Ombre
fluttuanti, ai miei occhi appariste .... eccovi ancora.
Spolvero un vecchio testo di “cronaca”. Eugenio
Napoleone Messana ecco come rammenta, riferisce, corregge, riempie di valenze
politiche questo scorcio di storia locale.
“Il 1943 fu l’anno più duro. … Gli allarmi cominciarono a susseguirsi.
Mentre prima, sia di notte che di giorno, quando le campane a morto
annunziavano l’allarme di rimanere a casa, limitandosi a vestirsi se a letto e
a riempir d’acquale bacinelle per intinguervi le lenzuola in caso di lancio di
gas asfissiante e metterli davanti le imposte, secondo le istruzioni avute in precedenza,
poi si cominciò a correre nelle grotte. Gli aerei nemici si sentivano rombare
sopra le case.
”Un giorno verso le tredici una raffica di
mitraglia lanciata sul campanile della Matrice fece avvertire che realmente il
pericolo c’era. Il 9 luglio 1943 mitragliarono un treno ad Aragona Caldare […]
Verso le ore 21 si sentì un cupo rombo di aerei. Poco dopo piovvero le bombe in
contrada Pantanelli. Ci fu il corri corri. Tutti alle grotte [cfr.
foto successive]
RIEVOCAZIONI
Riprendo il
racconto con una precisazione: nel 1943 nessun MATTINO ILLUSTRATO giunse a
Racalmuto. Mi sembrava strano: ora so che varie annate del MATTINO ILLUSTRATO
tutte e belle e rilegate pervennero a Racalmuto ma da una bancarella di Palermo
e quando eravamo negli anni ‘60. Nel 1943 a Racalmuto era solo cessato
ascoltare a mezzogiorno il comunicato radio, dopo il celebre cinguettare, a
capo scoperto. Con il 13 maggio anche il residuo patriottismo dei più grintosi
fascisti si era afflosciato. Solo Giuggiu Agrò poté credere alla retorica del
bagnasciuga dell’ormai spento Mussolini. Certo i baldi cadetti vi facevano
coro, ma con quanta convinzione non sappiamo dire. L. M., L. di M., G.C.,
Leopoldo, tutti i cugini di M., il non cresciuto P. F. ed altri ed altri ligi
al duce, poco al re, si dichiaravano pronti alla morte ma nel calduccio delle
case racalmutesi; ad ammirare il martire fascista e a credere, ubbidire e
combattere, ma solo nelle colonie elioterapiche del Serrone. A sbirciare magari
le piccole donne in camicetta bianca ed in gonnellino nero. Quando insomma
fiorirono i primi amori. E mi pare che non andarono a buon fine. Amori che se
si consumarono, come dicono i preti, non portarono al matrimonio. Il matrimonio
magari dopo vi fu, ma tra parenti stretti, Alcuni di loro spinnarono fino al decomporsi della non più giovane vita.
Sciascia
odiava il “giummo”: quando l’ho scritto, un fanatico per poco non va a
comprarsi una lupara per scaricarmela addosso. Sciascia giovane col fascismo vi
bazzicò. Aveva zio quasi federale ed il primo impiego glielo diede nelle odiose
trappole fasciste della requisizione del grano superfluo o intercettato al
mercato nero. Si chiamava Consorzio
Agrario. Un galantuomo di vecchia data ebbe ad adontarsene e se lo segnò a
dito. Venuti gli americani, quel galantuomo, che pur aveva avuto alti incarichi
nelle ragnatele paramilitari fasciste, divenne persino capo della inventata
sezione partigiana racalmutese. Subito se la intese con Guarino Amella di
Canicattì. Quando ancora forse il celeberrimo Tony, questo strano yenkee americano che signoreggiò su
Racalmuto e ne taglieggiò qualche
ricattabile farmacista, non era sbarcato; il galantuomo, dottore per
antonomasia, riuscì a far spedire in Africa per un paio di anni di internamento
Giuggiu Agrò l’ex gerarca fascista (che aveva osato requisirgli qualche stanza
del suo palazzo in via Matrona per darlo ad ufficiali tedeschi ed anche
italiani), l’evanescente maresciallo Craveri (cui i tre americani conquistatori
di Racalmuto, avevano tolto la pistola d’ordinanza in piena piazza, che è poi
il Corso Garibaldi dinnanzi la putia
di Ticchitì) e tale don Bardiddu (finito vice podestà per la insostituibilità del podestà Matina
chiamato alle armi e per la indisponibilità degli altri gerarchi anzianotti,
Grillo o Farrauto, riluttanti a coprire tale ormai scottante carica). Uomo vendicativo, quel galantuomo, passato
dalla sera alla mattina da gerarca fascista a capo della sezione partigiana di
Racalmuto, non fu contento di avere fatto tre vittime – per il paese tutti e
tre innocenti, ma più innocente di tutti viene ancora ritenuto ed era don Bardiddu.
Il nostro
galantuomo compila una lista di duecento nomi – tutti quelli che odiava o di
cui si voleva vendicare o per un motivo o per un altro - e lo porta a Canicattì per il confino in
Africa. Tra questi vi era Nardu
Sciascia e don Pino Matina; vi era
pure un altro giovane che mi pare fosse Fofu
la Gadda. Ne ebbe sentore il neo sindaco, il celeberrimo – per i
racalmutesi, e celebrato da Tanu Savatteri – don Ballassaru Tinebra. Questi si precipitò a Canicattì e bloccò
arrabbiatissimo il provvedimento. Sarà stato quello che si dice (e si scrive),
sarà stato ammazzato da ignoti, o da C. come credo, il mandante sarà stato
ignoto oppure - e pare – certo, sarà
stato l’ex affittuario di Gibillini, sarà stato quel che volete, ma Sciascia,
don Pino Matina ed altre centinaia di Racalmutesi si risparmiarono un paio di
anni di confino in Africa per la solerzia e l’umanità di questo primo sindaco
imposto dagli americani, tramite il solito Guarino Amella di Canicattì. Questa
era allora mafia; questa era allora infiltrazione mafiosa, ma non risulta che
si avesse voglia di inviare a Racalmuto prefette
in gonnella per sbaragliare le nostre cosche mafiose.
”La trasuta di li miricani” a Racalmuto, Sciascia
ce la racconta, molto sapidamente, in Kermesse. In quel tempo avevo pur io età per ricordare
qualcosa. In tante parti del racconto del Racalmutese i ricordi combaciano, in
altre no. Per il seguito credo di sapere ciò che Sciascia non volle confessare.
L’esordio è frutto di erudita ricerca storica. Sfracella il generale Roatta; un
tempo mi era sembrato eccessivo, ma un bel giorno del marzo 2012 Enzo Macaluso
mi trascina nel museo di Catania e lì quel proclama ironizzato da Sciascia c’è
esposto e mostra davvero la marronata di quel generale: davvero – ho pensato –
la guerra è una cosa molto seria per farla fare ai generali.
Dopo, lo scrittore fa una cronaca di guerra
diversa dai miei ricordi e dalle versioni che pur bambino riuscivo a
decriptare. Io racconto la mia versione.
Da San Giuliano, nel primo pomeriggio del 14 o 15
o 16 luglio del 1943 affacciato nell’ “astracu” della mia vecchia casa natia di
Via Fontis dei documenti (divenuta
poi via Fontana ed ora Via Gramsci), vedo scendere una ronda di tre soldatoni,
marziale il passo. Martellante l’incedere, armatissimi, casco in testa. Fucili
in pugno. “ I tedeschi .. i tedeschi” gridavano alcuni. A Racalmuto i tedeschi
non c’erano. Soldati italiani tanti, a lu
cannuni, davanti a “ma mamma Cuncittì”. A frotte. Mangiavano nelle loro
gavette. Molti seduti sul marciapiede lungo tutta la facciata del fortilizio;
altri appoggiati alle inferriate di “lu Cannuni”. Un pacioso in divisa
grigio-verde prese in braccio mio fratello Luigi, allora belloccio e
biondiccio, e cominciò a baciarlo. Mia nonna terrorizzata voleva levaglielo di
mano ma quel pacioso militare gli disse in dialetto nordico: me lo lasci
baciare un po’: ho un bambino come questo che non vedo da mesi. E’ bello come
questo qui. Mio fratello aveva manco tre anni.
“ Che tedeschi e tedeschi” risposero altri.
“Questi, americani sono”. Sgomento, prima, perplessità, dopo. Infine come una
folgorazione: “viva gli americani”. Figli
di taliani sunnu. Abbasso il duce,
stu’ gran curnutazzu, ca nni rruvinà. E giù battimano , tutti a batter le
mani. La ronda si rasserenò, sorrise persino. Gli americani “eranu trasuti a
Racalmuto”.
Sciascia sapidamente irride al noto proclama
Roatta. Come ho precisato, lo ebbi a leggere in una gita fatta con Enzo
Macaluso visitando il museo sullo sbarco di Catania, un museo molto agghindato.
Ne vale la pena visitarlo, anche se forse molto esuberante per una sola decina
di giorni di storia siciliana. Ma trattasi di inquietanti vicende a raggio
planetario. Altre priorità della tanto incalzante Sicilia, se aspettano, non è
poi malanno esiziale.
A leggere le invocazioni roattiane non si può non
dare ragione a Sciascia. Quando Sciascia scriveva, non credo che si soppesasse
ancora a pieno il movimento di Bossi, considerato a torto o a ragione
antisiciliano. Poi quel movimento crebbe e per reazione il sentire siciliano
divenne nazionalista e gli empiti separatisti del primo dopoguerra si
afflosciarono. Un tantinello anche i miei. Solo che ora mi sento cittadino del
mondo nato a Racalmuto. Se ho bisogno di una patria fisica, mi rifugio a
Racalmuto, se mi si parla di valori nazionali ne rifuggo reputandomi uomo alla
pari di quei sei o sette miliardi di esseri umani sparsi per l’intero mondo. Ce
l’ho con l’Italia intera dopo che ho ben capito che cosa significò
l’essere stato mio nonno disperso di
guerra. Della guerra del 15-18, per intenderci. Mio nonno aveva soltanto 37
anni nel ’17. La strategia militare dei generali del tempo rimase terribilmente
nota per usare gli esseri umani in grigio-verde come muraglia all’avanzare del
nemico: che avanzava e sparava e falcidiava. Mio nonno aveva comprato una mula;
stava salendo di grado nella scala sociale dell’era giolittiana: da mezzadro a
coltivatore diretto. Aveva già cinque figli. La moglie ancor più giovane
divenne subito vedova per la faccenda di Caporetto. Mio nonno sparì e nella
burocrazia militare fu segnato come disperso. Ancor oggi non si sa ove fu
sepolto. Sinceramente non gliene importava nulla a mio nonno di liberare Trento
e Trieste. Non capiva neppure una parola di quel dialetto veneto, lui
analfabeta che le lettere alla moglie se le faceva scrivere da qualcuno lì al
fronte che lu cuocciu di la littra ce
l’aveva.
Dal fronte mio nonno urgeva: che si recasse mia
nonna a supplicare la suocera. Mio nonno padre di cinque figli era; ben tre
altri suoi fratelli erano sotto le armi. Lui aveva diritto a venire congedato,
gli avevano detto. Bastava che la madre ne facesse istanza. Mia bisnonna, mamma
Pippina – matriarca vera e dispotica e tutta la famiglia, maschi e femmine
teneva sotto di sé – non se ne dava per intesa: “sì, fazzu turnari Caliddu .. e
cchi bbeni intra nni mia; intra nni tia ssi nni va … va … va, vattinni va” . Mia nonna la odiò
per tutta la vita. A noi nipoti, ci fuorviava con quelle invettive contro la
suocera. Noi nipoti finimmo col crederle … e la bisnonna divenne una odiosa
“mamma Pippina” come se non fossimo sangue del suo sangue.
Sarà! I miei ricordi stridono. Una mia zia monaca
che mi sembrava tanto vecchia ed invece aveva appena 33 anni, aveva dovuto
lasciare il convento per i tremendi bombardamenti americani ed era venuta a
dimorare a casa nostra. Tutta nera di vestito, destava preoccupazione. Si
diceva che gli americani scambiassero chi andava vestito di nero per fascista e
lo mitragliavano di colpo. Un carrettiere racalmutese ebbe a morire per le mitraglie americane sol
perché – si diceva – aveva la camicia nera per un lutto strettissimo:
altrettanto si disse per un contadino racalmutese trucidato dagli
anglo-americani. Brava gente si vorrebbe
oggi.
A far levare l’abito monacale e farla vestire da
cristiana qualunque, non c’era verso e la monaca, provvisoriamente di casa, non
si sapeva come nasconderla. Fu così che anzitempo andammo “fori”, nella
casettina di la Curma, mia nonna, la
figlia monaca, una nipote cresciutella, mio fratello Giacomo, ed anche Giovanni
e Luigi.
Questo avvenne nei primissimi di Luglio. Si
sussurrava dappertutto che la guerra era persa e francamente questo non
interessava ad alcuno: sia pure
vagamente si pensava che i disagi potessero diminuire. Va detto che a
Racalmuto, fame vera e propria non ve ne fu. Si coltivava la terra e l‘arriconta bastava per tutti; il pane –
non quello della tessera che era immangiabile e serviva ai bambini per
appallottolare la mollica e farne palline da gioco – che si mangiava veniva
accompagnato dalla pasta, dal sugo di pomodoro maturato al sole o dall’astrattu nel periodo invernale.
Racalmuto ha sempre prodotto vino, non di eccelsa qualità, ma sempre vino
genuino era; nutriente. Favi, ciciri,
piseddi, cacuocciuli, puma, piruna, ficu, e fucudinii, in abbondanza. Chi
non aveva terra comprava al mercato nero da chi ce l’aveva. V’era l’obbligo
dell’ammasso. Sciascia, che per via dello zio gerarca era privilegiato, ebbe
subito un posticino negli uffici comunali dell’ammasso. Credo che dopo se ne
vergognasse un po’. In FUOCO ALL’ANIMA qualcosa dice, molto nasconde.
Quella storiellina del contadino e dell’arciprete
va un tantinello rettificata: a Racalmuto tutti in quel tempo facevano il
mercato nero con il grano, cercando di non darlo per nulla all’ammasso, ove
bivaccavano due baldi giovanotti raccomandati. Sciascia dice di non essere
andato militare perché gracilino. Se non avesse avuto un paio di zii quasi
federali, ci sarebbe andato e come. I due – il contadino e l’arciprete –
finirono nei guai il primo per testardaggine, il secondo per astiosa vendetta.
La storia del contadino, che contadino non era ma un buon burgisi con figlie femmine che non tutte sposarono e con tre figli
maschi divenuti professionisti di tutto rilievo, quando me la raccontarono
molto mi son divertito. Ora non la ricordo più bene. Aveva un figlio ufficiale
il contadino e si credeva una parte dello stato; come potevano molestarlo per
una sciocchezza che, se reato era, tutti i racalmutesi erano colpevoli, anche
l’arciprete. L’arciprete subì anch’egli l’onta del processo, ma più accorto ne
uscì assolto, l’altro, invece, cominciò a sbraitare, ad insolentire e forse
aveva ragione: appunto per questo indispettì oltre misura i giudici, che la
coscienza pulita al riguardo non ce l’avevano neppure loro, ed ecco una bella
condanna a dispetto.
I due giovanottoni, per essersi acquistata una
buona dose di malevolenza da parte di un dottore non medico, alquanto irritabile, dovevano finire dopo tra
i berberi in Africa. Il famiglio del grande mafioso Calogero Vizzini – già
quando come dice Sciascia in fuoco
all’anima, “la mafia era la mafia” ed è frase se non elogiativa almeno
lievemente ammiccante – evitò a Canicattì presso il comando alleato la deportazione,
come si disse, e così Sciascia poté dopo persino vincere il concorso a maestro
elementare. Insegnò a Racalmuto, svogliatamente, se vogliamo esser sinceri. I
suoi meriti sono letterari, non didattici, né storici (almeno nel campo della
microstoria locale) e per quel che mi riguarda nemmeno politici. Né con lo
Stato né con le Brigate rosse non fu frase molto felice. La cena con
Berlinguer, Guttuso e lo scrittore finì
in tribunale ma ancora non ha sentenza. Io sono per Berlinguer e per Guttuso.
Il giornalista racalmutese, molto bravo,
Macaluso è rissosamente per Sciascia: si vede che ne sa più di me.
In NERO SU NERO di Sciascia, a pag. 118, trovo
questa chicca: «Ho vivo il ricordo di quel che è successo quando, nel ’43,
l’amministrazione militare alleata nei territori occupati AMGOT: ne ripeto la
sigla assaporando l’amarezza di un tempo, (più che perduto, deluso) mostrò di
avercela coi fascisti e di gradire denuncie contro i più pericolosi e
disonesti. Non uno ne fu denunciato e subì deportazione in Algeria che non
fosse degli onesti, degli innocui, dei ‘fessi’ (e cioè di quelli che dal regime
in articulomortis avevano accettato
quelle cariche da cui i furbi ormai si defilavano). I facinorosi , i
profittatori, i ladri furono non solo risparmiati, con una selezione a rovescio
che si può dire senz’altro perfetta, ma furono segnalati alla fiducia degli
ufficiali americani ed inglesi, che gliene accordarono.»
Certo quella ‘i’ in più nelle denunce, lascia un po’ stupiti. Il quadro è
dilettevole. A voler fare le pulci al grandissimo Sciascia, diciamo che tra
quei “fessi” vi fu a Racalmuto solo don Bardiddu,
che maresciallo e segretario politico, chi per devozione fanatica e chi per il
pane quotidiano che insieme al companatico elargiva la benemerita, non potevano
passare tra i “furbi” tra i quali Sciascia qualche suo parente stretto (meglio
affine, forse) sapeva vi annidasse. E meno male che tra i “facinorosi, i profittatori e i ladri”,
vi fu qualcuno che, dopo, impedì la
deportazione in Africa del Nostro. Il quale, ora lassù, mentre col profittatore
(fulminato dalla lupara davanti Danieli) sta a rimembrare “questo pianeta”, un
qualche “ingrato” se lo becca. Queste vicende mi sono state narrate dal don Pinu Matina, per me un gran signore, un
“galantuomo”, uno di quelli di cui si sono perse le tracce al Circolo Unione.
Anche lui prossimo alla deportazione. Lui sempre grato ed obiettivo anche.
D’altronde poteva urtare la suscettibilità di chi talora gli stava vicino impettito nella signorile poltrona del
Circolo.
Nella sua primavera letteraria Sciascia scrisse
KERMESSE. Quattro o cinque pagine sapide, deliziose, ironiche, veritiere. Solo
un po’ pudiche nella parte finale.
Prende subito di mira ROATTA e il su
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