arresto di
Macaluso Leonardo di Calogero, di Rizzo Eduardo fu Vincenzo, di Rizzo Francesca di Pietro, di Ippolito Stefana
di Gaetano, di Scibetta Luigia fu Luigi e Ansaldo Giovanna fu Mariano. E
denunciati, per la loro irreperibilità, i nominati Grego Giuseppe di Vincenzo,
Cacciato Pietro d'Ignoti, Chiodo Giuseppe fu Calogero, Campanella Salvatore fu
Antonio, Cino Francesco fu Calogero, fratelli Giuseppe e Luigi Lo Bue e
Giuseppe Castelli d'Ignoti, siccome tutti esecutori materiali; e denunciati inoltre per istigazione il comm.
Giuseppe Bartolotta fu Luigi, l'avv. Emanuele Cavallaro fu Felice, Luigi
Messana di Emilio, Alfonso Vinci di Giuseppe, Nicolò Sferrazza di Carmelo, Nestore Falletto fu
Luigi, Francesco Caratozzolo fu Felice e l'avv. Calogero Picone Chiodo fu
Giuseppe”. Il Prefetto Nannetti.»
Quelle
suffragette in formato paesano e racalmutese trascondono la nota di colore.
Alla testa di quel codazzo manzoniano, tutto preso dal pane e dalla farina in termini di un più
o meno convinto populismo, erano donne fiere, irrituali, imperiose, ardenti e
passionarie. Ombre fluttuanti nelle memorie dei racalmutesi. Annidda la Pisciara
o Carmela l'Acqualora erano come loro se non loro. In una Racalmuto
maschilista, prevenuta contro le donne, un po’
codina, quegli esempi di
ribellismo femminile sono eccezioni, ma pur sempre casi di rimarchevole
ribellismo.
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